ARTE- Pagina 17

Bianco e Nero sotto la Mole in ricordo di Daniele Segre

Qualcuno di voi si potrebbe riconoscere, infatti  gli scatti in bianco e nero sono il risultato di una ricerca sociale curata da Daniele Segre negli anni 70.
Alla Mole Antonelliana è stato presentato un libro e una mostra di cancellata per ricordare Daniele Segre ad un anno dalla sua scomparsa.

Dalla collaborazione di Emanuele Segre, il figlio con il già direttore del Museo del Cinema Domenico De Gaetano nasce il desiderio di esporre alla città le immagini più significative del primo libro, la cancellata della Mole è la location espositiva di  14 grandi foto in bianco e nero che rappresentano volti, sguardi, momenti di uno spaccato della società dell’ epoca.
Dopo 45 anni viene rieditato e integrato il libro, la nuova edizione raccoglie oltre cento foto, alcune inedite, ritrovate negli archivi , e un QR code per vedere in streaming la trilogia dei film “Il potere dev’essere bianconero” del 1978, Ragazzi di stadio del 1980 e Ragazzi di stadio 40 anni dopo del 2018.
Il 42 festival del Cinema di Torino ospiterà  la proiezione del film “I ragazzi di stadio” nella sezione Zimbaldone  il 24 novembre alle ore 21.45 al cinema Romano.

GABRIELLA DAGHERO

La Cerimonia del Premio Odisseo 2024

Martedì 19 novembre presso il teatro Rete7. Tra le opere in premio alle aziende vincitrici anche un’opera di Pier Tancredi de Coll’ (nella foto)

 

Il Premio Odisseo è un format del CDVM – Club Dirigenti Vendita e Marketing dell’Unione Industriali di Torino che, dal lontano 2005, promuove l’attività economica di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, motivando le aziende a essere esempio di eccellenza e innovazione nell’ambito delle proprie competenze. Il premio riconosce la creatività, lo spirito innovativo abbinati alla interdisciplinarietà, alla sostenibilità ambientale delle realtà di business sul territorio in cui operano. Il Premio Odisseo è stato istituito per motivare le imprese e i propri manager ad essere esempio di eccellenza e innovazione nell’ambito delle proprie competenze. Vengono premiate quelle aziende ed enti che hanno ottenuto risultati di successo con creatività e spirito innovativo. D’altronde Odisseo è il nome greco di Ulisse, a cui si ispira il premio. A ciascuna delle aziende premiate verrà assegnato come premio un’opera realizzata appositamente da un noto artista. La cerimonia di premiazione avrà luogo martedì 19 novembre prossimo, alle ore 18, presso il teatro Rete7 di corso Regio Parco 146, a Torino. La registrazione avverrà a partire dalle ore 17.30.

Il Premio Odisseo 2024 consegnerà ai vincitori opere di Adriano Parisot, Mario Saini, Neri Ceccarelli, Pier Tancredi de Coll’, Sara De Siena e Simona Bosio.

 

Mara Martellotta

“Banksy & Friends: storie di artisti ribelli” alla Promotrice di Belle Arti

Appena conclusa la settimana dell’arte, un nuovo evento di portata internazionale accende i riflettori su Torino. Si tratta della mostra Banksy & Friends: storie di artisti ribelli”, in programma alla Promotrice di Belle Arti dal 15 novembre al 2 marzo 2025.

Protagoniste sono le opere che conducono lo spettatore attraverso un viaggio ironico e provocante e che lo invitano a riflettere sulla società contemporanea. Si tratta di ottanta opere tra quelle di Banksy e altri venti artisti non soltanto appartenenti alla street art. Sono le opere di Jago, Tvboy, Liu Bolin, David LaChapelle, Takashi, Murakami, Mr Brainwash, Obien, Damien Hirst, Sara Pope, Patrizia Casagranda, Kaws e degli italiani Angelo Accardi, John Blond, MaPo, Ozmo , Mimmo Rotella, Laurina Paperina, Nello Petrucci, Rizek e Giuseppe Veneziano.

L’esposizione, curata da Piernicola Maria di Iorio, con la produzione di Next Events, in collaborazione con Piuma, Artemisia, Pop House Gallery e Trium Art Gallery, fa emergere l’arte che spesso viene definita di strada per la immediatezza e la capacità di comunicare con un pubblico universale e eterogeneo.

Di Banksy sono esposte dodici opere tra cui “Girl with a Baloon” ( di cui è in mostra una riproduzione su carta) del 2002, “Queen Vic” del 2003, “Because I’m worthless” del 2004 e “Bomb Love” del 2003. Banksy, la cui identità è sconosciuta, è celebrato per i suoi graffiti di impatto. Le sue opere provocatorie sono emerse in controversi luoghi globali, da New York a Londra, da Tokyo a Berlino e, contemporaneamente, importanti istituzioni museali hanno esposto le sue opere sui loro muri, come il British Museum, La Tate Modern e il Louvre. La mistica intenzionale di Banksy lo ha elevato allo status di mito contemporaneo. La sua tela sono i muri, i ponti, le strade delle città di tutto il mondo, le sue immagini, spesso sorprendenti, esprimono principi contro la guerra e anticapitalisti. Un altro artista in mostra è Jago, di cui vengono esposte opere quali “Memoria di sé “(2015) Taste of Liberty (2019) e Donald (2015).

Jago è un artista italiano che opera nel campo della scultura e ormai famoso a livello internazionale. La sua ricerca artistica affonda le sue radici nelle tecniche tradizionali, tramite l’utilizzo del marmo come materiale nobile, che esprime temi che sono, però, contemporanei. All’età di 24 anni è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54esima edizione della Biennale di Venezia, esponendo il Busto di papa Benedetto XVI, scultura che è stata poi rielaborata prendendo il nome di Habemus Hominem e divenendo uno dei suoi lavori più noti.

Tvboy propone, invece, una poetica artistica che proviene dagli insegnamenti dell’universo fumettistico e dei cartoni giapponesi, che si uniscono alla dimensione evocativa della pop art e urban art. Le sue opere sono caratterizzate da un forte realismo e iconico è il messaggio di pace che trasmette la sua opera ‘Hope’. Tra i lavori esposti ‘Contemporary Adam’ del 2021, ‘Love in the time of Covid’ del 2020 e ‘The Fast Supper’ ( 2021).

Liu Bolin, artista cinese, è conosciuto a livello internazionale per le sue performance e la sua fotografia mimetica e ha fatto del camouflage la sua arte, con giganteschi selfie portrait, connubio tra body painting, installazione, fotografia e performance.

Non mancano in mostra anche opere di David LaChapelle, considerato uno dei dieci fotografi più importanti al mondo grazie ai suoi scatti surreali, con colori fluo e brillanti. La vera svolta artistica nella sua carriera avviene quando, visitata la cappella Sistina, decide di lasciare il mondo della pubblicità per dedicarsi interamente all’arte. Seguirà la serie di scatti biblici “-The deluge”, in cui l’artista rielabora miti della cristianità, icone religiose e scene bibliche in chiave moderna e che diventano una reinterpretazione della società consumistica.

Di Takashi Murakami è in mostra l’opera “Flowers”. Si tratta di un artista contemporaneo che, attraverso la pittura e i mezzi digitali o commerciali, ha sviluppato un linguaggio capace di fondere la cultura popolare con gli elementi formali dell’arte giapponese. Nel 1990 Murakami inizia la sua carriera di artista contemporaneo creando nel 1993 M. DOB, un autoritratto. Sviluppa un nuovo stile artistico che chiama ’superflat’ caratterizzato dalla bidimensionalità e dalla fusione di arte tradizionale giapponese, anime, manga e Pop art. Le sue opere ritraggono spesso personaggi mutuati dai cartoni animati, figure giocose e infantili che vogliono trasmettere un messaggio profondo sulla società contemporanea e una critica nei suoi confronti. Tra i personaggi iconici creati da Murakami il funghetto Mr DOB, in mostra, con ‘E poi White Mr DOB’ e ‘Flowers’. MaPo utilizza, invece, i personaggi creati da Walt Disney, inserendoli nel panorama del lusso, tra champagne, carte di credito e marchi di moda. In mostra ‘Minnie Fashion Style’ del 2022.

Mr Brainwash, pseudonimo di Thierry Guetta, è un artista e writer francese. Thierry Guetta ha utilizzato questo pseudonimo durante le riprese del film “Exit Through the gift shop” diretto da Bansky. La sua opera è stata fortemente influenzata dagli stili e dalle idee dei vari personaggi incontrati durante le riprese come Bansky e Fairey. Come Bansky utilizza anche immagini famose coperte da copyright, ma modificandole secondo il proprio gusto.

Le opere di Laurina Paperina, irriverenti e ironiche, esprimono una critica nei confronti della società contemporanea, della società dei consumi, della politica, mescolata a elementi della cultura popolare. In mostra ‘Hungry Cookies’ del 2020 e ‘Scary Movie’ del 2019.

In mostra anche opere di Angelo Accardi, che coglie visioni surreali della vita quotidiana sullo sfondo di realistici paesaggi urbani, e Nello Petrucci, artista visivo e filmmaker italiano attivo tra New York e Pompei. La sua anima errabonda, il desiderio di conoscere uomini, luoghi e persone, costumi, lo portano a sviluppare uno sguardo circolare, una forma artistica che si rispecchia nella poliedricità della cultura rinascimentale. Significativa e di critica alla società un’opera da lui creata, Plastic river, un’installazione temporanea e di grande successo, raffigurante una balena di circa 15 metri che ingerisce plastica e rifiuti dell’umanità, un esempio delle tante battaglie ambientali condotte dall’artista.

Promotrice di Belle Arti

Viale Balsamo Crivelli 11

Mara Martellotta

Tempesta di colori. Mary Heilmann e Maria Morganti

Con la doppia personale dedicata alle due artiste, la “GAM” di Torino ribadisce il nuovo progetto per l’allestimento delle “Collezioni” dell’era Bertola

Fino al 16 marzo 2025

Luce, colore, tempo. Sono questi i tre elementi essenziali su cui prende il via il progetto della “nuova GAM” di Torino; i tre temi cui s’ha da ispirare il nuovo allestimento delle “Collezioni permanenti”, così com’è inteso dalla direttrice (nominata il febbraio scorso) Chiara Bertola. Un percorso che con le due nuove mostre dedicate a Mary Heilmann e a Maria Morganti – la cui inaugurazione segue di pochi giorni quella dedicata a “Berthe Morisot. Pittrice impressionista” (unica donna fra i fondatori del movimento della “Nouvelle Peinture”) – aggiunge un nuovo importante tassello a un progetto che nelle cifre astratte (mondi di colore che si fanno luce corpo tempo totalità di vita di esistere e di mestiere) della Heilmann e della Morganti trova nuova e fertile linfa per aprirsi al “nuovo” futuro. Inaugurate entrambe martedì 29 ottobre, entrambe proseguiranno fino a domenica 16 marzo del prossimo anno.

Per Mary Heilmann, nata a San Francisco nel 1940 e sicuramente fra le più importanti pittrici astratte contemporanee, quella negli spazi della “GAM”, curata dalla stessa Bertola e realizzata con la collaborazione dello “Studio Heilmann”di New York, è la prima personale italiana e ripercorre praticamente, attraverso una sessantina di opere, l’intera sua carriera, dai primi dipinti geometrici anni ’70 fino alle recenti “tele sagomate” in colori fluorescenti. In quei rossi accesi, nei gialli e nei verdi e nei blu intensi – miscelati a larghe campiture spesso in contrasti esplosivi ed eterodossi, dove il magma cromatico è forza intensa di pennellata o di ben percettibile gesto manuale, non di rado debordante oltre la cornice dell’opera per prendere forma di  girovaghi satelliti di colore o di stralci di ceramiche smaltate – c’è tutta la sua vita, il suo essere donna e artista in tempi di intollerante “controcultura”, di “movimento per la libertà di parola – annota Bertola – di quello spirito ‘surfistico’ della sua nativa California, che seppe anticipare persino la cultura ‘beat’ e i successivi movimenti di contestazione del sistema”.

Il dipinto più datato presente in rassegna, “Chinatown” del 1976, prende il titolo dal non facile quartiere dove Heilmann vive i suoi primi anni a New York; a seguire “French Screen” e “The Rosetta Stone I” (entrambi del ’78) con “Robert’s Garden” (1983). Opere dov’è lampante l’influenza dei grandi maestri dell’“astratto”, primo su tutti l’olandese Piet Mondrian, fondatore di “De Stijl” e autore di opere spesso banalizzate per la loro “apparente” geometrica “semplicità”. Schermo di una “complessità” frutto, invece, di una continua ricerca di equilibrio e perfezione formale, portata avanti ed evolutasi nel corso di tutta una vita. Destino che Chiara Bertola si sente di accomunare, in parte alle opere di Mary Heilmann, mai arrivate in Italia, “opere sfuggite alla comprensione e la cui piena intelligenza non è stata colta, rimanendo così ‘senza tempo’ e ‘fuori dal tempo’ … la cui forza e gioiosità non sono state sufficientemente vissute dal vivo”.

Come quelle presenti in mostra e realizzate dagli anni ’80 ad oggi, partecipi della cultura del tempo, dell’amore per la musica e il cinema, per road movie, videogiochi e paesaggi oceanici dai verdi vivaci e dai grigi arruffati (“Tube at Dusk”, 2022) in cui la materia si fa grumo di memoria e di ripetute, graffianti esperienze di vita.

Nell’“essenzialità del gesto pittorico” e “nella sua ripetizione ed espansione nel tempo” ruotano invece le opere portate in mostra, e realizzate fra il 1988 ed il 2024, dalla milanese (veneziana d’adozione) Maria Morganti. Curata e fortemente desiderata da Elena Volpato, la rassegna porta letteralmente e concretamente al centro dello spazio espositivo il cuore dello studio dell’artista (“Luogogesto”, opera esso stesso), “luogo fisico e mentale, dove dare forma al tempo attraverso la semplicità di atti quotidiani che compongono, per lento accumulo, il complesso diario cromatico di un’esistenza”.

Luogo dove ogni mattina, la pittrice crea un nuovo colore dal fondo della sua mitica “ciotola”, scrigno prezioso di quella “melma cromatica” ferma lì, mescolata e rimescolata da anni, erede gestualità della veneziana scuola  del colore e lievito naturale alle sue creazioni. Dai “Confronti” con i maestri del passato, ai suoi “Diari” (da “artista-archivista”, com’è stata definita) e alle sue “Sedimentazioni” di tempo quotidiano e tempo storico. Fino al suo “Quadro infinito”, realizzato ogni giorno, strato dopo strato, dal 2006. All’“infinito”, appunto.

Gianni Milani

“Mary Heilmann – Maria Morganti”

GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it

Fino al 16 marzo 2025

Orari: mart. – dom. 10/18. Chiuso il lunedì

Nelle foto: Mary Heilmann: “InstallationView”, Ph. Nicola Morittu; Maria Morganti: “InstallatioView”, Ph. Luca Vianello e Silvia

Pippo Leocata, “Un mondo da recuperare”

Dal “MUSarMO” di Mombercelli, attraverso le dolci colline della Valtiglione, sostano per Chiese, Cantine e Torri le multiformi opere dell’artista 

Fino al 24 novembre

Mombercelli (Asti)

E’ una lunga, suggestiva cavalcata d’arte fra i lievi dossi delle Langhe monferrine, “Patrimonio Mondiale UNESCO”, quella compiuta dalle opere di Pippo Leocata, artista torinese, ma siciliano d’origine, di quella “siceliota” Adranon – Adrano, alle falde dell’Etna, che tanto continua a ricorrere, ancor oggi, nelle remote immagini e nelle accese cromie delle sue eclettiche, fin quasi imprevedibili e inaspettate, opere artistiche. Installazioni lignee, dipinti a olio e acrilici, di nuova e vecchia data, rappresentano una sorta di articolata “antologica”, una rassegna “a capitoli” o meglio, come preferiscono dire lo stesso Leocata e il curatore dell’evento, l’architetto Pietro Efisio Bozzola, una “mostra diffusa” con le opere dislocate in più sedi, “diffuse, per l’appunto, sul territorio come sono diffusi i paesi che lo punteggiano” e ospitate allo stesso tempo in Cantine – locali santuari del buon bere – così come in edifici storici e religiosi, Corti e Torri, che resistono al tempo ed offrono suggestiva accoglienza. O Musei. Come il “MUSarMo – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea”, ex “Carcere Mandamentale” progettato ad inizi Novecento dall’architetto Angelo Santoné, a Mombercelli, cuore della Valtiglione. E da dove (su iniziativa dell’Associazione Culturale “La bricula” di Cortiglione) va ad iniziare – fino a domenica 24 novembre – il percorso espositivo, caratterizzato dal maggior numero di opere in rassegna, per poi proseguire “in modo tentacolare, verso le altre località coinvolte”: dalla “Cantina Sociale” sempre di Mombercelli a “La Corte Chiusa” di Belveglio, alla “Chiesa della Madonna di Fatima” di Cortiglione, fino alla “Chiesa di San Giovanni Battista” e al “Santuario della Madonna del Carmine” a Incisa Scapaccino, alla “Torre” di Masio e alla “Cantina Sociale” di Rocchetta Tanaro, per concludere l’“andar per colline” con la “Cantina” di Vinchio e Vaglio Serra.

Iter da favola e di bellezze, naturali e architettoniche, tutte da scoprire e, allo stesso tempo, parte di “Un mondo da recuperare”, come recita il titolo della rassegna. Che é poi il titolo  della stessa lignea installazione visionabile nella prima foto in apertura di articolo, alle spalle di Pippo Leocata (al centro), del curatore Pietro Efisio Bozzola e della Conservatrice del “MUSarMO”, l’instancabile Anna Virando: due lineari ed essenziali figure lignee (pallet) “in blu acrilico” (un padre e un figlioletto?) tentano di sorreggere un “mondo” che sta per cedere al tempo e alle brutture umane. A terra un groviglio di trucioli, scarti dispersi o materiale ancora utile all’artista (mano divina) per aggiungere – non c’é mai sottrazione nelle sue opere – e riutilizzare in un esercizio certosino e ingegnoso di ricostruzione di quell’universo perduto. Figure simboliche e di “astratta” essenzialità, su cui la mano scorre libera e precisa per formulare racconti che violano il “reale”, attratti dal mito, da remote visionarietà in cui ben chiari s’appalesano l’alto mestiere e la prolifica fantasia di Leocata. Ne é chiara prova anche l’intrigante immagine del “Narciso” di “Solitudine e vanità” (legni pallet, acrilico e specchio sintetico) in cui l’artista ripercorre e rivede in modo singolare soggetti e pagine che hanno attraversato secoli di storia dell’arte, dal “Narciso alla fonte” di Pompei al controverso “Narciso” del Caravaggio (1597- ’99) fino alla surreale “Metamorfosi di Narciso” frutto delle esoteriche bizzarrie di Salvador Dalì.

 

Anche il suo é un triste Narciso, fanciullo “solitario” condannato dagli dei per la sua “vanità” a innamorarsi perdutamente di sé, un’ossessione che lo porterà alla morte in quello “specchio” d’acqua in cui non ha mai cessato di appagarsi, solo e sempre, della sua imagine. Accanto, altre installazioni lignee e specchio sintetico: davvero bello l’omaggio alla “Parata dei Cavalieri” di Fidia, così come l’“Omaggio a Mollino” in ricordo del grande architetto, suo docente negli anni ’60, al “Politecnico di Torino”. Processi creativi in cui penso trovi largo spazio – pur senza reprimere la singolare “forza creativa” di Leocata – anche l’idea geniale dei “quadri specchianti” di Michelangelo Pistoletto. Altro capitolo prezioso della mostra al “MUSarMO”, i dipinti a olio. Due, in particolare. Omaggio al territorio ospitante, una stupenda “Vigna”, ispirata all’omonima poesia pavesiana, quella vigna che “sale sul dorso di un colle/fino a incidersi nel cielo” dove il grande cerchio solare indora senza risparmio le alte cascine. Stupendo il quadro, grande l’effetto emotivo. E poi “Il verde e l’arancio”, dedicato a papà Vincenzo. Cambiano i luoghi, ma sempre terra – terra madre è: i suoli vulcanici della sua Adrano, nella zona archeologica del “Mendolito”, gli agrumeti di famiglia custoditi e osservati dall’alto da ‘a Muntagna (il Vulcano), dalle “Mura normanne” e dalla Cupola della “Matrice” (“Chiesa Madre”). Lì il pittore ritrova il volto, le mani e gli insegnamenti di papà Vincenzo. E il gioco della memoria si fa emotivamente più duro.

Gianni Milani

“Un Mondo da recuperare”

MUSarMO, via Brofferio 24, Mombercelli (Asti); tel. 338/424

Fino al 24 novembre

Orari: sab. e dom. 15,30/18

Nelle foto: Pietro Efisio Bazzola, Pippo Leocata e Anna Virando. Alle spalle “Un mondo da recuperare”, legni pallet e acrilico, 2022; “Solitudine e Vanità”, legni pallet, specchio sintetico e acrilico, 2024; “La vigna”, olio su tela, 2017; Il verde e l’arancio”, olio su tela, 2005 

Torino tra architettura e pittura. Felice Casorati

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7  I Sei di Torino
8  Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

 

6) Felice Casorati (1883-1963)

Lungi da me sostenere che esistono periodi artistici di facile e immediata comprensione, ogni filone, ogni movimento e ogni tipologia d’arte necessita di un’analisi approfondita per penetrarne il senso, tuttavia mi sento di affermare che da una certa fase storica in poi le cose sembrano complicarsi.

Mi spiego meglio: siamo abituati a considerare “belle opere” le architetture classiche, così come le imponenti cattedrali gotiche o ancora i capolavori rinascimentali e gli spettacolari chiaroscuri barocchi; il comune approccio alla materia rimane positivo ancora per tutto il Settecento, ma poi, piano piano, con l’Ottocento le questioni si fanno difficili e lo studio della storia dell’arte inizia a divenire ostico. I messaggi di cui gli artisti sono portavoce diventano maggiormente complessi, entrano in gioco le rappresentazioni degli stati d’animo dell’uomo, del suo inconscio, si parla del rapporto con la natura e d’improvviso l’arte non è più quel “locus amoenus” rassicurante a cui ci eravamo abituati. La sensazione di spiazzante spaesamento raggiunge il suo apice con le opere novecentesche, le due guerre dilaniano l’animo degli individui e la violenza del secolo breve si concretizza in dipinti paurosi che di “bello” non hanno granché. I miei studenti, giunti a questo punto del programma, sono soliti lamentarsi e addirittura dichiarano che “potevano farli anche loro quei quadri” o che “sono lavori veramente brutti” e ci vuole sempre un lungo preambolo esplicativo prima di convincerli a seguire la lezione senza eccessivo scetticismo.
Nel presente articolo vorrei soffermarmi su di un autore che si inserisce nel difficile contesto del Novecento, un autore le cui opere sono cariche di inquietudine e rappresentano per lo più immote figure silenziose, come imprigionate in atemporali visioni oniriche.  Sto parlando di Felice Casorati, uno dei protagonisti indiscussi della scena novecentesca italiana, attivo a Torino, dove si circonda di ferventi artisti volenterosi di proseguire i suoi insegnamenti.


Ma andiamo per ordine e, come mi piace sempre ribadire in classe, “contestualizziamo” l’artista, ossia inseriamo l’artista in un “contesto” storico-culturale ben determinato per meglio definire il senso e il portato dell’opera.
Nei primi anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa della critica d’arte Margherita Sarfatti, si costituisce il cosiddetto gruppo del “Novecento”, di cui fanno parte sette artisti in realtà molto differenti tra loro: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le differenze stilistiche sono più che evidenti poiché alcuni sono esponenti vicini al Futurismo, altri invece si dimostrano orientati verso un ritorno all’ordine, altri ancora hanno contatti con la cultura mitteleuropea. La definizione di “Novecento”, con cui tali pittori sono soliti presentarsi, allude all’ambizione di farsi protagonisti di un’epoca, di esserne l’espressione significativa. Il gruppo si presenta alla Biennale di Venezia del 1924 come “Sei pittori del Novecento”(Oppi presenzia all’avvenimento con una personale). L’esposizione viene felicemente acclamata dalla critica, tanto che, sulla scia del successo ottenuto a Venezia, la Sarfatti si impegna ad organizzare in maniera più incisiva il movimento, quasi con l’intento di trasformarlo in una “scuola”. I risultati si manifestano chiaramente: nel 1926 al Palazzo della Permanente di Milano viene organizzata un’esposizione con ben centodieci partecipanti. Il movimento “Novecento” si è ormai allargato tanto da comprendere gran parte della pittura italiana: fanno parte della cerchia quasi tutti gli artisti del momento, da Carrà a De Chirico, da Morandi a Depero, da Russolo allo stesso Casorati.  Tra i soggetti prediletti rientrano la figura umana, la natura morta e il paesaggio. Presupposti comuni sono il totale rifiuto del modernismo e un continuo riferimento alla tradizione nazionale, soprattutto a modelli trecenteschi e rinascimentali.

Con il passare degli anni il gruppo si fa sempre più numeroso e l’organizzazione del movimento si trasforma, la direzione delle iniziative artistiche ricade anche nelle mani di artisti di prima formazione quali Funi, Marussing e Sironi, insieme a personalità conosciute come lo scultore Arnolfo Wildt e i pittori Arturo Tosi e Alberto Salietti. Diventano via via numerosi i contatti con centri espositivi internazionali; alcuni artisti italiani trasferitisi all’estero si fanno appassionati organizzatori di “mostre novecentesche”, come dimostra ad esempio l’iniziativa di Alberto Sartoris, architetto torinese residente in Svizzera, il quale si occupa di organizzare nel paese di residenza un’ampia esposizione artistica del gruppo. Nel 1930, addirittura, il “Novecento” espone a Buenos Aires, avvenimento doppiamente importante, poiché grazie a tale iniziativa la critica Sarfatti riesce a ricapitolare nel catalogo della mostra le molteplici tappe del movimento. Espongono in Argentina ben quarantasei artisti, tra cui Casorati, De Chirico e Morandi.

 


Come è evidente, l’eterogeneità del gruppo manca di direttive e connotati chiari e univoci. Il tedesco Franz Roth conia appositamente per gli artisti di “Novecento” l’espressione “realismo magico”, che indica una rappresentazione realistica –domestica, familiare- ma al tempo stesso sospesa, estatica, come allucinata. Esemplificativo per esplicitare tale concetto è il dipinto di Antonio Donghi, “Figura di donna”, opera in cui domina una straniante immobilità incantata, la scena è immobile e l’osservatore percepisce che nulla sta per accadere e nulla è accaduto precedentemente.
Ed ecco che di “realismo magico” si può parlare anche per Felice Casorati (1883-1963), artista attivo nella prima metà del Novecento e docente di Pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli nasce a Novara, il 4 dicembre del 1883; il lavoro del padre, che è un militare, comporta che la famiglia si sposti spesso. Felice trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Milano, Reggio Emilia e Sassari, infine la famiglia si stabilisce a Padova, dove il ragazzo porta avanti la sua formazione liceale. A diciotto anni inizia a soffrire di nevrosi, ed è costretto a ritirarsi per un po’ sui Colli Euganei; proprio in questo periodo, Felice inizia a dedicarsi alla pittura. A ventiquattro anni -siamo nel 1907- si laurea in Giurisprudenza, ma decide di non proseguire su quel percorso, per dedicarsi all’arte, nello stesso anno parte per Napoli per studiare le opere di Pieter Brueghel il Vecchio, esposte presso il Museo Nazionale di Capodimonte.


Nel 1915, si arruola volontario nella Prima Guerra Mondiale, lo stesso fanno molti suoi contemporanei come Mario Sironi, Achille Funi Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni.
Nel 1917, dopo la morte del padre, Felice si trasferisce a Torino, dove attorno a lui si riuniscono artisti e intellettuali della città. Tra questi vi è Daphne Maugham, che diventerà sua moglie nel 1930 e dalla quale avrà il figlio Francesco, anche lui futuro pittore.
Casorati a Torino ha molti allievi nella sua scuola e presso il corso di Pittura dell’Accademia Albertina. Gli artisti più noti legati al suo insegnamento sono riuniti nel gruppo “I sei di Torino”, tra questi Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell.
La sua ascesa artistica è sostenuta da diverse amicizie, tra cui il critico d’arte Lionello Venturi, la critica milanese Margherita Sarfatti, gli artisti di Ca’ Pesaro, il mecenate Riccardo Gualino e l’artista di Torinese Gigi Chessa insieme al quale partecipa al recupero del Teatro di Torino.
L’artista non lascerà più il capoluogo piemontese, e qui morirà il 1 marzo del 1963 in seguito ad un’embolia.
L’autore è da considerarsi “isolato”, con un proprio personalissimo percorso, pur tuttavia incrociando talvolta le proprie idee con altre ricerche artistiche di gruppi o movimenti a lui contemporanei.
Secondo alcuni critici, le opere di Casorati sono intrise di intimità religiosa. Lo stile pittorico dell’autore si modifica nel tempo, i primi lavori sono infatti decisamente realistici e visibilmente ispirati alle opere della Secessione Viennese; negli stessi anni si può notare l’influenza di Gustav Klimt, che porta Felice ad abbracciare per un breve periodo l’estetica simbolista. L’influsso klimtiano è particolarmente evidente in un’opera del 1912, “Il sogno del melograno”, in cui una donna giace dormiente su un prato fiorito. Il prato intorno alla fanciulla è cosparso di una moltitudine di fiori di specie differenti, mentre dall’alto pendono dei grossi grappoli di uva nera. I riferimenti all’artista viennese sono concentrati nella figura della ragazza, con chiari rimandi ai decorativismi delle “donne-gioiello” protagoniste di raffigurazioni quali “Giuditta” (1901), “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”(1907) o il celeberrimo “ll bacio” (1907-08).
La figura del soggetto ricorda inoltre le opere preraffaellite, nello specifico l’ “Ofelia” di Sir John Everett Millais.


Negli elaborati degli inizi del Novecento, invece, sono evidenti i riferimenti a capolavori italiani del Trecento e del Quattrocento; nello stesso periodo l’autore si concentra su una generale semplificazione del linguaggio e sullo studio di figure sintetiche. Intorno agli anni Venti del secolo scorso impronta il suo stile a una grande concisione lineare, anche se è nel primo dopo-guerra che egli definisce il suo stile peculiare, caratterizzato da figure immobili, assorte, rigorosamente geometriche, quasi sempre illuminate da una luce fredda e intensa. Appartengono a questi anni alcuni dei suoi capolavori, come “Conversazione platonica” o “Ritratto di Silvana Cenni”. Per quest’ultima opera Casorati si rifà al celebre capolavoro rinascimentale “Sacra Conversazione” di Piero della Francesca, di cui riprende l’atmosfera sospesa, quasi metafisica, ottenuta grazie alla rigidità con cui Felice ritrae la donna  –seduta, assorta e immobile-  alla resa scenografica del paesaggio e alla fittizia disposizione degli oggetti all’interno della stanza. Le figure di Casorati sono volumetriche, solide e immote, come pietrificate, l’artista ne esalta i valori plastici grazie al sapiente uso del colore tonale. Nelle ultime tele, le fanciulle ritratte risulteranno quasi geometrizzate, esito di una notevole sintesi formale.
L’illuminazione risulta artificiale e per nulla realistica, effetto sottolineato dal fatto che Casorati non mostra quasi mai il punto di provenienza della luce; il risultato finale è quello di un mondo sospeso, raggelato e senza tempo.
Negli anni Trenta Casorati si dedica a dipingere nature morte con scodelle o uova, soggetti che ben si prestano ad interpretare il suo linguaggio plastico semplificato; egli esegue inoltri diversi nudi femminili in ambienti spogli e alcune tele che presentano disturbanti maschere, tema a lui già caro, come testimonia l’opera “Maschere” del 1921.
Davanti ai lavori di Felice Casorati non possiamo che rimanere attoniti e pensosi, intrappolati nel suo mondo metafisico.
L’arte è così, lo vedo con i miei studenti, non finisce mai di metterci alla prova, continua a incentivare pensieri e confronti e per quanto possa essere “lontano da noi” essa è capace di stimolare discussioni su tematiche sempre inesorabilmente e meravigliosamente attuali.

Alessia Cagnotto 

Pio Carlo Barola, percorso di un artista

La rassegna antologica, nel castello di Casale Monferrato, è uno splendido omaggio all’intero percorso artistico di Pio Carlo Barola, pittore e incisore con all’attivo prestigiose esposizioni accompagnate da entusiastiche recensioni di importanti critici tra cui Albino Galvano, Raffaele de Grada, Angelo Dragone oltre a incisori famosi quali Remo Wolf, Andrea Disertori e Francesco Tabusso.

Con originalità e stile personale Barola è riuscito, affidandosi ad una tecnica sperimentata di linea e colore, a conciliare molteplici suggestioni dell’arte del passato con le avanguardie storiche e le provocazioni dell’arte contemporanea. Avvolte in un sottile divertimento, che a sua volta Albino Galvano definì “scanzonato”, si armonizzano tra loro linee liberty avvolgenti e decorative accanto allo svettante dinamismo futurista, colori fauves accanto a chiaroscuri luministici come nella trasposizione del “S.Girolamo” di Caravaggio trasferito ai giorni nostri con un pacchetto di sigarette e un orologio al polso a simbolo di memento mori. Interessante anche il dipinto “omaggio a Zurbaran”, a cui toglie sacralità e misticismo secentesco risolvendolo nel clima novecentesco del realismo magico.

Da rilevare il suo grande impegno come organizzatore, insieme ad Antonio Barbato e a Gianpaolo Cavalli, riguardo la Biennale di grafica ed ex libris che da tempo si svolge con successo nella sala Chagall del castello Paleologo di Casale Monferrato.

Giuliana Romano Bussola

Marciano: “I SuOni delle ParOle OnOmatOpee a tre dimensiOni”

Giovedì 7 novembre presso la residenza universitaria CStudio inaugura alle 18.30 la mostra

L’Auditorium del CStudio presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo di via Ariosto 9 a Torino ospiterà  la mostra “ I SuOni delle parOle OnOmatOpee a tre dimensiOni” di Antonio Marciano. Verrà inaugurata  il 7 novembre prossimo alle 18.30. L’esposizione, curata da Ermanno Tedeschi, comprende una ventina tra disegni e quadri realizzati con i celebri chiodini pixelart di Quercetti. Si tratterà  di un’occasione, oltre che per vedere l’esposizione,  anche per conoscere uno spazio splendido e nuovissimo nel cuore della città.

“Le opere – racconta il curatore Ermanno Tedeschi- hanno un  carattere educativo e sono incentrate sul segno grafico  e sull’importanza della comunicazione della diversità  e disabilità,  in quanto  l’artista stesso utilizza i chiodini a causa di una malattia che ne limita il movimento,  tanto da essere costretto su una sedia a rotelle. Oltre alle onomatopee Antonio Marciano rappresenta anche i supereroi, protagonisti dei fumetti che, con i loro superpoteri, riescono a superare le avversità  e rispecchiano l’artista, che si sente un po’ supereroe tutti i giorni e ha una duplice identità: quella non comune viene tenuta ben celata sino a quando non si mette in mostra. I chiodini di Quercetti diventano un pennello nelle sue mani e ogni chiodino rappresenta una pennellata di colore. Solo vedendoli accostati gli uni agli altri si ottiene la visione di insieme, un divisionismo estremamente moderno e materico”.

L’intento di Marciano non è  quello di fare un gioco o di legarsi semplicemente all’immaginario infantile.  L’interesse artistico  è  legato alla gestualità  dell’infilare i chiodini, rituale che elogia il lento scorrere del tempo come cura per alleviare la frenesia del quotidiano. Attraverso queste opere Marciano esprime la voglia di essere vivo e di appuntare la realtà e bloccarla sulla tavola con i chiodini.

“Le persone avvicinandosi- spiega l’artista Antonio Marciano – e percorrendo le lunghe linee dei chiodini risentiranno i colori punto a punto  e faranno quei pensieri  brevi e gioiosi come quando spunta un fiore. Vorrei che le mie opere permettessero all’osservatore una piccola fuga spirituale, per non dimenticare l’importanza delle cose che hanno una forza e una bellezza straordinaria pur essendo semplici, temporanee e fugaci “.

Secondo alcuni studi l’utilizzo regolare del gioco dei  chiodini Quercetti rappresenta una formidabile ginnastica motoria per la mano e si è scoperto che attraverso la mano e il chiodino colorato si possono avere ripercussioni benefiche sul cervello avvantaggiando le nostre abilità linguistiche. Questo è lo scopo dei laboratori e workshop che affiancheranno la mostra e coinvolgeranno gli studenti della vicina scuola elementare, gli ospiti dello studentato e la cittadinanza che vorrà partecipare.

Ingresso gratuito prenotazione obbligatoria 

antoniomarciano75@gmail.com

associazione.acribi

a@gmail.com

Mara Martellotta

Uomo e natura… la pace possibile

Al “Castello di Rivoli”, le opere di venti artisti, collocate in oltre quarant’anni di storia dell’arte, raccontano la possibile, fattiva collaborazione fra uomo e natura

Fino al 23 marzo 2025

Rivoli (Torino)

L’arte, mediatrice di pace e condivisione fra essere umano e mondo naturale. E’ questo il principio (e la speranza) che sta alla base della grande rassegna “Mutual Aid– Arte in collaborazione con la natura”, ospitata, fino a domenica 23 marzo del prossimo anno, nella “Manica Lunga” del “Castello di Rivoli”. Prima mostra curata dal nuovo direttore, Francesco Manacorda, in collaborazione con Marianna Vecellio, l’esposizione intende esplorare il concetto di “mutuo appoggio” (come da titolo) e la possibile collaborazione creativa fra “esseri umani” e “natura”, attraverso la concreta proposta di suggestive, “improbabili” (eppur reali) esperienze di una ventina di artisti e dei loro “collaboratori non umani” che hanno affrontato il tema dagli anni Sessanta ad oggi. Ad ispirare la mostra sono le tesi contenute nel saggio “Il mutuo appoggio. Un fattore d’evoluzione” del filosofo “libertario” russo Pëtr Kropotkin (1842–1921), che, contrariamente ai discepoli del “darwinismo sociale” (giustificanti l’oppressione del più forte sul più debole), sosteneva la vita umana ed animale “essere prevalentemente basata sulla cooperazione e sulla solidarietà piuttosto che sulla lotta”.

Linea di pensiero che troviamo pienamente applicata nella mostra di Rivoli. A partire dalle imponenti “tele” di Vivian Suter (Buenos Aires, 1949) volteggianti nel vuoto della “Manica Lunga” a mostrare tutte le ferite e le tracce profonde, diventate cifra pittorica, lasciate dalle battenti piogge tropicali e dai segni fissati dal passaggio “disattento” e ripetuto degli animali. Opere che sfidano il “concetto di autorialità” esclusivamente umana. “L’esposizione – sottolinea Francesco Manacorda – attingendo a diversi linguaggi espositivi come il video, la pittura, il suono, l’installazione e la scultura, esplora infatti visioni che cercano nuove modalità di collaborazione con altre specie, trasformando la ‘Manica Lunga’ del ‘Castello’ in un organismo ‘vivente’ dove opere e processi naturali cooperano alla realizzazione di una vera e propria mostra vivente”. La natura crea e offre stimoli di ricerca all’artista. Il loro è un lavoro realizzato in piena collaborazione. Dove la mano e la mente dell’uomo positivamente accolgono suggerimenti, li accarezzano, li denunciano, li compongono e ricompongono nella fantasiosa attualità di opere su cui è d’obbligo fermarsi a riflettere con partecipata attenzione. Ecco allora Aki Inomata (Giappone, 1983) trarre ispirazione dalle modalità di costruzione delle dighe proprie dei castori euroasiatici, realizzando a mano e con una macchina da taglio automatica sculture in legno ricalcanti forme simili a quelle prodotte dai tenaci roditori semiacquatici.

Fra i grandi “pionieri” della “Land Art”, troviamo poi Giuseppe Penone (Garessio, 1947) che a Rivoli espone le opere della serie “Alpi Marittime”, fra cui la potente scultura “Trattenere 24 anni di crescita”, dove l’intervento artistico su un tronco di albero di noce magnificamente fonde in un sol corpo processi umani e naturali di forte intensità. E mutuo scambio. Che arriva al culmine in quel“Le lâcher d’escargots”  installazione ambientale (2009) in cui Michel Blazy (Monaco, 1966) coinvolge delle “lumache” che percorrono un tappeto lasciando scie che ricordano le intersezioni della pittura astratta. Lumache e lucertole, farfalle e fiori e insetti. Tutto collabora nell’artistica ricostruzione di un “Creato” da preservare. E l’elenco degli artisti impegnati in questa sorta di “miracolosa” profetica missione s’infittisce con nomi gravitanti nell’ambito di un’avanguardia artistica, ma anche politico-sociale (“Land” e “Pop Art”) in cui troviamo figure più o meno storiche dall’ungherese Agnes Denes all’argentino Tomàs Saraceno e alla brasiliana Maria Thereza Alves fino all’egiziano Nour Mobarak con opere plastiche dove il micelio di un comune fungo dai mille colori trasforma le sculture in organismi viventi “che mutano, decompongono e si ricompongono”.

E l’iter prosegue, dal torinese Renato Leotta all’americano Robert Smithson (solo per citarne alcuni) fino a concludersi con l’opera (2023) “The sun eats her children” di Precious Okoyomon (Londra, 1993), in cui una serra tropicale accoglie farfalle e piante velenose in un policromo paesaggio decisamente surreale e d’impronta onirica. Sempre in un’ottica di “mutua collaborazione”! Che non solo produce ingegnose pagine d’arte, ma che pure viaggia attenta a non tradire quella “natura”, non leopardianamente “matrigna”, ma sfatta e indispettita (questo sì!) dai continui inaccettabili soprusi umani.

Gianni Milani

“Mutual Aid – Arte in collaborazione con la natura”

Castello di Rivoli, piazza Mafalda di Savoia, Rivoli (Torino); tel.011/9565222 o www.castellodirivoli.org

Fino al 23 marzo 2025

Orari: dal merc. al ven. 10/17; sab. dom. e festivi 11/18

Nelle foto: Aky Inomata “How to Carve a Sculpture”, 2018 (ph. Eisuke Asaoka); Giuseppe Penone “Trattenere 24 anni di crescita”, bronzo, 2020; Michel Blazy “Le lâcher d’escargots”, lumache e moquette marrone, 2009; Precious Okoyomon “The sun eats her children”, fiori, terra vulcanica, farfalle, scultura di orso in resina, 2023

“Rock Art – il primitivo del sogno”, libro e mostra dell’artista Teresa Maresca

Nella cornice di Diagon Hall, nella giornata di domenica 3 novembre, si sono svolte la presentazione del volume “Il primitivo del sogno” e la mostra intitolata “Rock Art – il primitivo del sogno” della quotata artista Teresa Maresca. L’incontro è stato moderato da Gian Giacomo Della Porta, alla presenza del poeta, traduttore, scrittore e critico teatrale Roberto Mussapi.

La serata, che ha visto la partecipazione di un pubblico attento e appassionato, si è svolta attraverso un dialogo tra Teresa Maresca e Gian Giacomo Della Porta sulle origini dell’uomo e le prime rappresentazioni su roccia, magiche e intrise di una pura religiosità non confessionale poiché prive di fonti o ispirazioni artistiche alla base. Il libro di Teresa Maresca si esprime attraverso un contenuto paradossale: ripercorre le origini per parlare intensamente del presente e del prossimo futuro. Vi è in queste pagine la necessità da parte dell’artista di recuperare un patrimonio di interazione e dialogo tra uomo e natura che nel tempo è andato perdendosi. Il pubblico è stato inviato a riflettere sul momento in cui un albero, un sasso oppure l’acqua hanno smesso di possedere in noi quell’energia che chiamiamo anima, e che ora ci espone all’illusione considerarci padroni della natura e onnipotenti di fronte ad essa. Hanno fatto da cornice alla serata due splendi poesie inerenti al tema scritte e interpretate da Roberto Mussapi, una incentrata sulla figura dell’australopiteco Lucy e l’altra intitolata “Lettera dall’età della pietra”.

Mara Martellotta