Il puntaspilli- Pagina 4

A volte ritornano (?)

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Dopo la prova di forza della leadership cinese, Xi Jinping ha fatto tabula rasa dei suoi oppositori e critici, ed il ritorno al vertice del Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva l’attenzione degli osservatori si sposta ora negli Stati Uniti.

L’ 8 novembre le elezioni di metà mandato (due anni dopo le presidenziali) rappresenteranno un importante test per Joe Biden e per il suo partito democratico.

La popolarità (come aggiornata settimanalmente dal sito FiveThirtyEight) del presidente in carica è precipitata nella seconda metà dell’anno scorso per poi stabilizzarsi (al 42,3%) negli ultimi mesi ma le probabilità di evitare un’“onda rossa” (il colore del partito repubblicano) la prossima settimana sembrano ormai ridotte al lumicino.

I sondaggi prevedono che dalle urne uscirà una camera ed un senato a maggioranza repubblicana e questo risultato potrebbe spianare la strada all’inossidabile (malgrado la ruggine che sembrava avere corroso definitivamente il suo primo mandato) Donald Trump nel lungo sprint che porterà alle presidenziali del 2024.

La situazione rappresenterebbe un significativo spostamento degli equilibri da un fragilissimo controllo democratico (che vede un senato in bilico e una camera dei Rappresentanti a suo favore) ad un Congresso che, con ambedue le camere a maggioranza repubblicana, costringerebbe il presidente a completare il suo mandato con grandi difficoltà e parzialmente depotenziato (come un’”anatra zoppa”)..

I settori del programma presidenziale che potrebbero subire i maggiori rallentamenti a causa del nuovo assetto del Congresso sono quelli cari a “The Donald”.

L’agenda repubblicana prevede una politica energetica che tornerà ad essere più morbida e disponibile nei confronti delle risorse nazionali (con la riapertura di parte delle miniere di carbone e l’autorizzazione a nuove ed estese trivellazioni petrolifere) e più critica verso l’Iran (dopo il riavvicinamento degli ultimi anni, con l’obiettivo di rimuovere le sanzioni e consentire un aumento del petrolio in circolazione) ed il Medio Oriente.

Strettamente legato al ritorno ai combustibili fossili “made in America” uno dei temi che subirà le maggiori conseguenza sarà quello del contenimento del cambiamento climatico. Il primo giorno della sua presidenza, Biden aveva immediatamente firmato l’adesione degli Stati Uniti all’Accordo di Parigi, raggiunto alla fine del 2015, per la riduzione delle emissioni di gas serra.

Lo stesso trattato era stato stracciato da Trump, che aveva così sfilato gli Stati Uniti, e si può facilmente immaginare che sarà nuovamente messo in discussione già nei prossimi mesi e, ancor più, da una sua eventuale rielezione nel 2024 e con questo il massiccio piano di investimenti previsto.

Anche la collaborazione degli USA con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per sconfiggere definitivamente la crisi provocata dalla pandemia, è destinata a scricchiolare sotto le martellate della nuova maggioranza.

A livello economico, poi, è nota l’ostilità del Grand Old Party nei confronti degli elevati livelli di indebitamento statale e questo porrebbe ulteriori ostacoli alla politica economica dell’amministrazione democratica (che mira a sostenere la crescita, anche attraverso la spesa pubblica, con un conseguente incremento del debito).

L’esito della tornata elettorale sarà quindi esaminato con grandissima attenzione ed a questa dovrà aggiungersi anche una buona dose di pazienza.

Si profila infatti la possibilità che, come avvenuto nel 2020, siano necessari alcuni giorni (o, nel caso peggiore, settimane) prima di conoscere i risultati: l’opzione, consentita per fronteggiare l’impossibilità di uscire per recarsi alle urne durante la fase acuta della pandemia, del voto a distanza, via posta, rimane tuttora in vigore e potrebbe ancora una volta rallentare la pubblicazione dei risultati definitivi.

L’incertezza non mancherebbe di innervosire i mercati finanziari e dare il la, è un motivetto vecchio ma sempre popolare, alle accuse di brogli e presunte illegalità.

Un presidente debole per il resto della sua permanenza alla Casa Bianca non è certamente quanto l’attuale contesto internazionale richiederebbe e possiamo solo augurarci che alla fine prevalga il proverbiale pragmatismo statunitense nella difesa degli interessi nazionali e dei principi condivisi con tutto il resto del mondo occidentale.

Nulla, comunque, è stato ancora scolpito nel marmo.

Il ritorno del populismo, del quale Trump è stato certamente un campione, è frutto, almeno in parte, delle difficili condizioni attuali e potrà rallentare la sua avanzata, prima delle prossime presidenziali statunitensi, tra due anni, se il ciclo economico sarà nel frattempo ritornato nella sua fase espansiva (dopo una ormai inevitabile, ma si spera breve, recessione).

Le cose volgerebbero definitivamente al bello se arrivasse anche la tanto auspicata cessazione delle ostilità che favorirebbe il graduale superamento degli squilibri che si sono creati, a partire dalla salita dei prezzi delle fonti energetiche e alla conseguente inflazione fuori controllo.

Ma non voglio spingermi troppo oltre: in fondo, è sempre pericoloso fare previsioni, specialmente se riguardano il futuro.

 

Una piccola storia (Goodbye Milano)

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Oggi vorrei raccontare una piccola storia torinese, milanese… italiana.

Nei giorni scorsi il giovane startupper astigiano Lorenzo Lodigiani ha deciso di spostare i suoi uffici e la sua abitazione da Milano a Torino.

Pare di riascoltare le parole del suo illustre concittadino, Paolo Conte (in “Via con me”): “Via, via / Vieni via di qui / Niente più ti lega a questi luoghi”.

Il ritorno in Piemonte, e con lui la sede della sua società innovativa Ncode, annunciato nel suo profilo Linkedin (“Me ne vado da Milano”) e poi riportato dall’edizione torinese del Corriere della Sera, ha sollevato un autentico vespaio.

Più che la notizia in sé, invero piuttosto modesta, la cosa che ritengo di gran lunga più interessante sono state infatti le reazioni da questa suscitate sui social networks.

Da un lato i torinesi, soddisfatti della conferma della bontà dell’offerta che la nostra città è in grado di presentare al mondo dell’innovazione (dalle Ogr al Talent Garden e all’I3P, l’incubatore del Politecnico) e del piccolo smacco arrecato al capoluogo ambrosiano.

Dall’altro le, un po’ (ed è un eufemismo) piccate, repliche degli amici del capoluogo lombardo: Milano è Milano e gli altri non sono… (il Marchese del Grillo docet).

Di fronte anche al “tradimento” patito dal fuoco amico del Corriere, le levate di scudo provenienti dal campo meneghino si sono fatte dunque sentire con grande fragore.

La distanza tra i due angoli padani del vecchio “triangolo industriale” è andata riducendosi costantemente nell’ultimo decennio grazie anche allo sviluppo delle vie di comunicazione (l’alta velocità ferroviaria li collega ormai in tre quarti d’ora) e la permeabilità tra i loro contesti urbani potrebbe consentire un sano riequilibrio delle risorse e delle potenzialità.

Verrebbe da dire che forse le cose stanno davvero cambiando se a dimostrarsi provinciali sono proprio “loro”, i milanesi, che non ne hanno, ad essere onesti, alcun motivo!

Questo schierarsi “l’un contro l’altro armato”, come scriveva il milanesissimo Alessandro Manzoni ne “Il cinque maggio”, mi pare davvero anacronistico, frutto di un’antica rivalità, esasperata dalla difficile situazione economica, e farebbe bene ad essere, con reciproca soddisfazione, superato.

E’ tempo che noi torinesi mettiamo una pietra sopra alle (da molti percepite come) spoliazioni subite (dalla moda alle grandi banche) o rischiate (il salone del Libro) e che voi, cari milanesi, non trasformiate la giusta consapevolezza della vostra forza economica e delle indubbie capacità imprenditoriali in una sterile ed autolesionistica arroganza.

Dovrebbe essere oggi molto più facile di quanto non sia mai stato in passato localizzare le proprie iniziative imprenditoriali, i propri magazzini, le proprie abitazioni, in funzione della convenienza e dell’offerta di servizi ed infrastrutture.

Sia insomma benvenuta una concorrenza costruttiva, stimolante e sinergica, che consenta all’asse ToMi (o MiTo… poco importa) di supportare sempre di più e meglio la crescita del nostro Paese (e Dio sa quanto ne abbiamo bisogno).

Verrà forse un giorno nel quale i campanili, invece che rappresentare il simbolo di un’Italia divisa da interessi contrastanti, saranno presi a riferimento per la loro capacità di segnare, tutti insieme, l’ora esatta, quella della rinascita e della ripartenza tanto attesa della nostra economia.

Questa sì che sarebbe una novità veramente benvenuta.

Per ora, da torinesi, accontentiamoci di queste piccole buone notizie: possiamo ambire a diventare un polo di attrazione per le tutte le aziende innovative (non solo quelle “milanesi”…).

Ma: “esageruma nen!”.  Saremmo davvero troppo, troppo provinciali.

 

Abbi pazienza

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Gli Stati Uniti sono forse già in recessione.  

La prassi vuole che ci vogliano due trimestri consecutivi negativi di crescita negativa del PIL e i dati sul secondo trimestre hanno confermato la decrescita registrata nel primo.

L’ufficialità tarderà ad arrivare in quanto dovrà essere deliberata da un gruppo di economisti nominati dal National Bureau of Economic Research  (un’organizzazione di ricerca privata americana senza scopo di lucro “impegnata a intraprendere e diffondere ricerche economiche imparziali tra i responsabili delle politiche pubbliche, i professionisti delle imprese e la comunità accademica”) chiamato  “Business Cycle Dating Committee”, “Comitato sulla datazione del ciclo economico”.

Suona un po’ strano che l’avvio di una recessione debba essere ratificato da un gruppo di saggi istituito all’uopo ma forse ci dice una volta di più quanto, in economia, questa parola sia esorcizzata e pronunciata il meno possibile, proprio come si fa, tra noi umani, con la morte.

Eppure le temutissime recessioni si ripetono, con una certa monotona regolarità, da molti secoli mentre, per fortuna, ben più rare e gravi sono le depressioni.

Nella Bibbia la Genesi racconta, forse per la prima volta nella storia, l’alternarsi di un ciclo economico positivo (sette anni di vacche grasse) e recessivo (i successivi sette anni di vacche magre).

Al faraone appaiono, in un sogno angoscioso, sette vacche grasse e di bello aspetto che vengono prima affiancate e poi divorate da altre sette vacche brutte e magre.

Il sovrano dell’Egitto chiede aiuto a Giuseppe, il penultimo dei dodici figli di Giacobbe, che, detenuto in prigione, aveva fama di interpretare i sogni dei carcerati.

Giuseppe, novello economista, raccomanda di conservare la produzione in eccesso per gli anni di carestia attraverso uno dei primi prelievi fiscali documentati dell’antichità (un quinto dei prodotti: il 20%): prevenire per curare e tenere sotto controllo la malattia e tornare, prima possibile, a correre come sono tornate a fare le borse ultimamente.

A prima vista sembra a dir poco curioso che, in concomitanza con la pubblicazione dei deludenti dati sul PIL statunitense, i mercati finanziari abbiano messo a segno, dopo sei mesi consecutivi di discesa, un importante (seppure parziale) recupero.

Sono pazzi questi mercati… O forse, semplicemente, l’eccessivo pessimismo di inizio luglio aveva posto le basi per un “rimbalzo”.

Ad aiutare è stata anche la dichiarazione del governatore della banca centrale statunitense che, dopo avere alzato ancora una volta i tassi ufficiali, la scorsa settimana ha lasciato aperto lo spiraglio ad una maggiore prudenza nel volere stroncare la pianta infestante dell’inflazione se l’economia dovesse peggiorare più velocemente del previsto.

Tanto è bastato per giustificare il ritorno di un moderato ottimismo.

Quanto avvenuto non è nient’altro che la riprova che gli eccessi, di pessimismo ma anche di ottimismo, sono spesso indicatori “contrarian” (meglio, cioè, fare il contrario che seguire supinamente le pulsioni della maggioranza).

Naturalmente nulla è più illusorio delle facili occasioni di guadagno e a conferma di ciò la capacità di previsione manifestata dall’andamento delle borse lascia spesso a desiderare: come ricordava il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson “il mercato azionario ha previsto nove delle ultime cinque recessioni”…

L’economia sta rallentando e le aziende più solide hanno subito sinora solo un modesto peggioramento delle loro prospettive; per potere davvero voltare pagina servirà ancora un più deciso ridimensionamento delle stime sugli utili di quest’anno che tenga conto del rallentamento della domanda prodotto dall’aumento dei prezzi (e presto, forse, anche della disoccupazione).

Solo allora l’inflazione perderà il suo carburante più importante, una domanda troppo elevata a fronte di un’offerta limitata dai colli di bottiglia creatisi con la pandemia ed ora in via di esaurimento, e i banchieri centrali potranno così placare la loro ira nei confronti dell’inflazione.

Anche da noi in Europa, con una guerra alle porte e una crescita dei prezzi frutto più dell’aumento delle materie prime (peraltro in forte correzione già da fine maggio) che della forza dei consumi, sarà la recessione (temperata dagli investimenti programmati per il Next Generation EU) la migliore medicina per rallentare l’indice dei prezzi.

Il futuro continua ad essere promettente, le innovazioni che hanno da sempre guidato la creazione di maggiore benessere non sono certo in rallentamento, ma occorrerà mantenere i nervi saldi di fronte ad un probabile ritorno della volatilità (gli alti e, soprattutto, i bassi di mercato).

Un solo imperativo dovrà tenere a mente il risparmiatore avveduto per non incorrere in scelte autolesionistiche: Abbi pazienza ***.

*** Per chi ne fosse privo o non la conoscesse può cercarne la via sullo stradario di Pistoia.

Il volo del calabrone

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Il rischio di vedere sgretolarsi il progetto di una comunità di Paesi cementati da ideali comuni ma che, anche dopo la nascita dell’euro, hanno continuato a procedere nella loro traiettoria di volo, non è mai venuto meno. 

Dieci anni fa la situazione sembrava essere arrivata in prossimità di una drammatica conclusione: il prezzo della fiducia, rappresentato dalla differenza di rendimento (lo “spread”) offerta dai titoli governativi degli stati “periferici” (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) arrivò a superare i 600 punti base (il 6%).

Il calabrone non può volare, questo ci dice la scienza: è troppo grosso e pesante rispetto alle dimensioni delle sue ali. Eppure vola.

Questa fu l’immagine con la quale l’allora governatore della BCE, Mario Draghi, esordiva in uno dei discorsi più importanti del suo mandato e, forse, di tutta la storia dell’euro.

L’euro non avrebbe dovuto essere in grado di volare (come il calabrone) ma dopo averlo fatto per alcuni anni qualcosa era cambiato nell’aria e stava per riportarlo violentemente a terra.

Era il momento migliore perché il calabrone si trasformasse in una vera ape e la metamorfosi sembrò cosa fatta quando Super Mario, nella seconda parte del suo intervento, indirizzò all’attentissimo uditorio un messaggio chiaro e inequivocabile:  “Nell’ambito del suo mandato la BCE è pronta a fare tutto il necessario (whatever it takes) per preservare l’euro. E, credetemi, questo sarà sufficiente”.

La reazione dei mercati fu spettacolare: i differenziali di interesse tornarono rapidamente ben al di sotto dei livelli di guardia ed il volo della nostra moneta riprese, senza più grandi turbolenze, sino ai nostri giorni quando il nuovo governatore, Christine Lagarde, si è trovata ad affrontare un altro momento molto complicato.

Pandemia, guerra e inflazione hanno messo a dura prova il nostro continente e l’indebitamento è cresciuto negli ultimi anni a dismisura per contenerne gli effetti negativi. A farne le spese potrebbe essere proprio l’Italia che, priva com’è di un governo e con un debito enorme da gestire, torna ad essere identificata come l’anello più debole della catena.

La “frammentazione” della trasmissione della politica monetaria, che potrebbe diventare più severa e restrittiva in alcuni Paesi, contro la volontà della BCE, a causa della reazione dei mercati finanziari alle notizie (negative), è un rischio che va scongiurato per evitare una nuova crisi esistenziale dell’Europa e della sua valuta.

L’annuncio da parte della governatrice di uno “Strumento di Protezione della Trasmissione” (Transmission Protection Instrument, TPI) non ha per ora avuto l’effetto magico sortito dieci anni fa dal suo predecessore.

Gli investitori non sembrano avere gradito la scarsa chiarezza sulle modalità di attivazione di questo scudo protettivo, troppo condizionato dalle valutazioni preliminari tese a determinare se il Paese oggetto dell’intervento (attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati, allo scopo di contenere l’aumento dei tassi e dello spread) ne rispetta i requisiti richiesti dalla BCE.

La condizionalità, infatti, non fa altro che alimentare l’incertezza già presente in abbondanza sui mercati finanziari.

L’Italia, secondo molti analisti, è da anni un mistero: riesce a volare anche quando tutto sembrerebbe impedirlo, proprio come i calabroni.

Il calabrone, o più precisamente il bombo, in realtà vola e continuerà a farlo: il segreto sta nella velocità delle sue ali, pari a 230 battiti al secondo, molto più veloci degli altri insetti.

In quanto a noi, beh, ci siamo forse spinti oltre le nostre capacità fisiche e potremo continuare a volare solo se sapremo trasformarci in un’ape, saggia ed operosa.

Quanto sta accadendo non è purtroppo solo un (brutto ma inconsistente e fugace) sogno di una notte di mezza estate.

Il tempo è una risorsa preziosissima che non ci possiamo più permettere di sprecare e, dopo il rimpallo di accuse e responsabilità che verosimilmente caratterizzerà la caldissima campagna elettorale, speriamo che questo sia davvero chiaro a tutti.

E di tornare a volare… oh oh.

House of the Draghi

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Continua la saga che ci sta regalando (si fa per dire…) colpi di scena a non finire in questo 2022. 

Durante una pandemia di dimensioni bibliche, esplosa da più di due anni e che continua a ribellarsi alle contromisure messe in atto, si è verificato, nella vicina Russia, il risveglio rabbioso di uno dei più temuti signori della guerra.

Vladimir, l’Impalatore delle libertà, Putin vuole riportare i confini del suo impero dove erano stati, col ferro e col fuoco, fissati dai suoi predecessori sovietici e il resto del mondo si trova ora impegnato in un’epica battaglia del bene contro il male.

Una volta messi in movimento gli eserciti le merci hanno cessato di circolare liberamente e una crisi energetica ci sta riportando ad un passato, gli anni Settanta, non abbastanza lontano per non ricordarne le gravi ripercussioni sociali ed economiche.

Un altro grande impero, quello cinese, rimane sornione in prudente osservazione, pronto a cogliere i frutti del nuovo disordine mondiale ed accrescendo, giorno dopo giorno, la sua sfera di influenza, specie nei Paesi emergenti (che, dopo la crisi sanitaria, devono affrontare quelle energetica ed alimentare).

Nel Regno Unito Boris Johnson rassegna alla regina le sue dimissioni da leader del Partito conservatore e da premier del governo: a tre anni di distanza dal trionfo elettorale la perdita di credibilità non lasciava altra scelta a BoJo che resterà in sella fino al compimento, questo autunno, della transizione ad un nuovo governo.

Nel frattempo a Nara, lontano dalle pianure ucraine dove infuria il conflitto, un importante condottiero, Shinzo Abe, ex capo del governo nipponico, cadeva sotto i colpi di un attentatore mentre si apprestava a compattare, in vista delle elezioni politiche, le truppe del partito liberal democratico (l’ LDP).

L’evento lascia sotto shock tutti i giapponesi che si ricompattano ed alle urne confermano in massa la leadership del partito al governo, l’LDP, e del suo primo ministro Fumio Kishida (rafforzato dalla scomparsa del suo principale avversario politico interno).

Il cordoglio mondiale lascia però ben presto spazio alle notizie di scottante attualità.

Da tutt’altra parte del globo, il capo di Stato più potente del mondo, Joe Biden, fa visita al cuore del regno del petrolio salutando il principe Mohammed Bin Salman (accusato di essere il mandante, nel 2018, dell’uccisione di un giornalista nel consolato saudita di Istanbul) con il “pugnetto” dell’amicizia e inaugura così la nuova stagione della “realpolitik” con il Paesi del Golfo. L’accoglienza ricevuta dal presidente statunitense non è stata troppo calorosa e solo nelle prossime settimane si potranno iniziare a valutare gli effetti, a cominciare dal prezzo del barile, di questo viaggio.

In Cina, intanto, il presidente Xi Jinping ricompare in pubblico dopo due settimane, giusto in tempo per assistere alla pubblicazione dei dati ufficiali sulla crescita-zero del PIL nel secondo trimestre: nella prima metà dell’anno il progresso si è ridotto ad un misero 2,5%, ben lontano dall’obiettivo dichiarato del 5,5%.

La riapertura delle città dell’impero di mezzo (chiuse per COVID negli scorsi mesi) dovrebbe aiutare Xi ad affrontare il Congresso Nazionale del Partito Comunista di novembre con il vento alle spalle ma senza dimenticare che, dietro di lui, c’è il primo ministro Li Keqiang che, con il suo atteggiamento critico, potrebbe in futuro diventare un pericoloso avversario.

Le terre emerse (per quanto? Il cambiamento climatico incombe…) sono in subbuglio e non hanno certamente aiutato le dimissioni, nella patria della grande bellezza e dei piccoli interessi di bottega, del governo presieduto da Mario Draghi.

Stimatissimo in Europa per la sua capacità di agire senza lasciarsi troppo trascinare dagli interessi di parte e, per lo stesso motivo, temuto come la criptonite dai partiti, l’ex presidente della BCE potrebbe lasciare a metà il lavoro che stava consentendo all’Italia di riguadagnare credito internazionale e, con questo, l’accesso ai copiosi fondi messi a disposizione dal Next Generation EU. Gentili lettori: benvenuti nella “House of the Draghi”!

Per chi se lo domandasse, rispondo che, purtroppo, non si tratta di una serie fantasy ma solo di un gigantesco reality. E per giunta di pessimo gusto.

La storia (si spera a lieto fine) dell’inflazione   

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Parlare di inflazione in questo periodo mi suscita il fortissimo sospetto di annoiare il lettore. Allora perché insistere?  

Forse perché potrebbe non essere sempre così evidente a tutti quanto spesso nella storia degli ultimi 150 anni (da quando la seconda rivoluzione industriale, estendendosi dall’Europa agli Stati Uniti, ha precipitato il mondo civilizzato nella “modernità”) il fenomeno si è manifestato e quali siano state le sue origini ed i suoi effetti sui mercati finanziari.

Quello che segue richiede una certa pazienza: ci saranno più numeri del solito ma spero che la loro logica risulterà evidente e non scoraggerà il lettore che, se vorrà approfondire, potrà consultare lo studio, pubblicato la settimana scorsa, “Baltussen, Guido and Swinkels, Laurens and van Vliet, Pim, Investing in Deflation, Inflation, and Stagflation Regimes (July 6, 2022)”, dal quale ho tratto le informazioni riportate.

Incominciamo con il sottolineare come dal 1875 ad oggi l’inflazione sia stata su livelli superiori al 4% per 46 anni su 147 (poco meno di un terzo del periodo in osservazione).

I periodi estremi, inflazionistici ma anche deflazionistici hanno tutti una matrice comune: sono dovuti ad eventi “straordinari” e coincidono perlopiù con le recessioni.

A turbare in normale andamento dei prezzi, dove questi non superano il 4%, nell’ultimo secolo e mezzo sono state infatti l’esplosione di crisi finanziarie seguite alla formazioni di “bolle”, seguite a periodi con tassi di interesse molto bassi (come quella del 1870, la “Lunga depressione”, che perdurò sino al 1890 caratterizzata dal boom dei mercati immobiliari europei estesa poi sino agli Stati Uniti) e, soprattutto, le guerre (il periodo tra il 1915 ed il 1945 è un drammatico susseguirsi di fiammate, in su e in giù, dei prezzi ma anche la crisi petrolifera degli anni settanta ha origine da un conflitto, quello arabo-israeliano).

La situazione che stiamo attraversando si trova al pericoloso crocevia di queste due situazioni: veniamo da un lungo periodo privo d’inflazione, con tassi bassissimi (addirittura negativi) che aveva provocato la salita delle valutazioni di azioni ed obbligazioni (seppure, probabilmente, non a livelli di “bolla”) e l’uno-due pandemia-guerra ne ha fatto da detonatore.

Per un risparmiatore può essere utile osservare come nella storia, a partire da diversi livelli di inflazione, si siano comportati i mercati finanziari.

Come si può osservare dalla tabella riportata di seguito, i rendimenti nominali degli investimenti sono stati, nel complesso, sempre positivi mentre quelli reali, depurati dell’inflazione, hanno avuto un andamento negativo quando il costo della vita superava il 4%.

A soffrire non sono solo i mercati azionari (più rischiosi) ma anche quelli obbligazionari e quando l’inflazione è elevata neanche un portafoglio globale bilanciato (60-40 azioni/obbligazioni) riesce a produrre un rendimento reale positivo.

Di questo abbiamo avuto una dolorosa conferma proprio quest’anno: i rendimenti in rosso “nominali” (tra il -5% ed il il -25%) sono stati peggiorati da un’erosione di ulteriori 3-4 punti percentuali prodotti dall’inflazione (pari al 7-8% su base annua).

Ecco riassunto, mi si perdonino le inevitabili semplificazioni di un fenomeno così complesso, il motivo che rende così poco gradita l’inflazione al tavolo degli investitori e dei risparmiatori.

Si può ben comprendere come le speranze di tutti siano per un rapido ritorno alla “normalità” (il 2% è stato più volte sottolineato essere un tasso d’inflazione “desiderabile” dai banchieri centrali).

Sarebbe forse però dire “quasi tutti”: la storia ci ha insegnato che una elevata inflazione accompagnata da tassi di interesse reali negativi (ovvero fermi ad un livello inferiore all’aumento dei prezzi al consumo) rappresenta una comoda via di uscita per i governi da un indebitamento altrimenti poco sostenibile.

Quando, come oggi, i tassi di interesse sono distanti dal proteggerci dal carovita la crescita del PIL (nominale) supera quella del costo medio del debito pubblico (ora di poco superiore al 2,4%, frutto delle emissioni, per lo più a tasso fisso, ancora in circolazione) riducendone così il suo peso percentuale.

Se, ad esempio, il debito pubblico italiano attuale, pari a circa il 150% del PIL, fosse aumentato dei soli interessi (il 3,6%, ovvero il 2,4% su una volta e mezza il PIL), senza creare nuova spesa pubblica, salirebbe a fine anno al 153,6% ma quest’anno il PIL dovrebbe crescere del 7,5%, il 2,6% “reale” (previsioni del MEF) più l’inflazione stimata intorno al 5% (dati ISTAT), e in questo modo il debito si troverebbe ridimensionato al “solo” 140% (153,6/107,6 X 100)!

E’ proprio questa la strada percorsa dopo i conflitti mondiali e durante la crisi petrolifera degli anni settanta perché, come ricordava due secoli e mezzo fa Georg Christoph Lichtenberg, “l’inflazione è come il peccato: ciascun governo la denuncia, però ciascun governo la pratica”.

Sarebbe però un peccato mortale affidarsi solo alla “più iniqua delle tasse” (Luigi Einaudi dixit) per riportare il debito pubblico sotto controllo.

Ma questa è, davvero, tutta un’altra storia (si spera, a lieto fine).

Chi va piano… 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Il cammino dei mercati azionari rimane molto complicato: la paura generata dall’inflazione sembra, negli ultimi tempi, avere lasciato il campo ai timori di una imminente recessione. 

L’incertezza rende sempre più arduo prevedere l’andamento delle borse nei prossimi mesi.

Il problema non è certo nuovo. In proposito viene spesso ricordato come il magnate della finanza e fondatore di una delle più importanti banche degli Stati Uniti, John Pierpont Morgan, richiesto di una previsione sul mercato azionario avesse risposto: “Posso dire con assoluta certezza che oscillerà”.

E dire che erano altri tempi ed un ristretto numero di signori della finanza poteva permettersi di influenzare, con le sue azioni, l’economia; lo stesso Morgan svolse un ruolo centrale nel contenere i danni provocati dal panico generatosi dopo il devastante terremoto di San Francisco, nel 1906.

J.P. era anche noto per il suo enorme naso rosso, provocato da una infezione di “Rosacea” (una malattia della pelle) e proprio per questo odiava essere fotografato e le immagini che lo ritraevano dovevano essere ritoccate ad arte, prima di essere pubblicate, per minimizzarne l’effetto.

Oggi sarebbe difficile controllare i mezzi di informazione in un modo così efficace anche se, a più di un secolo di distanza, la diffusione delle notizie è tale che non è sempre possibile verificarne la veridicità.

Non possiamo, purtroppo, dubitare dei dati che indicano sempre più chiaramente un forte rallentamento dell’economia statunitense.

Le notizie di un mercato del lavoro surriscaldato, dove un numero sempre maggiore di persone lasciavano volontariamente il loro posto per cercarne uno più remunerativo, sono ora soppiantate da quelle che evidenziano un fortissimo aumento dei disoccupati, inferiore solo a quello del 1974 (quando si era in piena crisi petrolifera).

A conferma di questo c’è anche la salita delle merci giacenti nei magazzini dei centri commerciali e dei rivenditori, che dovranno essere smaltite in un momento nel quale i consumatori saranno meno disposti a spendere (a causa dell’incertezza sul futuro) e che, proprio per questo, potrebbero tradursi in forti riduzioni dei prezzi (e quindi dell’inflazione).

Queste notizie stanno da qualche tempo riflettendosi anche sui prezzi delle materie prime che hanno incominciato a invertire la marcia nel timore che una recessione possa presto provocare il crollo della loro domanda. Solo le risorse energetiche (petrolio e gas naturale) si stanno dimostrando più resistenti, a causa del perdurare del conflitto in Ucraina.

Simili presagi li possiamo trarre, infine, anche dalle attese sull’inflazione riflesse dai mercati obbligazionari; dopo una forte salita dei tassi di interesse (e una discesa dei prezzi) ultimamente la corsa si è arrestata. Il peggior semestre dal 1788 dei titoli governativi statunitensi potrebbe ora essere seguito da un graduale recupero, favorito dalla forte frenata dell’economia (e dei prezzi al consumo).

La prima metà dell’anno si è quindi conclusa con oscuri presagi ed è passata in giudicato come la peggiore dal 1962, quando l’escalation della tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica portò, con la crisi missilistica di Cuba, il mondo vicino al conflitto nucleare e Wall Street al suo peggior crollo dopo quello del 1929.

Sessant’anni fa, dopo il superamento della tensione e la soluzione pacifica della crisi, il mercato azionario gradualmente recuperò, aiutato anche dalla tenuta degli utili aziendali (che non risentirono troppo degli eventi negativi).

Venendo ai giorni nostri, può essere interessante capire cosa si aspettano per il resto del 2022 gli analisti finanziari.

Dopo i forti cali del primo semestre, le stime sul livello di fine anno dell’indice americano da parte di tutte le case di investimento sono oggi uniformemente ottimistiche, con una prospettiva media di salita superiore al 15%.

Questo dato si confronta con un dato estremamente pessimista da parte degli investitori.

Ci si chiede chi avrà ragione: gli analisti, più vicini alle aziende e proprio per questo meno inclini a ridurre il loro giudizio su di esse, o gli investitori, che danno un maggior peso all’andamento dei mercati finanziari e a quello, quanto mai incerto, degli utili futuri.

Molto arduo indovinare chi avrà ragione: tutto dipenderà dall’andamento dell’economia che, continuando ad oscillare, si rifletterà direttamente sulle vendite e sui profitti delle aziende.

Giova, per terminare, tenere sempre a mente che nel mercato azionario si hanno solo due scelte: arricchirsi lentamente o impoverirsi rapidamente.

Chi va piano…

Terra Incognita

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

La crisi del 2007-2008, la “Grande recessione” innescata dai mutui “sub-prime”, di bassa qualità, statunitensi, ha provocato negli anni successivi una ondata prima deflazionistica (con una forte discesa dei prezzi) e poi disinflazionistica (crescita economica priva di inflazione) senza precedenti.

La ferma volontà di arrestare la spirale alimentata dalla perdita di fiducia nel sistema bancario ha chiamato al capezzale tutte le principali banche centrali del mondo (la crisi nata negli Stati Uniti aveva infatti velocemente raggiunto una dimensione globale).

Il decennio successive sarebbe stato quello che verrà probabilmente ricordato nei libri di scuola dei nostri nipoti come l’”Era dei tassi di interesse negativi”: una autentica “Terra Incognita” per i signori della moneta.

Il fenomeno avrebbe segnato il culmine di un lunghissimo ciclo di discesa dei tassi di interesse che si accompagnava alla scomparsa di una delle più temibili fiere della giungla economica: l’inflazione.

Ma i tassi di interesse, oltre che proteggere il denaro dalla sua perdita di potere di acquisto dovuta all’inflazione (assente per buona parte dei passati quindici anni) devono anche remunerare il tempo e quando il suo valore finanziario si azzera (o diventa negativo) possono avvenire dei fenomeni poco spiegabili dalla razionalità.

Tra gli effetti collaterali di un mondo all’incontrario dove si veniva pagati per ricevere del denaro in prestito c’è stato il dilagare di società, in buona parte di nuova costituzione, che ha dedicato enormi risorse (proveniente da investitori a caccia di rendimenti positivi) per costruire un parco clienti più ampio possibile con la prospettiva di futuri (sempre più lontani) profitti.

Il fatto che si trattasse di aziende che operavano (e ancora lo fanno…) con enormi perdite non spaventava i loro finanziatori: in fondo se il valore del tempo è zero la pazienza diventa una virtù facile da esercitare.

Il segreto del successo era diventato quello di offrire servizi (perlopiù) o prodotti a prezzi stracciati, ben inferiore al loro costo, per attirare una schiera sempre più vasta di compratori che un giorno avrebbero generato, grazie alle economie di scala raggiunte nel tempo, succosi utili da distribuire agli azionisti.

Così, ad esempio, le corse in taxi sono state ridotte a favore del servizio molto più economico offerto da Uber o da Lyft, il cibo ed i prodotti, invece che nei supermercati, li si attendono comodamente seduti nel salotto della propria casa senza costi aggiuntivi e così via.

Il ritorno dell’inflazione ha rotto l’incantesimo…

L’amministratrice delegata di Uber, Dara Khosrowshahi, in una recente lettera ai propri dipendenti ha sottolineato che prima di crescere ulteriormente la società deve iniziare a produrre risultati positivi (e ridurre le offerte in perdita…).

A percorrere la stessa strada sono altri ben noti attori del settore tecnologico come Tesla, Netflix, Twitter, Paypal, Meta o aziende meno note ai più (ma molto amate, almeno fino a poco tempo fa, dagli investitori) come Carvana (auto usate, vendute online), Robinhood, Coinbase, Salesforce, Snap…

L’aumento dei tassi di interesse ha avuto l’effetto descritto argutamente dal celebre investitore statunitense Warren Buffet: “Solo quando la marea scende scopri chi stava nuotando nudo”!

Molte aziende si sono ritrovate a ridimensionare i piani futuri, congelando o riducendo il personale e aumentando i loro prezzi (soffiando così sul fuoco dell’inflazione).

Tutto ciò non facilita il rebus che le banche centrali stanno cercando di risolvere: come riportare il tasso di inflazione sotto controllo (intorno al 2%) senza provocare una grave recessione.

Qualcosa di simile era successo nella prima metà dello scorso decennio nel settore petrolifero: i tassi di interesse molto bassi avevano provocato il boom dei produttori di petrolio di scisto.

Il petrolio viaggiava sopra gli 80 dollari al barile e le nuove tecnologie consentivano di estrarre dalle Montagne Rocciose e da altre aree degli Stati Uniti e del Canada il prezioso idrocarburo. Il processo era costoso ma la possibilità di finanziarsi a costo zero era stato un potentissimo magnete per investitori e speculatori.

L’eccessiva abbondanza di oro nero che la nuova produzione aveva consentito aveva innescato successivamente, a partire dalla metà del 2014, un periodo di vacche magrissime portando il suo prezzo vicino ai 20 dollari e ad azzerarsi sul mercato dei futures (a un certo punto le consegne future hanno addirittura raggiunto valori ampiamente negativi).

Nel mercato delle materie prime si usa dire che i prezzi alti sono una soluzione ai prezzi alti, ovvero che quando il prezzo è troppo elevato prima o poi la domanda scende e i prezzi devono adeguarsi (scendendo a loro volta).

Esiste peraltro un corollario di questa legge: i prezzi bassi sono una soluzione dei prezzi bassi. E’ così successo che moltissime società, nate nell’abbondanza, con tassi di interesse bassissimi ed alti prezzi del petrolio, negli anni 2010-2014 sono fallite riducendo così la produzione di petrolio e riequilibrando il mercato.

A questo si è aggiunta poi la scarsa propensione a nuovi investimenti (per prospezioni e trivellazioni di nuovi pozzi) che in vista della transizione energetica, con minori utilizzi futuri di idrocarburi, li rende troppo rischiosi (potrebbero diventare obsoleti molto velocemente) e non convenienti.

Questo doppio cappio sta strangolando l’economia mondiale: i prezzi troppo bassi offerti per spingere sulla crescita della base clienti si stanno alzando, le materie prime, specie quelle energetiche, soffrono di un deficit produttivo frutto di sotto-investimenti e della crisi russo ucraina e con la loro salita gonfiano i prezzi al consumo e i costi di produzione delle aziende che le utilizzano che, a loro volta, li scaricano sui consumatori finali.

La normalizzazione richiederà del tempo e sta già producendo una “ripulitura” dei mercati finanziari dagli eccessi generati dal denaro facile ed a basso costo.

Non appena il nuovo equilibrio sarà stato raggiunto saremo pronti per una nuova fase di crescita: per ora si tratta, per le banche centrali, i governi e i risparmiatori, di limitare i danni senza avere l’illusione di uscirne completamente indenni.

Inevitabilmente assisteremo ad un forte rallentamento (e probabilmente ad una recessione) con una erosione del nostro potere di acquisto (dovuta all’inflazione) ed un aumento moderato (si spera…) della disoccupazione.

I mercati finanziari stanno da tempo iniziando ad incorporare queste aspettative e si preannuncia un’estate ancora molto calda.

Dobbiamo allora convenire come dopo una cena troppo pesante (molti anni di tassi di interesse a zero) possa essere di aiuto un piccolo digiuno, perfettamente adeguato anche ai mari mossi nei quali ci troviamo a navigare.

La Terra sta diventando un luogo sempre più pericoloso e dovremo essere noi a risolvere i tanti problemi che abbiamo aiutato a creare: dall’inflazione alla pandemia, dalle guerre fino al cambiamento climatico, che ci proiettano ancora una volta in territori sconosciuti.

D’altronde non possiamo certo aspettarci un aiuto dall’Universo che, sono sicuro, è pieno di vita intelligente; solo che, con tutta probabilità, è troppo intelligente per decidere di fare visita al nostro pianeta.

 

Allons Enfants…?

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La Francia è la seconda economia dell’area Euro, dopo la Germania, e quanto accade entro i suoi confini non può lasciarci indifferenti.

 

SI tratta di uno dei Paesi europei che ha saputo meglio riprendersi dalla shock provocato dal Covid: la forte discesa del PIL del 7,9% avvenuta nel 2020 è stata quasi interamente recuperata nel 2021 (con una salita del 7,1%).

Anche dal punto di vista della disoccupazione i nostri vicini si sono comportati piuttosto bene riportandola ai livelli minimi, il 7,8% degli ultimi 25 anni.

 

Venendo all’inflazione, poi, l’imponente pacchetto di spesa, 25 miliardi di euro, ha contenuto i rincari di gas ed elettricità ed ha così limitato la salita dell’indice dei prezzi ad un “modesto”, rispetto all’8,1% dell’area euro, 5,2%.

 

Se questo poteva parere lo scenario perfetto per la conferma del consenso popolare all’attuale governo, soprattutto dopo che Macron aveva ottenuto ad aprile il suo secondo mandato presidenziale, gli esiti delle elezioni parlamentari di questo fine settimana lo hanno clamorosamente smentito.

 

Il presidente francese si troverà nei prossimi anni con la necessità di aggregare un congruo numero parlamentari esterni al suo partito, Ensemble!, per poter raggiungere la maggioranza di 289 (partendo dai 224 del suo schieramento).

La futura direzione di marcia dei cugini d’oltralpe è ora quantomai difficile da prevedere.

 

La divaricazione, verso la destra di Marine Le Pen e la sinistra di Jean-Luc Mélenchon, del consenso politico renderà molto difficile il compito del governo di mantenere la crescita economica senza dovere aggravare ulteriormente il debito pubblico, cresciuto enormemente negli ultimi anni e pari al 112,9% alla fine del 2021.

 

La campagna elettorale transalpina è stata dominata, sia a destra che a sinistra, dagli effetti negativi del carovita sui lavoratori e a nulla sono serviti gli annunci del presidente di ulteriori misure per sostenere le pensioni minime (indicizzandole all’inflazione) ed i salari dei dipendenti pubblici, aiutare con dei sussidi per l’acquisto del cibo i meno abbienti e ridurre i costi dei professionisti.

 

Non ha giovato a “Ensemble!” il progetto del presidente di modificare l’attuale sistema pensionistico, elevando l’età pensionabile da 62 a 65 anni, poi ridotta, senza successo, visto l’esito elettorale, a 64 nelle ultime settimane.

 

La proposta di riforma risale al 2017 ed aveva condotto già negli anni passati a violentissime proteste di piazza nell’inverno del 2019-2020. L’esplosione della pandemia l’aveva poi cancellata dall’agenda del governo ma la sua importanza, per la sostenibilità del bilancio pubblico, l’ha riportata di assoluta attualità quest’anno.

 

Il ritorno al populismo, con la ricerca di raggiungere risultati spesso divergenti ed inconciliabili (una maggiore crescita e tutela dei redditi senza accrescere il debito pubblico e l’inflazione) potrebbe rappresentare un’ulteriore pietra d’inciampo per il nostro continente.

 

Si tratta, non solo in Francia, di una situazione non troppo dissimile da quella che si trovò a fronteggiare Lyndon Johnson quando, succeduto a JFK dopo la sua tragica fine a Dallas, dovette decidere se proseguire la guerra in Vietnam o finanziare il programma di spesa sociale (la “Great Society”). Alla fine, la scelta tra “burro e cannoni” non venne fatta e la conseguenza fu una spirale inflazionistica che esplose definitivamente alcuni anni dopo, sotto la presidenza Nixon, con la crisi petrolifera innescata dal conflitto tra Egitto e Siria e Israele.

 

Il ricordo delle presidenze Johnson e Nixon è legato all’incapacità di gestire l’inflazione e la crisi economica che ne seguì ma l’elettorato, ostile a qualunque “sacrificio”, non è certo esente da responsabilità.

La complessità del periodo “esplosivo” che stiamo attraversando, la lunga miccia accesa dalla pandemia ha continuato a “brillare” a causa della guerra, dovrà stimolare l’ingegno e la saggezza dei governanti (e dei cittadini) per evitare di dovere rimpiangere la sottovalutazione dei rischi futuri per un apparente maggiore beneficio attuale.

 

Il Grande Rallentamento

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

I tempi per i mercati finanziari sono molto complicati. 

Arrivare alle soglie di una recessione con i tassi di interesse ancorati a livelli vicini allo zero rappresentava un rischio che prima o poi si sarebbe dovuto affrontare ma fino a pochi mesi fa prevaleva la convinzione che la crescita economica sarebbe stata alimentata dalla “normalizzazione” dello shock generato dalla pandemia.

 

L’inflazione sembrava, insomma, ancora un fenomeno temporaneo non sufficiente a spaventare investitori e banchieri centrali.

 

L’ineluttabilità di una fase meno propizia per gli investimenti obbligazionari (penalizzati da aumenti dei rendimenti, legati al livello dell’inflazione) suggeriva prudenza ma i mercati azionari avevano pur sempre dalla loro parte una crescita degli utili futuri ben delineata, grazie anche agli enormi piani di investimento varati da tutti i principali Paesi (Stati Uniti ed Europa, con il NextGenEu da 800 miliardi di euro, in primis).

 

Poi è arrivata, inattesa, la guerra scatenata dalla Russia che sta producendo onde d’urto sull’economia mondiale ben superiori a quanto si poteva immaginare.

 

Il castello costruito dopo la prima ondata di Covid, nel 2020, si è così scoperto estremamente fragile ed a farne le spese sono stati anche i mercati azionari.

 

Le valutazioni delle società quotate erano in qualche caso diventate troppo care ma, più in generale, a creare scompiglio sono stati l’aumento dei rendimenti degli altri investimenti (quelli obbligazionari) e il ridimensionamento delle prospettive di crescita.

 

Si tratta dei fattori che tipicamente accompagnano un mercato ribassista: la prima parte della discesa riporta le valutazioni su livelli più in linea con il loro passato e la seconda, e spesso più violenta, è frutto della maggiore attrattività delle obbligazioni e della riduzione da parte degli analisti delle stime sugli utili futuri.

 

Possiamo dire che il primo tempo è già ben avanzato e non ci sono, dopo gli ultimi cali, più grandi differenze tra le attuali valutazioni e la loro media storica.

 

Quello che potrebbe ancora danneggiare i listini è la presa di coscienza che le attuali previsioni sui risultati aziendali sono ancora lontane dall’incorporare un forte rallentamento economico o, peggio, una recessione.

 

Nella fase iniziale, infatti, le aziende riescono a salvaguardare i loro profitti grazie all’economia ancora in progresso. L’aumento dei costi di produzione (materie prime e salari) inizia poi a mettere a rischio il conto economico e i produttori iniziano a ritoccare al rialzo i propri listini prezzi.

 

Quest’ultimo è il momento più delicato, dove le pressioni inflazionistiche si allargano e non sono più limitate ai settori legati ai consumi energetici, come i carburanti e l’elettricità, e diventano perciò più difficili da sconfiggere.

 

Tutto ciò conduce inevitabilmente a un raffreddamento della crescita mettendo a rischio i margini di profitto aziendali (peraltro vicini ai loro massimi storici) e innescando le revisioni al ribasso degli utili.

 

A complicare ulteriormente le cose ci sono le banche centrali che si trovano ad inseguire e a cercare di riportare nella lampada il genio dell’inflazione con il solo strumento a loro disposizione: l’aumento dei tassi di interesse.

 

In fondo non esiste modo migliore per fare scendere i prezzi di beni e servizi (rallentando l’inflazione) che ridurne il loro consumo, anche tramite l’aumento del costo da sostenere (il tasso da pagare) per finanziare il loro acquisto.

 

A rischiare di più sono i Paesi europei, dove la crescita era già in affanno (a differenza degli Stati Uniti) e l’inflazione galoppante avvicina i rischi di recessione, e tra questi quelli più indebitati, costretti a finanziarsi ad un costo più elevato in quanto ritenuti meno solvibili dai creditori.

 

Assistiamo perciò ad una salita dello “spread” (il maggior prezzo da pagare rispetto al Paese più virtuoso e solido in Europa: la Germania) del nostro Paese che si riflette negativamente sul costo del denaro (con possibili contraccolpi sul mercato immobiliare, gravato da mutui più cari).

L’equilibrio, tra valutazioni, stime degli analisti, livello dei tassi di interesse (finalmente al di sopra dello zero ma ancora ben al di sotto dell’inflazione) verrà prima o poi raggiunto ma il tragitto per arrivarci sarà sicuramente accidentato.

 

Non sono certamente da escludere avvenimenti che possano rendere meno dolorose le giornate degli investitori: la Cina sta riaprendo le proprie città e potrebbe tornare presto a correre mentre il conflitto in Ucraina prima o poi si placherà e si inizierà a parlare della sua ricostruzione (un business molto ambito sul quale si stanno già scatenando molte manifestazioni di interesse).

 

Questo potrebbe ricondurre il tutto, alla fine, ad un Grande Rallentamento che finirebbe per essere solo un lontano parente della stagflazione degli anni Settanta e della Grande Recessione del 2007-2008.

 

Rimane comunque molto arduo prevedere gli effetti sull’andamento futuro dei mercati finanziari che sono spesso il frutto di reazioni emotive. Come ebbe a dire Isaac Newton, travolto dal crollo della South Sea Company nella quale aveva investito: “posso calcolare il moto dei corpi celesti ma non la follia degli uomini”.