CULTURA- Pagina 168

Musei Reali “in maschera”: grande festa per i bambini… ma non solo

Le iniziative per un carnevale in perfetto stile sabaudo. Da sabato 22 a martedì 25 febbraio

In piazzetta Reale, a Torino, il Carnevale 2020 si festeggerà in piena e libera allegria con un occhio attento a rivivere la grande storia del passato.

Le iniziative proposte dal Polo dei Musei Reali saranno rivolte in particolare, e com’è giusto, ai bambini. Ma non solo. Festa per tutti. Mascherati o non. Si inizia sabato 22, con “Un pomeriggio da romano”, per chiudere i giochi nella giornata di martedì 25 febbraio con “Guerrieri in maschera”. Due gli appuntamenti di domenica 23 e martedì 25 febbraio. Ma ecco, nello specifico, il programma.

Sabato 22 febbraio, Museo di Antichità, ore 17: “Un pomeriggio da romano”, visita per i bambini a partire dai cinque anni

Tra le statue del Museo di Antichità c’è aria di festa: a Carnevale, rivive il clamore dei Saturnali, i giorni dedicati al dio Saturno. Questo è il momento migliore per trasformarsi in antichi romani e immergersi nella vita quotidiana di 2000 anni fa! I bambini potranno vestirsi a casa o farsi aiutare dall’archeologo in museo, portando con sé lenzuoli, tessuti colorati, nastro e spille. Prenotazione obbligatoria al numero 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.

Domenica 23 febbraio, Palazzo Reale e Armeria, ore 16: “Semel in anno…carnevale a corte”, visita tematica per tutti.

Percorrendo le sale auliche di Palazzo Reale e dell’Armeria, si scoprirà come Casa Savoia festeggiava il periodo più anticonvenzionale dell’anno, quello del Carnevale. Tra balli di corte, mascherate, spettacoli teatrali e tornei cavallereschi, sarà un’occasione di conoscenza del divertimento a Corte. Prenotazione consigliata al numero 011/19560449; costo Euro 5 a persona più biglietto d’ingresso.

Domenica 23 e martedì 25 febbraio, Sala Chiablese, ore 15,30: “Colori! Colori! Colori!”, visita laboratorio per bambini dai 6 ai 10 anni alla Mostra di Konrad Mägi “La luce del Nord”.

Il carnevale è una delle feste più colorate dell’anno. Quale occasione migliore per provare ad osservare e conoscere meglio i colori? Partendo dalle opere del pittore Konrad Mägi si proverà a capire insieme quali sono i colori primari e secondari, cosa succede mescolandoli insieme o avvicinandoli l’uno all’altro, quali colori sono amici tra di loro e come usarli per creare effetti brillanti o al contrario più tenui, proprio come veri artisti. Una volta svelati tutti i segreti del colore i bambini potranno utilizzare quanto imparato per realizzare insieme una allegra maschera di carnevale artistica. Prenotazione consigliata allo 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.

Martedì 25 febbraio, Armeria Reale, ore 17: “Guerrieri in maschera”, visita laboratorio per bambini a partire dai 5 anni.

Che ci fanno sugli elmi e le armature degli antichi cavalieri tutti quei volti grotteschi, musi feroci, sguardi truci e becchi di rapaci? Un tempo spaventavano i nemici, oggi stupiscono e divertono. I piccoli visitatori li scopriranno nell’Armeria Reale e poi, imitando gli armaioli del passato, potranno scatenare la fantasia per creare una maschera da battaglia. Prenotazione obbligatoria allo 011/19560449; costo Euro 5 a bambino, ingresso gratuito per un accompagnatore.

g. m.

 

Nelle foto
– “Carnevale”, Foto Musei Reali Torino
– Musei Reali. Foto Musei Reali Torino
– Konrad Magi: “La luce del Nord”, Foto Musei Reali Torino
– “Un carnevale archeologico”, Foto Musei Reali Torino

Le Residenze sono (e resteranno) sabaude. La Regione e Curto lo hanno deciso

Il prof. Guido Curto, il cui pensiero era stato  sicuramente travisato da un’intervista non voluta  e non sollecitata, mi ha scritto una garbata  ed esaustiva lettera in cui mi annuncia che l’aggettivo Sabaude non verrà tolto dal logo  Residenze sabaude  riconosciute dall’ Unesco

Sicuramente non era intenzione di Curto scalpellare via il nome dei Savoia da una storia che  appartiene al Piemonte e che nessuno può disconoscere. Curto è  infatti uno studioso che perpetua la tradizione di suo padre,  nobilmente espressa al Museo Egizio, anch’esso voluto dai Savoia, e come tale si è comportato anche questa volta.
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Gianni Oliva e Lino Malara avevano aggiunto il loro autorevole dissenso alla cancellazione che noi, per primi, su questo giornale, avevamo annunciato, forse con  un eccesso di asprezza polemica  di cui chiediamo scusa. Toccare la nostra storia, per noi, resta una cosa molto grave e la sola idea di sminuirla suscita in noi un’ irritazione forse troppo forte, dopo anni di studiati silenzi e di meditati oblii che abbiamo subito, ma non abbiamo mai accettato ne’ tanto meno condiviso.
Sembra incredibile constatare come le diverse organizzazioni monarchiche si siano rivelate, ancora una volta, inadeguate e siano state mute quasi  come dei pesci in decomposizione. Loro si trastullano con il bicentenario di Vittorio Emanuele II, facendosi la guerra a colpi di messe e corone di alloro.
Chi ha sollevato il problema e ha difeso la storia sabauda  non sono state loro, ma questo giornale  che  ancora una volta, si è rivelato una voce libera ed estranea a pregiudizi di parte. Va ringraziato il prof. Curto per averci prontamente risposto e per aver rimesso in discussione se’ stesso. Questo è il modo di comportarsi dei veri studiosi, eredi del dubbio e non delle inossidabili certezze ,come ci insegnò suo tempo  Bobbio.
Pier Franco Quaglieni
Scrivere a quaglieni@gmail.com
(Foto M. Bursuc)

L’Oriente pittorico di Arnold Henry Savage Landor

“Dipingere l’Asia dal vero”. Fino al 14 giugno in mostra al MAO / Famoso in vita. Inspiegabilmente ed ingiustamente dimenticato dopo la morte

Strano destino (non di rado per gli artisti accade esattamente il contrario) quello occorso ad Arnold Henry Savage Landor (Firenze, 1865 – 1924), ricordato con la suggestiva mostra monografica “Dipingere l’Asia dal vero”, curata da Francesco Morena e ospitata negli spazi del MAO- Museo d’Arte Orientale di via San Domenico 11 a Torino, fino al 14 giugno prossimo.

Figura perfino esageratamente poliedrica, ma estremamente interessante. Artista, antropologo, esploratore, avventuriero, scrittore, fotografo, giornalista e pur anche inventore: Savage Landor fu tutto questo. Troppo, forse, per poterne ritagliare un profilo ben definito e chiaro da trasmettere con successo ai posteri. Nato a Firenze, in un ambiente colto e raffinato, da padre inglese e madre italiana (nonno, lo scrittore Walter Savage Landor, da cui probabilmente ereditò il focoso temperamento rivoluzionario che portò l’avo paterno a partecipare alla guerra d’indipendenza spagnola contro Napoleone Bonaparte), ancora adolescente, s’invaghì della pittura e segui, in particolare, gli insegnamenti del celebre Stefano Ussi, docente all’Accademia di Belle Arti di Firenze e allora fra i maggiori esponenti della pittura orientalista in Italia. Ma alla passione per l’arte s’affiancò ben presto la smania del viaggio e dell’esplorazione, ovunque e comunque, alimentata forse dall’intensa attrazione per i romanzi di Jules Verne. Ancora giovanissimo – per bagaglio, scrisse lui stesso, solo pennelli, colori, taccuini vari e una pistola – gira il mondo in lungo e in largo, visitando prima alcuni paesi dell’Africa settentrionale e dell’America, per poi muoversi verso l’Asia: Cina, Giappone (nell’isola di Hokkaido, fu il primo occidentale ad entrare in contatto con il popolo allora del tutto sconosciuto degli Ainu), Corea, Tibet e Nepal. Ovunque dipinge. Annota. Documenta. Con uno sguardo da eccentrico “colonialista” come lo definisce il curatore della mostra. In quei luoghi misteriosi e, ai più, privi di connotazioni geografiche e culturali, dipinge con buona tecnica centinaia di opere “dal vero” in uno stile rapido, immediato e piacevolmente materico d’impronta decisamente impressionistico-macchiaiola. Le sue avventure, non poche e non da poco (in Tibet fu catturato e torturato a lungo, in Brasile si trovò faccia a faccia con un boa constrictor e sopravvisse a 16 giorni di assoluto digiuno) gli fornirono anche materiale di prima mano per i suoi 11 libri, tutti di gran successo e illustrati con le riproduzioni dei quadri dipinti in viaggio o con le fotografie da lui stesso scattate.   L’esposizione al MAO (che segue quella realizzata sei anni fa alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze) raduna il corpus più consistente e a noi noto della sua produzione artistica: circa 130 dipinti ad olio, 10 acquerelli e 5 disegni. Il tutto proveniente da più collezioni private e capace di rendere la meritata gloria a un pittore ancora tutto da rivalutare dopo decenni d’immeritato oblio, a un artista decisamente “moderno” con i suoi soggetti “en plein air”, ben lontani “dallo stile minuziosamente classico della pittura di genere orientalista allora in voga”. Dalla realistica “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle” alle poetiche “Figure sotto i ciliegi in fiore” fino alla coreografica “Danza delle donne Ainu”, ma anche nei soggetti paesistici come lo “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, appare del tutto evidente la singolarità documentaristica di una pittura capace di “fotografare” con immediatezza “luoghi e persone che di lì a qualche decennio sarebbero completamente cambiati per effetto dell’incipiente globalizzazione”.   Oltre ai dipinti realizzati in Asia, in mostra sono presenti anche alcune opere eseguite da Savage Landor durante l’adolescenza a Firenze, nel corso dei suoi viaggi in Europa e nella sua prima esperienza oltre confine, in Egitto, oltreché tutti i volumi da lui stesso pubblicati. Per l’occasione è stato anche realizzato un catalogo bilingue italiano/inglese, edito da SAGEP, con saggi di Francesco Morena e Silvestra Bietoletti.

Gianni Milani

“Dipingere l’Asia dal vero”

MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

Fino al 14 giugno

Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lun. chiuso

 

Nelle foto

– “La danza delle donne Ainu”, olio su tavola, 1890
– “Ragazza Ainu con bambino sulle spalle”, olio su tavola, 1890
– “La Piattaforma delle Nuvole a Juyongguan”, olio su tavola, 1891
– “Figure sotto i ciliegi in fiore”, olio su tavola, 1889 – ’90
– “Scorcio con il portale principale del Palazzo Reale a Seoul”, olio su tavola, 1891

Nuova veste per il camino di Bernardino Quadri

L’intervento del gruppo Palazzetti. Nel Salone delle Guardie Svizzere a Palazzo Reale

Si erano già incontrati, poco più di una decina di anni fa, di fronte al restauro di quattro piccoli camini all’interno di Palazzo Ducale a Venezia e la perfezione del risultato li aveva spinti alla promessa di una nuova collaborazione: Fondaco Italia, che ama collegare le realtà museali al mondo dell’imprenditoria, e il gruppo Palazzetti di Pordenone, un lungo quanto efficiente percorso nella produzione di stufe e camini.

La nuova, recente collaborazione – unita all’apporto dei Musei Reali torinesi -, “una scommessa cui non si poteva dire di no”, è il restauro del Camino della Sala delle Guardie Svizzere, punto d’ingresso obbligatorio di Palazzo Reale, accesso per secoli di re e ambasciatori, possibile ancor oggi ad immaginarsi come inaccessibile corpo di guardia, il vociare dei soldati, i giacigli agli angoli del grande spazio, il fuoco costantemente acceso. Dal 1661, anno in cui l’architetto Bernardino Quadri (del Canton Ticino, attivo anche nella Basilica di San Pietro a fianco di Bernini e Borromini, le cronache ci dicono che gli screzi continui con quest’ultimo lo avrebbero spinto a raggiungere la nuova corte) lo posizionò, il camino campeggia sulla lunga parete a fronte della importante tela di Jacopo Palma il Giovane, lì a rappresentare la battaglia di San Quintino come il successivo trasporto della capitale sabauda a Torino, posizionato a ridosso dell’alta fascia di marmo verde ottocentesca dovuta a Palagio Palagi (1843) e sottostante le barocche Glorie Sassoni di due secoli prima.

“Restituito alla sua dignità originaria”, ha sottolineato la direttrice dei Musei Enrica Pagella, presentandolo alla stampa nei giorni scorsi e offrendolo al pubblico che lo incrocerà nel percorso attraverso le sale del palazzo. Una dignità che, finalmente, torna a parlarci del nostro territorio e della sua ricchezza, rimettendo a vista, dopo un restauro durato tre mesi e per cui sono occorse 774 ore di lavoro, la bellezza dei marmi usati (di “musicalità di colori” parla ancora Pagella), taluni oggi scomparsi. Dieci persone all’opera, sotto la guida di Annarosa Nicola, le radici ad Aramengo, la competenza e la passione riunite in una sola famiglia ed in un gruppo vincente, un accanito lavoro di pulizia, una webcam a riprendere giorno dopo giorno le tante tappe dei risultati raggiunti, la salvaguardia di questo piccolo gioiello ma imponente e prezioso, l’alternarsi di marmi policromi e di pietre dure, una struttura nobilitata da colonne binate, dai putti di Quadri (forse un riciclo di epoca più antica) e dai busti antichi di imperatori romani (Giulio Cesare al centro, di sapore ellenistico quello a destra di chi guarda), in marmo bianco di Carrara, l’eleganza e il gusto modernamente legati alla corte da Carlo Emanuele II, sovrano mecenate pronto a riunire a Torino quelle opere antiche che andava acquistando durante i suoi viaggi a Roma.

Molti gli interventi eseguiti, anche a cancellare d’obbligo quelli maldestri eseguiti in passato e necessari di una completa revisione. Si è quindi proceduto alla verifica e in taluni casi al preconsolidamento degli elementi lapidei, al riposizionamento e fissaggio delle parti distaccate e instabili, alla cancellazione generale di quanto potesse essere polvere ossidazione e invecchiamento, alla pulitura dei depositi superficiali, vale a dire stuccature vecchie, strati di mastice e cera debordanti, colature corrosive, sporcizia penetrata nelle imperfezioni della pietra, alla rimozione delle ridipinture localizzate ad imitazione del marmo in corrispondenza di rifacimenti e alla reintegrazione pittorica ed all’adeguamento cromatico di eventuali aloni residui. Un lavoro che offre nuovamente al pubblico un piccolo capolavoro, nella sua piena ricercatezza di elementi. Durante i lavori, è stata pure riscoperta e restaurata la piastra all’interno del camino: si può nuovamente rileggere il nome dei fabbricatori, sono i fratelli Colla, torinesi, la data è quella del 1884.

Elio Rabbione

ARTiglieria, il Con-temporary Art Center 

Il nuovo incubatore di progetti culturali per la valorizzazione dello spazio dismesso dell’ex Accademia Artiglieria di Torino

Si ispira a Les Grand Voisins di Parigi e a La Casa Encendida di Madrid il progetto “ARTiglieria – Con-temporary Art Center” nell’ex Accademia Artiglieria di Torino: un incubatore di arte e creatività emergente che aspira a diventare un punto di riferimento nazionale e internazionale, al pari di progetti analoghi riconosciuti nel mondo.

Dopo la sottoscrizione di una convenzione con la Città di Torino, lo spazio è stato dato in concessione fino al 31.12.2020 a PRS Srl Impresa Sociale ente no profit, da CDP Investimenti SGR, società del Gruppo Cassa depositi e prestiti. Si tratta di una delle prime esperienze in Italia di affidamento temporaneo di uno spazio pubblico per la riqualificazione del patrimonio immobiliare inutilizzato.

Nata nel 1679 come “Reale Accademia”, scuola di formazione per nobili e giovani gentiluomini alla vita di corte, l’Accademia Artiglieria fu in seguito trasformata in accademia militare e sede dell’esercito, sino ad essere abbandonata al degrado. Dopo l’apertura per la prima volta al pubblico in occasione di Paratissima lo scorso mese di novembre, l’ex Accademia Artiglieria è stata ribattezzata “ARTiglieria – Con-temporary Art Center” ed è pronta a condividere i propri spazi con la cittadinanza. L’obiettivo è incubare e rendere autonomi e sostenibili progetti culturali di realtà pubbliche e private che vorranno partecipare alla “chiamata alle armi” di PRS. Al piano terra del complesso saranno concentrate le attività ordinarie di PRS, mentre i piani superiori saranno utilizzati in occasione di appuntamenti ed eventi temporanei o per ospitare gli studi degli artisti “in residenza”, ovvero artisti stranieri e/o ospiti che necessitano di un laboratorio per realizzare o produrre la propria opera (non è però prevista attività ricettiva notturna all’interno del complesso). Lo spazio delle ex scuderie ospiterà mostre temporanee di arte e design. L’ex mensa ufficiali una zona lounge per presentazioni, incontri, reading e live performance.

Si prevedono attività laboratoriali per gli Istituti scolastici la mattina dal lunedì al venerdì e per le famiglie nei pomeriggi e nel weekend; attività formative come il corso N.I.C.E., alla settima edizione, destinato ai giovani curatori, ma anche incontri di formazione e workshop destinati ai professionisti, agli artisti e agli appassionati di arte e design. Il primo appuntamento è in programma nel mese di marzo: Paratissima Talents, il progetto espositivo curato dalla direzione artistica di Paratissima che raccoglie le migliori proposte presentate alla 15esima edizione della fiera internazionale degli artisti indipendenti e l’apertura dell’ArtShop, lo spazio dove vedere e acquistare a prezzi accessibili opere d’arte selezionate e realizzate in edizioni a tiratura limitata. A seguire, a maggio, Paratissima PhotoView, in concomitanza con Fo.To Fotografi a Torino.

Lo spazio dell’ex Accademia Artiglieria sarà gestito e presidiato da PRS – Paratissima Produzioni e Servizi Srl, l’impresa sociale nata nell’ottobre del 2017 con il compito di gestire e sviluppare le attività di Paratissima, subentrando nella gestione a YLDA Associazione Culturale no profit. La compagine societaria di PRS vede la partecipazione dei soci storici di Paratissima e di un pool di investitori torinesi che hanno creduto nell’ambizioso progetto di crescita e diffusione del marchio Paratissima sul territorio nazionale e internazionale. Fondamentale anche il percorso di accelerazione e il grant ricevuto da Socialfare, il centro torinese per l’innovazione sociale, nel novembre 2017, che hanno permesso al team di PRS di focalizzare l’attenzione sul percorso di crescita e sviluppo dei diversi ambiti di progetto dal 2018 al 2020.

L’operazione di concessione temporanea di un bene così prestigioso situato nel cuore della città a favore di una realtà radicata ed affermata sul territorio che opera a livello nazionale da 15 anni nel campo dell’arte contemporanea e creatività emergente, rappresenta un’opportunità di costruzione e sperimentazione di un modello gestionale che può essere scalato e replicato su tutto il territorio nazionale. PRS, attraverso la sua attività, funge sia da presidio per la conservazione del bene e sia da soggetto in grado di valorizzare il complesso nell’ottica di una futura destinazione d’uso definitiva.

Il silenzio dei Corti, l’eredità di Nino Chiovini

Il 14 e 15 febbraio scorsi Verbania ha ospitato “Il Silenzio dei Corti”, iniziativa ispirata alla memoria di Nino Chiovini promossa dalla municipalità verbanese e dal Parco Nazionale Val Grande con Casa della Resistenza, Anpi e Tararà Edizioni

Nino Chiovini (Biganzolo, 1923 – Verbania, maggio 1991) è stato un partigiano, scrittore e storico italiano, studioso della Resistenza e della cultura contadina di montagna delle valli tra il Verbano, l’Ossola e la Val Vigezzo. Dopo l’azione teatrale del Teatrino al Forno del Pane “Giorgio Budidan” ispirata al libro di Chiovini su Cleonice Tomassetti, unica donna tra i 42 martiri fucilati a Fondotoce nel giugno del ’44, a Villa Giulia si è svolto il convegno sulla figura di Chiovini e sulla prospettiva di un parco letterario a lui intitolato, imperniato sul binomio natura-cultura. Al convegno sono intervenuti Giovanni Antonio Cerutti, direttore dell’Istituo stroicod ella Resistenza di Novara e Vco (“Capire dove e come sbagliammo. La lunga riflessione del partigiano Chiovini sull’eredità della Resistenza”), i giornalisti e scrittori Erminio Ferrari (“I fogli della semina”), Giuseppe Mendicino (“I sentieri della libertà di Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli e Nino Chiovini”), Marco Travaglini ( “Sostenibilità delle aree alpine, dalle intuizioni di Nino Chiovini alle esperienze odierne”) e, infine, il direttore del Parco nazionale della Val Grande Tullio Bagnati (“Il silenzio dei Corti e l’esercizio della memoria: nuovi profili della Val Grande”).

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Riportiamo qui una sintesi dell’intervento di Marco Travaglini, collaboratore della nostra testata

E’ praticamente impossibile inquadrare la personalità di Nino Chiovini in una sola definizione. Le sue passioni e l’impegno di narratore, storico, antropologo, appassionato di sociologia rappresentano un tutt’uno.E il collante di tutto, capace di generare un fermento emotivo, era la sua forte e determinata etica civile, la passione per la storia, l’abilità nello scrivere, la capacità di intuire e comprendere i fenomeni sociali, e – non certamente secondario –   un’ideale politico tendente al riscatto degli ultimi, degli umili. La traccia più evidente si trova nei suoi libri dove le fatiche contadine entrano nella narrazione delle storie, rendendo omaggio e offrendo risarcimento a un mondo ormai scomparso. Il ritmo dei cambiamenti ha fatto sprofondare luoghi e persone in un niente, in un oblio al quale la caparbia determinazione di ricercatori come Nino Chiovini hanno saputo opporre l’ostinata volontà della memoria, la forza della narrazione, il racconto del tempo vissuto. Gli stessi paesaggi montani, aspri e carichi di memorie e di senso, racchiudono come una cornice le esili vite dei protagonisti. Nei suoi libri sulla civiltà rurale montana – “Cronache di terra lepontina”, “A piedi nudi”, “Mal di Valgrande” e “Le ceneri della fatica”, uscito postumo -, così come nei volumi dedicati alla lotta partigiana – “I giorni della semina”, “Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte”e i due volumi pubblicati postumi “Fuori legge??” e “Piccola storia partigiana” – il suo impegno di ricerca emerge con grande forza e nitidezza. In questo importante lavoro culturale che ci ha lasciato in eredità il passato ritorna attraverso i volti e le parole di quelle persone, uomini e donne. Un mondo arcaico, retto da pratiche e valori ancestrali, per certi versi poco moderni, secondo i canoni odierni, ma quanto mai importanti, necessari, utili per l’oggi e il domani.

 

Nelle sue opere Nino rende giustizia agli abitanti del territorio, al lavoro duro, alla fatica che schianta, al rispetto del tempo, del ritmo delle stagioni e della terra, all’impegno spesso obbligato che genera sudore mischiato a un grumo di rabbie e speranze, di tradizioni e fame, di poche gioie e tanti, troppi dolori. Mi è venuta in mente un’intervista a Francesco Guccini dove, ricordando quel prozio emigrato oltreoceano al quale dedicò la canzone “Amerigo”, raccontava come – ritornato in Appennino – al saluto della gente rispondeva con un “Buongiorno e vita lesta, mangiar poco e lavorar da bestia”.Quello indagato e descritto da Chiovini è un mondo che ci insegna ad essere umili, a riconoscere che una parte importante della cultura accumulata da generazioni di montanari risiede in quei luoghi aspri, spesso percorsi su sentieri ripidi sotto il peso di una gerla. Posti dove le frontiere dei crinali sono stati più un punto d’incontro che una linea di demarcazione e separazione. Se c’è una eredità che Nino Chiovini ci ha lasciato credo si possa individuare nell’assillo di una riorganizzazione della cultura in grado di aiutare una sintesi su storia, radici, saperi. Si riconosce lì il messaggio di chi, pur tra speranze e illusioni, ha sempre pensato ad una società nuova e più giusta. Un messaggio che sottende la volontà di ricerca, di un approfondimento più che mai necessari per salvare noi e il paese in questo tempo segnato da superficialità, dalla riduzione e impoverimento del linguaggio. E’ la rivalutazione di quella parte del paese che non sta sotto i riflettori e che rappresenta buona parte della montagna più povera, dell’area prealpina, dell’entroterra appenninico e pedemontano, dei piccoli borghi abbandonati,ai margini del commercio, dell’industria, della cultura. Negli incontri con Nino Chiovini e nella lettura dei suoi libri avvertivo l’urgenza, il bisogno di testimoniare e in qualche modo risarcire la memoria degli ultimi, narrando la civiltà contadina, le radici e le origini. Un pensiero antico e al tempo stesso moderno che, in parallelo, ricordava le ricerche di Nuto Revelli o – più tardi – quelle di Marco Aime sui pendii ruvidi della Val Grana o tra i pastori transumanti di Roaschia, in Valle Gesso. La difesa e il riscatto quantomeno culturale del “mondo dei vinti” fa emergere un’attenzione, una forza nella denuncia dell’abbandono della montagna, dei coltivi, degli alpeggi, delle borgate che ha portato ad un depauperamento dell’ambiente, alla perdita di capacità, conoscenze, competenze. Quando l’antico edificio agromontano si sgretolò, iniziò l’abbandono della montagna. Raccontando il disboscamento della Val Grande con l’Ibai, la cura del bestiame, i lavori precari nel fondovalle nello “spartano” secondo dopoguerra, Chiovini raccolse ,tra confessioni e reticenze, la testimonianza del collorese Settimio Pella sul tema delle “disobbedienze” – il   bracconaggio, la pesca di frodo, il contrabbando con le bricolle –chiedendosi quale processo si dovesse fare a questi uomini che, al netto di queste “disobbedienze”, furono “corretti servitori di uno stato diretto da un ceto dirigente che tanto non meritava”. Siamo nel 1983 e così scrive Chiovini: “Gente che non evade il fiscoche non spreca, che non inquina, che produce fino alla fine dei suoi giorni, che non intrallazza con il potere, che non impoverisce l’azienda Italia; gente che, chiamata alle armi, mandata su ogni fronte, pagò i prezzi che conosciamo; gente che quando fu il momento ospitò i partigiani e fu dalla loro parte più che in altri luoghi, mentre anche i suoi giovani si facevano combattenti per la libertà; in cambio, dal nemico, ebbe devastazioni, spoliazioni, morte; dallo Stato nato dopo la Resistenza, che ancora oggi pretende e in parte ottiene il loro consenso politico, quasi nulla”. E si domandava ( e chiedeva) quale processo potesse essere fatto a queste persone e se non fosse il caso di conceder loro un’amnistia precisando però che non si trattava di “quella che periodicamente premia evasori, speculatori, trafugatori di pubblico denaro e via sottraendo… Un’amnistia culturale, di costume: quella che passando attraverso il territorio, possa giungere ai suoi antichi utenti”.

 

 Aggiungeva: “Forse il Settimio e la sua gente comprenderebbe il valore e il senso di quell’amnistia, di quel messaggio: giungerebbero, forse, alla conclusione che il rapporto stabilito da sempre con l’ambiente, non tollera più antiche devianze, remote e recenti contraddizioni. Quell’amnistia, poetico e politico ripianamento di colpe nei riguardi dell’ambiente, se sorretta dall’assenso delle giovani generazioni, dei ragazzi che oggi frequentano le sopravvissute scuole di quei villaggi – che dovrebbero fungere anche da sedi di rifondazione della cultura montana e da fonte della sua memoria – potrebbe diventare più efficace dei guardacaccia e dei finanzieri. Forse, un esperimento da ripetere in settori molto più importanti e decisivi del pianeta”. Una grande lezione morale. La stessa lezione che si trova nella conclusione di “A piedi nudi” quando scrive : “ Quello scomparso era un mondo imperfetto e crudele in cui tuttavia erano ravvisabili e riconosciuti vivi gli obiettivi, il senso della vita, il suo fine:l’obiettivo della sopravvivenza e quello della continuità della stirpe; il senso della vita sorretto dalla memoria della specie; il fine del bene operare che faceva perno sulla speranza. Quel mondo scomparso rappresentava la riconosciuta e accettata civiltà della fatica quotidiana, del lavoro realizzato da mani con le palme di cuoio; la civiltà dei sentieri e delle mulattiere selciate e lastricate, dei geometrici terrazzamenti e, in fondo, dell’ottimismo collettivo, simboleggiato dal rituale saluto di congedo – alégher, allegri – che si scambiavano i suoi abitanti”. Qui si coglie, nel saluto, l’importanza della lingua e del linguaggio. Un caro amico mi ha fatto rilevare come la lingua si fondi sul significante, sull’immagine acustica della parola che la distingue dal significato. La nostra cultura ha dato la preminenza assoluta al significato mentre nel dialetto è il significante che pesa e conta. Alégher non è traducibile con un “ciao”. Il significato è più o meno lo stesso ma il saluto è più denso e più ricco, parla e suona diversamente perché è la lingua il significante. La parola risuona diversamente e ha effetti differenti su di noi e questa è l’identità della lingua. Tutto ciò racchiude quell’insieme che è la storia delle ceneri della fatica, di quella civiltà alpina sulla quale calò, come scrisse, “ un sipario di fogliame”.

Residenze reali non più sabaude? Manca il senso della storia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni / Il prof. Guido Curto è un  vip rampante torinese di grande successo, figlio dell’egittologo Silvio, che da vice preside di Giovanni Ramella al liceo d’Azeglio diventò direttore dell’Accademia Albertina, per poi approdare a palazzo Madama e infine alla Reggia di Venaria

Una carriera sfolgorante e sicuramente  molto meritata  per un  iniziale, modesto  professore liceale di storia dell’arte.

Adesso  il prof. Curto vuole cancellare dal circuito delle residenze sabaude l’aggettivo sabaude. La notizia mi fa un po’ trasalire e mi domando a che titolo il prof. Curto può decidere  -in una intervista di giornale- di annunciare la cancellazione  del nome dei Savoia dalle residenze che appartennero alla Dinastia millenaria che si fonde con i destini stessi  del Piemonte e dell’Italia. Spero che ci sia  stato un equivoco e che la cosa si chiarisca, andando oltre le polemiche già scatenate  su Facebook. Infatti apparirebbe  strano, se non persino ridicolo, che proprio nel bicentenario della nascita del primo Re d’Italia e Padre della Patria Vittorio Emanuele II, venisse ostracizzato  un nome che non può essere cancellato e non va cancellato per nessun motivo da quelle residenze che appartennero storicamente  ai Savoia. Non  e’  una questione di monarchia o repubblica, ovviamente, ma di   modesto buon senso o,meglio,di quello che Omodeo definiva  il “senso della storia”.

Aldo Viglione, presidente del Piemonte per antonomasia, che  volle per primo il recupero delle residenze sabaude, non si sarebbe mai sognato, in epoca di trionfante demagogia antisabauda, di cancellare quel nome che può piacere o non piacere, ma che risulta oggettivamente dalla realtà storica tramandata nei secoli. Vorrei chiedere al Presidente della Regione Cirio che si ritiene un erede di Viglione, di prendere  posizione e di dire la sua opinione in proposito.

Chi volesse cancellare il nome di Savoia  dalle residenze  reali  apparirebbe, pur  magari non volendolo,  quasi  l’erede dell’ oscuro sindaco di Ceresole Reale che desiderava eliminare la parola Reale dal nome del suo comune. O di chi tolse il nome Reale da Venaria o il nome Sabauda da Villafranca. Fu  piccola gente senza storia che non rispetto’ il passato perché troppo carica di faziosità vendicativa , dovuta a vecchi furori giacobini.Il prof. Curto non può certo  confondersi con quelli che vollero censurare la storia. Benedetto Croce, in visita a Torino dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, denunciò  in una lettera a Filippo Burzio, con  grande fermezza, il piccolo tentativo di scalpellare via  il nome dei Savoia dalla toponomastica torinese.
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Le motivazioni addotte da Curto appaiono abbastanza  pretestuose. Sostituire Piemonte alla parola Sabaude, per evitare errori di localizzazione da parte dei turisti, appare  privo di senso. Semmai, se proprio si voleva, si poteva aggiungere Piemonte, senza togliere  il riferimento ai Savoia. Le confusioni territoriali  che teme il professore non  sono giustificate, mentre appare invece molto  chiaro l’intento di cancellare, in modo del tutto ingiustificato,  l’identità storica delle dimore sabaude. Spero che il prof. Curto voglia considerare anche la voce di chi dissente  e che scrive, richiamandosi alle ragioni della storia, sicuramente  più importanti di quelle del turismo, pur di per se’ molto importanti.

 

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(Foto Mario Alesina)

L’opera di Botto&Bruno entra nelle collezioni dei Musei Reali

“The ballad of forgotten places” Inaugurazione: giovedì 20 febbraio alle 17

In arte Botto&Bruno. Entrambi torinesi di Mirafiori Sud, Gianfranco Botto e Roberta Bruno hanno frequentato insieme l’Accademia e ormai da anni lavorano in coppia incentrando la loro poliedrica ricerca artistica sull’immagine dello spazio urbano. Su porzioni di città in crisi d’identità. Spazi rubati alla memoria e di memoria.

Consegnati, in modo scriteriato, a solitudine e disagio. Proprio come, per molti aspetti, è capitato e capita al periferico quartiere torinese in cui i due vivono. Di questo parla e lancia segnali importanti l’ultima loro opera “The ballad of forgotten places” (“La ballata dei posti dimenticati”) che, da giovedì 20 febbraio (inaugurazione ore 17), farà parte delle collezioni dei Musei Reali in piazzetta Reale 1, a Torino. Allestita al primo piano della Galleria Sabauda, in quella preziosa Sala degli Stucchi dall’esuberanza decorativa neobarocca, “La ballata” di Botto&Bruno va a collocarsi, in un contrasto artistico-ambientale di fortissimo impatto, come acuta riflessione, come dito puntato e spietato contro l’incuria riservata spesso ai “luoghi marginali” delle città; quelli che invece “hanno bisogno di essere protetti e curati e soprattutto di persone che si attivino a conservarne la memoria”. Il progetto dei due artisti – promosso dalla Fondazione Merz – è il vincitore della terza edizione del Concorso “Italian Council (2018)”, ideato dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, al fine di promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo, ed è materialmente concepito come una struttura praticabile di grandi dimensioni al cui interno, dalle pareti al pavimento, si dispiega l’immagine sfatta e trascurata di un paesaggio suburbano denso di ossidazioni, macchie e reperti, “trasformato in una sorta di dagherrotipo dall’azione del tempo”. Al centro dello spazio, sopra un basamento, si vede un libro d’artista di trecento pagine che raccoglie una serie di fotografie scattate dalla coppia in vent’anni di lavoro e modificate pittoricamente con la stessa tecnica delle immagini a parete, che testimoniano luoghi scomparsi, alterati e dimenticati.

“L’idea di una casa che seppur fragile, diroccata, scelga di proteggere la memoria di questi luoghi perduti – spiegano Botto&Bruno – ci sembra l’unica via per poter costruire le basi per un nuovo e più costruttivo approccio per affrontare le problematiche sull’ambiente”. Rovine. Una casa che una volta c’era e ora è presente con i resti pericolanti che di essa tristemente raccontano la storia. Storia antica, rimossa dalla memoria collettiva, che come in un gioco di “scatole cinesi”, il Museo ha oggi il compito di proteggere in una sorta di abbraccio benevolo in grado di riattivare, conservare e trasmettere, attraverso essa, la memoria dei tanti luoghi fragili e dimenticati.

La collocazione di “The ballad of forgotten places” ai Musei Reali rappresenta la tappa conclusiva di un viaggio che, prima di approdare a Torino, ha già raggiunto Atene (National Museum of Contemporary Art), per poi spostarsi a Lisbona (Carpintarias de São Lázaro) e a Nizza (Le109: Pôle De Cultures Contemporaine).

 

g. m.

 

 

 

 

Frida, scatti fotografici come grandiosi atti d’amore

Alla Palazzina di Caccia di Stupinigi. “Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray”. Fino al 3 maggio

E’ proprio vero. Le prime immagini che ci vengono in mente – quelle iconiche da sempre registrate nell’immaginario collettivo – quando si pensa a Frida Kahlo (Coyoacàn, 1907 – 1954) sono quelle nate dagli scatti realizzati per colei ché stata la più celebre pittrice messicana del secolo scorso, dal fotografo ungherese, naturalizzato americano, Nickolas Muray.

Ed eccola Frida, in “Frida Kahlo on white bench”, “Frida Kahlo sul bancone bianco”: sfondo verde con fiori bianchi, occhi neri e labbra rosse e carnose, sguardo fiero e sopracciglia così folte da sembrare disegnate apposta per il suo volto, una coroncina di fiori sui capelli raccolti da una treccia e un’ampia gonna (com’era solita portare, ispirata al costume delle donne “matriarche” di Tehuantepec) con scialle nero a coprirle le spalle. E’ questa l’immagine per eccellenza, datata 1939, e immagine – guida della rassegna (mostra-evento, portata per la prima volta in Europa) con cui Next Exhibition e ONO Arte Contemporanea presentano, fino al prossimo 3 maggio, negli spazi della Palazzina di Caccia di Stupinigi, la collezione completa degli scatti più segreti – sessanta complessivamente – realizzati su Frida dall’amico e amante Nickolas Muray (Seghedino, 1892– New York, 1965), fotografo delle dive hollywoodiane – da Greta Garbo a Liz Taylor a Esther Williams e a Marilyn Monroe – nonché pioniere nel campo della fotografia pubblicitaria a colori fin dai primi anni della sua carriera. L’incontro fra i due avviene in Messico, nel’31, attraverso il comune amico e artista Miguel Covarrubias. Lei è maritata al famoso pittore e suo maestro Diego Rivera. Ma il loro è un matrimonio “ballerino”, traballante anziché no, molto “libero” come si direbbe oggi. Lei, anticonformista, nemica di pregiudizi e comuni convenzioni, carismatica, indipendente e determinata, artista dai tratti naif impreziositi da giocose cifre surrealistiche mai prese (checché ne dicesse André Breton) in totalizzante considerazione, resta subito affascinata da quel fotografo di bell’aspetto e gran bravura, neppur quarantenne e già famoso nel mondo stellare d’oltre Oceano, self made man emigrato negli States a 21 anni “con 25 dollari e 50 parole di inglese in tasca”.

Fra i due è subito colpo di fulmine. Immediato ed esclusivo. “Nick, ti amo come si ama un angelo”, gli scrive lei, subito dopo il primo incontro, in una lettera che si chiude con l’impronta di un bacio stampato con squillante rossetto rosso. La loro storia d’amore continuerà per dieci anni, trasformandosi poi in una fortissima amicizia e complicità spirituale che dureranno fino alla morte di Frida, nel 1954. Bastava uno sguardo per intendersi al volo. E Nickolas riusciva a fermare quegli sguardi, quei gesti, quegli intrecci di corpo mani e anima in immagini per altri assolutamente impensabili. E per lui autentici immediati atti d’amore. Oltreché opere di eccelsa levatura tecnica e stilistica. Foto realizzate dal 1937 a Tizapan, in Messico, fino a quelle del 1948 scattate a Pedregal e a Coyoacan piuttosto che a New York: in studio (suggestiva quella in cui Frida siede a fianco di un suo celebre dipinto del ‘41, autoritratto a mani incrociate con quattro dei suoi emblematici pappagalli, osservata da Nickolas con silenziosa attenzione, attento a non turbare l’incanto del momento) o in posa “con la blusa di satin blu” o sui tetti dei grattacieli di New York. Sigaretta in mano. Forte. Aria di sfida. Altera come gli enormi palazzoni che le stanno alle spalle.

Quest’era Frida Kahlo: prim’attrice di una vita profondamente travagliata, ma coraggiosa al di là d’ogni limite, testimoniata in mostra a Stupinigi anche da un’installazione multimediale simulante i rumori e i colori dell’incidente di cui rimase vittima a soli 18 anni sull’autobus che la riportava da scuola a casa e che la martoriò nel corpo (32 interventi chirurgici) per l’intera esistenza, fino all’amputazione della gamba destra nel 1953, un anno prima della scomparsa. E a raccontare visivamente l’artista sono ancora in rassegna, accanto alle foto di Muray, le riproduzioni degli ambienti a lei cari, come il celebre letto d’arte e di sofferenza (su cui, grazie ad uno specchio a soffitto compose i suoi primi terapeutici autoritratti), i gioielli e gli abiti larghi, ricamati e variopinti testimonianti la sua incrollabile adesione a un’identità messicana mai venuta meno nel tempo.

Gianni Milani

“Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray”
Palazzina di Caccia di Stupinigi, piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi (Torino); per info 380/1028313 o info@nextexhibition.it
Fino al 3 maggio
Orari: dal mart. al ven. 10/17,30 – sab. e dom. 10/18,30

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Nelle foto

– “Frida on White Bench”, Nickolas Muray Photo Archive
– “Frida Blue Dress hig rez”, Nickolas Muray Photo Archive
– Frida e  Nickolas in studio, Nickolas Muray Photo Archive
– “Frida NY roottop”, Nickolas Muray Photo Archive

“Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno”, boom di visite

La mostra, in corso a Palazzo Madama dal 12 dicembre 2019, ha già registrato 54.100 visitatori in 9 settimane di apertura

Organizzata e promossa da Fondazione Torino MuseiIntesa Sanpaolo e Civita Mostre e Musei, è a cura di Sandrina BanderaHoward Burns e Vincenzo Farinella. Oltre 130 opere, riunite grazie a prestigiosi prestiti internazionali da alcune delle più grandi collezioni del mondo, illustrano il percorso artistico di uno dei più importanti artisti del Rinascimento italiano.

Chi non avesse ancora avuto l’opportunità di visitare l’esposizione, ha tempo fino al 4 maggio 2020.

Si ricorda che la mostra il giovedì e il sabato è aperta fino alle ore 21.00 (ultimo ingresso alle ore 19.30). Inoltre, per evitare le code, è possibile prenotare e acquistare i biglietti on line su www.ticketone.it   o attraverso il call center al numero 0110881178 (da lunedì a venerdì 9.00 – 18.00 / sabato 9.00 – 13.00).