Presso lo studio legale tributario Morabito, specializzato in diritto dell’arte.

Quando il diritto incontra l’arte, nasce un connubio perfetto come nel caso della mostra ospitata giovedì 16 dicembre prossimo presso lo studio Legale Tributario Morabito, in piazza Statuto 10,e dedicata all’artista Andrea Sbra Perego. L’esposizione,organizzata in collaborazione con la galleria Raffaella De Chirico Arte Contemporanea, narra la dicotomia vicinanza -lontananza in un periodo storico in cui le distanze paiono essersi amplificate. Il viaggio viene a assumere una nuova chiave di lettura, non più scontata, ma capace di stratificarsi attraverso la particolare tecnica mista utilizzata dall’artista, quale il collage, la pittura ad olio e la vernice spray, che si amalgamano per raccontare e restituire la complessità a luoghi percepiti per essere di passaggio.
L’artista Andrea Sbra Perego, nato a Bergamo nel 1982, vive e lavora a Torino. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, ha da sempre compiuto una ricerca artistica che si alimenta di viaggi e esperienze volti ad indagare lo stretto rapporto presente tra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda. Proprio l’uomo risulta il protagonista dell’interazione, studiata dall’artista, con il territorio urbano circostante. Il luogo occupato è sempre umanizzato e risulta il testimone del condizionamento che la società opera sulla natura. Il suo stile pittorico si è formatoispirandosi a maestri quali Fabio Maria Linari e Gianfranco Bonetti. Dal 2000 l’artista espone i suoi lavori in numerose mostre collettive e personali, dapprima nel Bergamasco, poi in città quali Milano, La Spezia, Genova e Roma, dove si è trasferito per breve tempo nel 2008, per poi spostarsi a Rimini e Londra. Dopo una breve parentesi messicana, nel 2015 ha fatto ritorno nella città natale. Durante gli anni dei suoi spostamenti la sua produzione artistica si è concentrata sull’uomo e sull’analisi del rapporto tra questi e la natura, sempre consapevole della necessità di “narrare il presente perché questo è o dovrebbe essere il compito di ogni artista”. L’opera d’arte, per Perego, non è soltanto il prodotto del suo lavoro in studio, sul cavalletto, ma rappresenta il vivere stesso seguendo i ritmi della società e facendone parte attiva. L’avventura dell’esistenza, in lui, avviene attraverso la ricerca dell’arte. La sua poliedricità lo ha portato poi a spaziare dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al video, fino ad abbracciare anche la performance.
https://www.andreasbraperego.com

Lo studio Morabito ha quale sua peculiarità la specializzazione in diritto dell’arte; i suoi avvocati, forti di una consolidata e lunga esperienza sul campo, sono in grado di sviluppare le soluzioni più efficaci per affrontare le sfide legali e commerciali dei clienti. Lo studio fornisce, inoltre, consulenze legali per collezionisti, gallerie d’arte, artisti e organizzazioni artistiche, occupandosi di materie inerenti il diritto dell’arte, la proprietà intellettuale, i contratti, la formazione aziendale, le fondazioni private e charity.
La galleria d’arte Raffaella De Chirico Arte Contemporanea, fondata nel 2011, ha da sempre focalizzato la sua attenzione sulla produzione e realizzazione di progetti per lo più inerenti il territorio nazionale, privilegiando i giovani artisti under 40, che si fossero già distinti nella ricerca e proposta artistica anche fuori Italia. Lo stesso principio viene applicato agli artisti storicizzati trattati in galleria, con riguardo particolare a coloro che abbianocompiuto la loro ricerca negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
MARA MARTELLOTTA

E la lezione morandiana ha segnato e segnerà per sempre, nella ricerca dell’essenzialità e della purezza segnica del dettato artistico, l’opera di Claudio Parmiggiani. Anche in quelle ingegnose sperimentazioni, giocate (attraverso materiali “suoi”, quali polvere e cenere, fuoco e aria, ombra e colore o luce e pietra e vetro e acciaio) sui concetti di silenzio-assenza, che hanno fatto di lui uno fra i protagonisti più prestigiosi e, soprattutto, singolari dell’arte contemporanea. Ne è prova concreta la significativa rassegna a lui (emiliano di Luzzara, classe ’43) dedicata dalla GAM di Torino. Quarto appuntamento del ciclo espositivo nato dalla collaborazione fra l’“Archivio Storico della Biennale di Venezia” e la “VideotecaGAM”, la mostra, curata da Elena Volpato, rappresenta una preziosa chicca – nella scoperta di un artista che da parecchi anni ha scelto un “volontario esilio” dai clamori delle troppe avanguardie – in quanto incentrata intorno all’unica opera video realizzata da Parmiggiani nel ’74. Prodotto da “Art/Tapes/22” di Firenze, il video si intitola “Delocazione” ed è accompagnato da altre due opere “capitali” nello sviluppo del suo lavoro e provenienti dalla “Collezione Maramotti” di Reggio Emilia: la stampa fotografica su tavola “Delocazione 2” del ’70 e “Autoritratto” del ’79, una silhouette d’ombra riportata su tela, anch’essa opera unica nella produzione dell’artista. “La triangolazione di queste opere – scrive Elena Volpato – racchiude l’intero arco degli opposti visivi che attraversa il lavoro di Parmiggiani. L’assenza dell’opera, che emerge in riserva sulla parete, nel bianco contornato dal grigio della polvere e della fuliggine, si riflette nel suo contrario visivo: la proiezione di un’ombra grigia che si disegna sulla tela bianca, presenza negata dello sguardo dell’artista sull’immagine svanita”.
Nel video “Delocazione” è, invece, possibile rintracciare la reazione a ciò che l’artista chiama “azionismo”: l’immagine ripresa è la sagoma scura di una sedia che emerge come da una fitta nebbia, dal bianco iniziale dello schermo, accompagnata dall’“allegro” del Concerto n.1 per clavicembalo dell’amatissimo Bach, per Parmiggiani compositore in assoluto di una musica perfetta. “Basta quella presenza a negare la possibilità di un’azione, e non soltanto perché la sedia è vuota e resterà tale, ma perché è girata verso la parete retrostante, disposta di fronte a una ‘Delocazione’, alla traccia di polvere e fuliggine di un dipinto svanito”. Silenzio. Assenza. Come suggestiva possibilità di riaccostarsi al “mistero”. Come drastica reazione al vocio scomposto della scena artistica di allora. Nel 1985, a poco più di dieci anni dalla realizzazione del video, Parmiggiani dichiarava in un’intervista ad Arturo Schwarz: “Ho fatto un unico video che tra l’altro non ho mai visto, nel 1972 o forse nel 1973, a Firenze, con Maria Gloria Bicocchi, era un’immagine fissa per quindici minuti, tra l’altro un’immagine assente, l’ombra di un’immagine. Anche qui ancora un no sia all’immagine sia alla funzione fotografica e dinamica dello strumento, era probabilmente una reazione a un ‘azionismo’ e ‘contorsionismo’ esasperato in quel periodo, per me era l’equivalente del ‘silenzio’ di Duchamp”. A completare la rassegna alla GAM, troviamo anche una selezione di libri realizzati da Parmiggiani tra il 1968 e il 1977, provenienti dalla “Collezione Maramotti” e dalla “Collezione CRT”. “Libri pensati da un artista per il quale la pagina bianca non è fatta per la riproduzione o la documentazione del lavoro, ma è innanzitutto spazio di manifestazione dell’opera e, insieme, primo luogo dell’assenza”. Assenza giustificata, in questo caso.
Animali, in gran numero, esotici e domestici. E autoritratti. Tanti. Disarmante e geniale nella ricerca di un’autoviolenza atroce e distruttiva é l’“Autoritratto con mosche” realizzato nel ’57 e di certo fra i più interessanti e dolorosamente amari nel gruppone di quelli posti in mostra. Il volto come sempre di sguincio, nessuna concessione alla benché minima positività, le mosche artigliate al collo e all’occhio destro che sembra trasudare sangue, il cranio malformato dal rachitismo sviluppato (insieme al “gozzo”) fin dall’infanzia, ogni singola imperfezione volutamente accentuata con pennellate di colore che calano sulla tela come sciabolate mortifere. In volo due corvacci, gracchianti dolorose cantilene foriere di oscuri presagi. Sofferenza. Dolore. Compagnia assidua di una vita disperata. Di un’infanzia negata. Di continue entrate e uscite dai manicomi.”Questo è il mio volto, se volete non ‘gradevole’, ma questo io sono” sembra dire l’artista, impegnato a rendersi ancor più “sgradevole”, autolesionista all’eccesso in una sorta di autoironica rappresentazione, esorcizzante forse il suo profondo malessere interiore. Antonio Ligabue, al secolo Laccabue (dal cognome del patrigno che egli rifiutò per tutta la vita) si trovava allora a Gualtieri, nel Reggiano, dov’era arrivato nel ’19, dopo aver aggredito la madre adottiva durante una lite. Arrivava dalla Svizzera (era nato a Zurigo, nel 1899) e aveva già conosciuto l’affidamento adottivo, la vita randagia, le case di cura.
A Guatieri dove visse come “straniero in terra straniera” era, per tutti o quasi, “Toni el matt”, nonostante in alcune opere come nel superbo “Autoritratto con cavalletto”, egli ami raffigurarsi vestito di tutto punto mentre en plein air dipinge un trionfante gallo. Un Toni quasi irriconoscibile, come i “normali” lo avrebbero voluto. Ampio spazio è dedicato in mostra anche alla scultura (oltre venti opere in bronzo, soprattutto di animali) cui l’artista iniziò a dedicarsi fin dai primi anni di attività usando al principio la creta del Po, resa più malleabile attraverso una lunga masticazione e solo più tardi ricorrendo alla cottura. E infine, altro filone ben narrato in mostra, quello dei paesaggi padani, dove sullo sfondo irrompono le raffigurazioni dei castelli e delle case, con le loro guglie e bandiere al vento, della natia e mai dimenticata Svizzera. Qui troviamo un velo di fanciullesca pittura “naive”. Ma solo un velo. Perché Ligabue fu soprattutto un grande “espressionista tragico” e, per certi versi, un “primitivo” alla Rousseau il Doganiere, pur se affascinato da van Gogh, non meno che da Klimt, dai “fauves” e dagli espressionisti tedeschi. Un artista diventato “mito”. Forse a sua insaputa. Mitizzato dall’attenzione dei rotocalchi degli anni Cinquanta fino a quella a lui ancor oggi riservata dal teatro (“Un bes” di Mario Perrotta) e dal cinema (dal recente “Volevo nascondermi”) di Giorgio Diritti. In mostra, a tal proposito, non mancano anche testimonianza dirette di autori, registi ed attori.
Sabato 20 novembre, si è inaugurata l’installazione ambientale permanente ideata per Casa Giglio da Francesco Simeti – artista italiano che vive a New York, noto per i grandi wall-paper realizzati mediante collage digitali con cui costruisce paesaggi immaginari popolati da raffinate metafore sociali.
“I miei quadri sono stati dipinti utilizzando la scala dell’esistenza e non quella istituzionale”: così diceva il grande Marck Rotcko, pittore statunitense di origine lettone (morto suicida nel 1970) e padre riconosciuto del “Color Field Painting” – pittura come “campo colorato”. Spazi astratti di colore vibrante in cui non v’è traccia di figure umane, ma solo “estasi” totale. Tragedia ed estasi. Arte come vita. Colori come ali essenziali a viaggi verso emozioni assolute. Parole e dimensioni in cui penso possa ben riconoscersi Franco Tosi, bolognese d’adozione (ma nato a Magenta nel ’62), cui la Galleria “metroquadro” di Marco Sassone dedica oggi in contemporanea, a quattro anni dalla sua ultima personale a Torino, due mostre dai titoli estremamente chiari e significativi: l’una “Insight” ospitata nella Galleria di corso San Maurizio e l’altra “Inside” presso gli spazi dell’“NH Hotel Santo Stefano” di via Porta Palatina. La rassegna si articola in tre sezioni: dalle distese di colore della serie dei “Landscapes”, di grandi dimensioni, ai più piccoli “Scratched Fields” fino alla certosina moltiplicazione cellulare della serie cosiddetta delle “Mitosi”. Scive Marco Sassone: “Le tre serie vivono indipendenti, ma tutte e tre si intrecciano nel tentativo di rappresentare le gioie ed i tormenti di quel mistero che è la vita”. In parete troviamo opere, quasi tutte di grandi dimensioni, votate ad una cifra astratta assolutamente controllata (pur con qualche “sgarbo” emotivo) nei ritmi cromatici, logica e analitica all’eccesso, dai verdi più o meno intensi agli azzurri sfumati in un chiaro-scuro che domina le campiture di colore dilatate sulla totalità della tela. L’artista si è diplomato a Bologna all’Istituto “IASA – Istituto per le Arti Sanitarie Ausiliarie” e proprio questo tipo di studi deve averlo indirizzato a concepire il lavoro pittorico come strumento di indagine introspettiva in grado di avvicinare l’artista all’osservatore, nella comune speranza di trovare un senso all’esistere. Ciò che gli interessa non sono dunque, per citare ancora Rotcko, “i rapporti di colore, di forma o di qualsiasi altra cosa, ma solo esprimere le fondamentali emozioni umane”. Introspezione ed interiorità sono, infatti, il leitmotiv dell’intera mostra. “Un modo differente di
guardarsi dentro – racconta lo stesso artista – dove il romanticismo dei landscapes , con campiture graffiate e tenui, a loro volta diventano il fluidificante nel quale nascono e si moltiplicano grappoli di cellule. La parte romantica lascia spazio alla ragione, soggettivo e oggettivo si incontrano in un gioco di ruoli dove nulla è più definito”. E allora quegli indefiniti totalitari spazi cromatici vanno a nascondere una singolarissima analisi interiore. Un gioco non semplice di anima e cuore che tende (ci riuscirà?) a coinvolgere e a concepire in un tutt’uno artista e spettatore. Davanti a uno specchio che spesso riflette “le debolezze dell’Io, in una continua ricerca di sé stessi e la paura, forse, di non trovarsi”. O, peggio di trovarsi.