Carlo Donat-Cattin è scomparso 30 anni fa ma il suo magistero politico, culturale, sociale ed istituzionale continua ad essere moderno. Anzi, addirittura attuale.
E questo per una semplice ragione. E cioè, quando un leader politico è anche espressione di una cultura politica – e nel caso di Donat-Cattin dotato di un coraggio e di una determinazione non comuni – è quasi scontato che il suo magistero continui ad essere un punto di riferimento anche per le giovani generazioni.
Innanzitutto, per tutti coloro che continuano ad individuare nel cattolicesimo sociale e nel
cattolicesimo popolare una risposta concreta ai problemi, a volte drammatici, che si affacciano di
fronte a noi. E questo, tra gli altri, per almeno 3 motivi di fondo.
Il primo è la costante nel difendere e nel farsi carico, sempre, delle istanze e delle esigenze dei
ceti popolari. Non nella propaganda elettorale o negli slogan quotidiani, ma nella concreta azione
politica. Nel Parlamento come nella società civile, nel partito come nel dibattito culturale. E questo
è stato il leit motiv dell’azione di Donat-Cattin nel suo lungo e fecondo magistero politico ed
istituzionale. I ceti popolari non vanno mai blanditi o ipocritamente strumentalizzati per fini politici.
I problemi che pongono vanno affrontati e risolti e, su tutto, i ceti popolari – per dirla proprio con
Donat-Cattin – “vanno trasformati da ceti subalterni a classe dirigente del nostro paese. E lo
strumento per centrare questo obiettivo era il partito.
Ecco perchè, ed è la seconda considerazione, il partito resta lo “strumento democratico per
eccellenza” dei ceti popolari e di tutti coloro che si battono per una emancipazione politica,
sociale e culturale. E quindi il partito, che non sarà mai un fine dell’azione politica, non può e non
deve mai trasformarsi in un “banale partito di opinione” o in un brutale “partito del capo”. E le
battaglie, infinite e sempre trasparenti, condotte in prima persona e con la sua corrente della
sinistra sociale di Forze Nuove nella Democrazia Cristiana sono sempre e solo state ispirate ad
una concezione, sturziana e popolare, per un “partito di liberi e forti” che “crede nella
partecipazione, nel confronto e nella sua rappresentanza democratica e sociale”.
In ultimo, e per fermarsi a 3 sole osservazioni, la centralità dell’ispirazione cristiana come
fermento e stimolo continuo ed incessante nella sua concreta azione politica, sociale e culturale.
Una ispirazione cristiana lontana da qualsiasi tentazione clericale ed estranea a qualsivoglia
degenerazione confessionale. Ma, nella difesa strenua e precisa della laicità dell’azione politica, si
riscontrava anche una profonda e convinta adesione al magistero della Chiesa e, nello specifico,
alla dottrina sociale della Chiesa.
Il tutto, come ovvio, condito da un carattere e da una tenacia che lo hanno trasformato, da subito,
in un leader politico e di governo autorevole ed indispensabile. E questo perchè, come
ricordarono più volte i grandi leader Dc del passato, Carlo Donat-Cattin rappresentava un pezzo
di società definito e riconoscibile. Un pezzo di società di cui la DC, il suo partito, non poteva farne
a meno nel momento in cui doveva declinare, concretamente, la sua natura di partito popolare,
interclassista, di governo e di ispirazione cristiana. E quando Aldo Moro definiva Donat-cattin un
“democristiano autentico” o quando Forlani lo collocava tra gli “uomini migliori” prodotti dalla
storia della Dc, ciò avveniva perchè ogni suo gesto tradiva la sua appartenenza all’identità che
proprio Aldo Moro nel suo ultimo drammatico discorso faceva risalire agli elementi costitutivi del
pensiero politico di Donat-Cattin, cioè alla promozione simultanea tanto della dimensione
religiosa, quanto della dimensione popolare e liberal democratica.
Ma Donat-Cattin appariva un “democristiano autentico” non solo e non tanto perchè nei suoi
discorsi sapeva “tenere insieme” tutte queste cose, quanto perchè egli riusciva, con rara lucidità,
a farle convivere nelle sue scelte concrete ovunque fosse chiamato ad operare e ad intervenire. In
effetti, la preoccupazione costante di Donat-Cattin di porre la “questione sociale” al centro di ogni
indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e
salariale ponendosi dal punto di vista dei ceti subalterni. La sua vera ambizione era più grande:
egli voleva che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze
non avessero un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo.
Come si vede, quindi, l’opera e il magistero di Carlo Donat-Cattin rivelano una ricchezza
straordinaria che va studiata sotto ogni aspetto attraverso analisi severe e dettagliate e che vanno
riproposte a tutti coloro che ancora condividono i valori e le scelte che furono alla base della sua
inconfondibile testimonianza terrena.
Insomma, Donat-Cattin continua ad essere un faro che, grazie alla sua testimonianza politica ed
istituzionale, illumina la tradizione del cattolicesimo sociale e popolare nel nostro paese.
Giorgio Merlo