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Polvere di stelle e buchi neri

IL PUNTASPILLI     di Luca Martina 

 

Nei giorni scorsi è stata emessa da un tribunale della California la sentenza di condanna nei confronti di Elizabeth Holmes. 

La geniale “imprenditrice” statunitense era stata definita un’autentica “Steve Jobs” e, come il fondatore di Apple, era considerata una stella di prima grandezza e compariva sulla copertina di fine 2014 di Forbes in dolcevita nero (in un’intervista a Glamour ha dichiarato di possederne ben 150 uguali) e posa ieratica. 

Elizabeth raccontava in un’intervista come i prelievi di sangue avessero sempre spaventato, causandole anche degli svenimenti, lei e i suoi genitori. 

Questo l’aveva spinta a lasciare gli studi, brillantemente avviati a Stanford, per fondare a soli 19 anni, nel 2004, Theranos, la start up che prometteva rapidi e precisissimi esami con solo poche gocce di sangue prese dalla punta di un dito (senza l’utilizzo di fastidiose siringhe).

L’accesso ad analisi a bassissimo costo (una decina di dollari) avrebbe salvato, “democratizzando l’assistenza sanitaria”, molte vite umane e consentito, “ça va sans dire”, alla bionda di Washington di guadagnare miliardi di dollari. 

La stampa la osannava e importanti personaggi pubblici, del tenore di Henry Kissinger e Bill Clinton, arrivarono a sostenerla e ad essere suoi soci nella Theranos. 

La cosa incredibile è che non venne mai fornita una prova concreta dell’efficacia delle analisi millantate dalla Holmes. 

Abilissima comunicatrice, “Eagle one” (nome in codice con la quale era identificata dalla sua scorta) è stata capace di raccogliere dagli investitori centinaia di milioni di dollari senza fornire loro alcuna certificazione dell’apparecchio, il “Theranos Edison”, che avrebbe dovuto analizzare il plasma. 

Alle domande in proposito rispondeva trincerandosi dietro ad un segreto che non poteva rivelare per non difendersi dal rischio che le grandi imprese del settore potessero approfittarne. 

Nella realtà si rivelò impossibile estrarre tutte le informazioni necessarie da una così piccola quantità di sangue e alla fine lo strumento utilizzato per le analisi, “preso in prestito” dalla Siemens, non fu in grado di fornire analisi attendibili. 

Le bugie hanno normalmente le gambe corte ma quelle di Elizabeth le hanno consentito di correre per 10 anni prima che, nell’ottobre del 2015, un articolo del Wall Street Journal chiamasse il clamoroso bluff. 

All’incriminazione è seguito un lungo processo che ha portato nei giorni scorsi alla sentenza di condanna ad 11 anni di carcere. 

Della stella ormai esplosa rimane ora solo la polvere e un buco nero che ha inghiottito moltissimo denaro, danneggiato i pazienti (con diagnosi errate) e causato il suicidio di Ian Gibbons, il capo scienziato della Theranos. 

La storia è paradigmatica di come la mancanza di seri controlli possa condurre a gigantesche truffe  

Ma la vicenda della bella Elizabeth, con l’evaporazione di un valore che, prima che colasse a picco, era stimato in 9 miliardi di dollari, impallidisce di fronte al recentissimo fallimento della FTX, la società da più di 30 miliardi di dollari che costituiva una delle principali piattaforme di scambio di criptovalute (dove queste vengono acquistate, vendute e depositate). 

Improvvisamente, lo scorso 8 novembre, la società con sede alle Bahamas aveva sospeso i prelievi dei suoi clienti senza fornire spiegazioni. 

Il suo fondatore, Sam Bankman-Fried, che un anno fa si era piazzato al venticinquesimo posto della classifica degli uomini più ricchi d’America (in precedenza solo Zuckerberg ci era riuscito alla stessa età di 29 anni), aveva provato a tranquillizzare (con dei messaggi su Twitter) il mercato dichiarando che il denaro dei clienti era al sicuro e che presto la situazione si sarebbe normalizzata. 

Ma, indovinate un po’? Anche la stella FTX è esplosa, dichiarando nei giorni scorsi il fallimento, tramutandosi così nell’ennesimo buco nero. 

 

Si tratta di un altro finale da incubo per gli investitori e anche in questo caso il disastro è stato consentito dalla mancanza di una seria vigilanza che, peraltro, nel settore delle criptovalute è la regola più che l’eccezione. 

Per il bene dei risparmiatori e degli investitori, ormai non più solo spettatori ma parti attive nel mondo decentralizzato (privo di un ente regolatore di controllo) reso popolare da Satoshi Nakamoto con la creazione, nel 2008, del Bitcoin, ci si augura che la lezione sia d’insegnamento. 

Imparare dai propri errori sarebbe davvero una bellissima novità… e non solo un pio desiderio da esprimere di fronte alla prossima stella cadente. 

 

L’acqua e il fuoco

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

 

La scorsa settimana la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha alzato per l’ennesima volta i tassi di interesse ufficiali. 

Le elezioni di metà mandato della scorsa settimana hanno sorpreso molti analisti e smentito i sondaggi che davano come molto probabile l’arrivo di una potente “onda rossa” (il colore del partito repubblicano) che avrebbe travolto, conquistandole, le due camere (quelle dei rappresentanti ed il senato). 

Il risultato ha invece visto i democratici perdere, di misura, la camera dei rappresentanti ma riconquistare una (risicata) maggioranza al Senato. 

La mancata “vittoria per distacco” viene attribuita al comportamento dell’ex presidente Trump e a riprova di ciò si sottolineano le solenni bastonature subite da alcuni dei suoi fedelissimi canditati governatori (36 su 50 sono stati eletti nella stessa tornata).

A gioire, seppur sommessamente, è il partito democratico che temeva di doversi trovare di fronte ad un pesante voto di sfiducia nei confronti di Joe Biden che ne avrebbe indebolito l’azione nei prossimi due anni. 

Il rischio di un’”anatra zoppa” incombeva e lo scampato pericolo è attribuito ai timori degli americani sul futuro della loro democrazia, sotto continuo attacco da parte di The Donald, a partire dal rifiuto ad accettare il risultato delle urne alle ultime presidenziali. 

Ma per il Great Old Party non tutte le notizie sono negative: ad uscire fortemente rafforzato è stato il suo governatore della Florida, Ron De Santis che ha surclassato di venti punti percentuali ((60% contro il 400%) il suo rivale democratico, Charlie Crist. 

Ad accorgersi di questo cambiamento sono stati immediatamente gli scommettitori e gli analisti politici ed ora il candidato più credibile per la Casa Bianca nel 2024 è diventato proprio il 44enne di origine italiane (i suoi otto bisnonni provengono da Abruzzo, Campania e Molise). 

Nel frattempo, sul fronte economico, l’ultimo dato sull’inflazione statunitense ha generato una reazione molto positiva dei mercati finanziari. 

Per la prima volta da molti mesi si è registrato un rallentamento nella cavalcata dei prezzi e potrebbe essere solo l’inizio di quella discesa che ricreerebbe le condizioni per la ripresa del ciclo economico (ora in evidente rallentamento) forse già a partire della seconda parte del 2023. 

Proprio l’economia è la principale responsabile dei cambiamenti politici.  

E’ passato alla storia lo slogan “It’s the economy, stupid” (“Ciò che conta è l’economia”) coniato nel 1992 da James Carville, lo stratega artefice della vittoria, che solo un anno prima sembrava impossibile (il consenso del presidente in carica era al 90%), di Bill Clinton (un modesto governatori dell’Arkansas) nei confronti di George W. Bush. 

Un miglioramento dello scenario economico, con un’espansione che potrebbe prendere corpo proprio nell’anno elettorale, sarebbe la migliore cura alla perdita di consenso subita dai democratici nei primi due anni di presidenza e capovolgere gli attuali (ancora poco probanti) pronostici. 

Nel frattempo, Biden, corroborato dal pericolo scampato ha incontrato il leader cinese, rafforzato a sua volta dall’investitura ricevuta nell’ultimo plenum del partito comunista cinese. 

I due hanno espresso l’intenzione di collaborare per la soluzione della crisi russo-ucraina e per una normalizzazione delle loro relazioni (evitando una riedizione della “guerra fredda”). 

Nel faccia a faccia tenutosi ieri a Bali il presidente statunitense ha però anche ribadito a Xi Jinping i timori degli Stati Uniti nei confronti di una possibile escalation dei toni nei confronti di Taiwan. 

La risposta di Xi è stata netta: “Taiwan è al centro dei pensieri e degli interessi cinesi e rappresenta una linea rossa che non può essere superata nei nostri rapporti. L’indipendenza di Taipei è incompatibile con la pace e la stabilità della regione come l’acqua e il fuoco”.

Forse sarebbe bene ricordare a tutti che non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco e, quindi, non si può combattere il male con il male.

Speriamo bene. 

Controvento

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

La scorsa settimana la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha alzato per l’ennesima volta i tassi di interesse ufficiali.

Si tratta del prezzo del denaro che viene utilizzato dalle banche quando prestano soldi tra di loro e, di conseguenza, il riferimento per i finanziamenti, i mutui e le cedole pagate dai titoli di Stato (che rappresentano pur sempre un debito da rimborsare a scadenza).

La brutta notizia non è tanto, l’attesissimo, rialzo dei tassi (dello 0,75%) quanto le parole che il governatore, Jerome Powell, ha utilizzato nel commentare la sua decisione: “Abbiamo ancora del cammino da fare (per poter dire di essere arrivati al livello dei tassi d’interesse desiderato n.d.r.) e i dati economici ci suggeriscono che il livello al quale dovremo arrivare sarà più elevato di quanto pensavamo”.

Insomma, la strada si preannuncia più lunga, tortuosa e con il vento contrario (dato da un’economia ancora troppo forte, con una disoccupazione bassissima) di quanto si poteva sperare.

Il mercato azionario, reduce da un paio di settimane tranquille nella irragionevole aspettativa che presto la Federal Reserve si sarebbe accontentata di quanto già fatto negli ultimi mesi, alzando i tassi dallo zero (fino al primo aumento dello scorso marzo) all’attuale 4%, ha innescato una brusca retromarcia.

La determinazione della banca centrale statunitense a indurre un rallentamento dell’economia che freni, per poi invertirlo, l’attuale trend inflazionistico non può più essere messa in dubbio.

Per raggiungere questo obiettivo la Fed è pronta a tenere a freno gli spiriti bollenti degli investitori finanziari, rovesciando secchiate gelate sulle loro teste non appena queste si rialzano.

Mercati finanziari forti, infatti, collidono con l’obiettivo di frenare l’economia (solo una recessione può riuscire ad arrestare i rialzi dei prezzi di beni e servizi) in quanto, con la loro salita e il conseguente arricchimento degli investitori, rappresentano un supporto non richiesto (e attualmente non benvenuto) all’economia statunitense.

La lezione dello scorso luglio, quando le parole di Powell a corredo di un aumento dei tassi, “non abbiamo ancora deciso se in futuro dovremo ritoccare i tassi in modo più aggressivo”, era stata interpretata in modo troppo ottimistico (“forse sta pensando di sospendere gli aumenti del costo del denaro…”) da Wall Street, con una salita nei giorni successivi di più del 10%.

Beninteso: la Fed non ha nulla di personale nei confronti dei mercati azionari, semplicemente non può permettere che la loro forza scoraggi gli americani dal ridurre i loro consumi (rallentando così le pressioni sui prezzi e l’inflazione).

Non tutto il male viene per nuocere, però.

La certezza che la banca centrale statunitense (e con lei, al traino, di quella europea) farà tutto ciò che necessario per stroncare l’inflazione, riportandola sotto controllo, potrebbe alla fine rassicurare gli investitori obbligazionari, che beneficiano di una riduzione dei timori sull’inflazione futura.

Il rendimento dei titoli obbligazionari dovrebbe proteggere il potere d’acquisto della moneta dall’inflazione (attuale e futura) e si muove perciò nella sua stessa direzione.

La relazione tra le quotazioni ed i rendimenti è tale che quando questi ultimi scendono (per il timore di una recessione) le prime salgono, per la gioia degli investitori.

Esattamente il contrario di quanto avvenuto negli ultimi due anni quando la salita dei tassi, frutto dell’impennata dei prezzi al consumo, ha provocato ai risparmiatori perdite superiore a quanto visto negli ultimi quarant’anni (bruciando i guadagni di molti anni).

Per le azioni, infine, non è il caso di disperarsi troppo: la possibilità che si sia già toccato il fondo si è assottigliata ma più che a nuovi crolli dovremo abituarci ad un andamento ondivago, con rimbalzi/eccessi di ottimismo e correzioni/prevalenza del realismo, sino a quando il traguardo, recessione più inflazione in discesa, non si profilerà all’orizzonte e le stime sugli utili aziendali saranno state ridimensionate dai livelli ancora troppo ottimistici.

Ci vorranno ancora alcuni mesi da percorrere in salita e con il vento contrario in faccia ma alla fine rivedremo la discesa: a quel punto il rallentamento economico avrà fatto il suo lavoro e sarà nuovamente tempo per i signori della moneta di ridurre i tassi di interesse e di stimolare l’economia.

Perché, dopo tutto, Dio fornisce il vento ma è l’uomo che deve alzare le vele!

A volte ritornano (?)

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Dopo la prova di forza della leadership cinese, Xi Jinping ha fatto tabula rasa dei suoi oppositori e critici, ed il ritorno al vertice del Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva l’attenzione degli osservatori si sposta ora negli Stati Uniti.

L’ 8 novembre le elezioni di metà mandato (due anni dopo le presidenziali) rappresenteranno un importante test per Joe Biden e per il suo partito democratico.

La popolarità (come aggiornata settimanalmente dal sito FiveThirtyEight) del presidente in carica è precipitata nella seconda metà dell’anno scorso per poi stabilizzarsi (al 42,3%) negli ultimi mesi ma le probabilità di evitare un’“onda rossa” (il colore del partito repubblicano) la prossima settimana sembrano ormai ridotte al lumicino.

I sondaggi prevedono che dalle urne uscirà una camera ed un senato a maggioranza repubblicana e questo risultato potrebbe spianare la strada all’inossidabile (malgrado la ruggine che sembrava avere corroso definitivamente il suo primo mandato) Donald Trump nel lungo sprint che porterà alle presidenziali del 2024.

La situazione rappresenterebbe un significativo spostamento degli equilibri da un fragilissimo controllo democratico (che vede un senato in bilico e una camera dei Rappresentanti a suo favore) ad un Congresso che, con ambedue le camere a maggioranza repubblicana, costringerebbe il presidente a completare il suo mandato con grandi difficoltà e parzialmente depotenziato (come un’”anatra zoppa”)..

I settori del programma presidenziale che potrebbero subire i maggiori rallentamenti a causa del nuovo assetto del Congresso sono quelli cari a “The Donald”.

L’agenda repubblicana prevede una politica energetica che tornerà ad essere più morbida e disponibile nei confronti delle risorse nazionali (con la riapertura di parte delle miniere di carbone e l’autorizzazione a nuove ed estese trivellazioni petrolifere) e più critica verso l’Iran (dopo il riavvicinamento degli ultimi anni, con l’obiettivo di rimuovere le sanzioni e consentire un aumento del petrolio in circolazione) ed il Medio Oriente.

Strettamente legato al ritorno ai combustibili fossili “made in America” uno dei temi che subirà le maggiori conseguenza sarà quello del contenimento del cambiamento climatico. Il primo giorno della sua presidenza, Biden aveva immediatamente firmato l’adesione degli Stati Uniti all’Accordo di Parigi, raggiunto alla fine del 2015, per la riduzione delle emissioni di gas serra.

Lo stesso trattato era stato stracciato da Trump, che aveva così sfilato gli Stati Uniti, e si può facilmente immaginare che sarà nuovamente messo in discussione già nei prossimi mesi e, ancor più, da una sua eventuale rielezione nel 2024 e con questo il massiccio piano di investimenti previsto.

Anche la collaborazione degli USA con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per sconfiggere definitivamente la crisi provocata dalla pandemia, è destinata a scricchiolare sotto le martellate della nuova maggioranza.

A livello economico, poi, è nota l’ostilità del Grand Old Party nei confronti degli elevati livelli di indebitamento statale e questo porrebbe ulteriori ostacoli alla politica economica dell’amministrazione democratica (che mira a sostenere la crescita, anche attraverso la spesa pubblica, con un conseguente incremento del debito).

L’esito della tornata elettorale sarà quindi esaminato con grandissima attenzione ed a questa dovrà aggiungersi anche una buona dose di pazienza.

Si profila infatti la possibilità che, come avvenuto nel 2020, siano necessari alcuni giorni (o, nel caso peggiore, settimane) prima di conoscere i risultati: l’opzione, consentita per fronteggiare l’impossibilità di uscire per recarsi alle urne durante la fase acuta della pandemia, del voto a distanza, via posta, rimane tuttora in vigore e potrebbe ancora una volta rallentare la pubblicazione dei risultati definitivi.

L’incertezza non mancherebbe di innervosire i mercati finanziari e dare il la, è un motivetto vecchio ma sempre popolare, alle accuse di brogli e presunte illegalità.

Un presidente debole per il resto della sua permanenza alla Casa Bianca non è certamente quanto l’attuale contesto internazionale richiederebbe e possiamo solo augurarci che alla fine prevalga il proverbiale pragmatismo statunitense nella difesa degli interessi nazionali e dei principi condivisi con tutto il resto del mondo occidentale.

Nulla, comunque, è stato ancora scolpito nel marmo.

Il ritorno del populismo, del quale Trump è stato certamente un campione, è frutto, almeno in parte, delle difficili condizioni attuali e potrà rallentare la sua avanzata, prima delle prossime presidenziali statunitensi, tra due anni, se il ciclo economico sarà nel frattempo ritornato nella sua fase espansiva (dopo una ormai inevitabile, ma si spera breve, recessione).

Le cose volgerebbero definitivamente al bello se arrivasse anche la tanto auspicata cessazione delle ostilità che favorirebbe il graduale superamento degli squilibri che si sono creati, a partire dalla salita dei prezzi delle fonti energetiche e alla conseguente inflazione fuori controllo.

Ma non voglio spingermi troppo oltre: in fondo, è sempre pericoloso fare previsioni, specialmente se riguardano il futuro.

 

Una piccola storia (Goodbye Milano)

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Oggi vorrei raccontare una piccola storia torinese, milanese… italiana.

Nei giorni scorsi il giovane startupper astigiano Lorenzo Lodigiani ha deciso di spostare i suoi uffici e la sua abitazione da Milano a Torino.

Pare di riascoltare le parole del suo illustre concittadino, Paolo Conte (in “Via con me”): “Via, via / Vieni via di qui / Niente più ti lega a questi luoghi”.

Il ritorno in Piemonte, e con lui la sede della sua società innovativa Ncode, annunciato nel suo profilo Linkedin (“Me ne vado da Milano”) e poi riportato dall’edizione torinese del Corriere della Sera, ha sollevato un autentico vespaio.

Più che la notizia in sé, invero piuttosto modesta, la cosa che ritengo di gran lunga più interessante sono state infatti le reazioni da questa suscitate sui social networks.

Da un lato i torinesi, soddisfatti della conferma della bontà dell’offerta che la nostra città è in grado di presentare al mondo dell’innovazione (dalle Ogr al Talent Garden e all’I3P, l’incubatore del Politecnico) e del piccolo smacco arrecato al capoluogo ambrosiano.

Dall’altro le, un po’ (ed è un eufemismo) piccate, repliche degli amici del capoluogo lombardo: Milano è Milano e gli altri non sono… (il Marchese del Grillo docet).

Di fronte anche al “tradimento” patito dal fuoco amico del Corriere, le levate di scudo provenienti dal campo meneghino si sono fatte dunque sentire con grande fragore.

La distanza tra i due angoli padani del vecchio “triangolo industriale” è andata riducendosi costantemente nell’ultimo decennio grazie anche allo sviluppo delle vie di comunicazione (l’alta velocità ferroviaria li collega ormai in tre quarti d’ora) e la permeabilità tra i loro contesti urbani potrebbe consentire un sano riequilibrio delle risorse e delle potenzialità.

Verrebbe da dire che forse le cose stanno davvero cambiando se a dimostrarsi provinciali sono proprio “loro”, i milanesi, che non ne hanno, ad essere onesti, alcun motivo!

Questo schierarsi “l’un contro l’altro armato”, come scriveva il milanesissimo Alessandro Manzoni ne “Il cinque maggio”, mi pare davvero anacronistico, frutto di un’antica rivalità, esasperata dalla difficile situazione economica, e farebbe bene ad essere, con reciproca soddisfazione, superato.

E’ tempo che noi torinesi mettiamo una pietra sopra alle (da molti percepite come) spoliazioni subite (dalla moda alle grandi banche) o rischiate (il salone del Libro) e che voi, cari milanesi, non trasformiate la giusta consapevolezza della vostra forza economica e delle indubbie capacità imprenditoriali in una sterile ed autolesionistica arroganza.

Dovrebbe essere oggi molto più facile di quanto non sia mai stato in passato localizzare le proprie iniziative imprenditoriali, i propri magazzini, le proprie abitazioni, in funzione della convenienza e dell’offerta di servizi ed infrastrutture.

Sia insomma benvenuta una concorrenza costruttiva, stimolante e sinergica, che consenta all’asse ToMi (o MiTo… poco importa) di supportare sempre di più e meglio la crescita del nostro Paese (e Dio sa quanto ne abbiamo bisogno).

Verrà forse un giorno nel quale i campanili, invece che rappresentare il simbolo di un’Italia divisa da interessi contrastanti, saranno presi a riferimento per la loro capacità di segnare, tutti insieme, l’ora esatta, quella della rinascita e della ripartenza tanto attesa della nostra economia.

Questa sì che sarebbe una novità veramente benvenuta.

Per ora, da torinesi, accontentiamoci di queste piccole buone notizie: possiamo ambire a diventare un polo di attrazione per le tutte le aziende innovative (non solo quelle “milanesi”…).

Ma: “esageruma nen!”.  Saremmo davvero troppo, troppo provinciali.

 

Abbi pazienza

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Gli Stati Uniti sono forse già in recessione.  

La prassi vuole che ci vogliano due trimestri consecutivi negativi di crescita negativa del PIL e i dati sul secondo trimestre hanno confermato la decrescita registrata nel primo.

L’ufficialità tarderà ad arrivare in quanto dovrà essere deliberata da un gruppo di economisti nominati dal National Bureau of Economic Research  (un’organizzazione di ricerca privata americana senza scopo di lucro “impegnata a intraprendere e diffondere ricerche economiche imparziali tra i responsabili delle politiche pubbliche, i professionisti delle imprese e la comunità accademica”) chiamato  “Business Cycle Dating Committee”, “Comitato sulla datazione del ciclo economico”.

Suona un po’ strano che l’avvio di una recessione debba essere ratificato da un gruppo di saggi istituito all’uopo ma forse ci dice una volta di più quanto, in economia, questa parola sia esorcizzata e pronunciata il meno possibile, proprio come si fa, tra noi umani, con la morte.

Eppure le temutissime recessioni si ripetono, con una certa monotona regolarità, da molti secoli mentre, per fortuna, ben più rare e gravi sono le depressioni.

Nella Bibbia la Genesi racconta, forse per la prima volta nella storia, l’alternarsi di un ciclo economico positivo (sette anni di vacche grasse) e recessivo (i successivi sette anni di vacche magre).

Al faraone appaiono, in un sogno angoscioso, sette vacche grasse e di bello aspetto che vengono prima affiancate e poi divorate da altre sette vacche brutte e magre.

Il sovrano dell’Egitto chiede aiuto a Giuseppe, il penultimo dei dodici figli di Giacobbe, che, detenuto in prigione, aveva fama di interpretare i sogni dei carcerati.

Giuseppe, novello economista, raccomanda di conservare la produzione in eccesso per gli anni di carestia attraverso uno dei primi prelievi fiscali documentati dell’antichità (un quinto dei prodotti: il 20%): prevenire per curare e tenere sotto controllo la malattia e tornare, prima possibile, a correre come sono tornate a fare le borse ultimamente.

A prima vista sembra a dir poco curioso che, in concomitanza con la pubblicazione dei deludenti dati sul PIL statunitense, i mercati finanziari abbiano messo a segno, dopo sei mesi consecutivi di discesa, un importante (seppure parziale) recupero.

Sono pazzi questi mercati… O forse, semplicemente, l’eccessivo pessimismo di inizio luglio aveva posto le basi per un “rimbalzo”.

Ad aiutare è stata anche la dichiarazione del governatore della banca centrale statunitense che, dopo avere alzato ancora una volta i tassi ufficiali, la scorsa settimana ha lasciato aperto lo spiraglio ad una maggiore prudenza nel volere stroncare la pianta infestante dell’inflazione se l’economia dovesse peggiorare più velocemente del previsto.

Tanto è bastato per giustificare il ritorno di un moderato ottimismo.

Quanto avvenuto non è nient’altro che la riprova che gli eccessi, di pessimismo ma anche di ottimismo, sono spesso indicatori “contrarian” (meglio, cioè, fare il contrario che seguire supinamente le pulsioni della maggioranza).

Naturalmente nulla è più illusorio delle facili occasioni di guadagno e a conferma di ciò la capacità di previsione manifestata dall’andamento delle borse lascia spesso a desiderare: come ricordava il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson “il mercato azionario ha previsto nove delle ultime cinque recessioni”…

L’economia sta rallentando e le aziende più solide hanno subito sinora solo un modesto peggioramento delle loro prospettive; per potere davvero voltare pagina servirà ancora un più deciso ridimensionamento delle stime sugli utili di quest’anno che tenga conto del rallentamento della domanda prodotto dall’aumento dei prezzi (e presto, forse, anche della disoccupazione).

Solo allora l’inflazione perderà il suo carburante più importante, una domanda troppo elevata a fronte di un’offerta limitata dai colli di bottiglia creatisi con la pandemia ed ora in via di esaurimento, e i banchieri centrali potranno così placare la loro ira nei confronti dell’inflazione.

Anche da noi in Europa, con una guerra alle porte e una crescita dei prezzi frutto più dell’aumento delle materie prime (peraltro in forte correzione già da fine maggio) che della forza dei consumi, sarà la recessione (temperata dagli investimenti programmati per il Next Generation EU) la migliore medicina per rallentare l’indice dei prezzi.

Il futuro continua ad essere promettente, le innovazioni che hanno da sempre guidato la creazione di maggiore benessere non sono certo in rallentamento, ma occorrerà mantenere i nervi saldi di fronte ad un probabile ritorno della volatilità (gli alti e, soprattutto, i bassi di mercato).

Un solo imperativo dovrà tenere a mente il risparmiatore avveduto per non incorrere in scelte autolesionistiche: Abbi pazienza ***.

*** Per chi ne fosse privo o non la conoscesse può cercarne la via sullo stradario di Pistoia.

Il volo del calabrone

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Il rischio di vedere sgretolarsi il progetto di una comunità di Paesi cementati da ideali comuni ma che, anche dopo la nascita dell’euro, hanno continuato a procedere nella loro traiettoria di volo, non è mai venuto meno. 

Dieci anni fa la situazione sembrava essere arrivata in prossimità di una drammatica conclusione: il prezzo della fiducia, rappresentato dalla differenza di rendimento (lo “spread”) offerta dai titoli governativi degli stati “periferici” (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) arrivò a superare i 600 punti base (il 6%).

Il calabrone non può volare, questo ci dice la scienza: è troppo grosso e pesante rispetto alle dimensioni delle sue ali. Eppure vola.

Questa fu l’immagine con la quale l’allora governatore della BCE, Mario Draghi, esordiva in uno dei discorsi più importanti del suo mandato e, forse, di tutta la storia dell’euro.

L’euro non avrebbe dovuto essere in grado di volare (come il calabrone) ma dopo averlo fatto per alcuni anni qualcosa era cambiato nell’aria e stava per riportarlo violentemente a terra.

Era il momento migliore perché il calabrone si trasformasse in una vera ape e la metamorfosi sembrò cosa fatta quando Super Mario, nella seconda parte del suo intervento, indirizzò all’attentissimo uditorio un messaggio chiaro e inequivocabile:  “Nell’ambito del suo mandato la BCE è pronta a fare tutto il necessario (whatever it takes) per preservare l’euro. E, credetemi, questo sarà sufficiente”.

La reazione dei mercati fu spettacolare: i differenziali di interesse tornarono rapidamente ben al di sotto dei livelli di guardia ed il volo della nostra moneta riprese, senza più grandi turbolenze, sino ai nostri giorni quando il nuovo governatore, Christine Lagarde, si è trovata ad affrontare un altro momento molto complicato.

Pandemia, guerra e inflazione hanno messo a dura prova il nostro continente e l’indebitamento è cresciuto negli ultimi anni a dismisura per contenerne gli effetti negativi. A farne le spese potrebbe essere proprio l’Italia che, priva com’è di un governo e con un debito enorme da gestire, torna ad essere identificata come l’anello più debole della catena.

La “frammentazione” della trasmissione della politica monetaria, che potrebbe diventare più severa e restrittiva in alcuni Paesi, contro la volontà della BCE, a causa della reazione dei mercati finanziari alle notizie (negative), è un rischio che va scongiurato per evitare una nuova crisi esistenziale dell’Europa e della sua valuta.

L’annuncio da parte della governatrice di uno “Strumento di Protezione della Trasmissione” (Transmission Protection Instrument, TPI) non ha per ora avuto l’effetto magico sortito dieci anni fa dal suo predecessore.

Gli investitori non sembrano avere gradito la scarsa chiarezza sulle modalità di attivazione di questo scudo protettivo, troppo condizionato dalle valutazioni preliminari tese a determinare se il Paese oggetto dell’intervento (attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati, allo scopo di contenere l’aumento dei tassi e dello spread) ne rispetta i requisiti richiesti dalla BCE.

La condizionalità, infatti, non fa altro che alimentare l’incertezza già presente in abbondanza sui mercati finanziari.

L’Italia, secondo molti analisti, è da anni un mistero: riesce a volare anche quando tutto sembrerebbe impedirlo, proprio come i calabroni.

Il calabrone, o più precisamente il bombo, in realtà vola e continuerà a farlo: il segreto sta nella velocità delle sue ali, pari a 230 battiti al secondo, molto più veloci degli altri insetti.

In quanto a noi, beh, ci siamo forse spinti oltre le nostre capacità fisiche e potremo continuare a volare solo se sapremo trasformarci in un’ape, saggia ed operosa.

Quanto sta accadendo non è purtroppo solo un (brutto ma inconsistente e fugace) sogno di una notte di mezza estate.

Il tempo è una risorsa preziosissima che non ci possiamo più permettere di sprecare e, dopo il rimpallo di accuse e responsabilità che verosimilmente caratterizzerà la caldissima campagna elettorale, speriamo che questo sia davvero chiaro a tutti.

E di tornare a volare… oh oh.

House of the Draghi

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Continua la saga che ci sta regalando (si fa per dire…) colpi di scena a non finire in questo 2022. 

Durante una pandemia di dimensioni bibliche, esplosa da più di due anni e che continua a ribellarsi alle contromisure messe in atto, si è verificato, nella vicina Russia, il risveglio rabbioso di uno dei più temuti signori della guerra.

Vladimir, l’Impalatore delle libertà, Putin vuole riportare i confini del suo impero dove erano stati, col ferro e col fuoco, fissati dai suoi predecessori sovietici e il resto del mondo si trova ora impegnato in un’epica battaglia del bene contro il male.

Una volta messi in movimento gli eserciti le merci hanno cessato di circolare liberamente e una crisi energetica ci sta riportando ad un passato, gli anni Settanta, non abbastanza lontano per non ricordarne le gravi ripercussioni sociali ed economiche.

Un altro grande impero, quello cinese, rimane sornione in prudente osservazione, pronto a cogliere i frutti del nuovo disordine mondiale ed accrescendo, giorno dopo giorno, la sua sfera di influenza, specie nei Paesi emergenti (che, dopo la crisi sanitaria, devono affrontare quelle energetica ed alimentare).

Nel Regno Unito Boris Johnson rassegna alla regina le sue dimissioni da leader del Partito conservatore e da premier del governo: a tre anni di distanza dal trionfo elettorale la perdita di credibilità non lasciava altra scelta a BoJo che resterà in sella fino al compimento, questo autunno, della transizione ad un nuovo governo.

Nel frattempo a Nara, lontano dalle pianure ucraine dove infuria il conflitto, un importante condottiero, Shinzo Abe, ex capo del governo nipponico, cadeva sotto i colpi di un attentatore mentre si apprestava a compattare, in vista delle elezioni politiche, le truppe del partito liberal democratico (l’ LDP).

L’evento lascia sotto shock tutti i giapponesi che si ricompattano ed alle urne confermano in massa la leadership del partito al governo, l’LDP, e del suo primo ministro Fumio Kishida (rafforzato dalla scomparsa del suo principale avversario politico interno).

Il cordoglio mondiale lascia però ben presto spazio alle notizie di scottante attualità.

Da tutt’altra parte del globo, il capo di Stato più potente del mondo, Joe Biden, fa visita al cuore del regno del petrolio salutando il principe Mohammed Bin Salman (accusato di essere il mandante, nel 2018, dell’uccisione di un giornalista nel consolato saudita di Istanbul) con il “pugnetto” dell’amicizia e inaugura così la nuova stagione della “realpolitik” con il Paesi del Golfo. L’accoglienza ricevuta dal presidente statunitense non è stata troppo calorosa e solo nelle prossime settimane si potranno iniziare a valutare gli effetti, a cominciare dal prezzo del barile, di questo viaggio.

In Cina, intanto, il presidente Xi Jinping ricompare in pubblico dopo due settimane, giusto in tempo per assistere alla pubblicazione dei dati ufficiali sulla crescita-zero del PIL nel secondo trimestre: nella prima metà dell’anno il progresso si è ridotto ad un misero 2,5%, ben lontano dall’obiettivo dichiarato del 5,5%.

La riapertura delle città dell’impero di mezzo (chiuse per COVID negli scorsi mesi) dovrebbe aiutare Xi ad affrontare il Congresso Nazionale del Partito Comunista di novembre con il vento alle spalle ma senza dimenticare che, dietro di lui, c’è il primo ministro Li Keqiang che, con il suo atteggiamento critico, potrebbe in futuro diventare un pericoloso avversario.

Le terre emerse (per quanto? Il cambiamento climatico incombe…) sono in subbuglio e non hanno certamente aiutato le dimissioni, nella patria della grande bellezza e dei piccoli interessi di bottega, del governo presieduto da Mario Draghi.

Stimatissimo in Europa per la sua capacità di agire senza lasciarsi troppo trascinare dagli interessi di parte e, per lo stesso motivo, temuto come la criptonite dai partiti, l’ex presidente della BCE potrebbe lasciare a metà il lavoro che stava consentendo all’Italia di riguadagnare credito internazionale e, con questo, l’accesso ai copiosi fondi messi a disposizione dal Next Generation EU. Gentili lettori: benvenuti nella “House of the Draghi”!

Per chi se lo domandasse, rispondo che, purtroppo, non si tratta di una serie fantasy ma solo di un gigantesco reality. E per giunta di pessimo gusto.

La storia (si spera a lieto fine) dell’inflazione   

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Parlare di inflazione in questo periodo mi suscita il fortissimo sospetto di annoiare il lettore. Allora perché insistere?  

Forse perché potrebbe non essere sempre così evidente a tutti quanto spesso nella storia degli ultimi 150 anni (da quando la seconda rivoluzione industriale, estendendosi dall’Europa agli Stati Uniti, ha precipitato il mondo civilizzato nella “modernità”) il fenomeno si è manifestato e quali siano state le sue origini ed i suoi effetti sui mercati finanziari.

Quello che segue richiede una certa pazienza: ci saranno più numeri del solito ma spero che la loro logica risulterà evidente e non scoraggerà il lettore che, se vorrà approfondire, potrà consultare lo studio, pubblicato la settimana scorsa, “Baltussen, Guido and Swinkels, Laurens and van Vliet, Pim, Investing in Deflation, Inflation, and Stagflation Regimes (July 6, 2022)”, dal quale ho tratto le informazioni riportate.

Incominciamo con il sottolineare come dal 1875 ad oggi l’inflazione sia stata su livelli superiori al 4% per 46 anni su 147 (poco meno di un terzo del periodo in osservazione).

I periodi estremi, inflazionistici ma anche deflazionistici hanno tutti una matrice comune: sono dovuti ad eventi “straordinari” e coincidono perlopiù con le recessioni.

A turbare in normale andamento dei prezzi, dove questi non superano il 4%, nell’ultimo secolo e mezzo sono state infatti l’esplosione di crisi finanziarie seguite alla formazioni di “bolle”, seguite a periodi con tassi di interesse molto bassi (come quella del 1870, la “Lunga depressione”, che perdurò sino al 1890 caratterizzata dal boom dei mercati immobiliari europei estesa poi sino agli Stati Uniti) e, soprattutto, le guerre (il periodo tra il 1915 ed il 1945 è un drammatico susseguirsi di fiammate, in su e in giù, dei prezzi ma anche la crisi petrolifera degli anni settanta ha origine da un conflitto, quello arabo-israeliano).

La situazione che stiamo attraversando si trova al pericoloso crocevia di queste due situazioni: veniamo da un lungo periodo privo d’inflazione, con tassi bassissimi (addirittura negativi) che aveva provocato la salita delle valutazioni di azioni ed obbligazioni (seppure, probabilmente, non a livelli di “bolla”) e l’uno-due pandemia-guerra ne ha fatto da detonatore.

Per un risparmiatore può essere utile osservare come nella storia, a partire da diversi livelli di inflazione, si siano comportati i mercati finanziari.

Come si può osservare dalla tabella riportata di seguito, i rendimenti nominali degli investimenti sono stati, nel complesso, sempre positivi mentre quelli reali, depurati dell’inflazione, hanno avuto un andamento negativo quando il costo della vita superava il 4%.

A soffrire non sono solo i mercati azionari (più rischiosi) ma anche quelli obbligazionari e quando l’inflazione è elevata neanche un portafoglio globale bilanciato (60-40 azioni/obbligazioni) riesce a produrre un rendimento reale positivo.

Di questo abbiamo avuto una dolorosa conferma proprio quest’anno: i rendimenti in rosso “nominali” (tra il -5% ed il il -25%) sono stati peggiorati da un’erosione di ulteriori 3-4 punti percentuali prodotti dall’inflazione (pari al 7-8% su base annua).

Ecco riassunto, mi si perdonino le inevitabili semplificazioni di un fenomeno così complesso, il motivo che rende così poco gradita l’inflazione al tavolo degli investitori e dei risparmiatori.

Si può ben comprendere come le speranze di tutti siano per un rapido ritorno alla “normalità” (il 2% è stato più volte sottolineato essere un tasso d’inflazione “desiderabile” dai banchieri centrali).

Sarebbe forse però dire “quasi tutti”: la storia ci ha insegnato che una elevata inflazione accompagnata da tassi di interesse reali negativi (ovvero fermi ad un livello inferiore all’aumento dei prezzi al consumo) rappresenta una comoda via di uscita per i governi da un indebitamento altrimenti poco sostenibile.

Quando, come oggi, i tassi di interesse sono distanti dal proteggerci dal carovita la crescita del PIL (nominale) supera quella del costo medio del debito pubblico (ora di poco superiore al 2,4%, frutto delle emissioni, per lo più a tasso fisso, ancora in circolazione) riducendone così il suo peso percentuale.

Se, ad esempio, il debito pubblico italiano attuale, pari a circa il 150% del PIL, fosse aumentato dei soli interessi (il 3,6%, ovvero il 2,4% su una volta e mezza il PIL), senza creare nuova spesa pubblica, salirebbe a fine anno al 153,6% ma quest’anno il PIL dovrebbe crescere del 7,5%, il 2,6% “reale” (previsioni del MEF) più l’inflazione stimata intorno al 5% (dati ISTAT), e in questo modo il debito si troverebbe ridimensionato al “solo” 140% (153,6/107,6 X 100)!

E’ proprio questa la strada percorsa dopo i conflitti mondiali e durante la crisi petrolifera degli anni settanta perché, come ricordava due secoli e mezzo fa Georg Christoph Lichtenberg, “l’inflazione è come il peccato: ciascun governo la denuncia, però ciascun governo la pratica”.

Sarebbe però un peccato mortale affidarsi solo alla “più iniqua delle tasse” (Luigi Einaudi dixit) per riportare il debito pubblico sotto controllo.

Ma questa è, davvero, tutta un’altra storia (si spera, a lieto fine).

Chi va piano… 

IL PUNTASPILLI di Luca Martina 

Il cammino dei mercati azionari rimane molto complicato: la paura generata dall’inflazione sembra, negli ultimi tempi, avere lasciato il campo ai timori di una imminente recessione. 

L’incertezza rende sempre più arduo prevedere l’andamento delle borse nei prossimi mesi.

Il problema non è certo nuovo. In proposito viene spesso ricordato come il magnate della finanza e fondatore di una delle più importanti banche degli Stati Uniti, John Pierpont Morgan, richiesto di una previsione sul mercato azionario avesse risposto: “Posso dire con assoluta certezza che oscillerà”.

E dire che erano altri tempi ed un ristretto numero di signori della finanza poteva permettersi di influenzare, con le sue azioni, l’economia; lo stesso Morgan svolse un ruolo centrale nel contenere i danni provocati dal panico generatosi dopo il devastante terremoto di San Francisco, nel 1906.

J.P. era anche noto per il suo enorme naso rosso, provocato da una infezione di “Rosacea” (una malattia della pelle) e proprio per questo odiava essere fotografato e le immagini che lo ritraevano dovevano essere ritoccate ad arte, prima di essere pubblicate, per minimizzarne l’effetto.

Oggi sarebbe difficile controllare i mezzi di informazione in un modo così efficace anche se, a più di un secolo di distanza, la diffusione delle notizie è tale che non è sempre possibile verificarne la veridicità.

Non possiamo, purtroppo, dubitare dei dati che indicano sempre più chiaramente un forte rallentamento dell’economia statunitense.

Le notizie di un mercato del lavoro surriscaldato, dove un numero sempre maggiore di persone lasciavano volontariamente il loro posto per cercarne uno più remunerativo, sono ora soppiantate da quelle che evidenziano un fortissimo aumento dei disoccupati, inferiore solo a quello del 1974 (quando si era in piena crisi petrolifera).

A conferma di questo c’è anche la salita delle merci giacenti nei magazzini dei centri commerciali e dei rivenditori, che dovranno essere smaltite in un momento nel quale i consumatori saranno meno disposti a spendere (a causa dell’incertezza sul futuro) e che, proprio per questo, potrebbero tradursi in forti riduzioni dei prezzi (e quindi dell’inflazione).

Queste notizie stanno da qualche tempo riflettendosi anche sui prezzi delle materie prime che hanno incominciato a invertire la marcia nel timore che una recessione possa presto provocare il crollo della loro domanda. Solo le risorse energetiche (petrolio e gas naturale) si stanno dimostrando più resistenti, a causa del perdurare del conflitto in Ucraina.

Simili presagi li possiamo trarre, infine, anche dalle attese sull’inflazione riflesse dai mercati obbligazionari; dopo una forte salita dei tassi di interesse (e una discesa dei prezzi) ultimamente la corsa si è arrestata. Il peggior semestre dal 1788 dei titoli governativi statunitensi potrebbe ora essere seguito da un graduale recupero, favorito dalla forte frenata dell’economia (e dei prezzi al consumo).

La prima metà dell’anno si è quindi conclusa con oscuri presagi ed è passata in giudicato come la peggiore dal 1962, quando l’escalation della tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica portò, con la crisi missilistica di Cuba, il mondo vicino al conflitto nucleare e Wall Street al suo peggior crollo dopo quello del 1929.

Sessant’anni fa, dopo il superamento della tensione e la soluzione pacifica della crisi, il mercato azionario gradualmente recuperò, aiutato anche dalla tenuta degli utili aziendali (che non risentirono troppo degli eventi negativi).

Venendo ai giorni nostri, può essere interessante capire cosa si aspettano per il resto del 2022 gli analisti finanziari.

Dopo i forti cali del primo semestre, le stime sul livello di fine anno dell’indice americano da parte di tutte le case di investimento sono oggi uniformemente ottimistiche, con una prospettiva media di salita superiore al 15%.

Questo dato si confronta con un dato estremamente pessimista da parte degli investitori.

Ci si chiede chi avrà ragione: gli analisti, più vicini alle aziende e proprio per questo meno inclini a ridurre il loro giudizio su di esse, o gli investitori, che danno un maggior peso all’andamento dei mercati finanziari e a quello, quanto mai incerto, degli utili futuri.

Molto arduo indovinare chi avrà ragione: tutto dipenderà dall’andamento dell’economia che, continuando ad oscillare, si rifletterà direttamente sulle vendite e sui profitti delle aziende.

Giova, per terminare, tenere sempre a mente che nel mercato azionario si hanno solo due scelte: arricchirsi lentamente o impoverirsi rapidamente.

Chi va piano…