ARTE- Pagina 84

Torino e i suoi musei. Il museo delle Antichità

/

Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

4 Museo delle Antichità

Scrivere questa serie di articoli ha in effetti i suoi lati positivi, perché “mi costringe” a venire spesso in centro, cosa che mi fa sempre molto piacere.
Mi trovo di nuovo a cercare la biglietteria di Palazzo Reale, supero prima la cancellata di Palagi, poi arrivo all’altezza del ragazzo musicista che molto spesso si piazza all’ombra di Palazzo Chiablese e suona magistralmente il suo “digiridù”.
Questa volta però il biglietto che compro è per visitare il piccolo e sotterraneo Museo delle Antichità, a cui si accede passando per i Giardini Reali, dalla stessa entrata che porta alla Galleria Sabauda, anche se in ultimo è necessario seguire le indicazioni che portano verso il piano di sotto.
Il Museo è un’istituzione antica, che può vantare nobili origini ed è giunto all’attuale sistemazione attraverso una lunga e spesso travagliata vicenda.
La raccolta mantiene la denominazione storica di Museo di Antichità per sottolineare la continuità di questa istituzione che risale al XVIII secolo, ma comprende raccolte formatesi già in precedenza per volere di Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580) e dei suoi successori.
L’esposizione si articola in tre sezioni: quella del Territorio Piemontese e quella delle Collezioni Storiche, c’è una terza sezione dedicata a Torino, antica Augusta Taurinorum, al piano seminterrato della Manica Nuova del Palazzo Reale, in collegamento diretto con l’area archeologica del Teatro romano e del gruppo episcopale paleocristiano, costituito in origine dalle chiese del Salvatore, di San Giovanni e di Santa Maria (chiese abbattute per volere di Domenico della Rovere, committente del nuovo Duomo dedicato a San Giovanni).

In epoca rinascimentale si evidenzia, da parte dei Savoia, il desiderio di eguagliare la dignità e lo splendore delle altre corti italiane ed europee. Tra le sculture antiche pervenute sono state identificate opere già appartenute alle collezioni dei Gonzaga, di Gerolamo Garimberti e di Bindo Altroviti.Dal Settecento in avanti il settore delle antichità greco-romane si accresce continuamente, a seguito dell’acquisto di cospicue raccolte private e per i ritrovamenti effettuati nei territori del Piemonte e della Sardegna.Per molti anni la storia della collezione del Museo di Antichità viaggia in parallelo con quella del Museo Egizio, fino al 1940, anno in cui la collezione di antichità e quella egizia vengono definitivamente separate. La collezione di antichità rimane al pianterreno del palazzo dell’Accademia delle Scienze fino al 1963, quando viene individuata la sede definitiva nelle Serre dei Giardini di Palazzo Reale, il cui recupero viene curato dall’architetto Caterina Fiorio. Una volta discesa mi ritrovo in una zona dalle volte a botte in cui prevale l’uso del mattone, interessante è il gioco delle luminarie, taglienti raggi di luce cadono netti sui reperti, facendoli risaltare dall’ombra quasi richiamando alla mente la tecnica pittorica caravaggesca. Sono rimasta molto colpita dalla collezione, oggetti e reperti che molto spesso passano in sordina e che anche io non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere o di approfondire. Subito richiamano la mia attenzione due lastre marmoree lavorate a rilievo e raffiguranti delle menadi danzanti. Le donne seguono il dio Dioniso nella frenesia dell’”entusiasmo” bacchico, e sono copie fedeli dei modelli creati alla fine del V secolo a.C. dallo scultore greco Callimaco: recano i tipici attributi del corteo del dio della vite, torce, tirsi (bastoni con infiorescenze) e strumenti musicali. Vi sono nella composizione anche altre figure, come la menade che regge un cesto colmo di frutti e quella che urla scarmigliata brandendo due torce e con le braccia avvolte da serpenti, che non sono tipiche del “thiasos” dionisiaco ma rimandano all’iconografia di una portatrice di offerte o di un’Hora (stagione) oppure di una Erinni (personificazione della vendetta soprattutto nei confronti di chi colpisce la famiglia), temi comunque che si adattano a un ambito funerario. I due grandi rilievi con figure di menadi danzanti sono noti da tempo nelle collezioni sabaude, forse già verso la metà del Seicento, come dimostrano numerosi disegni e tavole incise del periodo.

Nel piccolo Museo mi muovo piano, per una volta non mi trovo ad avere paura di non riuscire a vedere tutto e mi godo ogni singolo oggetto, dai rilievi, agli esempi di “autoctona”, ai ritrovamenti musivi della Domus romana di via Bonelli 11, al grande mosaico policromo fino ai bei gioielli della cosiddetta “Dama del Lingotto”. Il cuore della collezione è tutto contenuto in teche vicine e fortemente illuminate, si tratta del “Tesoro di Marengo”. Il tesoro è costituito da un sontuoso complesso di argenti, decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati, che originariamente dovevano costituire lamine di rivestimento di mobili e arredi di legno, oltre all’eccezionale busto-ritratto dell’imperatore Lucio Vero (161-169 d.C.), forse anticamente montato al centro di uno scudo ornamentale (clipeo), oppure esposto su un supporto in legno o innalzato sui vessilli militari dell’esercito. Gli altri elementi sono costituiti da una tabella con iscrizione votiva alla dea Fortuna Melior, un disco con i simboli dello zodiaco, cornici, fregi decorativi con motivi figurati, geometrici, floreali e un rarissimo esemplare decorato con una catasta di armi.  Notevole è anche la  fascia di rivestimento (di un altare o della base di una statua) decorata con tredici figure di divinità in altorilievo, tutte ispirate a celebri modelli statuari del mondo greco.
Credo sia un mio inconscio tentativo di rielaborazione del trauma del Liceo Classico, ma mi scopro a giocare a riconoscere i vari personaggi mitici e ricordarne le vicende.
L’insieme si distingue da altre argenterie antiche note, sia per l’assenza di vasellame da mensa, sia per la rarità del ritratto imperiale di grandi dimensioni in metallo prezioso, oltre che per la peculiarità di alcune tipologie di oggetti, come i due elementi decorativi di una spalliera laterale di letto (kline).

Quasi tutti gli elementi che compongono il Tesoro si possono datare tra la seconda metà del II secolo e i primi decenni del III secolo d.C. La scoperta avvenne casualmente nel 1928, durante i lavori agricoli condotti presso la Cascina Pederbona di Marengo (Alessandria): gli argenti furono rinvenuti in una grossa cassa di legno ancora visibile in tracce, lacerati, schiacciati e deformati per essere più facilmente trasportati, forse a seguito di un saccheggio avvenuto in antico.
La mancanza di precisi confronti, l’assenza di dati circa la giacitura originaria e la dispersione di parte dei reperti dopo la scoperta rendono problematica l’interpretazione del ritrovamento: forse gli argenti furono saccheggiati in un sacello privato o forse in un santuario pubblico dedicato all’Imperatore oppure a un culto solare tra il III e l’inizio del V secolo d.C. Occultato in un luogo isolato e ritenuto sicuro, con l’intendimento di recuperare i beni per la loro rifusione, non fu poi più recuperato. Apprezzo davvero le dimensioni ridotte dell’esposizione, perché prima di “tornare a riveder le stelle” posso soffermarmi sui reperti che più mi hanno incuriosito, in questo caso il gusto femminile prevale e mi ritrovo a guardare nuovamente i preziosi gioielli longobardi che sfavillano all’interno della teca. Costituiscono l’eccezionale corredo funebre della “Dama del Lingotto” una coppia di orecchini in oro del tipo “a cestello”, con lunghi pendenti mobili e gocce di ametista, una collana a catena con maglie d’oro, una raffinata spilla (“fibula”) circolare a cloisonné con granati del tipo almandino e paste vitree colorate.
In effetti sì, devo ammettere che quelle preziosità antiche incontrano proprio i miei gusti: non c’è che dire, la vanità è donna.

Alessia Cagnotto

Torino e i suoi musei. Museo Lombroso – antropologia criminale

/

Torino e i suoi musei / Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lombroso – antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

9 Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Che Torino sia “città misteriosa” è ormai appurato. La meta che vi propongo oggi può rientrare sotto questo aspetto “tenebroso”, infatti è del Museo Cesare Lombroso che vi voglio parlare.
Il Museo di Antropologia Criminale espone gli studi che Cesare Lombroso (Verona 1835-Torino 1909) eseguì tra l’Ottocento e il Novecento: fanno parte della raccolta preparati anatomici, disegni, schizzi, fotografie, corpi di reato, e le particolari produzioni artigianali degli internati dei manicomi e delle carceri.
Non deve essere stato semplice per la famiglia di Cesare accettare che il celebre studioso organizzasse la sua prima esposizione di “scheletri e armi del delitto” proprio nella sua stessa casa. Chissà se fu proprio la signora Lombroso a spostare, l’anno successivo, nel 1877, un pezzo alla volta, gli attrezzi del mestiere del marito in Via Po 18, dove si trovava lo studio.
Superati i probabili battibecchi familiari, Cesare espose nel 1884 due vetrine ricolme di crani, maschere, fotografie criminali e altri oggetti a dir poco inquietanti, all’ Esposizione Generale di Antropologia Italiana.

Il tempo passa e il materiale si accumula, ecco nuovamente il problema di dove contenere questa raccolta in continua crescita. Nel 1896, quella che poi diverrà la collezione del Museo, viene esposta in via Michelangelo 26, sotto la supervisione dell’amico e assistente Mario Carrara, il quale provvede a riordinare la miriade di oggetti in sei sale differenti, arricchendola a sua volta con reperti inerenti agli sviluppi della polizia scientifica e della medicina legale.
Gli appassionati studi di Lombroso e di Carrara devono sopportare un periodo di dimenticanza, fino alla riscoperta avvenuta intorno agli anni Settanta del Novecento, in occasione della fortunata mostra “La scienza e la colpa”.

Solo nel 2001 la collezione riesce a trovare una sistemazione definitiva presso il Palazzo degli Istituti Anatomici, inserendosi nel progetto “Museo dell’Uomo”, che prevedeva una sede comune per i musei di Anatomia Umana, Antropologia Criminale, Antropologia ed Etnografia (ora in via Accademia Albertina); nella stessa residenza venne poi affiancato il simpatico Museo della Frutta.
Ogni tanto trovo la scusa per andarci, al Museo Lombroso, non è eccessivamente grande e non richiede chissà quanto tempo, certo tutto dipende dagli intenti personali e dalla relatività dei termini “tanto tempo”. Incominciamo dunque la visita.
Nella prima sala sono accompagnata dal sonoro di un dialogo immaginario tra due individui che discutono sugli studi di Lombroso; le voci cadono su alcuni mobili e macchinari che sono scenograficamente disposti per riprodurre lo studio del criminologo. Ciò che i due protagonisti dicono è importante per capire il contesto sociale in cui Cesare opera e per comprendere le valide riflessioni che vengono affrontate sul progresso e sui suoi limiti.

Nella seconda sala mi ritrovo in un luogo a metà tra scienza e fantascienza, una moltitudine di strumenti tecnici per rilevazioni morfologiche e funzionali dimostrano la tesi lombrosiana, per cui follia, delinquenza e genialità sono fenomeni quantificabili e oggetto di studio con metodo scientifico.
Impattante è la terza sala: l’ambiente ricorda i musei di antica concezione, teche e pavimento scricchiolante, decisamente i miei preferiti. Qui facciamo conoscenza con Cesare Lombroso in persona, solo un po’ più magro di com’era in realtà: per volontà testamentaria il suo scheletro è esposto nel Museo, sorridente come i teschi dei tesori dei pirati, guarda i visitatori, come se non volesse smettere di continuare ad osservare e a studiare, sempre alla ricerca di nuove prove a favore della sua tesi.

Superato – credo, non ci è dato saperlo- l’esame di Cesare, possiamo dedicarci a guardare la numerosa rassegna di reperti umani, maschere mortuarie, corpi di reato, manufatti carcerari e manicomiali, nonché ritratti di criminali che ornano le pareti. Non c’è che dire, un po’ si accappona la pelle davanti a quei volti cerati, costretti ad essere esangui per sempre. In questa sala ci sono gli oggetti che più mi affascinano, si tratta dei mobili realizzati da Eugenio Lenzi, uno dei tanti sfortunati reclusi nel manicomio di Lucca. Sono mobili senza definizione, abilmente intarsiati e scolpiti, con una dovizia di particolari che solo un matto avrebbe potuto concepire. Tutte le volte che li osservo non posso che domandarmi: se fossero esposti alla GAM o al Castello di Rivoli, sarebbero giudicati allo stesso modo o diventerebbero magicamente opere di inestimabile valore artistico?
Mi prendo il mio tempo prima di proseguire, quegli oggetti hanno il potere d’incantarmi e tutte le volte scopro dettagli nuovi che mi fanno rimanere a bocca aperta. Qualcuno mi osserva, mi sento giudicata e proseguo verso la quarta sala. Mi trovo di fronte a dei teschi tagliati e a qualche scheletro, le didascalie mi ricordano che questa stanza spiega la teoria atavica di Lombroso, il quale sosteneva che il criminale regredisse ad una sorta di condizione primitiva dello stadio evolutivo; un video ricorda, a chi se lo fosse dimenticato, che la malformazione cranica della fossetta del teschio Villella è solo una variabilità individuale, non un fondamento scientifico.

La quinta sala è dedicata agli abiti realizzati da Giuseppe Versino, internato a Collegno, e altri oggetti creati da persone affette da disturbi mentali. Il binomio “genio-follia” è presente da sempre nella storia dell’uomo e nella storia dell’arte, si pensi all’ iconica e stereotipata figura di Vincent Van Gogh (1853-1890), artista inequiparabile, internato nel manicomio di Saint Remy, dopo essersi amputato l’orecchio e dove realizzò 150 opere in soli 53 giorni. Del resto proprio questo luogo mi fa venire in mente che la “lista dei pazzi” è decisamente ampia: Fancisco Goya (1746-1828) era affetto da encefalopatia, (causata da intossicazione da piombo presente nei colori), la malattia lo portò alla sordità e a disturbi di personalità; lo stesso Michelangelo (1475-1564) secondo alcune fonti era piuttosto schizofrenico, come dimostrerebbero le ricerche di Gruesser collegabili allo studio dei volti realizzati dal Buonarroti.

Particolarmente attinente è la vicenda del pittore Richard Dadd (1817-1886), che uccise il padre con un coltello a serramanico perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre, nemico della divinità che Richard adorava, Osiris, a cui aveva anche dedicato un piccolo santuario in una camera in affitto a Londra. Non c’è bisogno di spiegazioni per personaggi allucinati come Ensor, ( 1860-1949) e Munch,( 1863-1944). Forse tra tutti l’ “oscar della follia” va a Jackson Pollock, artista maledetto per eccellenza, consumato da alcool e droghe, riformato dall’esercito per problemi psichici, morto a soli 44 anni in un tragico incidente stradale, la stessa signora Guggenheim di lui aveva detto: “quest’uomo ha dei seri problemi, la pittura è senza dubbio uno di questi”. L’elenco è ancora lungo ed è costituito da grandi nomi quali Francis Bacon, (1909-1992), l’autodistruttivo e tormentato Jean Michel Basquiat (1960-1988) e la triste Camille Claudel (1864-1943), artista brillante, allieva e amante di Rodin. Camille soffrì di depressione con manie di persecuzione e venne internata per volere della madre, in tal modo è come se fosse morta due volte in solitudine: sola, perché rinchiusa in manicomio e sola, perché nemmeno un familiare partecipò al suo funerale.

Continuando nel percorso espositivo, alla sala 6 si trovano le uniche tracce di vite anonime e maledette: graffiti e incisioni sugli orci per l’acqua dei detenuti del carcere di Torino. La sala 7 presenta il modellino del carcere di Filadelfia e la ricostruzione di una cella ottocentesca, qui si affronta la problematica della detenzione, divenuta nel corso dell’Ottocento architrave dei sistemi penali.
Sono quasi alla fine della visita e nuovamente incontro Lombroso, ma se prima era solo un silenzioso scheletro scrutatore, ora è una voce incorporea che mi parla come dall’Aldilà: è un discorso immaginario che ripercorre l’esperienza di studio, i pensieri, i dubbi che attanagliarono il grande pensatore, umanizzandolo e quasi tramutandolo in un normale “figuro” della bella époque torinese.

Uscendo, attraverso un lungo corridoio che mi riassume i punti principali della mostra: qui ho l’opportunità di rabbrividire ancora una volta alla vista della forca, proprio quella un tempo situata al “rondò” la piazza che ancora oggi in città così si chiama. Giustamente, a mio parere, perché il passato va studiato e compreso, ricordato e contestualizzato: se cancelliamo gli errori che abbiamo commesso, come possiamo correggerli e non ripeterli?

Alessia Cagnotto

Dalla Fondazione CRT 15 nuove opere per  GAM  e Castello di Rivoli 

La Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT ha acquistato quindici nuove opere di nove artisti contemporanei: Jacopo Benassi, Merlin James, Atelier dell’Errore, Chiara Camoni, Alessandra Spranzi, Bill Lynch, Giuseppe Gabellone, Cooking Sections e Richard Bell.

 

Le nuove acquisizioni, così come l’intera collezione della Fondazione, sono concesse in comodato gratuito al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino e rese disponibili per la pubblica fruizione.

 

Con la Fondazione per l’Arte CRT contribuiamo da oltre 20 anni a rafforzare il sistema della creatività contemporanea, a valorizzare i talenti e ad arricchire il patrimonio culturale a beneficio di cittadini e turisti”, afferma Giovanni Quaglia, Presidente della Fondazione CRT.

 

La Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, ente “art oriented” della Fondazione CRT, mette in campo azioni e progetti per lo sviluppo, il rafforzamento e la promozione del sistema della contemporary art. In particolare, attraverso le acquisizioni, la Fondazione alimenta un’estesa collezione di opere d’arte contemporanea, diventata nel tempo tra le più prestigiose a livello nazionale e internazionale: oltre 900 opere realizzate da circa 300 artisti, per un investimento complessivo di oltre 40 milioni di euro. 

 

Le acquisizioni sono parte fondamentale dell’attività della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, che oggi vanta una collezione di eccellenza riconosciuta a livello internazionale e messa a disposizione dell’intera collettività come bene comune”, dichiara Massimo Lapucci, Segretario Generale della Fondazione CRT.

 

Le opere acquisite vengono scelte dai direttori dei musei a cui sono destinate, secondo criteri di coerenza con le proprie raccolte e condivisi con il Comitato Scientifico della Fondazione, composto da Rudi Fuchs, in qualità di Presidente onorario, Sir Nicholas Serota, Presidente Arts Council England, Manuel Borja-Villel, già Direttore Museo Reina Sofía di Madrid, Francesco Manacorda, Curatore Indipendente – Londra, e Beatrix Ruf, Direttore Hartwig Art Foundation di Amsterdam. La collezione consente alle due istituzioni museali d’eccellenza un continuo aggiornamento delle proprie esposizioni, rese veramente contemporanee dal costante dialogo con il panorama artistico attuale e i suoi artisti.

 

Con le recenti acquisizioni la Fondazione consolida la collaborazione con il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, arricchendone le raccolte permanenti di opere significative e alimentandone l’importante programma di esposizioni temporanee e scambi internazionali. Le proposte curatoriali, avvalorate dalla autorevolezza del comitato scientifico della Fondazione, hanno stimolato l’acquisto di opere capaci di implementare le collezioni già esposte, ma anche di aprirle a tematiche nuove, quale quella ambientale, sostenendo l’impegno dei musei nell’essere sempre specchio di contemporaneità”, commenta Luisa Papotti, Presidente della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT.

 

Segue l’elenco delle opere acquistate dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT nell’anno 2022, a questo link la gallery delle opere a uso stampa.

 

Opere destinate all’esposizione al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea:

 

U Can’t Touch This, di Richard Bell 

Artista e attivista politico aborigeno australiano, Richard Bell (Charleville, Queensland, 1953) è l’autore dell’opera U Can’t Touch This, che prende spunto da una famosa fotografia scattata durante i giochi del Commonwealth nel 1982; la rappresentazione, particolarmente espressiva, si avvale della citazione e dell’appropriazione di stili pittorici europei per affrontare le problematiche dell’autorialità e della proprietà intellettuale delle idee, che l’artista ritiene ignorate nei riguardi dell’arte aborigena australiana. Bell riutilizza le tecniche dell’informale e della Pop Art in un collage che rovescia gli stereotipi attribuiti agli indigeni.

 

Salmon: A Red Herring, di Cooking Sections

Duo artistico fondato dagli artisti Daniel Fernandez Pascual e Alon Schwabe nel 2013, Cooking Sections firma l’opera multimediale intitolata Salmon: A Red Herring (2020), che parte dal color salmone per metterne in discussione l’utilizzo nell’allevamento intensivo dei salmoni e, più in generale, l’uso dei colori nel business dell’agricoltura e dell’allevamento; l’opera è stata esposta in primis alla Tate Britain di Londra nel 2020, come parte di un movimento volto a boicottare l’allevamento di salmoni. I membri di Cooking Sections sono in assoluto i giovani artisti più importanti a livello internazionale, attivi nell’ambito di un rinnovamento estetico capace di contrastare il cambiamento climatico.

 

Opere destinate all’esposizione alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea:

 

POLLICE, un altro dio scuro dell’AdE, di Atelier dell’Errore 

Atelier dell’Errore è un collettivo di giovani artisti ventenni affetti da malattie neurologiche di diversa natura, guidati dal Direttore artistico Luca Santiago Mora, che ha fondato il gruppo inizialmente nell’ambito del servizio sanitario per poi trasformarlo in una cooperativa di lavoro che consente ai giovani di sostenersi. POLLICE, un altro dio scuro dell’AdE (2021) è tra i pezzi più importanti della serie dedicata al rosso e all’oro; lo stile è il risultato della sovrapposizione di segni ossessivamente ripetuti dai disegnatori, con una precisione tecnica sorprendente, su una superficie particolarmente ostica. L’immagine restituisce il profilo di una creatura che non può essere facilmente classificata, al crocevia tra il corpo, lacerato e decomposto, di un animale e le fattezze di un dio metamorfico.

 

Panorama di La Spezia, di Jacopo Benassi 

Jacopo Benassi (La Spezia, 1970) proviene da anni di lavoro nella fotografia e nella musica underground, che gli ha permesso di sviluppare uno stile fotografico personale in cui la profondità di campo viene eliminata e l’aggressiva luce del flash diviene il tratto distintivo. L’opera in oggetto è il risultato di una residenza artistica che trascorsa tra pareti temporanee di legno, all’interno di una stanza nella quale si è chiuso per più di un mese, poi segata in parti diverse prima dell’inaugurazione; l’opera è uno degli angoli della stanza, sulle cui pareti sono esposte opere frutto di una riflessione sull’ambiente naturale del Golfo di La Spezia, accrochage di fotografie e dipinti, tenuti insieme da tiranti per auto, che pongono in relazione le foto notturne del Golfo, con le loro immagini fortemente contrastate, e una pittura tradizionale che ricorda le vedute tipiche dell’arte locale ottocentesca.

 

Serpentessadi Chiara Camoni 

Chiara Camoni (Piacenza, 1974) conduce da anni un lavoro dedicato all’intreccio tra elementi naturali e le tradizioni culturali di matrice femminile, mitologica e mediterranea, anticipando quel filone di ricerca che oggi ha internazionalmente assunto il nome di ecofemminismo. Serpentessa (2020) è una delle sue opere più iconiche, centrale nelle sue ultime esposizioni internazionali, in grado di rievocare l’iconografia del serpente nell’arte e nella mitologia: da Ecate, divinità ctonia femminile col corpo di serpente, a Medusa, sua figlia, da Lilith, donna serpente raffigurata da Paolo Uccello avvinghiata all’albero della genesi, fino all’archetipo della ninfa serpentine, di cui parlò Warburg. Il suo corpo è scolpito da Chiara Camoni in un unico ramo di mimosa e dipinto di verderame.

 

Buildings, Trees, Water e Under Stairs, di Merlin James 

Pittore e scrittore, Merlin James (Cardiff, 1960) offre un contributo lucido e puntuale alla riflessione sulla pittura, tanto nelle sue opere artistiche quanto nei suoi testi. La sua produzione comprende esclusivamente opere di piccole e medie dimensioni, perennemente in bilico tra la raffigurazione e l’astrazione, tra immagine e interrogazione sulla natura dell’immagine stessa. Buildings, Trees, Water (2021) e Under Stairs (1996) rendono conto di due momenti diversi nel percorso dell’artista, ma anche della grande coerenza ideativa della sua evoluzione: Buildings, Trees, Water include nella propria composizione elementi fisici, come una cucitura della tela e un foro sulla sua superficie, che rappresentano la costante contraddizione tra le possibilità illusionistiche e la realtà della pittura; in Under Stairs emergono invece molteplici possibilità di senso dall’incoerenza tra figurazione e astrazione.

 

Still Life with Chinese Painting e Merry Christmas My Love, di Bill Lynch 

Bill Lynch (Albuquerque, New Mexico, 1960 – Raleigh, North Carolina, USA, 2013) è stato un pittore e un artista consapevole della storia dell’arte e frequentatore assiduo dei musei dedicati all’arte dei secoli passati, le cui opere intrattengono un dialogo costante con la pittura cinese. Dipinto a olio su legno, come la gran parte della produzione dell’artista, Still Life with Chinese Painting mostra chiaramente come riconoscere la tradizione italiana, completamente rinnovata eppure familiare, nei dipinti di Lynch, in termini di pennellata, di emersione del materiale di supporto, di composizione e riferimenti iconografici; similarmente Merry Christmas My Love, dipinto a olio su una tappezzeria montata su legno, si ricollega a una diversa tradizione di pittura, che ingloba tessuti all’interno dell’opera.

 

Tovaglia sospesa (L’insieme è nero) – Gusci di uova mangiate da una faina (L’insieme è nero) – Plate 51. Sedum species (Cacti and other succulents) – Plate 62. Kleinia tomentosa (Cacti and other succulents) Plate 35. Rhipsalis salicornioides (Cacti and other succulents)di Alessandra Spranzi 

Docente di Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera, Alessandra Spranzi (Milano, 1962) è una figura di spicco in campo fotografico, la cui ricerca artistica è legata alla messa in scena dell’immagine, al riuso di scatti propri e altrui, alle impressioni su pellicola per contatto e al libro d’artista. Alcune immagini assumono una forza iconica nel suo lavoro e tornano come matrice compositiva, più e più volte, attraverso gli anni: cambiano gli oggetti fotografati sul piano, ma seguono la medesima disposizione. Le cinque opere in questione mettono in scena il mistero dell’immagine che emerge, o per cancellazione o per sovrapposizione di illustrazioni ritagliate, in modo che la silhouette in negativo di una pianta grassa si offra come cornice alla pagina di una rivista di interni. La natura della sovrapposizione fa emergere un carattere perturbante nell’apparenza obsoleta dei codici di presentazione di vecchie pubblicazioni, ma fa scattare anche riflessioni su figure seminali dell’architettura come Carlo Scarpa e la visionaria natura delle sue scale.

 

KM 2,6, di Giuseppe Gabellone 

Giuseppe Gabellone è stato uno dei più giovani protagonisti della stagione artistica degli anni ’90 e in particolare del Gruppo di Via Fiuggi a Milano. La sua ricerca, al limitare tra scultura e fotografia, è continuata nei decenni, raggiungendo alcuni degli esiti più originali nell’ambito di questi linguaggi: KM 2,6 è un’opera video che rappresenta per l’artista “l’inizio di tutto” e una delle più rilevanti di quegli anni in Italia: mostra il giovane Gabellone tradurre il tempo del video, registrato sul nastro magnetico dalla videocamera, in una grande scultura, composta da 2,6 chilometri di nastro adesivo, che riflettono la durata del nastro video, mentre il marrone del nastro magnetico si replica nel marrone dello scotch da pacchi che l’artista srotola dapprima all’interno di una casa e poi tutt’attorno all’edificio, come una ragnatela composta da un lungo, ininterrotto segno grafico-scultoreo, che accompagna il movimento dell’artista durante l’azione. Da quell’opera inizia nella produzione di Gabellone il pensiero di come presentare la scultura e lo spazio che essa ingloba e sul quale la sua forma si propaga non come oggetto tridimensionale ma come documentazione bidimensionale fotografica. In qualche modo, l’artista porta alle estreme conseguenze la suggestione di Medardo Rosso, che fotografava personalmente le sue opere scegliendo un unico punto di visione ed evidenziando la propagazione del loro movimento nello spazio e nella luce, ma Gabellone compie una scelta definitiva: distrugge le sue sculture dopo averle fotografate, affinché esistano solo come fotografia e come volume in assenza.

Stefano Levi Della Torre: “A tutti i miei incontri con persone, animali e cose”

Dipinti e disegni  in mostra alla “Fondazione Giorgio Amendola” di Torino

Fino al 28 febbraio

Avrebbe potuto utilizzarlo come titolo alla sua nuova personale subalpina.”A tutti i miei incontri con persone, animali e cose” è invece l’originale dedica che Stefano Levi Della Torre (Torino, 1942) scrive, in apertura di catalogo, a tutti i “protagonisti” (persone, animali e cose per l’appunto) raccontati in una ricca antologica ospitata, fino a martedì 28 febbraio nelle sale espositive della “Fondazione Giorgio Amendola” di Torino. Una sessantina i dipinti esposti, accompagnati ad alcune pagine grafiche di rapida puntuale cifra stilistica, datati fra il 1985 ed il 2022. Quarant’anni di intensa attività artistica, praticata a compendio e prezioso collante ai tanti altri “mestieri” portati avanti negli anni da questo raffinato intellettuale torinese, saggista e studioso della tradizione e della cultura ebraica, nonchè docente alla “Facoltà di Architettura” del Politecnico di Milano, scrittore e, soprattutto, pittore. “Credo – sottolinea Levi Della Torre – di pensare molto per immagini… Penso che per me la pittura sia la guida anche della scrittura”.

Qualche giorno fa, ho visitato la sua mostra alla “Fondazione” di via Tollegno. Poco dopo, ci siamo sentiti per telefono. Stefano Levi Della Torre è uomo di grande cordialità, la voce pacata, pochi sorrisi appena accennati, una dolce mitezza. Il tutto mi ha ricordato l’incontro nel 1987 con il di lui zio materno Primo Levi. L’occasione, un’intervista, pochi mesi prima della sua tragica fine, al grande autore delle pagine di “Se questo è un uomo”, voluto  dal “bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi” dell’Inferno di Auschwitz. Fra i due, assonanze comuni. Il cui riferimento, credo, l’artista abbia gradito, inviandomi dopo poco un suo scritto sullo zio (“piuttosto lungo, se non ha tempo di leggerlo– cortese ironia – non mi offendo”) con in esergo le illuminanti parole di Kafka: “Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere un ponte senza precipitare”.

Ed eccolo, in parete, “Primo Levi che guarda nel buio”, olio su tavola del 2022, fra le opere più suggestive presenti in mostra. Avvolto nella cupezza di grigie rossastre tonalità, lo scrittore pare congedarsi dal mondo reale, gli occhi rivolti a un buio infinito, l’immagine palesata dal biancore del volto, della barba e dei candidi capelli. Per lui, la fine di un tormento, di un lungo martoriante incubo, raccontato nell’opera a fianco: il grande “Diluvio” (1985) che distrugge, avvolge in un abbraccio mortale cose, animali, esseri viventi trascinati nel gorgo del non ritorno. Metafora della condizione umana. Sono i “Sommersi” della Shoa, che il lager non ha risparmiato e verso cui i “Salvati” nutrono forti “sensi di colpa” per esser loro sopravvissuti; sono gli infuriati, terrorizzati e mordaci “gallinacei” dal becco rosso reclusi, nell’agitazione di forme ed espressionistici colori, nell’“Allevamento” del ’91. Disposizione non casuale, non effettuata in base a date, “ma – sottolinea l’artista – a seconda di come i quadri si parlano e si richiamano l’un l’altro”.

Stefano Levi Della Torre ama il colore. La pennellata avvolgente ed inquieta che, senza trasgredire al figurativo, gioca con la materia, libera nel gesto, nella sovrapposizione di toni in cui l’immagine trova rapida, nervosa e perfino imprevista e imprevedibile caratterizzazione. E’ la grande eredità lasciatagli da un altro importante zio (di parte paterna), quel Carlo Levi, il “torinese del sud” del “Cristo si è fermato a Eboli” e dei “Sei di Torino”, il cui buen retiro estivo, sulla prima collina di Alassio (“Benedetto chi viene a casa Levi” la scritta in ebraico sovrastante la porta d’ingresso), il giovane Stefano ebbe probabilmente modo di frequentare con una certa assiduità, assorbendo l’amore dello zio per la natura rigogliosa del grande parco di casa. E da lui apprendere a trasgredire, nei limiti concessi, le regole di una pittura comunque e sempre “spontaneamente figurativa”. Suggestiva e, a tratti, intrigante la carrellata dei personaggi che hanno fatto la storia, più o meno grande, del “libero pensiero” torinese del Novecento e d’oggi: dal suo pacato “Autoritratto” del ’96, a un giovane Carlo Ginzburg  del’94, fino all’elegante figura di Giovanna Galante Garrone in posa a strimpellare la chitarra. Notevoli, per linguaggio e capacità introspettiva, i ritratti dell’indimenticato Norberto Bobbio e della moglie Valeria Cova Bobbio, scomparsa nel 2001, tre anni prima del marito, di cui era stata la più stretta collaboratrice.

Gianni Milani

“Stefano Levi Della Torre. Dipinti e disegni, 1985 – 2022”

Fondazione Giorgio Amendola e Associazione lucana Carlo Levi, via Tollegno 52, Torino; tel. 011/2482970 o www.fondazioneamendola.it

Fino al 28 febbraio

Orari: lun. – ven. 10/12,30 e 15,30/19; sab. 10/12,30

Nelle foto:

–       “Villa Levi ad Alassio”, olio su tela, 2006

–        “Primo Levi che guarda nel buio”, olio su tavola, 2022

–       “Norberto Bobbio”, olio su tela, 1993

–       “Diluvio”, olio su tela, 1985

–       “Allevamento”, olio su tela, 1991

Ultimi giorni: “Fotografi per l’Agenda ONU 2030” in mostra ai “Musei Reali”

Il mondo traballante

La drammatica cronaca in 200 scatti 

Fino al 19 febbraio 2023

In parete 200 fotografie di una “potenza narrativa unica”. Che ti strappano corpo e anima e ti costringono a precipitare in luoghi di martirio profondo, dove uomini e paesaggi raccontano di graffi forse irreparabili arrecati gli uni agli altri. Senza pietà. Né contezza alcuna. A firmarle sono 14 fotografi, quasi tutti torinesi (alcuni di adozione), un genovese e un foggiano. Fra di loro, tre vincitori di Premi prestigiosi come il “World Press Photo” e lavori esposti in importanti Gallerie e Musei, nonché pubblicati su prestigiose testate nazionali ed internazionali, dal New York Times” al “National Geographic”, da “Le Monde” “El Pais”, solo per citarne alcune.

 

I loro scatti raccontano, con la voglia spesso impietosa di mostrare “il mondo all’uomo e l’uomo a sé stesso” (come diceva il grande fotografo lussemburghese – americano Edward Steichen), di un pianeta collassato e fragile, messo in ginocchio dai tragici cambiamenti climatici, da guerre (tante, a volte ignote o ignorate) e carestie, dalla sempre più grave mancanza di risorse, dai drammi dell’emigrazione e dei rifugiati. Uomini, donne, bambini. Ma di loro sono anche ritratti di donne dalle carriere eccezionali che hanno contribuito a far compiere un importante passo in avanti alla parità di genere. Tutte le foto, 210 per essere precisi, sono esposte, sotto il titolo “Focus on Future. 14 fotografi per l’Agenda ONU 2030” e fino al 19 febbraio del prossimo anno, nelle “Sale Chiablese” dei “Musei Reali” di Torino. Ideata da Enrica Pagella e prodotta dagli stessi Musei, la rassegna è curata da Bruna Biamino e si inserisce fra i progetti che i “Musei Reali” dedicano agli obiettivi strategici di sviluppo sostenibile (ancora assai lontani dall’essere realizzati) indicati nell’“Agenda delle Nazioni Unite”. Tre, fra i magnifici 14, i vincitori di almeno un “World Press Photo Award” (il più prestigioso concorso di fotogiornalismo al mondo): Alessandro Albert, terzo premio nella sezione “Ritratto” (2001) insieme a Paolo Verzone – che in mostra, nella serie “Arctict Zero”, cristallizza oggi il lento inesorabile scioglimento dei ghiacci al Circolo Polare Artico – e Fabio Bucciarelli“Photographer of the Year” nel 2019, che, oltre a un “World Press Photo” s’è aggiudicato anche il “Visa d’Or Award” e, nel 2013, la medaglia d’oro “Robert Capa” dell’“Overseas Press Club of America” per la copertura della guerra siriana.

Tutti e tre torinesi, Bucciarelli presenta nelle “Sale Chiablese” un “Famine and Cholera in South Sudan” che è un “Golgota” di dolore, in cui uomini stremati da carestia e colera, ci appaiono come dolorose coppie del Cristo in croce in mezzo ai due ladroni, suoi compagni di calvario e di morte. Una briciola (ma solo una briciola) di gioia, le mani alzate, i capelli nascosti dal velo (hijab) ci racconta invece lo scatto del genovese Dario Bosio entrato in una scuola per bambine “sfollate interne” in Iraq.

 

Le altre immagini di Francesca CirilliAlessandro De BellisPino Dell’AquilaNicole DepaoliLuca FarinetLuigi GariglioAntonio La GrottaMatteo MonteneroVittorio Mortarotti ed Enzo Obiso documentano e narrano, con l’amarezza di chi sa di mostrare al mondo pagine di oscura brutalità altrimenti inimmaginabili, le condizioni di vita in alcuni angoli del pianeta, metropoli, foreste, carceri, i profughi siriani          e quelli ucraini, i lavoratori in Mozambico e quelli, non più fortunati, di Foggia. Non mancano anche scatti legati alla prima ondata del Covid. Il tutto in un’ampia panoramica che spazia dal Vietnam al Messico, dal Mozambico e dall’Iraq alla Polonia, dalle Svalbard all’Amazzonia e all’Africa Orientale. Dove le immagini si intrecciano con i dati statistici che provengono da organizzazioni governative quali OMS, UNHCR, FAO e UNICEF, che amplificano il messaggio visivo sulle criticità che ancora affliggono le condizioni del pianeta e degli esseri viventi. “Le ricerche dei fotografi selezionati – afferma Enrica Pagella, direttrice dei ‘Musei Reali’ – tracciano un disegno di testimonianze visive intorno alle sfide globali che ci attendono. Un messaggio che dalle ‘Sale Chiablese’ si riverbera sul grande patrimonio dei ‘Musei Reali’, per interrogare i segni e le ragioni che nel passato ci aiutano a interpretare il presente, in un dialogo incessante tra mondi vicini e lontani, persone e destini, per guardare e interpretare, da Torino e dai suoi musei, il mondo che ci circonda e restituirne le voci nelle buone pratiche di studio, di gestione e di valorizzazione della nostra eredità culturale”.

Gianni Milani

“Focus on Future. 14 fotografi per l’Agenda ONU 2030”

Musei Reali – Sale Chiablese, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/19560449 o www.museireali.beniculturali.it

Fino al 19 febbraio 2023

Orari: dal mart. alla dom. 10/19

Nelle foto:

–       Paolo Verzone: “Arctic Zero”, 2015 – 2022

–    Fabio Bucciarelli: “Famine and Cholera” in South Sudan”, 2017

–       Dario Bosio: “Schooling for IDPS in Iraq”, 2017

–       Andrea Guermani: foto di gruppo con Enrica Pagella

Arte a 33 Giri all’ombra della Mole

 

Puntata n° 9
Giovedì 23 febbraio 2023 ore 18:30
Da Punk a Kottolengo. Futurismi, vini e vinili

Infanzia in “Barriera di Milano”, adolescenza punk e avant-gardiste sino al successo popolare che lo travolge durante il servizio militare nei primi anni ’80. Per anni artista cosmopolita a spasso per tutta Europa, la vita gli propone il ritorno nel suo Piemonte per produrre musica e vino. Due cardini: umiltà ed autoironia. Stefano Righi aka Johnson Righeira, a 60 anni una vita che merita d’essere raccontata.

Conduce l’incontro Daniele Lucca (operatore culturale e conduttore radiofonico)
In conversazione con Johnson Righeira (cantante, produttore di vino)

Vanchiglia 3 Spazi di Connessioni Creative
Via Vanchiglia 3 (II piano) a Torino. Ingresso libero.

— —
Arte a 33 Giri all’ombra della Mole.

Ciclo di incontri legati al mondo della musica e al suo intreccio multidisciplinare.
Appuntamenti in presenza a ingresso libero, anche in diretta su Radio Contatto e con riprese video di AICS Web TV, organizzazione a cura di Roberto Tos. Realizzato nell’ambito del progetto Vanchiglia 3 Spazi di Connessioni Creative grazie al sostegno di Fondazione Compagnia di San Paolo.
Puntate precedenti:
– articoli: https://www.aicstorino.it/category/arte-a-33-giri/
– podcast: https://open.spotify.com/show/3CVGUIRdVNCJcoYYLvUtWI?si=30252c5f616b4a7a
– video: https://www.youtube.com/@aicstorino5104/videos

— —

Vanchiglia 3 Spazi di Connessioni Creative
Via Vanchiglia 3, II piano, 10124, Torino
Un presidio culturale di prossimità nel quartiere Centro della Circoscrizione 1, centro per l’associazionismo e spazio per la cittadinanza pensato per promuovere connessioni e relazioni.
E’ anche sede del Comitato provinciale AICS Torino APS. Uno spazio di socializzazione per confrontarsi e immaginare insieme proposte di produzione culturale, di progettazione partecipata, di realizzazione di attività e eventi sportivi, di condivisione di saperi in un’ottica di inclusione sociale mettendo in comune la creatività collettiva.
https://www.aicstorino.it/sociale/vanchiglia3-spazi-connessione-creative/


Vanchiglia 3 Spazi di Connessioni Creative
Via Vanchiglia 3, II piano, 10124, Torino
email: vanchiglia3@aicstorino.it
sito web: www.aicstorino.it/vanchiglia3
tel: 011 238 6372
Indicazioni stradali: https://goo.gl/maps/ywRjdKn19DkmM4s68

Il PAV, uno dei parchi d’arte più belli d’Italia

A Torino il sito espositivo all’aperto con uno spazio interattivo.

Nato nel 2008 per volontà dell’artista Pietro Gilardi si trova nel quartiere Filadelfia, nella nostra bella capitale subalpina.

Diretto da Enrico Bonaparte, il Parco Arte Vivente (PAV) è composto da un sito espositivo open air e un museo interattivo dalla vocazione sociale intesa come luogo d’incontro e come laboratorio di esperienze legate al dialogo tra arte e natura, tra biotecnologie ed ecologia, tra artisti e pubblico.

Il Parco occupa uno spazio 23.000 mq, di quella che una volta era un’area industriale, sia con opere permanenti come Trèfle, installazione ambientale dell’artista Dominique Gonzalez-Foerster (2006), il Jardin Mandala, giardino progettato dal paesaggista Gilles Clément (2010), che ospitando mostre temporanee e accogliendo altri interventi negli spazi esterni, immersi nel verde, e nei locali interni.

Il tema originale e dominante che ha dato anche il nome al Parco, ovvero l’Arte Vivente, è “una declinazione delle tendenze contemporanee” come la Bioarte, la Biotech, l’Arte transgenica e l’arte biologica. Le sperimentazioni sono realizzare attraverso materiali organici e inorganici, “ la vita, con le attuali riflessioni bioetiche sull’uso di determinate pratiche, è indotta anche attraverso mezzi biotecnologici”.

Molto interessante è il coinvolgimento del pubblico attraverso workshop e seminari condotti dagli artisti stessi. “Il programma propone itinerari di conoscenza teorica e laboratori in collaborazione con esperti di varie discipline, fornendo mezzi e materiali per vivere un’esperienza personale ricca di stimoli cognitivi, emotivi ed espressivi”.

Torino ancora una volte si distingue per l’avanguardia, per la creatività e per la capacità di trasformarsi. In questo caso un’area abbandonata destinata all’oblio e, probabilmente, anche al degrado, grazie ad una perspicace intuizione, è stata destinata all’arte, alla natura e al coinvolgimento attivo della gente attraverso un piano di diffusione culturale sociale. Questo è un ottimo esempio, un modello da seguire per convertire il decadimento in bellezza, il brutto in armonia, il vecchio in un nuovo promettente e al servizio del sapere.

MARIA LA BARBERA

PAV

Centro sperimentale d’arte contemporanea
via Giordano Bruno 31, Torino
T. +39 011 3182235
info@parcoartevivente.it

San Valentino, biglietti per coppie alla mostra “David Bowie / Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti”

/

Dal 1° dicembre 2022 al 26 febbraio 2023

DAVID BOWIE

Steve Schapiro

America • Sogni • Diritti

Archivio di Stato
Piazza Castello 209 – Piazzetta Mollino. Torino
giovedì e venerdì dalle 15 alle 19
sabato e domenica dalle 11 alle 20

 

martedì 14 gennaio dalle 10 alle 18
per San Valentino
apertura straordinaria
1 biglietto per 2 innamorati
Nella giornata del 14 febbraio 2023 la mostra “David Bowie | Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti” (1° dicembre 2022 – 26 febbraio 2023, Archivio di Stato, Torino) sarà aperta straordinariamente dalle 10 alle 18, con un biglietto offrendo 2 ingressi al costo di uno per le persone che si presenteranno, innamorati e in coppia.
La promozione è valida per ogni tipo di coppia!Una bellissima occasione per conoscere il momento clou della carriera di David Bowie attraverso gli scatti del leggendario fotografo americano Steve Schapiro.

David Bowie a metà degli anni Settanta, dopo essere divenuto icona culturale in Inghilterra – suo paese di origine – riesce ad imporsi anche nel mercato più ampio e difficile da conquistare di sempre: gli Stati Uniti. L’album Diamond Dogs, e il relativo tour promozionale in Nord America, anticipano di qualche mese il suo trasferimento a Los Angeles. Nella città californiana Bowie, per sua stessa ammissione, vivrà uno dei periodi più bui della sua vita. Tra l’abuso di cocaina e l’ossessione per l’occultismo, Bowie rischiò di implodere. Ma nonostante la sua salute fisica e mentale fosse stata messa a dura prova, trovò il modo per uscire da quel tunnel che lo stava portando alla morte.Fu in quel periodo, infatti, che iniziarono le riprese di un film che lo avrebbe visto come protagonista, il primo della sua carriera. Grazie a “L’Uomo che Cadde sulla Terra” Bowie dovette imparare a gestire sé stesso in modo da essere professionale sul set. Musicalmente parlando invece, scrisse alcuni brani che avrebbero dovuto essere inclusi nella colonna sonora del film: si trattava perlopiù di musica strumentale che non venne utilizzata per lo scopo che per il quale fu prodotta. Quei landscape sonori divennero però poco tempo dopo il tema principale di due dischi fondamentali come Low e Heroes, dischi che segnano il ritorno di Bowie in Europa e la sua rinascita come artista precursore e innovatore. Ma prima di lasciare definitivamente Los Angeles, Bowie sotto le spoglie del suo nuovo personaggio, The Thin White Duke, registra il suo nono album in studio ovvero Station to Station.

In tutte le fasi dell’avventura americana di Bowie è presente, nei momenti salenti e cruciali, Steve Schapiro, che sarà fotografo di scena di “L’Uomo che Cadde Sulla Terra” e autore degli scatti che compaiono sulla copertina sia di Station to Station sia di Low. Schapiro, nato a Brooklyn nel 1934, è già considerato uno dei maggiori fotografi dell’epoca nonché uno dei più influenti nella storia della cultura popolare americana. Schapiro ha testimoniato con la sua macchina fotografica i momenti salienti della società americana della seconda metà del XX secolo: dall’avvento dei Kennedy passando per l’epopea pop di Andy Warhol e la Factory, dai movimenti per i diritti civili di Martin Luther King Jr. a personaggi dello sport come Mohammed Alì, fino al cinema d’autore per il quale ha lavorato come fotografo di scena in pellicole senza tempo come Il Padrino, Taxi Driver, Un Uomo da Marciapiede (Midnight Cowboy) e Apocalypse Now.

Bowie e Schapiro si incontrano per la prima volta 1974, in un pomeriggio anonimo in uno studio fotografico di L.A. Una delle ragioni di questo servizio era provare diverse idee e personaggi che Bowie avrebbe potuto sviluppare nelle sue performance live o nella sua musica. Il cantante per questo scopo portò con sé dei costumi da provare, la responsabilità di Schapiro fu quella di portare l’immaginazione di David alla luce del sole, tradurla in realtà. Nulla di quel primo servizio era stato preparato in anticipo… Tutte le idee messe in scena sul set nacquero spontaneamente dalla mente eclettica del cantante stimolata da quella del fotografo. Durante quel pomeriggio tra i due nasce una immediata sintonia nutrita dalle reciproche passioni e lavori – che finirono per influenzarsi l’uno con l’altro – e una collaborazione che durerà fino alla fine degli anni ’80.
Grazie ad uno straordinario mosaico di immagini, Schapiro racconta la società americana della seconda metà del secolo scorso, in maniera più chiara, diretta e allo stesso tempo poetica, di tanti romanzi, saggi, canzoni o opere d’arte siano state prodotti per decifrare uno dei periodi più complessi della storia recente. Questa storia, che si interseca con la storia biografica di David Bowie, uno dei grandi protagonisti e mente creative del ‘900, è ripercorsa nella mostra “David Bowie | Steve Schapiro: America. Sogni. Diritti”.

Attraverso la capacità di Schapiro di cogliere l’umanità dei suoi soggetti, il visitatore potrà riscoprire quindi non solo l’aspetto più personale di uno dei grandi miti della cultura popolare del XX secolo ma anche addentrarsi e respirare il clima culturale in cui Bowie creava la sua opera. Entrambi gli artisti, infatti, condividevano una particolare sensibilità per quelli che erano i temi sociali dall’epoca, a cominciare dalle lotte per diritti civili degli afroamericani, delle donne e delle persone queer. Schapiro che queste lotte -importanti allora come oggi – non solo le aveva documentate con la sua macchina fotografica ma anche sostenute di persona, ne fece spesso argomento di conversazione con Bowie, che dal canto suo le aveva sempre sposate, collaborando con molti musicisti di colore e denunciando apertamente MTV colpevole di non trasmettere abbastanza artisti di colore in un momento storico nel quale nelle strade di molte periferie americane stava nascendo l’Hip Hop.

A cura di ONO arte, la mostra è prodotta da Radar, Extramuseum e Le Nozze di Figaro, rappresenta un’anteprima nazionale e si compone di 70 scatti che partendo dal lavoro di Schapiro con David Bowie portano il visitatore a scoprire anche il suo lavoro di fotoreporter e fotografo di scena.

Steve Schapiro (1934 – 2022) scopre la fotografia all’età di nove anni durante un campo estivo. Eccitato dal potenziale della fotocamera, trascorse i decenni successivi aggirandosi per le strade della sua città natale, New York, cercando di emulare il lavoro del fotografo francese Henri Cartier Bresson, che ammirava molto. Dalla pratica dilettantistica passa agli studi al fianco del fotoreporter W. Eugene Smith, la cui influenza su Schapiro fu grandissima. Al fianco di Smith oltre alle competenze tecniche, Schapiro sviluppa la sua cifra artistica.
Durante gli anni Sessanta in America, definito “l’età d’oro del fotogiornalismo”, Schapiro ha prodotto saggi fotografici su temi diversi tra cui la dipendenza da stupefacenti, la Pasqua ad Harlem, l’Apollo Theater, Haight-Ashbury, i movimenti di protesta politica o la campagna presidenziale di Robert Kennedy. Attivista e documentarista, Schapiro ha raccontato con i suoi scatti, molte storie relative al movimento per i diritti civili degli afroamaericani, tra cui la marcia su Washington, le proteste per la registrazione degli elettori e la marcia da Selma a Montgomery. Chiamato dalla rivista Life a Memphis dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr, Schapiro ha prodotto alcune delle immagini più famose di quel tragico evento.
Negli anni ’70 Schapiro spostò la sua attenzione sul cinema. Con le principali compagnie cinematografiche come suoi clienti, Schapiro ha lavorato sul set di film come “Il Padrino”, “Come eravamo”, “Taxi Driver”, “Midnight Cowboy”, “Rambo”, “Risky Business” e “Billy Madison”. Ha anche collaborato a progetti con musicisti, come Barbra Streisand, David Bowie e i Velvet Underground per copertine di dischi e opere d’arte correlate.Con il patrocinio di Regione Piemonte
Media partner Radio Veronica One
———————————–
Archivio di Stato
Piazza Castello 209/Piazzetta Mollino
Dal dicembre al 26 febbraio
Giovedì e venerdì dalle 15 alle 19
Sabato e domenica dalle 11 alle 20
8 dicembre, 26 dicembre, 1 e 6 gennaio dalle 11 alle20
ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
25 e 31 dicembre chiusoBiglietteria:
intero 12€ | ridotto  9€
Riduzioni: U18, O65, tesserati AICS, possessori abbonamento annuali o plurimensili  GTT , abbonamenti Musei Piemonte e Valle D’Aosta, Abbonati Teatro Concordia

La relazione con l’“Altrove” nella plastica installazione di Leonardo Devito

“Ghost Dance”, in esposizione ad “Osservatorio Futura”

Fino al 20 febbraio

Di primo acchito, non appena varcata la soglia del piccolo spazio espositivo al civico 20 di via  Giacinto Carena (zona piazza Statuto – San Donato) a Torino, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un’essenziale, non vistosa– nei mezzi e nei passi della narrazione – scenografia teatrale. Essenziale, non vistosa, ma certamente intrigante.

E inquietante, anzichenò. Libere, in una sorta di esoterica propiziatoria danza circolare, figure misteriose a-corporali, tessuti intinti di gesso dal color giallo tendente al verdastro, manichini o “fantasmi” benevoli svolazzanti uniti a semicerchio, nell’angolo a prima vista dello spazio d’ingresso di “Osservatorio Futura”, l’Associazione Culturale – raccoglitore e intelligente divulgatore di giovani libere e futuribili proposte artistiche – creata, per passione e per sfida, nel 2020 da Francesca Disconzi e Federico Palumbo, in comune la subalpina “Accademia di Belle Arti”, poi percorsi diversi ma, sempre, attaccata addosso la grande passione per l’arte declinata al futuro. A terra, la figura bianca (altrettanto a-corporale) di un giovane ragazzo dormiente – il viso in calco gessato – su cui svolazza il birbante “fantasmino” dall’aria ironica che pare volerlo destare – braccia e mani aperte – con il suo inatteso e fastidioso “cù – cù”– Dopo il primo, brusco incontro, l’“installazione site-specific” del giovanissimo Leonardo Devito, ti spinge a girarle intorno, a meglio osservarla, a cercare di capirne genesi e senso. Fiorentino, classe ’97, Leonardo vive e lavora a Torino.

Studi all’“Accademia di Belle Arti” di Firenze e all’“Akademie der  Bildenden Künste” di Vienna, attualmente è iscritto al biennio di pittura dell’“Accademia Albertina” di Torino e la sua formazione è fortemente legata all’“arte urbana”, che ha praticato negli anni utilizzando lo pseudonimo di “Mehstre”. “Quando ho proposto la mostra a Leonardo Devito – spiega Federico Palumbo, che dell’esposizione è anche curatore – gli ho lanciato immediatamente la suggestione di pensare insieme un progetto espositivo che non avrebbe proposto in nessun altro spazio. E questa, in realtà, più che una suggestione è dalle origini il mantra di ‘Osservatorio Futura’, che proponiamo a tutti gli artisti che lavorano con noi: valorizzare il nostro spazio al suo valore fisiologico di ‘project room’, tenendo astutamente a bada la voglia di scimmiottare gli spazi canonici e/o commerciali, tanto cari al mondo dell’arte più ‘classica’. Da qui è nata l’idea di proporre un’installazione scultorea e, più in generale, di ricerca, rivolta esclusivamente ad essa. Non abbiamo esposto la parte più iconica della produzione di Devito: le opere bidimensionali”. Che sono dipinti e sculture di egregia formazione accademica, dove il “valore” fondamentale della “scuola” si riflette tutto e bene nell’arte del giovane Leonardo. A dimostrazione un piccolo “ben compiuto” bassorilievo in argilla. “love in progress” amore che è dolcezza vitale contrapposta all’installazione ( nata da sogni e filosofie brumose ) e tesa ad “alleggerire – sia visivamente che concettualmente – il ‘mood’ generale dell’opera performativa: due innamorati al parco”. Un esempio chiaro della sua formazione classica di base. Su cui l’artista lavora di testa e di visionaria immaginazione. Illuminante la sua attrazione (non facile a crederci!) per quel Niccolò Dell’Arca (Bari, 1435 – Bologna, 1494), fra i grandi protagonisti della scultura dell’Italia settentrionale del XV secolo, autore del grandioso “Il compianto sul Cristo morto”, custodito nella Chiesa di “Santa Maria della Vita” a Bologna, con le sette “Marie”, maschere atroci di dolore intorno al corpo del Cristo, cui forse ha voluto pensare, non per blasfemia ma per seguire l’istinto di libera anarchia pop – new age, il nostro Devito nella sua “Ghost Dance”. Dove pur anche ritornano memorie legate all’omonima espressione rituale del movimento religioso diffuso fra gli Indiani d’America nella seconda metà del XIX secolo, realizzata nella tradizionale danza a cerchio annunciante “la fine del mondo, il ritorno dei morti e dei bisonti, la scomparsa dei bianchi e l’avvento dell’età dell’oro”.

Nella circolarità di “presenze” e misteriche “assenze”, in cui passato e futuro si annunciavano e fra loro comunicavano attraverso i suoni e i ritmi del presente. Sfuggenti filosofie, fatte proprie anche nei versi della “Ghost Dance” (1978, in “Easter”) cantata-recitata dalla “sacerdotessa maudite del rock” Patti Smith: “Eccoci qui, Padre, Signore, Spirito Santo/Pane del tuo pane, fantasma del tuo ospite/ Siamo le lacrime che sono scese dai vostri occhi/ Parola della vostra parola, pianto del vostro pianto. Vivremo ancora, vivremo ancora/Vivremo ancora”. Versi ben noti al giovane Devito e forse “traccia” non da poco al suo lavoro.

La mostra è visitabile solo su appuntamento tramite mail o sui social di “Osservatorio Futura”: www.osservatoriofutura.it o info@osservatoriofutura.it

Gianni Milani

“Ghost Dance”

“Osservatorio Futura”, via Giacinto Carena 20, Torino. Fino al 20 febbraio

Nelle foto di Davide D’Ambra: Federico Palumbo in una fase dell’allestimento, particolari da “Ghost Dance” e “Due innamorati al parco”, bassorilievo in argilla”.

A Torino la prima mostra personale in Italia di JR

Le Gallerie d’Italia aprono al pubblico dal 9 febbraio al 16 luglio 2023 nel museo torinese di Intesa Sanpaolo Déplacé·e·s, la prima mostra personale in Italia di JR, artista francese famoso nel mondo per i suoi progetti che uniscono fotografia, arte pubblica e impegno sociale.

Combinando diversi linguaggi espressivi, JR (1983) porta il suo tocco personale per raccontare la realtà e stimolare riflessioni sulla fragilità sociale nell’ esposizione che occupa circa 4.000 metri quadrati del museo di Piazza San Carlo, realizzata in collaborazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo e curata da Arturo Galansino.

“Accogliamo a Torino nel nuovo museo delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo il lavoro di JR, questo straordinario artista capace di stimolare la partecipazione attiva e la riflessione della collettività su grandi temi quali l’immigrazione e i drammi sociali che le guerre portano con sé. Intesa Sanpaolo, che i risultati del 2022 presentati pochi giorni fa hanno confermato tra le prime banche in Europa, cerca di fare la propria parte per attenuare le emergenze sociali con il più grande progetto privato in Italia di contrasto alla povertà, con aiuti alla popolazione ucraina e con un ampio sostegno dato ad associazioni e organizzazioni non profit – anche tramite il Fondo di beneficenza assegnato alla Presidenza. Le immagini di JR che colgono i sorrisi dei bambini nonostante difficoltà e sofferenze rappresentano un potente slancio di fiducia nel futuro”, ha commentato Gian Maria Gros-Pietro, Presidente Intesa Sanpaolo.

Giovanni Bazoli, Presidente Emerito di Intesa Sanpaolo, ha dichiarato: “La presentazione alle Gallerie d’Italia del progetto realizzato dall’artista di fama internazionale JR, che con talento e sensibilità trasforma l’arte in impegno sociale, conferma come il nostro nuovo museo di Torino sia luogo aperto alla riflessione sulle sfide più urgenti del presente. L’iniziativa interpreta pienamente i valori fondamentali del Progetto Cultura di Intesa Sanpaolo, volto a costruire società sostenibili e inclusive facendo leva sull’immenso potenziale della cultura”.

“La Fondazione Compagnia di San Paolo ha affiancato Intesa Sanpaolo nella definizione delle strategie delle Gallerie d’Italia – Piazza San Carlo fin dalle sue origini”- ha dichiarato Francesco Profumo, Presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo . “Il museo è concepito come un presidio culturale aperto a tutta la città, in grado di esplorare la complessità delle sfide del futuro legate alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Per la realizzazione della mostra Déplacé·e·s di JR alle Gallerie d’Italia la Fondazione Compagnia di San Paolo ha messo a disposizione la sua ricca rete di relazioni, coinvolgendo negli eventi correlati alla mostra diversi enti del territorio insieme ai quali è impegnata a costruire società più inclusive. Un impegno che si concretizza anche attraverso il supporto ad azioni di sensibilizzazione, formazione e informazione capaci di contribuire a promuovere una nuova e più equilibrata narrazione sulle migrazioni”.

Partito dalla banlieue parigina più di vent’anni fa, JR ha portato la sua arte in tutto il mondo con monumentali interventi di arte pubblica in grado di interagire con grandi numeri di persone e attivare intere comunità, dalle favelas brasiliane ad una prigione di massima sicurezza in California, dalla Pyramide del Louvre alle piramidi egiziane, dal confine tra Israele e Palestina a quello tra Messico e Stati Uniti.

I problemi dei migranti e dei rifugiati, sempre più di scottante attualità, fanno da molto tempo parte dell’indagine di JR. Il progetto Déplacé·e·s, cominciato nel 2022, riunisce per la prima volta in questa mostra alcune immagini scattate dall’artista in zone di crisi, dall’Ucraina sconvolta dalla guerra fino agli sterminati campi profughi di Mugombwa, in Rwanda, e di Mbera, in Mauritania, Cùcuta in Colombia e a Lesbo, in Grecia per fare riflettere sulle difficili condizioni in cui oggi versano migliaia di persone a causa di conflitti, guerre, carestie, cambiamenti climatici e coinvolgere pubblici esclusi dal circuito artistico e culturale all’insegna di valori come liberta`, immaginazione, creatività e partecipazione.

Seppur effimera, l’arte di JR crea un impatto sulla società e sul mondo in cui viviamo. Essa è realizzata per le persone e si realizza con le persone, rivelando l’importanza del nostro ruolo individuale e collettivo per migliorare il presente e per cercare di rispondere ad un quesito centrale per l’artista: l’arte può cambiare il mondo?

Il percorso espositivo prende il via dall’ingresso del museo, con la scalinata trasformata in un trompe l’œil con immagine anamorfica, un’illusione ottica con la quale i visitatori saranno invitati ad interagire.

La mostra continua nelle sale ipogee in cui, attraverso video, fotografie, sculture in legno e l’allestimento scenico di grandi teli raffiguranti le immagini dei bambini incontrati durante le visite nei campi profughi dal Ruanda alla Grecia, il pubblico può ripercorrere e immergersi nell’opera e nei viaggi che hanno portato l’artista parigino a confrontarsi con uno dei grandi temi dei nostri tempi, le migrazioni forzate.

Le opere, frutto degli incontri e delle azioni di arte pubblica messi in pratica da JR, sono protagoniste anche nella sala immersiva delle Gallerie dove una video-installazione creata per l’occasione riproporrà i “viaggi” dei grandi teloni in altre parti del mondo che, in questo specifico progetto, sono il vero fil rouge del racconto.  L’allestimento, una grande installazione site-specific, coinvolge così gli spettatori con opere di scala monumentale, grazie alla straordinaria capacità dell’artista di rendere il pubblico protagonista attraverso il mezzo video e fotografico.

Attorno all’esposizione – come già in occasione delle precedenti mostre – verrà realizzato un ricco palinsesto di eventi inseriti nel public program #INSIDE che, attraverso l’incontro con personalità del mondo della cultura, consentirà di approfondire temi legati alle riflessioni scaturite dalla mostra. La Fondazione Compagnia di San Paolo collabora con le Gallerie d’Italia coinvolgendo nella realizzazione degli eventi correlati alla mostra diversi enti del territorio insieme ai quali è impegnata a costruire società più inclusive.

Il catalogo della mostra, realizzato da Edizioni Gallerie d’Italia | Skira, sarà disponibile da marzo 2023 in edizione italiana, francese e inglese.

Il museo di Torino, insieme a quelli di Milano, Napoli e Vicenza, è parte del progetto museale Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, guidato da Michele Coppola – Executive Director Arte, Cultura e Beni Storici della Banca.