IL PUNTASPILLI di Luca Martina
Dopo la prova di forza della leadership cinese, Xi Jinping ha fatto tabula rasa dei suoi oppositori e critici, ed il ritorno al vertice del Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva l’attenzione degli osservatori si sposta ora negli Stati Uniti.
L’ 8 novembre le elezioni di metà mandato (due anni dopo le presidenziali) rappresenteranno un importante test per Joe Biden e per il suo partito democratico.
La popolarità (come aggiornata settimanalmente dal sito FiveThirtyEight) del presidente in carica è precipitata nella seconda metà dell’anno scorso per poi stabilizzarsi (al 42,3%) negli ultimi mesi ma le probabilità di evitare un’“onda rossa” (il colore del partito repubblicano) la prossima settimana sembrano ormai ridotte al lumicino.
I sondaggi prevedono che dalle urne uscirà una camera ed un senato a maggioranza repubblicana e questo risultato potrebbe spianare la strada all’inossidabile (malgrado la ruggine che sembrava avere corroso definitivamente il suo primo mandato) Donald Trump nel lungo sprint che porterà alle presidenziali del 2024.
La situazione rappresenterebbe un significativo spostamento degli equilibri da un fragilissimo controllo democratico (che vede un senato in bilico e una camera dei Rappresentanti a suo favore) ad un Congresso che, con ambedue le camere a maggioranza repubblicana, costringerebbe il presidente a completare il suo mandato con grandi difficoltà e parzialmente depotenziato (come un’”anatra zoppa”)..
I settori del programma presidenziale che potrebbero subire i maggiori rallentamenti a causa del nuovo assetto del Congresso sono quelli cari a “The Donald”.
L’agenda repubblicana prevede una politica energetica che tornerà ad essere più morbida e disponibile nei confronti delle risorse nazionali (con la riapertura di parte delle miniere di carbone e l’autorizzazione a nuove ed estese trivellazioni petrolifere) e più critica verso l’Iran (dopo il riavvicinamento degli ultimi anni, con l’obiettivo di rimuovere le sanzioni e consentire un aumento del petrolio in circolazione) ed il Medio Oriente.
Strettamente legato al ritorno ai combustibili fossili “made in America” uno dei temi che subirà le maggiori conseguenza sarà quello del contenimento del cambiamento climatico. Il primo giorno della sua presidenza, Biden aveva immediatamente firmato l’adesione degli Stati Uniti all’Accordo di Parigi, raggiunto alla fine del 2015, per la riduzione delle emissioni di gas serra.
Lo stesso trattato era stato stracciato da Trump, che aveva così sfilato gli Stati Uniti, e si può facilmente immaginare che sarà nuovamente messo in discussione già nei prossimi mesi e, ancor più, da una sua eventuale rielezione nel 2024 e con questo il massiccio piano di investimenti previsto.
Anche la collaborazione degli USA con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per sconfiggere definitivamente la crisi provocata dalla pandemia, è destinata a scricchiolare sotto le martellate della nuova maggioranza.
A livello economico, poi, è nota l’ostilità del Grand Old Party nei confronti degli elevati livelli di indebitamento statale e questo porrebbe ulteriori ostacoli alla politica economica dell’amministrazione democratica (che mira a sostenere la crescita, anche attraverso la spesa pubblica, con un conseguente incremento del debito).
L’esito della tornata elettorale sarà quindi esaminato con grandissima attenzione ed a questa dovrà aggiungersi anche una buona dose di pazienza.
Si profila infatti la possibilità che, come avvenuto nel 2020, siano necessari alcuni giorni (o, nel caso peggiore, settimane) prima di conoscere i risultati: l’opzione, consentita per fronteggiare l’impossibilità di uscire per recarsi alle urne durante la fase acuta della pandemia, del voto a distanza, via posta, rimane tuttora in vigore e potrebbe ancora una volta rallentare la pubblicazione dei risultati definitivi.
L’incertezza non mancherebbe di innervosire i mercati finanziari e dare il la, è un motivetto vecchio ma sempre popolare, alle accuse di brogli e presunte illegalità.
Un presidente debole per il resto della sua permanenza alla Casa Bianca non è certamente quanto l’attuale contesto internazionale richiederebbe e possiamo solo augurarci che alla fine prevalga il proverbiale pragmatismo statunitense nella difesa degli interessi nazionali e dei principi condivisi con tutto il resto del mondo occidentale.
Nulla, comunque, è stato ancora scolpito nel marmo.
Il ritorno del populismo, del quale Trump è stato certamente un campione, è frutto, almeno in parte, delle difficili condizioni attuali e potrà rallentare la sua avanzata, prima delle prossime presidenziali statunitensi, tra due anni, se il ciclo economico sarà nel frattempo ritornato nella sua fase espansiva (dopo una ormai inevitabile, ma si spera breve, recessione).
Le cose volgerebbero definitivamente al bello se arrivasse anche la tanto auspicata cessazione delle ostilità che favorirebbe il graduale superamento degli squilibri che si sono creati, a partire dalla salita dei prezzi delle fonti energetiche e alla conseguente inflazione fuori controllo.
Ma non voglio spingermi troppo oltre: in fondo, è sempre pericoloso fare previsioni, specialmente se riguardano il futuro.