ARTE- Pagina 105

“Il suonatore” e il “Concerto a due figure” di Antiveduto Gramatica nuovamente uniti

Solo fino a domenica 5 marzo alla Galleria Sabauda

Visibilmente emozionata, Maura Picciau, dirigente della Direzione Generale Musei, giunta appositamente a Torino per la solennità dell’occasione, parla di “fonte di soddisfazione”.

E sottolineando il grande lavoro di trattative e studi che hanno preceduto questa inaugurazione, un lavoro durato più di un anno e mezzo, punta l’attenzione sull’obiettivo del Ministero, ormai ventennale, all’arricchimento dei musei pubblici: consolidato lo scorso anno con una interessante voce di spese per gli acquisti, che ha fatto sì che questo “Concerto a due figure” di Antiveduto Gramatica, dipinto tra il 1608 e il 1612, un olio su tela pressoché quadrato (83 x 88,5 cm) potesse essere ricongiunto al “Suonatore di tiorba” che già fa parte del patrimonio della Galleria Sabauda: “uno dei vertici giovanili dell’attività di Gramatica – affermano i responsabili – per la raffinatezza nella resa delle figure e dei panneggi, la qualità cromatica nelle tonalità dei bruni e dei colori accesi e la rappresentazione degli strumenti musicali”. 

Sottolinea ancora la dirigente “il coraggio e la discrezione” dell’intera operazione, compiuta con “doppio controllo anche quadruplo controllo”, a significare la ricchezza e l’importanza dell’opera, l’urgenza perché essa venisse presto ricongiunta e potesse riformare ottimisticamente un unicum con la tela consorella. “Un’opera importante per la storia dell’arte, e vorrei dire quasi delle arti”, conferma Enrica Pagella Direttrice dei Musei Reali. “Un momento di memoria della città” che viene a far parte di un progetto ben più ampio: “L’incremento dei patrimoni può avvenire per via di donazioni, che attestano il radicamento dell’istituzione nella comunità di riferimento, oppure per via di acquisti, tesi a valorizzare, arricchire e talvolta risarcire o completare la catena di valori storici e artistici che si è sedimentata nel tempo.”

L’interessamento del Ministero è il frutto dell’intuito e degli sforzi appassionati di due galleristi torinesi, Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro, che scoprono il “Concerto” sul mercato dell’antiquariato londinese. La tela è nelle mani di Derek Jones e il punto primo è quello di distogliere la volontà dell’antiquario a voler interpellare un più vasto mercato internazionale. Memori del “Suonatore” e certi di una medesima radice delle due tele a seguito dell’attento studio del critico Gianni Papi, massimo specialista di Gramatica (che ricordiamo ebbe origini senesi, che arrivato a Roma appena ventenne potè già metter su una bottega tutta sua e ospitare i primi passi di Caravaggio nella città dei Papi, che potè godere degli appoggi di una personalità influente come il cardinale Francesco Maria Dal Monte) – tele suddivise assai presto, dal momento che due opere potevano rendere sul mercato assai più di una sola -, forti di ulteriori indagini diagnostiche e della conoscenza di copie posteriori che attestavano l’unicità della composizione, i due galleristi si mettono in contatto con il museo torinese in modo da consolidare una scelta che avrebbe portato al ricongiungimento.

Prima di arrivare agli sviluppi ultimi dell’operazione, risulta estremamente interessante l’ascolto della ricca narrazione da parte di Annamaria Bava, forse la persona che più da vicino ha seguito le tante vicende che interessano le due opere, dell’excursus che inevitabilmente abbraccia in esclusiva “Il suonatore” e abbandona alla piena solitudine artistica il “Concerto”, velocemente scomparso ad ogni conoscenza. Quindi è bene ricordare come “Il suonatore”, giunto a Torino nel 1635 – forse complice un veloce passaggio o una più lunga permanenza in città già una quindicina di anni prima dello stesso Gramatica – tra le diciassette opere volute dai Savoia per le proprie raccolte e passato quindi al patrimonio di Tancredi e Giulia Falletti di Barolo e, alla morte di lei (1864), donato dalla famiglia alla Sabauda, sia stato sino al 1928 attribuito al Caravaggio e che soltanto in quell’anno Roberto Longhi gli abbia ridato l’esatta paternità. Dando poi per buono il riconoscimento di una tiorba per lo strumento nelle mani del musico, allora si identificherebbe in Cesare Marotta il protagonista, pugliese d’origine e coniugato con quella Ippolita Recupito che ci guarda dal “Concerto” e che all’epoca fu una delle voci più apprezzate dalle corti, Mantova Roma Ferrara, dal 1603 stipendiata da Dal Monte. Se al contrario si prestasse voce a quella corrente di esperti che vede nello strumento la rappresentazione di un arciliuto (di una cordatura doppia e di un registro più acuto), allora il protagonista diverrebbe Vincenzo Pinti, conosciuto come il “cavaliere del liuto”.

Le due tele rimarranno affiancate nella sala della Sabauda per una settimana soltanto, sino a domenica 5 marzo, per poi essere nuovamente offerte allo sguardo degli studiosi. Si avranno maggiori notizie ad esempio su quella sigla T94 che è sul retro del “Concerto” (forse un passaggio tra la raccolta Del Monte a quella Torlonia?) o quel numero 1085 che sta alla base della medesima tela, sulla sinistra, certo ai tagli su entrambe le tele e a quei dodici cm mancanti alla base del “Concerto”; forse il tutto da decifrare ponendo a lato un’altra tela, della collezione Lancellotti, quattro musici tra i quali inequivocabilmente si riconosce il Marotta a cui i Savoia nel 1612, data utile per una più esatta datazione del quadro, diedero l’onorificenza di cavaliere.

Dal 9 giugno le due tele saranno al centro di una esposizione – molti i soggetti musicali, non ultime quelle “Muse” che Gramatica, verosimilmente intorno al 1621, realizzò per Vittorio Amedeo I e Cristina di Francia – che prenderà le mosse dalla collezione Falletti di Barolo, ampliando quella sala che racchiude i caravaggeschi e che già oggi mostra sul fondo quel capolavoro che è “L’Annunciazione” di Gentileschi.

Di 350 mila euro è la cifra che il Ministero della Cultura ha versato a mister Jones per l’acquisto e per il fortunato ricongiungimento, lasciandogli l’onere di un tondo 10% di tasse doganali al nostro paese.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Maura Picciau, dirigente della Direzione Generale Musei, e Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali, durante la presentazione delle due opere di Antiveduto Gramatica; “Il suonatore di tiorba” e “Concerto a due figure” e particolari.

Al Museo di Zara: Il mestiere delle arti in Italia. Capolavori da Palazzo Madama

Narodni Muzej Zadar – Museo Nazionale di Zara

 

2 marzo –  21 maggio 2023

 

Cartella stampa al link: https://bit.ly/mostraZara

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino presenta, dal 2 marzo al 21 maggio 2023, al Narodni Muzej Zadar, il Museo Nazionale di Zara, la mostra Il mestiere delle arti in Italia. Capolavori da Palazzo Madama.

L’esposizione, promossa dall’Istituto Italiano di Cultura Zagabria, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Zagabria, è dedicata all’eccellenza dello stile italiano, unanimemente ammirato nel mondo, e al suo affondare le proprie radici in secoli di affinamento di ideazione e tecniche in ogni campo delle arti suntuarie, al servizio delle corti e in funzione dei commerci.

La mostra, appositamente progettata per gli spazi e in dialogo con le collezioni del Museo Nazionale di Zara, presenta un centinaio di opere dei Musei Civici di Torino, prevalentemente conservate a Palazzo Madama, espressione delle botteghe e manifatture di tutta Italia dal tardo Medioevo al Settecento, a testimoniarne estesamente la maestria e genialità. Nello specifico sono documentati i vetri di Murano, i rami smaltati veneziani, i bronzetti rinascimentali di area veneta, i ferri cesellati di produzione lombarda, la maiolica centro-italiana, la porcellana di Doccia, Vezzi, Cozzi e Napoli, i tessuti e i merletti, l’ebanisteria, il microintaglio in legno e avorio, le legature decorate.

Palazzo Madama, nato come museo di arti applicate all’industria e inaugurato il 4 giugno 1863, conserva una delle collezioni di arti decorative più importanti d’Europa, concepita in un periodo di forti mutamenti, quando l’esigenza primaria era di raccogliere e di tutelare le memorie patrie e i ritrovamenti archeologici che si andavano susseguendo sul territorio cittadino in costante espansione. Al contempo si sviluppò rapidamente una sezione particolare, quella della Storia del lavoro, che, sull’esempio di un grande museo come il South Kensington di Londra (ora Victoria and Albert Museum), intendeva illustrare la storia delle arti applicate a beneficio degli artisti e degli artigiani che erano invitati a ispirarsi ai manufatti del passato. La presenza a Torino del Regio Museo Industriale Italiano, fondato nel 1862, che assolveva al compito di documentare la storia dell’industria e forniva non solo approfondimenti su materie prime e macchinari, ma disponeva anche di laboratori e aule didattiche, fece sì che il Museo Civico potesse configurare le sue raccolte in senso marcatamente storico-artistico. Queste caratteristiche si accentuarono man mano che si andavano precisando gli ambiti delle collezioni: le sezioni archeologica e preistorica furono via via dismesse, cedute ad altre istituzioni cittadine in cambio di opere di arte decorativa più pertinenti al carattere del museo.

È questa la cornice in cui si è elaborata la scelta di opere da proporre a Zara, secondando precipuamente quanto compiuto per il Museo Civico di Torino da Emanuele Taparelli d’Azeglio (1879-1890), figlio di Roberto, primo direttore della Pinacoteca Sabauda e nipote del più celebre Massimo, pittore, scrittore e politico. D’Azeglio aveva svolto la carriera diplomatica nelle grandi capitali europee (Monaco, Vienna, l’Aja, Bruxelles, San Pietroburgo) e si era poi trasferito a Londra nel 1848. Qui era stato testimone della prima Esposizione universale allestita al Crystal Palace nel 1851 e della nascita della National Gallery e del Victoria and Albert Museum. È nel contesto internazionale del mercato d’arte londinese che aveva preso forma la sua passione collezionistica, di particolare rilevanza per la collezione di maioliche e porcellane italiane e per quella dei vetri dorati e dipinti, la prima donata al museo nel 1874, la seconda depositata nel 1877 e donata poi per lascito testamentario nel 1890.  Rientrato a Torino ed eletto direttore, promosse la crescita delle raccolte di arte decorativa sull’esempio dei grandi musei inglesi, con particolare attenzione alle ceramiche e ai tessuti. Da qui si è principiato per individuare i nuclei storici e narrativi da predisporre nell’allestimento al museo di Zara, concepito in sale che illustrino ciascuna un materiale e le sue declinazioni artistiche, così da offrire un compiuto quadro dell’abilità e intelligenza di artigiani e artisti italiani, offrendo al pubblico la possibilità di comprendere appieno l’avvio della stagione rinascimentale dagli esiti medievali e la deflagrazione del barocco a livello europeo.

Dal primo ambiente che tratta la storia dell’avorio – dalle rotte commerciali, usi e tecniche nel Medioevo ai centri di produzione, dunque gli avori romanici in Italia meridionale per giungere alla bottega degli Embriachi a Venezia fino agli avori torniti del Rinascimento e al virtuosismo asimmetrico barocco – si affrontano poi i temi della tarsia, della microscultura e dei mobili intarsiati accompagnati dalle vicende inerenti gemmecammei e paste vitree tra Medioevo e Neoclassicismo. Il medesimo asse temporale con cui si presentano le legature e si va ad approfondire la storia delle maioliche. A partire dalla “protomaiolica” delle regioni meridionali e la “maiolica arcaica” di quelle centro-settentrionali si giunge a esemplificare quanto compiuto nel Quattrocento nei centri della Toscana, dell’Emilia-Romagna, delle Marche e dell’Umbria, quando i ceramisti italiani innovarono la tradizione islamica facendo uso di motivi decorativi ispirati al repertorio gotico e rinascimentale e altri derivanti dalle porcellane cinesi, e ampliando la tavolozza dei colori. Per poi sottolineare la novità della nascita dell’istoriato, ovvero la colorata pittura di storie sopra la superficie bianca della ceramica. Da qui si passa alla porcellana, narrando le vicende della fabbrica Vezzi di Venezia e Ginori di Doccia, trattando infine il grande tema del ricamo e dei tessuti, a sottolineare quanto nel Medioevo in Europa il ricamo fosse considerato tra le arti più preziose e illustrando tra Quattro e Cinquecento la specializzazione nel ricamo in seta e oro delle maestranze insediate a Venezia, nella Milano degli Sforza, a Genova, Roma, Napoli, Palermo, ove le corti signorili e prelatizie e la ricca aristocrazia commerciale favorirono con la propria committenza la produzione artistica e suntuaria. L’esposizione si conclude con la presentazione di alcuni tessuti scelti dalle raccolte di velluti, che coprono sette secoli di storia, di cui un significativo e splendido nucleo fu già alla Esposizione di Tessuti e Merletti organizzata a Roma nel 1887.

“La storica amicizia fra Italia e Croazia – sottolinea Pierfrancesco SaccoAmbasciatore d’Italia in Croazia –  ha solide e vaste basi nella cultura dei due popoli, particolarmente evidenti a Zara e in altre città croate. Le opere di Palazzo Madama che saranno esposte nel magnifico Palazzo del Rettore di Zara saranno altrettanti messaggeri di bellezza, di saper fare italiano e di rinnovata integrazione fra i due stati e i due popoli nella comune patria europea.”

“La mostra in programma presso il Palazzo del Rettore del Museo Nazionale di Zara espone al pubblico una selezione della più raffinata produzione delle arti applicate in Italia, attraverso i secoli, in uno storico e importante museo croato – afferma Gian Luca BorgheseDirettore dell’Istituto Italiano di Cultura di Zagabria – l’evento dunque sottolinea la prossimità tra due popoli stretti in una cultura comune e condivisa, che persegue la conciliazione dell’utile con il bello. Agli occhi del pubblico si offre uno specchio del passato ma anche spunti e idee per i mestieri delle arti che hanno un grande avvenire in paesi di antica tradizione come i nostri”.

“È una grande emozione poter presentare, in un museo tanto prestigioso e carico di storia quale quello di Zara, alcuni dei capolavori di una tra le raccolte di arti decorative più importanti d’Europa” dichiara il curatore della mostra Giovanni Carlo Federico Villa, che prosegue “Palazzo Madama, con i suoi duemila anni di vita perno di Torino capitale, accoglie negli ambienti romani e medievali, barocchi e risorgimentali preziose oreficerie, avori, vetri dorati e dipinti, tessuti, maioliche e porcellane che rappresentano l’essenza stessa dell’arte non solo occidentale, quelle arti applicate che sono memoria, identità e proiezione di ogni cultura. E siamo profondamente grati a Sua Eccellenza l’Ambasciatore d’Italia a Zagabria, Pierfrancesco Sacco, e al direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Zagabria, Gian Luca Borghese, di aver offerto alla Città di Torino e al suo Museo Civico questa straordinaria opportunità di dialogo in uno dei cuori del Mediterraneo, epicentro del millenario incontro di genti e sapienze artistiche”.

La mostra e il catalogo sono a cura della direzione e conservatoria di Palazzo Madamal’organizzazione è di Glocal Project Consultingil progetto allestitivo di Emilio Alberti e Mauro Zocchetta.

Arte Ucraina alla Fondazione Amendola

Nelle sale espositive di via Tollegno 52, in mostra quattordici artisti ucraini, con un intreccio molto interessante delle loro storie artistiche

 

Dal primo al 15 aprile prossimo sarà visitabile presso la sede della Fondazione Giorgio Amendola, in via Tollegno 52 a Torino, una mostra d’arte contemporanea Ucraina.

L’evento, carico di significati, è promosso con il patrocinio dell’Accademia Albertina di Belle Arti, della Città di Torino, della Fondazione Crt e del Consolato Generale dell’Ucraina a Milano.

“Il concetto di primavera – come risulta ben spiegato nel catalogo della mostra, curato da Oksana Filonenko – è per sua natura connesso al momento del risveglio, della rinascita e della voglia di vivere.

La primavera, nell’Ucraina del 2023,ha un significato ancora piùforte. Molti artisti hanno dovuto interrompere il loro lavoro, molti sono andati a combattere, tanti sono sparsi per il mondo. E la loro arte vive di vita propria. Come i fiori portati dalle onde dei fiumi, come i messaggi trovati nelle bottiglie nel mare, come le persone che s’incontrano sui treni e condividono un pezzo di stradacomune, così le opere di questa mostra si sono incrociate durante il loro percorso espositivo, facendo una tappa del processoinsieme”.


Quattordici sono gli artisti impegnati nella mostra, tra cui l’artista di fama internazionale Ivan Turetskyy, coautore, tra l’altro, dello stemma nazionale ucraino, e il fotografo Andriy Pavlyuk, che lavora con le macchine fotografiche storiche degli anni Venti e adopera la tecnica a stampa con oro e argento, tipica dei vetrai veneziani del Seicento.

 

La mostra dal titolo “Trionfo di primavera” è  visitabile  dal primo al quindici aprile nelle sale espositive della sede torinese della Fondazione Amendola, in via Tollegno 52.

MARA MARTELLOTTA

Camera, 170 immagini della fotografa Eve Arnold fino al 4 giugno

Sono in mostra presso Camera 170 immagini, alcune mai esposte prima, della fotografa Eve Arnold, la prima donna, insieme a Inge Morath, ad aver fatto parte della prestigiosa Magnum Photos.

Eve Arnold ha saputo delineare i ritratti delle grandi star del cinema e dello spettacolo, da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe, da Joan Crowford a Orson Welles, ai reportage di inchiesta su temi ancora centrali nel dibattito pubblico odierno, dal razzismo negli Stati Uniti all’emancipazione femminile e all’interazione fra due diverse culture del mondo. Eve Arnold ha saputo raccontare persone e il mondo con un approccio appassionato personale, l’unico strumento da lei considerato indispensabile per un fotografo.

Determinazione, curiosità e la volontà di sfuggire a qualsiasi stereotipo hanno permesso a Eve Arnold di produrre un eclettico corpus di opere, a partire dai ritratti delle grandi Star del cinema al reportage d’inchiesta, in cui ha affrontato temi e questioni centrali nel dibattito di ieri e di oggi.

La carriera di Arnold rappresenta un inno all’emancipazione femminile e i suoi soggetti sono per lo più le donne, le lavoratrici, le madri, le dive, modelle e studentesse immortalate senza mai scivolare in stereotipi o facili categorizzazioni.

L’intento è quello di restituire la ricchezza dell’opera di questa autrice, sottolineata attraverso documenti di archivio, provini di stampa, libri e riviste in grado di arricchire la leggenda della fotografia.

L’esposizione è accompagnata dal catalogo Eve Arnold, edito dalla casa editrice Dario Cimorelli editore.

Risulta aperta tutti i giorni, dalle 11 alle 19 e il giovedì dalle 11 alle 21.

L’esposizione, curata da Monica Poggi, è realizzata in collaborazione con Magnum Photos.

Mara Martellotta

 

“Emozioni d’Artista 2”, collettiva a Torino

Bis a “La Conchiglia” di  Torino per la carmagnolese Associazione “Amici di Palazzo Lomellini”, presente  con un nuovo nutrito gruppo di pittori

Fino all’11 marzo

Il titolo mantiene la promessa. Di “emozioni” ce n’è, infatti, da vendere nella collettiva curata da Elio Rabbione – che da tempo si occupa di dar vita anche alle esposizioni di “Palazzo Lomellini” a Carmagnola –  ospitata fino a sabato 11 marzo nelle sale della Galleria “La Conchiglia” al 13 bis di via Zumaglia a Torino. La rassegna segue quelle “Emozioni d’autore”, oggi “Emozioni d’artista” (ma la storia è ancora quella), tenutasi, sempre nella Galleria di Diana Casavecchia, nell’ottobre dello scorso anno. Venti erano allora gli artisti partecipanti – pittori e scultori – quasi tutti già in allora appartenenti alla carmagnolese Associazione “Amici di Palazzo Lomellini”.

Oggi il numero s’è leggermente abbassato. Sono infatti diciassette i pittori presenti al secondo round, per un totale di una sessantina abbondante di opere (dipinti) esposte. “La mostra – spiega Rabbione – ripete le scelte, le vecchie e le nuove conoscenze, principalmente la conoscenza di artisti che si vogliono (ri)mettere in gioco, pittori unicamente, di temi forse non ancora affrontati, di tecniche non ancora ospitate”. Già… di “emozioni” si parlava. E quante ce ne regala il volto senza età della donna indiana (“Sono qui”), opera di Alessandro Fioraso, figlio d’arte (allievo di Lella Burzio e Oscar Bagnoli) e due infinite passioni, la pittura e l’India; in quella tribolata “maschera”, leggiamo un accenno di sperduto sorriso e di pacata solitudine, ogni piega del volto è un tortuoso sentiero dell’anima con quegli occhi di un azzurro indefinito e l’antica collanina che spunta appena dai veli rosa-violacei, memoria di remote piccole e obliate vanità.

Dal figurativo, fatte alcune eccezioni, non si scosta la linea espositiva della rassegna, se non per tentare “svirgolate” o vie di fuga verso oniriche suggestioni paesistiche, come in “Matera al chiaro di luna”, acrilico di Antonella Guarnieri, mosaico labirintico di antiche colorate case protette dall’enorme sfera di una gialla luna “incollata” al cielo o nei volti femminili che sempre paiono celare inafferrabili “oltre” di Paolo Mirco. Strada percorsa, con più sobrio realismo e parco uso di cromie (oli e smalti industriali su tela) anche dal settimese Franco Fasano e dalle sue donne “grintose”, coraggiose “pulzelle d’Orléans” dei nostri tempi, che sembrano quasi “aggredirti” e “sfidarti” con i loro ripetuti “What’s?” e il dito puntato contro. Altre strade, alla ricerca di nuove imprevedibili sperimentazioni tese all’astrazione e a cifre stilistiche decisamente informali affidate alla casualità del colore, percorrono invece il carignanese Ezio Curletto con le sue “pitto-sculture”, “sogni inconsci” (nati sotto la rassicurante guida di Isidoro Cottino e Fernando Eandi, impreziositi da foglie e polvere d’oro) e la siciliana d’origine ma torinese d’adozione Paola Sciuto, con i suoi rapidi nudi femminili che lasciano piena libertà espressiva al “gocciolare” di materia cui s’affida la necessità del narrare.

Su questa linea, anche la pittura personalissima di Luisella Rolle, con opere tese palesamente alla ricerca di emozioni “trasmesse con la forza esclusiva di tratti cromatici splendidamente confusi”. Forza di narrazione che nei dipinti di Paolo Viola (medico napoletano, oggi residente ad Asti) nasce invece sotto l’impulso di una matericità che plasma con vigore le forme – siano esse il “banco del pescivendolo” o la fredda linearità di un vigneto sotto la neve – in una sorta di “realismo magico” teso alla creazione di “spazi tridimensionali nei quali lo spettatore ha l’illusione di proiettarsi”. Tanti i racconti di paesaggio: dalle vivaci visioni fiabesche di Burano e lagunari di Gastone Toldo e Danilo Baruffaldi, al sogno luminoso di un’“alba sulla neve” di Giorgio Cestari, fino alla suggestione delle dune sulle coste danesi raccontate da Franco Goia e alla “gioiosità della natura” fermata su tela da Graziella Alessiato, accanto all’efficace controluce su cui si staglia l’oscura sagoma di un alpinista (cuffia con pon pon) immerso nella teatrale bellezza di un grigio panorama montano, opera di Lucia Busacca. A chiudere il percorso, le adorate “Peonie Sarah Bernhardt” di Mariarosa Gaude accanto alle “Ortensie” e al palpitante nudo “in meditazione” di Maria Teresa Spinnler, per finire con i paesaggi immaginifici, da fiaba di Carlo Dezzani, che dona, a casa a cose e a presenze urbane varie, piena libertà di spiccare voli inattesi e totalmente imprevedibili. Lasciati andare. A volo di poesia.

Gianni Milani

 

“Emozioni d’Artista2”

Galleria “La Conchiglia”, via Zumaglia 13 bis, Torino; tel. 011/6991415 o www.laconchiglia-to.com

Fino all’11 marzo

Orari: mart. e ven. 15/19; sab. 10/12 e 15/19

Nelle foto:

–       Paolo Viola: “Il banco del pescivendolo”, olio su tela e tavola, 2019

–       Alessandro Fioraso: “Sono qui”, olio su tela, 2018

–       Antonella Guarnieri: “Matera al chiaro di luna”, acrilico su tela, 2021

–       Franco Fasano: “What’s?”, olio e smalto industriale su tela, 2023

–        Paola Sciuto: “Body”, acrilico su tela, 2022

Gli appuntamenti nei musei della Fondazione

Ecco l’agenda  in programma alla GAM, a Palazzo Madama e al MAO

 

Domenica 26 febbraio ore 17.30

THERESA WONG

MAO – concerto nell’ambito della mostra Buddha10

 

 

DOMENICA 26 FEBBRAIO

 

Domenica 26 febbraio ore 11

RIFLETTIAMO INSIEME: È UN DIRITTO SALVARSI LA VITA?

Palazzo Madama – convegno

Introduzione con proiezione video documentario in prima visione “Donne rifugiate” di Deka Mohamed Osman; partecipano Abdullahi Ahmed, scrittore e consigliere Comune di Torino, Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 Ottobre, Berthin Nzonza dell’associazione Mosaico e Suor Giuliana Gallo della Fondazione Mamre. Conduce Ikram Mohamed dell’associazione ADASS.

Evento in occasione del Black History Month Torino – Seconda edizione, rassegna dedicata alla storia e alla cultura afrodiscendente.

Ingresso libero. Posti limitati con prenotazione obbligatoria: blackhistorymonthto@gmail.com

 

Domenica 26 febbraio ore 16

L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA E L’APPLICAZIONE CONCRETA SUI NUOVI CITTADINI

Palazzo Madama – convegno

Con l’avv. Fairus Jama, Ihsane Ait Yahia, operatrice legale e interprete PA Reggio Emilia e l’avv. Rania Maadani, Associazione Avvocati di discendenza straniera in Italia. Conduce Ikram Mohamed dell’associazione ADASS.

Evento in occasione del Black History Month Torino – Seconda edizione, rassegna dedicata alla storia e alla cultura afrodiscendente.

Ingresso libero. Posti limitati con prenotazione obbligatoria: blackhistorymonthto@gmail.com

 

Domenica 26 febbraio ore 16.30

LUSTRO E LUSSO DALLA SPAGNA ISLAMICA. Frontiere liquide e mondi in connessione

MAO – visita guidata alla nuova mostra

La visita guidata all’esposizione approfondisce lo stretto legame culturale ed artistico tra il mondo islamico e quello europeo, che per diversi secoli ebbe nella penisola iberica il punto di maggior contatto e interconnessione. L’invasione musulmana dei territori andalusi gettò le basi per uno scambio continuo tra l’arte islamica e quella cristiana, scambio da cui scaturì una produzione di manufatti sempre più ricca e fiorente che via via attrasse l’interesse dei collezionisti e delle corti di tutta Europa.

Tappeti, frammenti di tappeti e ceramiche a lustro esposti nell’allestimento temporaneo raccontano sapientemente il lusso della produzione risalente al XV e XVI secolo, e la visita guidata ne approfondirà il significato culturale oltreché artistico in un continuo rimando e confronto con le collezioni permanenti esposte nella Galleria dedicata ai Paesi islamici dell’Asia.

A cura di Theatrum Sabaudiae.

Costo: € 6 a partecipante; costi aggiuntivi: ingresso alla mostra temporanea (gratuito per possessori di Abbonamento Musei Torino Piemonte)

Info e prenotazioni: t. 011.5211788, prenotazioni ftm@arteintorino.com

 

Domenica 26 febbraio ore 17.30

THERESA WONG

MAO – concerto nell’ambito della mostra Buddha10

Un’interpretazione personale della musica classica contemporanea: radicale e seducente.

La musica della compositrice, violoncellista e cantante Theresa Wong unisce musica classica, arti visive e teatro in composizioni innovative, spesso collaborative e improvvisate. “Harbors”, il suo album collaborativo con Ellen Fullman, l’inventrice del Long String Instrument, ha avuto un grande successo di critica. Wong ha presentato il suo lavoro a livello internazionale in luoghi quali Fondation Cartier, Parigi; Café Oto, Londra; Fabbrica Europa, Firenze; Festival di Sidney; The Lab, San Francisco; e The Stone a New York. Nel 2022 ha composto tre performance site-specific ispirate alle opere d’arte della collezione del San Francisco Asian Art Museum per la serie Sound/scapes.

Il suo ultimo lavoro, “Practicing Sands”, è un album per violoncello e voce che sviluppa un vocabolario personale sul violoncello e documenta l’approccio personale di Wong all’utilizzo e al posizionamento dei microfoni come estensioni della composizione stessa.

Costo: 15 € | ridotto studenti 10 €. I biglietti sono disponibili presso la biglietteria del museo.

Info e prenotazioni: eventiMAO@fondazionetorinomusei.it

 

Prima del concerto, nello spazio dei giardini giapponesi, verrà proposta la performance “My Freedom”, curata da Vincenzo Di Federico e Lanxin Zheng, primo esito del Laboratorio di studio performativo proposto dal MAO in collaborazione con YizhongArt. Protagonisti dell’azione performativa sono i giovani studenti d’arte cinesi Cao Xiaoyu, Li Xinke, Liu Ruogu, Luo Siliang, Sun Yuancong, Zheng Yiwen. Si ringrazia l’Associazione degli Studenti e Studiosi Cinesi (ASSCAT) dell’Accademia di Belle Arti di Torino per aver promosso l’iniziativa.

La performance è inclusa nel costo del biglietto del concerto.

 

 

 

 

 

Theatrum Sabaudiae propone visite guidate in museo

alle collezioni e alle mostre di Palazzo Madama, GAM e MAO.

Per informazioni e prenotazioni: 011.52.11.788 – prenotazioniftm@arteintorino.com

 

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/gam.html

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/mao.html

https://www.arteintorino.com/visite-guidate/palazzo-madama.html

 

Il C.A.A.T. Centro Agro Alimentare di Torino lancia un concorso per urban artist

Street art, ortofrutta, sostenibilità e solidarietà:

Visionario il progetto di street art avviato dal CAAT di Torino, conosciuto dai più
come “mercati generali”, in collaborazione con l’associazione Monkeys Evolution.
Innovativo il passo del più grande mercato terminale di smistamento di frutta e
verdura all’ingrosso del Nord che – sempre più incubatore di innovazione e
cultura, propone un bando rivolto a giovani artisti “muralisti” che prevede la realizzazione
di un’opera di arte urbana, un immenso murales con una superficie di più di 300 metri
quadrati su una delle pareti del padiglione centrale all’ingresso del Centro
Agroalimentare.
Un murales che sintetizzerà quanto il contesto dell’ortofrutta promuova legami e trame
sociali come strumento per la qualità della vita, per l’alimentazione e il cibo sano, per
l’integrazione e la solidarietà, ponendo al centro il lavoro e la sostenibilità verso la
transizione ecologica.
“Con questa iniziativa – evidenzia il presidente del CAAT Marco Lazzarino – vogliamo da
un lato rafforzare il nostro impegno nel valorizzare uno spazio urbano industriale anche
attraverso l’arte. Dall’altro vogliamo portare attenzione ai valori del mondo dell’ortofrutta,
veicolando un messaggio di speranza e fiducia per un futuro alimentare sempre più sano e
solidale”.
“Realizzare un murales in un contesto quale quello di un grande mercato, afferma il
Direttore Generale Gianluca Cornelio Meglio, non è solo una bella espressione artistica
ma una modalità con cui parlare alle persone, farle riflettere e spingerle ad approfondire
un concetto e una tematica. Abbiamo voluto con questo bando dedicato a giovani artisti,
valorizzare un contesto industriale sul territorio promuovendo il movimento culturale che
vede l’arte di strada quale veicolo di educazione permanente”.
Gli artisti partecipanti sono invitati a sviluppare tematiche relative all’integrazione
multiculturale, al contrasto allo spreco alimentare, alla sostenibilità, alla solidarietà,
mantenendo un focus sui prodotti della terra visti come valore comune per tutti gli esseri
viventi affinché siano una risorsa sostenibile ed accessibile a tutti.
L’opera sarà realizzata con pitture fotocatalitiche, capaci di assorbire parte degli
inquinanti dispersi nell’aria in prossimità della superficie trattata.
Il concorso prevede un premio di euro 1.500,00 per il vincitore (materiali e
attrezzature verranno fornite dagli organizzatori). Possono partecipare al bando singoli
artisti o gruppi di artisti (composti da non più di 3 persone) di età compresa tra i 18 e i 35
anni, residenti in Italia.
Gli elaborati dovranno essere caricati attraverso il modulo di iscrizione al link
https://www.monkeysevolution.org/caatxartxfuture/, entro e non oltre le ore 12.00 del
giorno 13 marzo 2023.
Il compito di valutare le opere, in base alla congruenza con le tematiche e alla qualità
artistica, sarà affidato ad una giuria composta dallo street artist Karim, da Matteo Bidini
curatore di arte urbana con esperienze internazionali tra cui quella al SAMA museo di
street art di Amsterdam, da un rappresentante di Monkeys Evolution e da un esponente
del CAAT. Tra i giurati un ospite d’eccezione: Ernesto Olivero fondatore del Sermig e
dell’Arsenale della pace, il più grande “monastero metropolitano” laboratorio di
convivenza, formazione giovanile, solidarietà, accoglienza dei più disagiati, rifugio
per tanti.

Torino e i suoi musei. Il museo delle Antichità

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Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

4 Museo delle Antichità

Scrivere questa serie di articoli ha in effetti i suoi lati positivi, perché “mi costringe” a venire spesso in centro, cosa che mi fa sempre molto piacere.
Mi trovo di nuovo a cercare la biglietteria di Palazzo Reale, supero prima la cancellata di Palagi, poi arrivo all’altezza del ragazzo musicista che molto spesso si piazza all’ombra di Palazzo Chiablese e suona magistralmente il suo “digiridù”.
Questa volta però il biglietto che compro è per visitare il piccolo e sotterraneo Museo delle Antichità, a cui si accede passando per i Giardini Reali, dalla stessa entrata che porta alla Galleria Sabauda, anche se in ultimo è necessario seguire le indicazioni che portano verso il piano di sotto.
Il Museo è un’istituzione antica, che può vantare nobili origini ed è giunto all’attuale sistemazione attraverso una lunga e spesso travagliata vicenda.
La raccolta mantiene la denominazione storica di Museo di Antichità per sottolineare la continuità di questa istituzione che risale al XVIII secolo, ma comprende raccolte formatesi già in precedenza per volere di Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580) e dei suoi successori.
L’esposizione si articola in tre sezioni: quella del Territorio Piemontese e quella delle Collezioni Storiche, c’è una terza sezione dedicata a Torino, antica Augusta Taurinorum, al piano seminterrato della Manica Nuova del Palazzo Reale, in collegamento diretto con l’area archeologica del Teatro romano e del gruppo episcopale paleocristiano, costituito in origine dalle chiese del Salvatore, di San Giovanni e di Santa Maria (chiese abbattute per volere di Domenico della Rovere, committente del nuovo Duomo dedicato a San Giovanni).

In epoca rinascimentale si evidenzia, da parte dei Savoia, il desiderio di eguagliare la dignità e lo splendore delle altre corti italiane ed europee. Tra le sculture antiche pervenute sono state identificate opere già appartenute alle collezioni dei Gonzaga, di Gerolamo Garimberti e di Bindo Altroviti.Dal Settecento in avanti il settore delle antichità greco-romane si accresce continuamente, a seguito dell’acquisto di cospicue raccolte private e per i ritrovamenti effettuati nei territori del Piemonte e della Sardegna.Per molti anni la storia della collezione del Museo di Antichità viaggia in parallelo con quella del Museo Egizio, fino al 1940, anno in cui la collezione di antichità e quella egizia vengono definitivamente separate. La collezione di antichità rimane al pianterreno del palazzo dell’Accademia delle Scienze fino al 1963, quando viene individuata la sede definitiva nelle Serre dei Giardini di Palazzo Reale, il cui recupero viene curato dall’architetto Caterina Fiorio. Una volta discesa mi ritrovo in una zona dalle volte a botte in cui prevale l’uso del mattone, interessante è il gioco delle luminarie, taglienti raggi di luce cadono netti sui reperti, facendoli risaltare dall’ombra quasi richiamando alla mente la tecnica pittorica caravaggesca. Sono rimasta molto colpita dalla collezione, oggetti e reperti che molto spesso passano in sordina e che anche io non avevo ancora avuto l’occasione di conoscere o di approfondire. Subito richiamano la mia attenzione due lastre marmoree lavorate a rilievo e raffiguranti delle menadi danzanti. Le donne seguono il dio Dioniso nella frenesia dell’”entusiasmo” bacchico, e sono copie fedeli dei modelli creati alla fine del V secolo a.C. dallo scultore greco Callimaco: recano i tipici attributi del corteo del dio della vite, torce, tirsi (bastoni con infiorescenze) e strumenti musicali. Vi sono nella composizione anche altre figure, come la menade che regge un cesto colmo di frutti e quella che urla scarmigliata brandendo due torce e con le braccia avvolte da serpenti, che non sono tipiche del “thiasos” dionisiaco ma rimandano all’iconografia di una portatrice di offerte o di un’Hora (stagione) oppure di una Erinni (personificazione della vendetta soprattutto nei confronti di chi colpisce la famiglia), temi comunque che si adattano a un ambito funerario. I due grandi rilievi con figure di menadi danzanti sono noti da tempo nelle collezioni sabaude, forse già verso la metà del Seicento, come dimostrano numerosi disegni e tavole incise del periodo.

Nel piccolo Museo mi muovo piano, per una volta non mi trovo ad avere paura di non riuscire a vedere tutto e mi godo ogni singolo oggetto, dai rilievi, agli esempi di “autoctona”, ai ritrovamenti musivi della Domus romana di via Bonelli 11, al grande mosaico policromo fino ai bei gioielli della cosiddetta “Dama del Lingotto”. Il cuore della collezione è tutto contenuto in teche vicine e fortemente illuminate, si tratta del “Tesoro di Marengo”. Il tesoro è costituito da un sontuoso complesso di argenti, decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati, che originariamente dovevano costituire lamine di rivestimento di mobili e arredi di legno, oltre all’eccezionale busto-ritratto dell’imperatore Lucio Vero (161-169 d.C.), forse anticamente montato al centro di uno scudo ornamentale (clipeo), oppure esposto su un supporto in legno o innalzato sui vessilli militari dell’esercito. Gli altri elementi sono costituiti da una tabella con iscrizione votiva alla dea Fortuna Melior, un disco con i simboli dello zodiaco, cornici, fregi decorativi con motivi figurati, geometrici, floreali e un rarissimo esemplare decorato con una catasta di armi.  Notevole è anche la  fascia di rivestimento (di un altare o della base di una statua) decorata con tredici figure di divinità in altorilievo, tutte ispirate a celebri modelli statuari del mondo greco.
Credo sia un mio inconscio tentativo di rielaborazione del trauma del Liceo Classico, ma mi scopro a giocare a riconoscere i vari personaggi mitici e ricordarne le vicende.
L’insieme si distingue da altre argenterie antiche note, sia per l’assenza di vasellame da mensa, sia per la rarità del ritratto imperiale di grandi dimensioni in metallo prezioso, oltre che per la peculiarità di alcune tipologie di oggetti, come i due elementi decorativi di una spalliera laterale di letto (kline).

Quasi tutti gli elementi che compongono il Tesoro si possono datare tra la seconda metà del II secolo e i primi decenni del III secolo d.C. La scoperta avvenne casualmente nel 1928, durante i lavori agricoli condotti presso la Cascina Pederbona di Marengo (Alessandria): gli argenti furono rinvenuti in una grossa cassa di legno ancora visibile in tracce, lacerati, schiacciati e deformati per essere più facilmente trasportati, forse a seguito di un saccheggio avvenuto in antico.
La mancanza di precisi confronti, l’assenza di dati circa la giacitura originaria e la dispersione di parte dei reperti dopo la scoperta rendono problematica l’interpretazione del ritrovamento: forse gli argenti furono saccheggiati in un sacello privato o forse in un santuario pubblico dedicato all’Imperatore oppure a un culto solare tra il III e l’inizio del V secolo d.C. Occultato in un luogo isolato e ritenuto sicuro, con l’intendimento di recuperare i beni per la loro rifusione, non fu poi più recuperato. Apprezzo davvero le dimensioni ridotte dell’esposizione, perché prima di “tornare a riveder le stelle” posso soffermarmi sui reperti che più mi hanno incuriosito, in questo caso il gusto femminile prevale e mi ritrovo a guardare nuovamente i preziosi gioielli longobardi che sfavillano all’interno della teca. Costituiscono l’eccezionale corredo funebre della “Dama del Lingotto” una coppia di orecchini in oro del tipo “a cestello”, con lunghi pendenti mobili e gocce di ametista, una collana a catena con maglie d’oro, una raffinata spilla (“fibula”) circolare a cloisonné con granati del tipo almandino e paste vitree colorate.
In effetti sì, devo ammettere che quelle preziosità antiche incontrano proprio i miei gusti: non c’è che dire, la vanità è donna.

Alessia Cagnotto

Torino e i suoi musei. Museo Lombroso – antropologia criminale

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Torino e i suoi musei / Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lombroso – antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

9 Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Che Torino sia “città misteriosa” è ormai appurato. La meta che vi propongo oggi può rientrare sotto questo aspetto “tenebroso”, infatti è del Museo Cesare Lombroso che vi voglio parlare.
Il Museo di Antropologia Criminale espone gli studi che Cesare Lombroso (Verona 1835-Torino 1909) eseguì tra l’Ottocento e il Novecento: fanno parte della raccolta preparati anatomici, disegni, schizzi, fotografie, corpi di reato, e le particolari produzioni artigianali degli internati dei manicomi e delle carceri.
Non deve essere stato semplice per la famiglia di Cesare accettare che il celebre studioso organizzasse la sua prima esposizione di “scheletri e armi del delitto” proprio nella sua stessa casa. Chissà se fu proprio la signora Lombroso a spostare, l’anno successivo, nel 1877, un pezzo alla volta, gli attrezzi del mestiere del marito in Via Po 18, dove si trovava lo studio.
Superati i probabili battibecchi familiari, Cesare espose nel 1884 due vetrine ricolme di crani, maschere, fotografie criminali e altri oggetti a dir poco inquietanti, all’ Esposizione Generale di Antropologia Italiana.

Il tempo passa e il materiale si accumula, ecco nuovamente il problema di dove contenere questa raccolta in continua crescita. Nel 1896, quella che poi diverrà la collezione del Museo, viene esposta in via Michelangelo 26, sotto la supervisione dell’amico e assistente Mario Carrara, il quale provvede a riordinare la miriade di oggetti in sei sale differenti, arricchendola a sua volta con reperti inerenti agli sviluppi della polizia scientifica e della medicina legale.
Gli appassionati studi di Lombroso e di Carrara devono sopportare un periodo di dimenticanza, fino alla riscoperta avvenuta intorno agli anni Settanta del Novecento, in occasione della fortunata mostra “La scienza e la colpa”.

Solo nel 2001 la collezione riesce a trovare una sistemazione definitiva presso il Palazzo degli Istituti Anatomici, inserendosi nel progetto “Museo dell’Uomo”, che prevedeva una sede comune per i musei di Anatomia Umana, Antropologia Criminale, Antropologia ed Etnografia (ora in via Accademia Albertina); nella stessa residenza venne poi affiancato il simpatico Museo della Frutta.
Ogni tanto trovo la scusa per andarci, al Museo Lombroso, non è eccessivamente grande e non richiede chissà quanto tempo, certo tutto dipende dagli intenti personali e dalla relatività dei termini “tanto tempo”. Incominciamo dunque la visita.
Nella prima sala sono accompagnata dal sonoro di un dialogo immaginario tra due individui che discutono sugli studi di Lombroso; le voci cadono su alcuni mobili e macchinari che sono scenograficamente disposti per riprodurre lo studio del criminologo. Ciò che i due protagonisti dicono è importante per capire il contesto sociale in cui Cesare opera e per comprendere le valide riflessioni che vengono affrontate sul progresso e sui suoi limiti.

Nella seconda sala mi ritrovo in un luogo a metà tra scienza e fantascienza, una moltitudine di strumenti tecnici per rilevazioni morfologiche e funzionali dimostrano la tesi lombrosiana, per cui follia, delinquenza e genialità sono fenomeni quantificabili e oggetto di studio con metodo scientifico.
Impattante è la terza sala: l’ambiente ricorda i musei di antica concezione, teche e pavimento scricchiolante, decisamente i miei preferiti. Qui facciamo conoscenza con Cesare Lombroso in persona, solo un po’ più magro di com’era in realtà: per volontà testamentaria il suo scheletro è esposto nel Museo, sorridente come i teschi dei tesori dei pirati, guarda i visitatori, come se non volesse smettere di continuare ad osservare e a studiare, sempre alla ricerca di nuove prove a favore della sua tesi.

Superato – credo, non ci è dato saperlo- l’esame di Cesare, possiamo dedicarci a guardare la numerosa rassegna di reperti umani, maschere mortuarie, corpi di reato, manufatti carcerari e manicomiali, nonché ritratti di criminali che ornano le pareti. Non c’è che dire, un po’ si accappona la pelle davanti a quei volti cerati, costretti ad essere esangui per sempre. In questa sala ci sono gli oggetti che più mi affascinano, si tratta dei mobili realizzati da Eugenio Lenzi, uno dei tanti sfortunati reclusi nel manicomio di Lucca. Sono mobili senza definizione, abilmente intarsiati e scolpiti, con una dovizia di particolari che solo un matto avrebbe potuto concepire. Tutte le volte che li osservo non posso che domandarmi: se fossero esposti alla GAM o al Castello di Rivoli, sarebbero giudicati allo stesso modo o diventerebbero magicamente opere di inestimabile valore artistico?
Mi prendo il mio tempo prima di proseguire, quegli oggetti hanno il potere d’incantarmi e tutte le volte scopro dettagli nuovi che mi fanno rimanere a bocca aperta. Qualcuno mi osserva, mi sento giudicata e proseguo verso la quarta sala. Mi trovo di fronte a dei teschi tagliati e a qualche scheletro, le didascalie mi ricordano che questa stanza spiega la teoria atavica di Lombroso, il quale sosteneva che il criminale regredisse ad una sorta di condizione primitiva dello stadio evolutivo; un video ricorda, a chi se lo fosse dimenticato, che la malformazione cranica della fossetta del teschio Villella è solo una variabilità individuale, non un fondamento scientifico.

La quinta sala è dedicata agli abiti realizzati da Giuseppe Versino, internato a Collegno, e altri oggetti creati da persone affette da disturbi mentali. Il binomio “genio-follia” è presente da sempre nella storia dell’uomo e nella storia dell’arte, si pensi all’ iconica e stereotipata figura di Vincent Van Gogh (1853-1890), artista inequiparabile, internato nel manicomio di Saint Remy, dopo essersi amputato l’orecchio e dove realizzò 150 opere in soli 53 giorni. Del resto proprio questo luogo mi fa venire in mente che la “lista dei pazzi” è decisamente ampia: Fancisco Goya (1746-1828) era affetto da encefalopatia, (causata da intossicazione da piombo presente nei colori), la malattia lo portò alla sordità e a disturbi di personalità; lo stesso Michelangelo (1475-1564) secondo alcune fonti era piuttosto schizofrenico, come dimostrerebbero le ricerche di Gruesser collegabili allo studio dei volti realizzati dal Buonarroti.

Particolarmente attinente è la vicenda del pittore Richard Dadd (1817-1886), che uccise il padre con un coltello a serramanico perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre, nemico della divinità che Richard adorava, Osiris, a cui aveva anche dedicato un piccolo santuario in una camera in affitto a Londra. Non c’è bisogno di spiegazioni per personaggi allucinati come Ensor, ( 1860-1949) e Munch,( 1863-1944). Forse tra tutti l’ “oscar della follia” va a Jackson Pollock, artista maledetto per eccellenza, consumato da alcool e droghe, riformato dall’esercito per problemi psichici, morto a soli 44 anni in un tragico incidente stradale, la stessa signora Guggenheim di lui aveva detto: “quest’uomo ha dei seri problemi, la pittura è senza dubbio uno di questi”. L’elenco è ancora lungo ed è costituito da grandi nomi quali Francis Bacon, (1909-1992), l’autodistruttivo e tormentato Jean Michel Basquiat (1960-1988) e la triste Camille Claudel (1864-1943), artista brillante, allieva e amante di Rodin. Camille soffrì di depressione con manie di persecuzione e venne internata per volere della madre, in tal modo è come se fosse morta due volte in solitudine: sola, perché rinchiusa in manicomio e sola, perché nemmeno un familiare partecipò al suo funerale.

Continuando nel percorso espositivo, alla sala 6 si trovano le uniche tracce di vite anonime e maledette: graffiti e incisioni sugli orci per l’acqua dei detenuti del carcere di Torino. La sala 7 presenta il modellino del carcere di Filadelfia e la ricostruzione di una cella ottocentesca, qui si affronta la problematica della detenzione, divenuta nel corso dell’Ottocento architrave dei sistemi penali.
Sono quasi alla fine della visita e nuovamente incontro Lombroso, ma se prima era solo un silenzioso scheletro scrutatore, ora è una voce incorporea che mi parla come dall’Aldilà: è un discorso immaginario che ripercorre l’esperienza di studio, i pensieri, i dubbi che attanagliarono il grande pensatore, umanizzandolo e quasi tramutandolo in un normale “figuro” della bella époque torinese.

Uscendo, attraverso un lungo corridoio che mi riassume i punti principali della mostra: qui ho l’opportunità di rabbrividire ancora una volta alla vista della forca, proprio quella un tempo situata al “rondò” la piazza che ancora oggi in città così si chiama. Giustamente, a mio parere, perché il passato va studiato e compreso, ricordato e contestualizzato: se cancelliamo gli errori che abbiamo commesso, come possiamo correggerli e non ripeterli?

Alessia Cagnotto

Dalla Fondazione CRT 15 nuove opere per  GAM  e Castello di Rivoli 

La Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT ha acquistato quindici nuove opere di nove artisti contemporanei: Jacopo Benassi, Merlin James, Atelier dell’Errore, Chiara Camoni, Alessandra Spranzi, Bill Lynch, Giuseppe Gabellone, Cooking Sections e Richard Bell.

 

Le nuove acquisizioni, così come l’intera collezione della Fondazione, sono concesse in comodato gratuito al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino e rese disponibili per la pubblica fruizione.

 

Con la Fondazione per l’Arte CRT contribuiamo da oltre 20 anni a rafforzare il sistema della creatività contemporanea, a valorizzare i talenti e ad arricchire il patrimonio culturale a beneficio di cittadini e turisti”, afferma Giovanni Quaglia, Presidente della Fondazione CRT.

 

La Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, ente “art oriented” della Fondazione CRT, mette in campo azioni e progetti per lo sviluppo, il rafforzamento e la promozione del sistema della contemporary art. In particolare, attraverso le acquisizioni, la Fondazione alimenta un’estesa collezione di opere d’arte contemporanea, diventata nel tempo tra le più prestigiose a livello nazionale e internazionale: oltre 900 opere realizzate da circa 300 artisti, per un investimento complessivo di oltre 40 milioni di euro. 

 

Le acquisizioni sono parte fondamentale dell’attività della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, che oggi vanta una collezione di eccellenza riconosciuta a livello internazionale e messa a disposizione dell’intera collettività come bene comune”, dichiara Massimo Lapucci, Segretario Generale della Fondazione CRT.

 

Le opere acquisite vengono scelte dai direttori dei musei a cui sono destinate, secondo criteri di coerenza con le proprie raccolte e condivisi con il Comitato Scientifico della Fondazione, composto da Rudi Fuchs, in qualità di Presidente onorario, Sir Nicholas Serota, Presidente Arts Council England, Manuel Borja-Villel, già Direttore Museo Reina Sofía di Madrid, Francesco Manacorda, Curatore Indipendente – Londra, e Beatrix Ruf, Direttore Hartwig Art Foundation di Amsterdam. La collezione consente alle due istituzioni museali d’eccellenza un continuo aggiornamento delle proprie esposizioni, rese veramente contemporanee dal costante dialogo con il panorama artistico attuale e i suoi artisti.

 

Con le recenti acquisizioni la Fondazione consolida la collaborazione con il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, arricchendone le raccolte permanenti di opere significative e alimentandone l’importante programma di esposizioni temporanee e scambi internazionali. Le proposte curatoriali, avvalorate dalla autorevolezza del comitato scientifico della Fondazione, hanno stimolato l’acquisto di opere capaci di implementare le collezioni già esposte, ma anche di aprirle a tematiche nuove, quale quella ambientale, sostenendo l’impegno dei musei nell’essere sempre specchio di contemporaneità”, commenta Luisa Papotti, Presidente della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT.

 

Segue l’elenco delle opere acquistate dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT nell’anno 2022, a questo link la gallery delle opere a uso stampa.

 

Opere destinate all’esposizione al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea:

 

U Can’t Touch This, di Richard Bell 

Artista e attivista politico aborigeno australiano, Richard Bell (Charleville, Queensland, 1953) è l’autore dell’opera U Can’t Touch This, che prende spunto da una famosa fotografia scattata durante i giochi del Commonwealth nel 1982; la rappresentazione, particolarmente espressiva, si avvale della citazione e dell’appropriazione di stili pittorici europei per affrontare le problematiche dell’autorialità e della proprietà intellettuale delle idee, che l’artista ritiene ignorate nei riguardi dell’arte aborigena australiana. Bell riutilizza le tecniche dell’informale e della Pop Art in un collage che rovescia gli stereotipi attribuiti agli indigeni.

 

Salmon: A Red Herring, di Cooking Sections

Duo artistico fondato dagli artisti Daniel Fernandez Pascual e Alon Schwabe nel 2013, Cooking Sections firma l’opera multimediale intitolata Salmon: A Red Herring (2020), che parte dal color salmone per metterne in discussione l’utilizzo nell’allevamento intensivo dei salmoni e, più in generale, l’uso dei colori nel business dell’agricoltura e dell’allevamento; l’opera è stata esposta in primis alla Tate Britain di Londra nel 2020, come parte di un movimento volto a boicottare l’allevamento di salmoni. I membri di Cooking Sections sono in assoluto i giovani artisti più importanti a livello internazionale, attivi nell’ambito di un rinnovamento estetico capace di contrastare il cambiamento climatico.

 

Opere destinate all’esposizione alla GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea:

 

POLLICE, un altro dio scuro dell’AdE, di Atelier dell’Errore 

Atelier dell’Errore è un collettivo di giovani artisti ventenni affetti da malattie neurologiche di diversa natura, guidati dal Direttore artistico Luca Santiago Mora, che ha fondato il gruppo inizialmente nell’ambito del servizio sanitario per poi trasformarlo in una cooperativa di lavoro che consente ai giovani di sostenersi. POLLICE, un altro dio scuro dell’AdE (2021) è tra i pezzi più importanti della serie dedicata al rosso e all’oro; lo stile è il risultato della sovrapposizione di segni ossessivamente ripetuti dai disegnatori, con una precisione tecnica sorprendente, su una superficie particolarmente ostica. L’immagine restituisce il profilo di una creatura che non può essere facilmente classificata, al crocevia tra il corpo, lacerato e decomposto, di un animale e le fattezze di un dio metamorfico.

 

Panorama di La Spezia, di Jacopo Benassi 

Jacopo Benassi (La Spezia, 1970) proviene da anni di lavoro nella fotografia e nella musica underground, che gli ha permesso di sviluppare uno stile fotografico personale in cui la profondità di campo viene eliminata e l’aggressiva luce del flash diviene il tratto distintivo. L’opera in oggetto è il risultato di una residenza artistica che trascorsa tra pareti temporanee di legno, all’interno di una stanza nella quale si è chiuso per più di un mese, poi segata in parti diverse prima dell’inaugurazione; l’opera è uno degli angoli della stanza, sulle cui pareti sono esposte opere frutto di una riflessione sull’ambiente naturale del Golfo di La Spezia, accrochage di fotografie e dipinti, tenuti insieme da tiranti per auto, che pongono in relazione le foto notturne del Golfo, con le loro immagini fortemente contrastate, e una pittura tradizionale che ricorda le vedute tipiche dell’arte locale ottocentesca.

 

Serpentessadi Chiara Camoni 

Chiara Camoni (Piacenza, 1974) conduce da anni un lavoro dedicato all’intreccio tra elementi naturali e le tradizioni culturali di matrice femminile, mitologica e mediterranea, anticipando quel filone di ricerca che oggi ha internazionalmente assunto il nome di ecofemminismo. Serpentessa (2020) è una delle sue opere più iconiche, centrale nelle sue ultime esposizioni internazionali, in grado di rievocare l’iconografia del serpente nell’arte e nella mitologia: da Ecate, divinità ctonia femminile col corpo di serpente, a Medusa, sua figlia, da Lilith, donna serpente raffigurata da Paolo Uccello avvinghiata all’albero della genesi, fino all’archetipo della ninfa serpentine, di cui parlò Warburg. Il suo corpo è scolpito da Chiara Camoni in un unico ramo di mimosa e dipinto di verderame.

 

Buildings, Trees, Water e Under Stairs, di Merlin James 

Pittore e scrittore, Merlin James (Cardiff, 1960) offre un contributo lucido e puntuale alla riflessione sulla pittura, tanto nelle sue opere artistiche quanto nei suoi testi. La sua produzione comprende esclusivamente opere di piccole e medie dimensioni, perennemente in bilico tra la raffigurazione e l’astrazione, tra immagine e interrogazione sulla natura dell’immagine stessa. Buildings, Trees, Water (2021) e Under Stairs (1996) rendono conto di due momenti diversi nel percorso dell’artista, ma anche della grande coerenza ideativa della sua evoluzione: Buildings, Trees, Water include nella propria composizione elementi fisici, come una cucitura della tela e un foro sulla sua superficie, che rappresentano la costante contraddizione tra le possibilità illusionistiche e la realtà della pittura; in Under Stairs emergono invece molteplici possibilità di senso dall’incoerenza tra figurazione e astrazione.

 

Still Life with Chinese Painting e Merry Christmas My Love, di Bill Lynch 

Bill Lynch (Albuquerque, New Mexico, 1960 – Raleigh, North Carolina, USA, 2013) è stato un pittore e un artista consapevole della storia dell’arte e frequentatore assiduo dei musei dedicati all’arte dei secoli passati, le cui opere intrattengono un dialogo costante con la pittura cinese. Dipinto a olio su legno, come la gran parte della produzione dell’artista, Still Life with Chinese Painting mostra chiaramente come riconoscere la tradizione italiana, completamente rinnovata eppure familiare, nei dipinti di Lynch, in termini di pennellata, di emersione del materiale di supporto, di composizione e riferimenti iconografici; similarmente Merry Christmas My Love, dipinto a olio su una tappezzeria montata su legno, si ricollega a una diversa tradizione di pittura, che ingloba tessuti all’interno dell’opera.

 

Tovaglia sospesa (L’insieme è nero) – Gusci di uova mangiate da una faina (L’insieme è nero) – Plate 51. Sedum species (Cacti and other succulents) – Plate 62. Kleinia tomentosa (Cacti and other succulents) Plate 35. Rhipsalis salicornioides (Cacti and other succulents)di Alessandra Spranzi 

Docente di Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera, Alessandra Spranzi (Milano, 1962) è una figura di spicco in campo fotografico, la cui ricerca artistica è legata alla messa in scena dell’immagine, al riuso di scatti propri e altrui, alle impressioni su pellicola per contatto e al libro d’artista. Alcune immagini assumono una forza iconica nel suo lavoro e tornano come matrice compositiva, più e più volte, attraverso gli anni: cambiano gli oggetti fotografati sul piano, ma seguono la medesima disposizione. Le cinque opere in questione mettono in scena il mistero dell’immagine che emerge, o per cancellazione o per sovrapposizione di illustrazioni ritagliate, in modo che la silhouette in negativo di una pianta grassa si offra come cornice alla pagina di una rivista di interni. La natura della sovrapposizione fa emergere un carattere perturbante nell’apparenza obsoleta dei codici di presentazione di vecchie pubblicazioni, ma fa scattare anche riflessioni su figure seminali dell’architettura come Carlo Scarpa e la visionaria natura delle sue scale.

 

KM 2,6, di Giuseppe Gabellone 

Giuseppe Gabellone è stato uno dei più giovani protagonisti della stagione artistica degli anni ’90 e in particolare del Gruppo di Via Fiuggi a Milano. La sua ricerca, al limitare tra scultura e fotografia, è continuata nei decenni, raggiungendo alcuni degli esiti più originali nell’ambito di questi linguaggi: KM 2,6 è un’opera video che rappresenta per l’artista “l’inizio di tutto” e una delle più rilevanti di quegli anni in Italia: mostra il giovane Gabellone tradurre il tempo del video, registrato sul nastro magnetico dalla videocamera, in una grande scultura, composta da 2,6 chilometri di nastro adesivo, che riflettono la durata del nastro video, mentre il marrone del nastro magnetico si replica nel marrone dello scotch da pacchi che l’artista srotola dapprima all’interno di una casa e poi tutt’attorno all’edificio, come una ragnatela composta da un lungo, ininterrotto segno grafico-scultoreo, che accompagna il movimento dell’artista durante l’azione. Da quell’opera inizia nella produzione di Gabellone il pensiero di come presentare la scultura e lo spazio che essa ingloba e sul quale la sua forma si propaga non come oggetto tridimensionale ma come documentazione bidimensionale fotografica. In qualche modo, l’artista porta alle estreme conseguenze la suggestione di Medardo Rosso, che fotografava personalmente le sue opere scegliendo un unico punto di visione ed evidenziando la propagazione del loro movimento nello spazio e nella luce, ma Gabellone compie una scelta definitiva: distrugge le sue sculture dopo averle fotografate, affinché esistano solo come fotografia e come volume in assenza.