Ha preso il via Art Side Festival! Una rassegna che si dedica da anni a creare un dialogo tra l’arte contemporanea ed i luoghi della storia e dell’impresa. La nona edizione è dedicata all’ambiente ed al cambiamento climatico e prevede sino al 18 dicembre un fitto calendario di performance, incontri e spettacoli teatrali tra Torino, Govone e Alessandria. Si parte da Torino: al Museo Storico della Reale Mutua a Palazzo Biandrate, in via Garibaldi 22, è ospitata “Labyrinth”, un’installazione tutta in tessuto dell’artista argentina Elisabeth Aro, mentre “Sei stata tu?” è il titolo della proposta di Marco Cordero al Museo della Frutta “Francesco Garnier Valletti, in via Pietro Giuria 15.

Un progetto avviato dall’artista cuneese nel 2009 che partendo dalla sezione verticale di una mela con il volto di Eva scolpito per affrontare il concetto di “colpa”, oggi acquista nuovi significati nel dialogo con la preziosa collezione del Museo della Frutta creando un’unica installazione. Partendo dalla relazione tra mela e parola l’artista che da anni “scolpisce” libri, e non solo, sviluppa lungo tutto il percorso un sottile gioco di rimandi.
In ogni ambiente del museo c’è una traccia da scoprire come se Cordero “gettasse un seme” in ogni sala. Un itinerario da percorrere.
Igino Macagno



Le tante ombre. “Busti” senza volto, neri e tormentati, presagi di terrifiche ambiguità. Le inquietanti oscurità e le smarrite luci. Luci di rossi e gialli, pur intensi, graffiati da segni e memorie che bruciano immagini e anima, cui l’artista affida il compito di inquadrare il dramma de “L’incendio del Regio” (olio su carta intelata del 1983) o di “nudi” indefiniti e contorti (citazione dal viennese Schiele) e “nature morte” fatte di oscure presenze, concreti riflessi di incubi che rincorrono la vita senza mai dare né darsi pace. Eccoci ancora immersi nei “mondi di Lattes” e l’accesso ci pone, come sempre, di fronte alle consuete insidie. “Occorre adeguarsi alle sue luci e alle sue ombre, intuire l’indefinito pur sapendo che esiste un lato oscuro che non può disvelarsi”: così scriveva, a commento di una recente retrospettiva dedicata a Mario Lattes (Torino, 1923 – 2001) – pittore, scrittore, editore e personaggio di spicco nel mondo culturale piemontese, e non solo, del secondo dopoguerra – l’incisore e critico d’arte Vincenzo Gatti, al quale ancora è affidata la curatela de “I mondi di Mario Lattes #2”, realizzata dalla “Fondazione Bottari Lattes”, fino al prossimo 3 dicembre, nella sede di via Marconi 16, a Monforte d’Alba. Mostra che si inserisce all’interno delle celebrazioni organizzate per i cento anni dalla nascita dell’artista e che vedono la “Fondazione” e la sua Presidente, Caterina Bottari Lattes, impegnata ormai da mesi in svariate iniziative. La più recente una mostra di grande successo (“Mario Lattes. Teatri della memoria”) tenutasi fino allo scorso maggio alla “Reggia di Venaria” e prima ancora un’altra anticipatrice retrospettiva (“I mondi di Mario Lattes #1”) ospitata, fino a fine gennaio, sempre nelle sale della “Fondazione” di Monforte d’Alba. Oggi sono oltre quaranta, tra cui diverse raramente esposte in pubblico e alcune di recente acquisizione, le opere di Lattes presenti in mostra e datate tra gli anni ’50 e i primi anni ‘90. A coprire cronologicamente l’intera attività artistica del pittore, troviamo anche
un buon numero di dipinti precedentemente separati per vicende collezionistiche e ora riuniti e posti in dialogo con quelli già presenti in parete. Il “mondo” di Lattes è un mondo che intriga. Che ti inquieta, senza mai respingerti. In cui, anzi, non puoi “non entrare”. E ciò che più ti spinge a “capirlo”, a “decodificarlo” è proprio quella sorta di “dark side”, di “lato oscuro” che vibra anche nei contesti di più semplice e consueta quotidianità. E’ quella sottile, onnipresente malinconia, quell’“epico senso dell’inconcludenza umana”, forse propriamente legata (anche nei suoi romanzi e racconti pubblicati fra il ’59 e l’85) alle sue radici e alla consapevolezza della propria “frammentata identità ebraica”. Scrive Vincenzo Gatti: “Molti sono i mondi di Mario Lattes, e misteriosi. Con disincantata franchezza si muove tra diverse dimensioni, com’è ovvio per un intellettuale dalla sensibilità fittamente diramata tra parola e immagine, e giustamente insofferente a stringere l’attitudine creativa in schemi artificiosi e convenzionali categorie. Meglio affidarsi, per le immagini, a una singolare e personalissima interpretazione, intrisa di umori visionari (le suggestioni simboliste e surrealiste affiorano, ma quasi velate da una sottile ironia) in un contesto tutto mentale dove la stessa tecnica esecutiva, costantemente inventata e stravolta con indifferenza accostando materiali e procedimenti eterodossi, contribuisce a evocare, piuttosto che a svelare”. E allora ben scriveva anche Marco Vallora nel 2008, in occasione di un’ampia retrospettiva dedicata all’artista dall’“Archivio di Stato” di Torino: “ Mario Lattes è sempre là dove non te lo attendi”. Sfuggente.
Espressionista, sì. Surrealista e simbolista, sì. Ma sempre “cavallo solitario”. Anima insofferente ai “recinti”. Vicino a Schiele e a Soutine. Ma libero a inventarsi segni e colori. Libero di cantare dolori, malinconie, ironiche provocazioni, voglie di solitudine e cascate di amara “memoria”. Diceva lui stesso: “I ricordi sono cicatrici di memoria”. Così anche le “marionette”, i “teatrini”, le “teste”, gli “idoli” e i “manichini” (come i pasticcieri o i valletti o i chierichetti di Soutine) “sono icone – conclude Gatti – di un’individualità attonita, consapevoli delle inquietudini che da sempre pervadono l’animo umano … L’artista-profeta ci indica così un percorso e ci invita a riconoscere i nostri fantasmi per esorcizzarli attraverso la fatica di vivere e guadagnare la nostra esistenza giorno per giorno”.