dolci portici- Pagina 4

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“L’orto fascista” Romanzo / 8

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXIX

Il Podestà aveva convocato la Consulta Municipale per le 8 e 30. I sei membri erano stati svegliati all’alba dal vigile del comune che era andato a casa loro a consegna-
re la convocazione. Il Bertoli voleva consultarsi non sapendo bene come comportarsi in questa drammatica occasione. Aveva pen-sato di esporre la bandiera a mezz’asta al balcone del municipio, ma non sapeva se questa soluzione sarebbe apparsa troppo servile nei riguardi dei tedeschi. In fin dei conti si era in guerra e la morte di un soldato era, pur- troppo, cosa normale. Neppure il Segretario del Fascio aveva, almeno per ora, avanzato richieste in tal senso. Era deciso ad effettuare, insieme ai suoi aiutanti, una visita al Comandante della guarnigione tedesca per porgere le sue condoglianze e per mettersi a disposizione per i funerali e il trasporto della salma, o meglio di quello che rimaneva di Bernd, che era stata temporaneamente portata nella camera mortuaria dell’ospedale. Era molto timoroso per la possibile reazione che Franz avrebbe potuto avere nei suoi confronti e, per questo, il fatto di presentarsi in gruppo, poteva rendere la cosa meno imbarazzante. Non che temesse di essere insultato, ma che il Comandante potesse avere frasi di violento rimprovero verso i brenesi, questo era da aspettarselo.
Quando il gruppo di amministratori si riunì, vi furono violente discussioni. Chi voleva non solo l’esposizione della bandiera a mezz’asta ma anche che venissero pro- clamati tre giorni di lutto cittadino. Chi, invece, era con- vinto che si doveva lasciare passare il fatto sotto silenzio, con la sola “ufficiale” presenza del Sindaco e della Consulta con la bandiera del paese all’eventuale funerale. La parte strettamente politica doveva essere lasciata agli organi del Fascio che, sicuramente, sapevano, meglio di loro, come trattare con i tedeschi. Alla fine fu da tutti accettata quest’ultima soluzione, anche se qualcuno evidenziò il proprio personale dissenso. Non sapendo dove trovare Franz, si recarono all’albergo Fumo. La vettura, o meglio quello che restava della vettura, era stato rimosso e portato al garage Slanzi. Le macchie di sangue, miste all’olio del motore, erano state rico- perte da un alto strato di segatura. La buca, provocata dall’esplosione, era ancora aperta. Ad alcune finestre del- le case che davano sulla piazza si stava lavorando per sostituire i vetri rotti dallo spostamento d’aria.
L’unica cosa che impressionò Sindaco e consiglieri era che le strade e la piazza Mercato fossero assolutamente vuote. I negozi erano aperti ma nessun brenese era in circolazione, quasi che si temesse una ritorsione da parte dei tedeschi.
Trovarono il Comandante nella piccola hall dell’albergo, circondato dai suoi subalterni. Pallido, con la divisa sporca e stropicciata, le mani che si muovevano, scompostamente, dai capelli alle ginocchia, dalle ginocchia ai gomiti, e poi di nuovo ai capelli. Quasi un tic nervoso. Non si alzò dalla poltrona nella quale era seduto. Si limitò a stringere la mano al Podestà e a fare un cenno con la testa ai consiglieri. Sussurrò un “danke” e poi, a congedarli, girò la testa di lato come a guardare qualcosa che non c’era.
Imbarazzati i sette uomini salutarono i militari e, non sapendo cos’altro fare, girarono sui tacchi e se ne andarono.

 

XXX

Col passare delle ore in paese cresceva la preoccupa- zione. Ormai si sapeva che lunghi convogli di carri, abitualmente usati per il trasporto degli animali e con le porte piombate, partivano da varie stazioni italiane per la Germania. Non si sapeva ancora dei campi di sterminio ma il modo con il quale venivano trattati i deportati non lasciava presagire nulla di buono. Si raccontava di centinaia di persone prelevate in vari paesi della penisola dove era stato dato aiuto o ospitalità ai partigiani. A Breno era stato ucciso un tedesco e sicuramente la rappresaglia non sarebbe tardata. Il mistero su chi avesse compiuto quell’atto, e soprattutto le modalità con cui si era verificato, lasciavano tutti perplessi. La sparizione del Russì era passata inosservata anche per- ché l’uomo non era stato visto in giro neppure i giorni precedenti all’attentato. Tutti sapevano che quello strano personaggio a volte spa- riva dalla circolazione per settimane intere, da solo o con qualche donna, per passare il tempo negli alpeggi vicino a Bazena o verso il Passo del Maniva. L’Ovra non si era mossa, ufficialmente non avendo ricevuto ordine da parte dei tedeschi di farlo. La situazione era particolarmente scabrosa e quindi, se possibile, era meglio defilarsi. Del tutto discretamente don Cappelletti era stato invitato a Brescia. Avevano anche preso contatto, ancor più segretamente, con il Podestà di Breno perché convincesse sua moglie, Lucia, a recarsi a Brescia alla loro sede. A volte, si era pensato, i bambini sanno più cose di quelle che dovrebbero e qualche frase compromettente avrebbero potuto lasciarsela scappare. Coinvolgere qualche maestra e soprattutto la signora Lucia, così fedele al Regime, avrebbe potuto portare qualche frutto. Due giorni dopo l’attentato partirono per Brescia, all’in- saputa l’uno dell’altra, il Parroco e la maestra. Il prete, come quasi sempre, era riuscito ad ottenere un passaggio su un veicolo di servizio. La maestra, molto più modestamente, era partita per la città con il “Gamba de legn”. Per la maestra signora Lucia era una emozione nuova andare a Brescia. Infatti tutti gli abitanti della Val Camonica, quando dovevano andare in città per qualche acquisto importante o per qualche visita medica specialistica, si recavano a Bergamo, città più facilmente e più velocemente raggiungibile. Lucia conosceva pochissimo Brescia. Le avevano detto che la sede dell’Ovra era in una strada che partiva da Piazza Tebaldo Brusati e, giunta alla stazione di Brescia, con il solito abituale ritardo, non se l’era sentita di chiedere come raggiungere la piazza rischiando di perdere ulteriore tempo. Aveva quindi deciso di noleggiare una carrozzella trainata da uno scheletri- co cavallo senza dare, per non suscitare curiosità, l’indi- rizzo al quale era diretta, ma chiese al cocchiere di por- tarla in piazza Brusati.

Don Cappelletti, nel frattempo, era a colloquio con il solito funzionario dell’Ovra. Cercava di indorare il più possibile le poche e vaghe notizie che aveva da riferire e di mostrarsi più ossequiosamente disponibile a tutte le raccomandazioni che gli venivano propinate per cercare di non perdere l’abituale ricompensa. “Andate” disse alla fine il funzionario e, facendo il solito segnale al sottoposto che era venuto a prelevare il prete, soggiunse “e buon divertimento!” Don Cappelletti, raggiunta la solita stanza e sedutosi sul letto, cominciò a spogliarsi. Lucia, giunta alla porticina contrassegnata dal numero civico che le era stato detto, si guardò velocemente intorno, augurandosi che nessuno dei passanti la notasse, e suonò il campanello. Le venne ad aprire un giovane pallido ed allampanato che, vedendola, ebbe una strana espressione di meraviglia. “Sei nuova tu?” chiese facendola entrare. Lucia rimase meravigliata dal tono di voce e dal fatto che questi le si rivolgesse col tu. – Ma guarda te che gnocca che si becca quello stronzo di prete – pensò il giovane che la prese, con poca delicatezza, per un braccio e la guidò sino ad una porta in fondo ad un buio corridoio.“Entra” le disse ancora, lasciandole il braccio e riavviandosi verso l’ingresso. Lucia, sempre più imbarazzata, rimase un attimo ferma davanti alla porta. Poi si fece coraggio e la aprì. La stanza era semibuia. Dall’unica finestra filtrava una scarsa luce a causa delle persiane chiuse. “Entra, dai, e spogliati, che ho fretta!” disse una voce che giungeva da un posto imprecisato della stanza. Una voce scostante ma imperiosa che fece trasalire la donna. – Io questa voce la conosco! – si disse tra sé e sé, ma non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
Quell’ordine finì di farle perdere la poca lucidità che le era rimasta. Si mise a tremare tutta impaurita e non riuscì ad evitare di iniziare a fare quanto le era stato ordinato. Non riusciva bene a vedere cosa ci fosse nella stanza. Intravide una seggiola sulla quale depositò i vestiti e la biancheria intima mano a mano che se la toglieva. Intravide anche un grande letto al centro della stanza ma non capì se fosse occupato da qualcuno. Quando ebbe finito di spogliarsi si rese conto della grottesca situazione nella quale si trovava e, per proteggere la propria nudità, non ebbe migliore idea di quella di precipitarsi nel letto e coprirsi con il lenzuolo. Sempre tremando e ad occhi chiusi, rimase ferma in posizione supina in attesa che qualcosa avvenisse. Ma fu un attimo: una mano fredda e sudaticcia si posò in mezzo alle sue cosce cercando di divaricarle. Non fu difficile perché la donna, ormai in stato di semi incoscienza, subiva tutto passivamente.
Qualcuno le stava montando sopra con l’intento di penetrarla, ma quando il suo viso e quello del suo violentatore si trovarono a poca distanza, la stessa voce di prima si mise ad urlare. “Madonna mia, ma non è possibile. Oh Signore, oh Signore, cosa sto facendo!” In quel mentre la porta si aprì e la luce venne accesa. Una donna molto prosperosa ed alquanto volgare entrò nella stanza, guardò verso il letto e scoppiò in una sonora risata. “Guarda, guarda questo sporcaccione” disse la donna con profondo accento emiliano. “Adesso non gliene basta più una, vuol fare l’ammucchiata! Purscel!” e si rimise a ridere.

Lucia, ritornando in sé, iniziò ad urlare. “Aiuto, aiuto, aiutatemi, per favore!”. Nel contempo pensava: – Perché non svengo. Madonna, per favore, fammi svenire! – A quelle urla il vano della porta si riempì per la presenza del giovane allampanato, del funzionario e di altri tre o quattro poliziotti. Tutti rimasero bloccati, allucinati dalla situazione e impreparati a gestirla. L’unica a non aver perso il controllo era la prostituta, abituata alle situazioni boccaccesche, i veri casini. Si rivolse agli uomini che erano fermi sulla porta: “Via, via, non c’è niente da vedere!” e li spinse fuori dalla stanza. Poi rivolgendosi a don Cappelletti gli disse: “Tu, fuori dalle palle. Per oggi hai scopato abbastanza. Prendi i tuoi vestiti e vattene.” Il prete, anche lui meccanicamente, si alzò dal letto e, presi biancheria e tonaca, si diresse verso la porta. Prima di usci- re si girò verso Lucia. Fu allora che questa lo riconobbe. Un lamento di bestia ferita le sgorgò dal profondo dei pol- moni e un pianto isterico cominciò a scuoterla tutta.

 

XXXI

Le due donne rimasero sole nella stanza. La prostituta si avvicinò a Lucia che continuava a singhiozzare mentre il corpo si rannicchiava su sé stesso in posizione fetale. La donna si sedette sulla sponda del letto e incominciò ad accarezzare il viso della maestra con affetto materno, mentre dalle sue labbra usciva un suono leggero e musicale, una cantilena rassicurante, come quando
le mamme cullano i loro piccoli. A poco a poco i singhiozzi si diradarono, il corpo sembrò distendersi e quando il respiro divenne regolare, Lucia, prostrata, si addormentò.
La donna continuò ad accarezzarla, le prese delicatamente il viso, se lo pose in grembo e cominciò a cullarla. Quando fu certa che Lucia dormisse profondamente, uscì dalla stanza e chiese di parlare con il funzionario. Questi, dopo aver somministrato una strigliata e, forse, qualche calcio nel sedere al poliziotto che aveva aperto la porta a Lucia, si era rintanato nel proprio ufficio cercando di decifrare l’accaduto: quali conseguenze avrebbe potuto avere su di lui e cosa fare della moglie del Podestà di Breno. Sapeva che questi era molto ben ammanicato con camerati in alto luogo. Per colpa di quel deficiente di un sottoposto, avrebbe potuto avere la carriera stroncata o, ancor peggio, ritrovarsi con l’ordine di un temutissimo trasferimento in Sardegna.
Quando gli comunicarono che la prostituta voleva con- ferire con lui, la fece immediatamente accomodare nel suo ufficio e la ascoltò con atteggiamento deferente. Fu assolutamente d’accordo che poteva rimanere accanto a Lucia sino al suo risveglio e ordinò a un suo collaborato- re di recarsi al vicino casino per giustificarne il ritardo.

 

XXXII

Nel frattempo don Cappelletti, rivestitosi frettolosa- mente, aveva raggiunto l’uscita e se ne era andato sbattendo la porta. In strada si era messo a correre in direzione della stazione ferroviaria. La sua mente sconvolta nemmeno si accorgeva della curiosità che suscitava nelle persone che incontrava e che, qualche volta, nella foga della corsa, urtava. Giunto in stazione ebbe la fortuna di trovare il treno in partenza, vi salì, cercò uno scompartimento vuoto, si se- dette nel posto vicino al finestrino e si abbassò il cappello sugli occhi fingendo di dormire. Ebbe la fortuna che sul treno ci fossero pochi passeggeri e che nessuno andasse a sedersi vicino a lui. Anche il controllore, pensando dor- misse, passò oltre. E fu davvero una fortuna perché il prete, nella fretta, non si era neppure lontanamente preoccupato di acquistare il biglietto. Cercava di ricostruire quanto era avvenuto, ma non riusciva a mettere insieme neppure due minuti delle ulti- me ore. Continuava a pensare alla maestra, non capiva cosa ci facesse a Brescia, in quel triste posto, in quel letto ove era entrata, sembrava, consenziente. Che avesse una doppia vita? Che, malata di masochismo, accettasse come sofferenza di prostituirsi più o meno a pagamento? Cosa sarebbe successo adesso, quando in qualche modo la cosa si sarebbe risaputa? O da una parte o dall’altra qualcuno avrebbe parlato. Come avrebbe potuto giustificare il suo comportamento sessuale e, soprattutto, il suo coinvolgimento con la poli- zia politica? Sentiva un gran freddo e un tremore interno come quando si è aggrediti da una febbre violenta. Rimase fermo, rannicchiato al suo posto sino a quando il treno non giunse – in un periodo brevissimo, almeno gli sembrò – a Breno.
Scese velocemente e, senza rispondere ai saluti che qual- che parrocchiano gli rivolgeva, quasi di corsa si diresse verso la casa parrocchiale. Entrato si rivolse bruscamente alla sua perpetua: “Elvira, una tazza di vino caldo! Portamela in camera. Sto male, anzi, sto malissimo. Sono ammalato, molto ammalato. Lasciami il vino sul comodino e poi non di- sturbarmi più. Starò malissimo anche domani. Quindi, dopo, vai dal don Arlocchi e digli che mi deve sostituire questa sera ai Vespri e domani mattina alla messa delle otto. E di non prendere impegni per i prossimi giorni perché io non so quando starò meglio”. “Le devo chiamare il medico, signor curato?” chiese, premurosa, l’Elvira.

“Allora non mi stai a sentire!” rispose strillando il prete. “Ho detto che non voglio vedere nessuno, non voglio parlare con nessuno. Insomma! Dillo anche al coadiutore. Che non gli venga in mente di venirmi a trovare!” Tracannò il bicchiere di vino caldo, si infilò la camicia da notte ed entrò nel letto. Mise la testa sotto il cuscino e cercò di calmarsi. Doveva ragionare, assolutamente. O forse era meglio che cercasse di dormire, di annegare i pensieri nel sonno per qualche ora e tentare di riprender- si sia mentalmente che fisicamente? Però non riusciva né ad addormentarsi né a calmarsi. Si ritrovò a pensare a quando era bambino e viveva con i genitori in una piccola casa insieme ai tre fratelli minori.
A otto anni era già stufo di quella vita. Il padre alla sera era perennemente ubriaco; la madre, stravolta dalla fatica, per cena non riusciva quasi mai a trovare il necessario per sfamare lui ed i tre fratellini. Nonostante l’età, era un bambino molto sveglio, intelligente ed acuto. Sapeva ragionare come un adulto ed era, soprattutto, furbissimo. Gli sarebbe piaciuto diventare maestro, forse perché desi- derava apprendere, forse anche perché il suo subcosciente gli suggeriva che quella del maestro non era una gran professione ma dava comunque uno stipendio sicuro e la possibilità di vivere rispettosamente. Tuttavia la sua fami- glia non avrebbe mai trovato i soldi per farlo studiare.
L’unica alternativa era quella di tentare di farsi prete. Ci pensò a lungo e poi, per studiata convenienza e senza sentire alcuna vocazione, espresse alla mamma il desiderio di entrare in seminario.
Lei, entusiasta, sia perché, almeno a quei tempi, un figlio in seminario dava sempre lustro, e soprattutto perché si eliminava una bocca da sfamare, era andata con lui a parlarne col Parroco.
Da quel giorno don Pompeo aveva iniziato a mentire con sé stesso e con tutti quelli che lo circondavano. Al Parroco fece credere di essere veramente attratto dalla vita religiosa e che sentiva che Gesù lo voleva con lui. Inventò anche uno strano sogno che raccontò al Parroco ed alla mamma. Si trovava in mezzo a una folla di gente miserabile. Nello zainetto aveva una mela e un panino con il formaggio. Aveva molta fame ma, impietosito da chi stava sicuramente peggio di lui, aveva donato la mela a una donna incinta e poi, preso il panino, ne aveva strappato dei piccoli bocconi che aveva cominciato a distribui- re. Più ne distribuiva più il panino si ingrossava ed era così riuscito a sfamare tutti. Alla fine, dalla folla gli veni- va incontro un bambino, scalzo e vestito miseramente. Gli sorrideva, lo prendeva per mano e lo conduceva in un bellissimo giardino pieno di fiori e di frutti. Fu allora che egli aveva riconosciuto in lui Gesù Bambino. Da quella notte, continuò a raccontare Pompeo, il suo più grande desiderio fu di mettersi al servizio degli altri. Il Parroco rimase impressionato da quelle parole e assicu rò la mamma che ne avrebbe parlato con i suoi superiori e con il Direttore del vicino seminario. L’ingresso al seminario avvenne un triste giorno di novembre. Cadeva una fine pioggerellina gelata che inzuppava la povera giacchetta ed il cappellino che Pompeo indossava. Il Parroco, che lo stava accompagnando a quel- la che sarebbe stata per lungo tempo la sua nuova dimo- ra, era munito di un grosso e largo ombrello di colore verde, ma non si era preoccupato di riparare il suo gio- vane parrocchiano che gli trotterellava alle spalle cercando di tenere il suo passo spedito.
In quella stagione il seminario sembrava ancora più te- tro. All’interno regnava un silenzio che rimbombava contro le alte volte dei larghi corridoi. Raramente da un’aula giungeva la voce di un docente infervoratosi su qualche argomento o intento a sgridare un allievo di- stratto o ignorante.

 

Pompeo ebbe la tentazione di girarsi, abbandonare Parroco e seminario e, correndo, ritornare a casa maledicendo quanto si era inventato. Ma non ne ebbe il tempo. Erano arrivati davanti alla porta dell’ufficio del Rettore e il Parroco, presolo per un braccio, lo spinse all’interno facendolo inginocchiare da- vanti al vecchio prete che dirigeva con polso, anche tro po rigido, docenti e scolari.“E dunque tu vorresti servire Dio abbandonando i piaceri del mondo?” Il Rettore si rivolse a Pompeo quasi continuando un discorso iniziato prima dell’ingresso del bambi- no. Non ricevendo alcuna risposta, anche perché il ragazzo stava pensando a quali potessero essere i piaceri del mondo che desiderava abbandonare, avendo sino ad allora conosciuto solo povertà e solitudine, il vecchio prete riprese: “Qui avrai tempo per studiare e meditare sulla tua scelta, per rafforzare la tua fede e per capire se effettivamente sei destinato ad essere un ministro di Dio, a seguire il Vangelo ed a predicare la Buona Novella. Vedremo, vedremo.” Poi, rivoltosi al Parroco: “Parroco, vi faremo sa- pere. Ci auguriamo che il ragazzo abbia le giuste qualità e una vera vocazione. Sarebbe triste dovervi richiamare per venire a riprendere la vostra pecorella.” Si alzò dall’imponente poltrona sulla quale era seduto, porse la mano al Parroco che, fatto un cenno di saluto al bambino, si girò e lasciò la stanza. Il Rettore si infilò la stola, prese per le spalle Pompeo guidandolo verso un inginocchiatoio. Si sedette sulla poltrona accanto e invitò il bambino a confessarsi. Non aveva molti peccati da ammettere un bambino di otto anni che aveva vissuto in una povera casa. Non aveva commesso peccati di gola, non potendo trovare in casa dolci o preli- batezze sconosciute; era troppo giovane per praticare quel- li della carne; nessun motivo di invidia verso gli altri ragazzi poveri come lui; bestemmie nemmeno a pensarlo, tanto erano orribili quelle che il padre lanciava dal baratro delle sue sbronze. Eppure la confessione durò oltre un’ora. Il vecchio prete, appigliandosi ad ogni occasione che il bambino gli dava, fosse una insicurezza o un dubbio, scavava nell’animo del nuovo seminarista per conoscerne la vera natura. Alla fine non era riuscito a capire molto della sua indole ed era, comunque, alquanto perplesso. Tutte le risposte del bambino sembravano studiate non per apparire migliore ma per ingraziarsi l’affetto e la considerazione di chi lo stava esaminando.
Infatti il piccolo Pompeo aveva capito subito che quella non era una vera confessione, ma un esame che doveva assolutamente superare se voleva rimanere in seminario. E sapeva che la prima impressione sarebbe rimasta a lungo nella mente del Rettore e avrebbe potuto condizionare la sua vita nei prossimi anni.
Vi erano solo due altri bambini in seminario: uno suo coetaneo ed uno di un anno più grande. Studiava con loro anche se Pompeo era molto meno preparato. Il maestro però lo aveva preso in simpatia e cercava di aiutarlo in tutti i modi con estrema pazienza. La vita del seminario gli apparve subito gradevole. La sveglia alle sei non lo disturbava, essendo la stessa ora alla quale si svegliava a casa; al freddo della camerata e dei bagni era abituato. Lo disturbava un poco la comodità del letto: il materasso di lana era troppo morbido per lui, che a casa dormiva su un saccone ripieno di foglie secche di granoturco. Finita la messa, tutti si recavano in refettorio dove, in vere tazzine, veniva servito del latte caldo e pane in abbondanza.

Il primo giorno Pompeo ritenne che quello fosse l’unico pasto sino alla cena. Si riempì di pane e di latte. Scolò anche le tazze di qualche vicino che, ormai sazio, non aveva finito di bere il latte freddato. Non essendo il suo stomaco abituato a tali scorpacciate dovette correre, nel corso della giornata, molte volte alla latrina in preda ad una violenta dissenteria.
A parte le lunghe ore trascorse a pregare in cappella, dove si annoiava mortalmente, e quelle passate ad ascoltare la vita dei santi, il resto della giornata era piacevole. Ap- prendere era un suo grande desiderio; il mangiare, anche se il cuoco sembrava mettercela tutta per rovinare qualsiasi pietanza, era abbondante; i momenti di svago brevi ma abbastanza divertenti.
Pompeo era sempre vigile nell’eseguire gli ordini del Prefetto e di tutti i maestri e professori: voleva suscitare la migliore impressione possibile ed evitare punizioni a volte dolorose, come quando si era costretti a rimanere inginocchiati, per lunghi periodi, sul pavimento cosparso di lenticchie secche.
Approfittando del fatto che aveva destato tra i convittori simpatia, riusciva spesso a intrufolarsi nei pensieri re- conditi anche dei ragazzi maggiori di lui e a riceverne confessioni indiscrete. Dopo averle ricevute, Pompeo, lasciato passare un certo periodo di tempo per non scoprirsi, trovava la scusa per riportarle agli insegnanti. Non sfacciatamente, da spia, ma da amico preoccupato di chi gli aveva fatto le confidenze. Questi gradivano le notizie che potevano permettere un più approfondito controllo sui ragazzi ed il più delle volte lo incitavano a continua- re ad informarli. Pompeo, in cambio di questo metodo che usava tradendo gli amici, ebbe, se non riconoscimenti, almeno la benevolenza dei superiori. Continuò per anni questo modo di fare, affinandolo. Riusciva sempre meglio ad entrare nelle confidenze degli altri seminaristi e a riportare maggiori dettagli della loro vita interiore. Tanti ragazzi furono puniti o costretti a lasciare il semi- nario in conseguenza delle confidenze fatte a Pompeo. La cosa era particolarmente importante soprattutto quando si parlava di un argomento vietatissimo: il sesso. Tale argomento era, allora molto più di oggi, l’ossessio- ne di tutti gli insegnanti di tutti i seminari. L’opera più malefica del diavolo! E per questo di grande attrattiva. Almeno a parole. E di parole sull’argomento se ne spen- devano molte anche tra i compagni di Pompeo che, ad ascoltare quei discorsi, traeva un certo piacere. Un’anticipazione di quello che avrebbe provato più avanti nella sua vita di confessore.

 

 

XXXIII

Lucia si svegliò solo alle quattro del pomeriggio. Le girava leggermente la testa e non riusciva a capacitarsi di dove fosse. Si accorse di essere nuda sotto le lenzuola e questo la sconvolse.
Accanto al letto vi era una sconosciuta che le stava accarezzando, le sembrò con affetto, i capelli e il viso. Improvvisamente ricordò. Il suo arrivo all’ufficio dell’Ovra, la strana accoglienza ricevuta, di essersi spogliata e, nuda, di essersi infilata nel letto già occupato da quel visci- do verme del Parroco, le sue mani sudaticce che la tocca- vano, il viso sopra il suo mentre cercava di violentarla. Ricominciò a tremare mentre la donna continuava ad accarezzarla, a sorriderle. Un dolce suono, forse una nenia, usciva dalle sue labbra. Dove era adesso? Era stata rapita per essere trasportata… dove? Era stata venduta come schiava? Dove era? Doveva assolutamente saperlo ma non riusciva ad articolare un suono, una parola per chiederlo. Finalmente la donna le parlò con un forte accento emiliano. “Stai tranquilla, è finito tutto. Adesso Carla, che sarei io, ti aiuta a rivestirti per tornare alla tua casa. A proposito, hai un marito, dei figli? Dove abiti?” “A Breno” rispose Lucia, grata a quella donna che si stava occupando di lei e sembrava la volesse proteggere. “Sono sposata, sì, ma non ho figli. Non te ne andare, non lasciarmi sola, ti prego!” supplicò quando la donna si alzò diretta verso la porta. Questa si voltò e le sorrise di un sorriso dolcissimo, nonostante i lineamenti tutt’altro che delicati.
“Non ti preoccupare, non ti lascio. Prendo solo i tuoi vestiti dalla seggiola dove li hai lasciati”. Aiutò Lucia a vestirsi, commentando, per metterla a suo agio, la finezza della biancheria intima e l’eleganza del tailleur grigio fumo che dava, così bene, risalto alle sue forme. Finalmente un sorriso apparve sul viso della giovane donna, grata per l’affetto dimostrato nei suoi con- fronti e anche per quel tanto di civetteria, tutta femminile, così sensibile agli apprezzamenti. Quando Lucia si fu rivestita, la prostituta, che per una volta nella sua vita si sentiva importante, padrona di prendere delle decisioni, aprì la porta della camera e, affacciatasi in corridoio, urlò in direzione del piantone: “Ehi tu, pelandrone! Chiama subito il commissario e che si spicci a venire”.
Questi arrivò veramente di corsa, si genuflesse, quasi, davanti alla maestra. Entrò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle.

Imbarazzatissimo, rosso in viso e leggermente tremante si rivolse a Lucia con un “Non so cosa dire, non so proprio cosa dire. Quale sia il mio imbarazzo ed il mio dolo- re, lei non può credere. Qualsiasi cosa possa fare mi dica e la farò. Qualsiasi, veramente qualsiasi”. Lucia non aveva né voglia né coraggio di guardarlo in faccia, ma doveva farlo. Doveva riuscire a capire che tipo di uomo fosse e se si poteva fidare di lui. “Commissario, io desidero solo che nulla si sappia. Qui oggi non è successo nulla. Lei capirà: io non posso perde- re la mia reputazione per una brutta avventura mal gestita. Io qui sono parte offesa e come tale devo essere trattata con il massimo rispetto. Le farò sapere le mie decisioni e lei, se è un uomo di onore, ad esse si atterrà scrupolosamente. Uno scandalo non gioverebbe neppure a lei né ai suoi diretti superiori. La prego, mi faccia chiamare un carrozza che voglio raggiungere la stazione al più presto”. “Per carità, signora!” rispose il commissario inchinando- si nuovamente. “Ho messo a sua disposizione la nostra macchina di servizio e un autista. Si faccia portare dove vuole e la tenga al suo servizio per tutto il tempo necessario.” Poi, sempre più premuroso: “Posso offrirle, che so, un caffè, un cordiale, qualsiasi cosa, signora?” La prostituta lo stava guardando con un sorrisino malizio- so sulle labbra. La divertiva vedere quell’uomo, considera- to potente, tutto servile e spaventato. Quando il commissario se ne accorse, si rivolse a lei con voce arrogante:
“E tu cosa ci fai ancora qui? Saluta, ringrazia la signora e togliti dai piedi!” Lucia rimase dapprima meravigliata dalla trasformazione del tono di voce del commissario e poi si infuriò per i modi villani e prepotenti. “Non si permetta di usare questo tono arrogante con questa signora!” urlò. “Né io, né lei, soprattutto lei, abbiamo la gentilezza e la bontà d’animo di questa don- na. La rispetti e, per favore, le chieda scusa!” Carla, a quelle parole, stava per mettersi a piangere tanto era la commozione e la gioia. Fu ancora più felice quando, dopo le scuse del commissario, Lucia le si avvicinò, la abbracciò con molto calore e le diede due affettuosi baci sulle guance. “Grazie” le sussurrò all’orecchio mentre gli occhi le tornavano lucidi. Quei momenti, per Carla, furono tra i più belli della sua vita.

(continua…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’antica drogheria sforna krumiri e giornali

Dal Piemonte / Mantenere la denominazione di “Antica Drogheria Corino” per la caffetteria, sorta da alcuni anni nei locali in cui dal 1920 esisteva la drogheria di Luigi Corino e anticamente nel 1764 una spezieria, è stata una lodevole iniziativa che ha conciliato il presente al passato, esigenze dell’oggi alle tradizioni facenti parte della storia minore di una città di fondamentale importanza per coglierne e tramandare lo spirito di continuità.


A ricordare la grande storia di Casale, ci pensa, al centro della piazza adiacente, il monumento equestre dedicato a Carlo Alberto nel 1843 alla presenza del Re Vittorio Emanuele II come imperituro ringraziamento di aver ridato alla città il Senato sotto forma di Corte d’Appello.  Al profumo delle spezie, che avvolgevano i passanti sotto i portici corti di via Roma davanti alla vecchia drogheria, si sostituisce ora l’aroma del caffè e dei Krumiri prodotti nel laboratorio artigianale installato dai gestori che usano offrire in omaggio un tipico biscotto a chiunque ordini una tazzina di caffè.


La proustiana inevitabile “Recherche du temps perdu”, che si insinua nell’entrare in un locale dove è passato un mondo che non c’è più, si attua e si placa nell’atmosfera colloquiale e familiare creata dal vecchio bancone primo novecento, dall’antico parquet a liste di legno consunto ma ancora agibile, dagli scaffali colmi di bottiglie di vino e di liquori,quasi introvabili, che erano vanto dei salotti delle nonne ora passati di moda, dai “Barat” di vetro che prima contenevano bonbons e dolci ora sostituiti dai krumiri quali novelle madeleine. E’ talmente forte la suggestione che pare di percepire con immaginazione olfattiva, prendendo a prestito “Boogie” di Paolo Conte, “Quell’afrore di coloniali che giungevano da una di quelle drogherie di una volta che avevano la porta aperta davanti alla primavera”.


E intanto, sotto lo sguardo severo e imperioso di Carlo Alberto addobbato come il Marco Aurelio del monumento equestre di Roma, piazza Mazzini si anima e vivacizza grazie alla riapertura dell’edicola, inattiva da qualche tempo, dove oltre ai giornali vengono promossi i prodotti in vendita nel Caffè.

Giuliana Romano Bussola

4 maggio, il “Fila” racconta

L’epopea calcistica che più di tutte ha entusiasmato, emozionato e commosso l’Italia. Il libro “Il Grande Torino. Gli Immortali” del giornalista sportivo Alberto Manassero, edito da Diarkos  ci racconta, nell’anniversario della tragedia di Superga del 1949,  la storia di uno stadio e di una squadra che resteranno nella storia. Ne pubblichiamo un capitolo per gentile concessione dell’editore

 

Torino ha il cappello calato sugli occhi, quel giorno. Nubi rigonfie e livide oscurano l’apice delle verdi colline che le fanno da retroscena. Sotto, il frusciante Po è scorrevole proscenio. Piazza Vittorio Veneto somiglia a un’elegante platea; i palazzi sono palchi; di là, la maestosa corona delle Alpi è un unico grande loggione. È già sera, ma non lo è: è solo pomeriggio. Quel poco di residua luce è luce strana, violacea, che non fa ombre, tutto è una grande ombra. I nembostrati carichi di pioggia paiono massi lì lì per cadere.

Avvolta, la sacra sentinella di Torino, che dall’alto a nord-est vigila da duecento anni, non si vede. Macerie non ce ne sono quasi più, quelle restano nei cuori, ma le vie sono ancora bucate, piene di vuoti strazi laddove stavano case e palazzi. La ricostruzione è partita: lunga, ci metterà decenni per dirsi terminata.
Gino, che nell’infernotto della casa di via Solero ha ricavato un piccolo laboratorio dove ripara un po’ di tutto e qualcosa inventa pure, è sulla sua bicicletta. Fa piccole consegne, con la faticosa e preziosissima conquista postbellica a due ruote, per i suoi lavori e per chi ha urgenza di recapitare qualunque cosa possa caricare. Pioggia o sole poco importa, lui ce la farà.
Pedala costeggiando il Po, che ha appena passato sul ponte Umberto I, proprio in direzione piazza Vittorio. Ha il volto piegato verso destra, guarda la collina, così strana tagliata dalle nuvole. Il Monte dei Cappuccini si scorge, imbrunito, ma la basilica lassù proprio no, sparita. Mentre gli occhi la guardano senza vederla, un tetro bagliore gliene svela i contorni in controluce: che boato. L’hanno sentito tutti, le massaie già rientrate nelle cucine fiocamente rischiarate da una lampadina 15 candele, e nelle fabbriche gli operai che stanno per chiudere il turno. Tutti, istintivamente, hanno alzato gli occhi al cielo. Un brivido li scuote. Una scossa attraversa Gino. Non può evitare di poggiare un piede, sostare un istante. Sbircia l’orologio, unica eredità del padre: sono le cinque e tre del pomeriggio.
Pochi attimi, fatta la consegna, Gino rinsella e parte verso la Madonna del Pilone. Deve andare accanto al Cinema Eridano, in corso Casale, per l’ultimo pacchetto. Fa in fretta e, prima di ritornare verso casa, usa gli spiccioli di mancia per concedersi un lusso: il bicchiere di spuma Giommi che la sete reclama. Entra nel bar, dove sono tutti agitati: cos’è questo brusio? Chiede alla signorina se è successo qualcosa: «Non lo sa? Dicono che sia caduto un aereo a Superga, l’aereo del Grande Torino». È un cazzotto di Joe Lewis, le gambe lo piegano, ma in un fulmine è sulla bici. Pedala che neanche Coppi e Bartali assieme. Un forsennato, un pazzo, lo credono guardandolo sfrecciare proprio davanti al Motovelodromo. La strada che sale non è chiusa, provano a fermarlo, ma chi lo acchiappa? Gino è un motore che spinge un piede dietro l’altro, assomiglia a uno schizzo futurista. È marcio di pioggia, ma anche splendesse il sole sarebbe fradicio: di sudore e lacrime. Non si ferma, non si fermano.
Non è un pianto, è un continuo sgorgare di angoscia e dolore che per non esplodere da qualche parte deve uscire, ed esce dagli occhi. Scarta i pedoni che salgono a piedi, sente una sirena in alto, un attimo e sparisce dietro la curva. No, non può essere vero. Si convince, ci prova; ma quelle sirene, quei gendarmi che volevano bloccarlo…
No, non è vero. Dio, dimmi di no! Sembra una preghiera, è più una bestemmia. In un amen è lassù, sfigurato, nella nebbia. Scarta la Basilica, si precipita dietro. Butta la bicicletta, il bene più prezioso che ha, cade la catena e neanche se ne accorge. Non pensa. I soccorritori – mai nome fu più fallace: nulla possono soccorrere, andrebbero soccorsi – sono pochi, uno lo abbranca: no, si fermi, non vada! Se lo trascina dietro ancora per uno, per due. Tre passi. Stop. A terra fissa uno scarpino da calcio. Là, una maglia un po’ lacera e bruciacchiata: granata. C’è una valigia marrone di cartone pressato, spalancata. Gli occhi si abbassano, vicino al piede c’è un documento, aperto: il sorriso di un ragazzo ventottenne lo fissa. È finita. Si lascia andare, seduto, arso dentro, e piange. Piange in coro con tutta Torino, tutta l’Italia, il mondo. Piangono i tifosi, piangono i professori, piangono le nonne e le nipoti, piangono gli amici, i nemici e gli avversari. Piange la terra. Continua a piangere il cielo. E non c’è più fiato.
Il 4 maggio 1949 appallottola Torino come un foglio accartocciato dalle mani del destino: soltanto la guerra ci era riuscita. La gente ha gli stessi occhi del ’43, del ’44, del ’45. Smarriti, sbiaditi, feriti. Lo stesso animo, agghiacciato. Prova le stesse cose: un buco che s’allarga dentro all’altezza dello sterno, e lo riempiono ora il dolore, ora l’ansia, ora la disperazione. Quell’aereo ha sparpagliato trentuno corpi straziati: tredici sono uomini, il più anziano ha 66 anni, il più giovane 33; quanti il più vecchio dei diciotto ragazzi pieni di muscoli. Gli altri tutti meno, fino ai ventidue, ai ventun’anni! Ventuno! Ventuno, Dio mio. Ognuno lascia un fiore, almeno. Una madre. Un padre. Un bimbo, due. Fratelli, sorelle, nonni. Una moglie, una donna. Lascia un campo arato con i sentimenti e seminato di amore. Cresceranno quei semi, per sempre, ma senza più fiorire.

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prima parte

Lunghe radici

Sono del 1926, mi chiamo Campo Torino, ma comunemente mi conoscono come stadio Filadelfia. Fila per gli amici. Ai bei tempi avevo anche un soprannome: Fossa dei Leoni. Il Toro era un ragazzo, quando mi hanno costruito. Aveva vent’anni. Era nato nel 1906, il 3 dicembre, benché potesse vantare robuste radici in quelle che furono le prime società calcistiche italiane.

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L’embrione del pallone tricolore
L’anno è il 1887, quando Edoardo Bosio, che scopre il pallone a Nottingham dove l’ha portato il mestiere di tessile, fonda assieme a colleghi britannici il Torino Football & Cricket Club. Le maglie sono rossonere, si gioca a pallone, ma il cimento atletico spazia anche nel canottaggio e nell’alpinismo. Nota importante: Bosio abita in piazza Solferino e la sua casa è sede del club. Nel 1889, sull’esempio di Bosio, nascono i gialloneri Nobili Torino per volontà di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta e, come da nome, è d’ispirazione aristocratica. Le prime sfide si giocano in piazza d’Armi, non lontano da me e, soprattutto, laddove si affaccerà per sempre la curva Maratona dello stadio Olimpico Grande Torino, già Comunale, ex Mussolini. Ma questa è un’altra storia.
Ancora un biennio, e siamo nel ’91 dell’Ottocento: i due sodalizi primigeni si uniscono nell’Internazionale Torino. Colore sociale d’esordio il maroon dello Sheffield FC, il club di calcio più antico del mondo: granata. Tra questi pionieri, c’è Herbert Kilpin, l’inglese che, trasferitosi a Milano, fonderà il Milan nel 1899. La passione per il calcio cresce tra i giovani. Nel 1894, altri ragazzi si aggregano nel Football Club Torinese, la squadra in cui giocherà per anni Vittorio Pozzo, e la vestono di oro-nero. Sul finire del secolo, l’FC Torinese assorbe l’Internazionale Torino. E arriva il 3 dicembre 1906. In una saletta al primo piano dell’allora Birreria Voigt, guarda caso in piazza Solferino, il Football Club Torinese cessa di esistere per dare la luce al Torino Football Club unendosi con alcuni fuoriusciti dalla Juventus (fondata nel 1897), tra cui Alfredo Dick. Il primo presidente è Franz Josef Schoenbrod, già pilastro dell’FC Torinese.
Si comincia subito a giocare, indossando e reindossando le vecchie casacche, sia granata sia oronere. Come vedete, le radici del Toro sono profondissime: in quel 3 dicembre di cento e passa anni fa, più che una società nuova si registrò un cambio di nome. Al di là del continuo movimento di dirigenti e giocatori tra un gruppo e l’altro di appassionati, caratteristico dell’era pionieristica, ci fu continuità di persone e di colori. E che fine avrà fatto Edoardo Bosio, il primo di tutti a buttare un pallone per le strade di Torino, d’Italia? Riepiloghiamo: fondatore e giocatore del Torino Football & Cricket Club, quindi calciatore dell’Internazionale Torino e dell’FC Torinese. E ora, anzi allora, dirigente del Torino FC. Il nostro amato Toro.
Ci tengo, a queste precisazioni, malgrado possano avere un valore relativo dal punto di vista genealogico ufficiale. Ci tengo perché a Torino, nella mia bela Turin, è nato un po’ tutto, non solo l’Italia unita. Dal cinema alla radiotelevisione, dalla grande moda al caffè espresso, dall’automobile all’aeronautica. E pure il calcio.
Ma torniamo ai giorni nostri, pardon ai giorni miei. A cavallo dei due secoli scorsi e nei primi anni del Novecento, Torino gettava le basi della città industriosa e poi industriale che sarebbe diventata, nonostante fosse ancora la Torino regia, anzi regale, al di là dell’aspetto istituzionale. Madamine dai grandi abiti passeggiavano al braccio di cadetti in uniforme e spadino sotto i chilometrici e accoglienti portici del centro. Il Bicerin, i cavouriani saloni tappezzati del Caffè Fiorio in via Po, l’eleganza del Baratti & Milano, l’espresso veloce da Mulassano, un gelato da Pepino davano il senso della storia e profumavano d’Ottocento. Allora come ora. Le già forti tensioni politiche e sociali non impedivano l’eleganza, il clima festoso, il gusto della Belle Époque. Un modo di vivere vivace e misurato che solo il macello della Grande Guerra interruppe. Ma non uccise. Tornò, col fervore tipico del momento e del luogo. È in questo bozzolo che, il 15 marzo 1895, venne alla luce, crebbe e agì Enrico Eugenio Antonio Marone Cinzano. Il conte Marone Cinzano. Mio padre.

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Il grande Enrico
Cinzano fu l’ottavo presidente del Torino. Ma, al di là dei meriti sportivi, fu una grande persona non solo per qualità imprenditoriali, ma anche umane. Le prime le dimostrò alla guida dell’azienda di famiglia: mamma Paola Cinzano era l’ultima erede dell’omonima e storica fabbrica di alcolici. Le seconde, nella vita di tutti i giorni, nel suo impegno sportivo, nella partecipazione in prima persona alla lotta di Liberazione. Nel 1919 entra in azienda, si è appena congedato col grado di sottotenente dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale da volontario. Nel ’22 ne diventa vicepresidente. Apre il marchio italiano alla scena internazionale, portandolo nei più importanti Paesi del mondo. Viaggia senza sosta. L’infaticabile lavoro, però, non lo distoglie dalla passione per il calcio. Da studente, ha cominciato a frequentare il velodromo Umberto I, dove gioca il Torino FC. Conosce molti dei pionieri e crea un forte legame con due pilastri dell’epopea granata: Vittorio Pozzo e Vittorio Morelli di Popolo. Entra in società, diventa dirigente e nel 1924 rileva la presidenza da Giuseppe Bevione.
Enrico ha la scorza del vecchio torinese bogia nen, che non si scosta d’un passo dinanzi alle difficoltà, e l’agilità fulminea e audace dell’esploratore moderno, dello scopritore, del sognatore pratico. Quando diventa presidente, il Torino gioca le sue partite nel cosiddetto Campo Stupinigi, all’angolo tra corso Sebastopoli e corso Galileo Ferraris (ai margini di piazza D’Armi) e, per una stagione, al Motovelodromo. Ma il calcio sta lasciando velocemente l’era dei pionieri, cresce ogni giorno la schiera degli appassionati e dei sostenitori. Mio papà, intuitivo e tenace, ha capito da tempo che il Torino ha bisogno di una casa tutta sua, di uno stadio dove ospitare adeguatamente allenamenti, partite e, soprattutto, tifosi. Un luogo di sport e spettacolo, certo, però anche una piazza d’incontro e d’aggregazione. Sarà il Filadelfia, sarò io.
La scelta del terreno è facile: a pochi passi da dove già gioca il Torino. Periferia, anzi per lo più ancora i dintorni della città, però non ancora aperta campagna. Da una parte, non lontano, oltre la ferrovia, si erge la fabbrica Fiat del Lingotto, dall’altra ci sono gli imponenti mattoni rossi dell’Ospizio di Carità, che i torinesi chiamano Poveri Vecchi. E il viale che dalla città porta a Stupinigi, laddove si staglia la juvarriana Palazzina di Caccia dei Savoia sormontata dal cervo in bronzo, ha cominciato a ospitare ai lati qualche casetta oltre alle storiche caserme. Sono i semi della Torino che verrà. Lì, accanto a quel viale, il futuro conte Cinzano acquista il terreno e il 24 marzo 1926 presenta in Comune la richiesta di concessione edilizia per la costruzione dello stadio.
Intanto, ha le idee chiare e giuste pure sul piano sportivo. Vuole vincere. Compra tre fuoriclasse, ancora oggi tra i migliori giocatori che abbiano portato la maglia del Toro: nel 1925 Adolfo Baloncieri, Julio Libonatti e, l’anno successivo, Gino Rossetti. In granata ci sono già autentiche colonne della nostra storia: Mario Sperone, Antonio Janni, i fratelli Mosso (Eugenio, Francisco, Benito, Julio: una famiglia tutta granata), i fratelli Martin (Cesare, Piero, Dario, Edmondo: altra famiglia tutta granata), Vittorio Staccione che poi sarà seguito dal fratello Eugenio. Come quest’ultimi, molti sono già passati dal quasi neonato vivaio. I fratelli Staccione ci obbligano a una piccola deviazione. Eugenio, portiere, restò legato al Torino anche dopo le esperienze in altre squadre e tornò a lavorare in società. Drammatica la vicenda di Vittorio, centrocampista, che lasciò un segno profondo nella storia della Fiorentina: inserito nella hall of fame della Fiorentina quale miglior giocatore viola degli anni Venti e Trenta, antifascista convinto, pagò con la vita la partecipazione alla battaglia per la libertà nel campo di concentramento di Mauthausen, il 16 marzo 1945, poco prima dell’altro fratello Francesco, assieme al quale era stato arrestato a Torino nel 1944 per la sua attività politica. Lo stadio di Cremona, lo Zini, gli ha dedicato una lapide in marmo con un’opera in bronzo dello scultore Mario Coppetti, che lo vide giocare dal vivo in grigiorosso. Anche Torino, al principio del 2019, ha inserito una Pietra d’Inciampo a sua memoria davanti al domicilio di Vittorio ai tempi dell’arresto, in via San Donato 27.
I Venti e i Trenta sono anni memorabili per lo sport italiano, in cui alza la testa e stupisce la Francia con il ciclista Ottavio Bottecchia, che trionfa in due Tour consecutivi (1924 e 1925), uscendo così dalla miseria più nera per poi morire assassinato nel 1927 in circostanze mai ufficialmente chiarite, ma con grossi indizi di delitto politico. Luigi Beccali nei 1500 metri e Attilio Pavesi sulla bicicletta esaltano i paisà a Los Angeles 1932, l’Olimpiade da record per l’Italia con trentasei medaglie, dodici per ogni metallo. E il nostro sport meraviglia l’America con il gigante buono Primo Carnera, capace di strappare la cintura mondiale dei massimi a Jack Sharkey in casa sua, a Boston, nel 1933. Fino al 1936, all’ultima illusione di Berlino, annerita da Jesse Owens con nove anni di anticipo sulle bombe alleate, che incorona Ondina Valla, prima italiana d’oro alle Olimpiadi, quelle che vedranno anche il trionfo degli azzurri guidati da Vittorio Pozzo. Fino al ’36, almeno l’aria è ancora pulita, l’Italia sembra un Paese destinato a un luminoso futuro. Sembra.

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Subito competitivo
Torniamo al sorriso e all’eleganza di Enrico Marone Cinzano. Con il progetto dell’impianto sportivo e la costruzione di una squadra forte, il presidente assembla una società calcistica all’avanguardia per la metà degli anni Venti, già molto attenta alla formazione giovanile di futuri campioni e al proprio pubblico. I risultati sono immediati. Da un mediocre sesto posto, il Torino balza a un secondo nel 1925-26, Girone Nord Gruppo A (il campionato non era ancora stato unificato), a soli due punti dal Bologna qualificato per la fase finale e battuto dai granata 6-2 nell’ultima partita, giocata al Motovelodromo di corso Casale. Io sono in costruzione.
Marone Cinzano ha aperto la Società Civile del Campo Torino proprio al fine di attuare il progetto. L’area acquistata è di circa 38 mila metri quadrati e, appena ottenuto il via libera comunale, i lavori sono partiti sotto la direzione dell’ingegnere Miro Gamba, professore del prestigioso Politecnico torinese. Ad attuarli, il commendator Riccardo Filippa. «Ci siamo recati al cantiere, dove una folla di operai sta lavorando attivamente sotto la direzione dell’ideatore ingegnere Gamba. Dal corso Stupinigi si disegna già l’ossatura leggera ed elegante della tribuna coperta, capace di 1300 posti» scrive il quotidiano «La Stampa» il 26 agosto 1926.
Il nuovo campo sarà indubbiamente il più elegante e moderno d’Italia. Avrà inoltre, su gli altri […] confratelli, il vantaggio di un’invidiabile posizione. Gli spettatori della tribuna avranno dinanzi ai loro occhi il suggestivo sfondo della collina torinese, visibile per un larghissimo tratto; in lontananza si profilano l’agile guglia della Mole Antonelliana, il caratteristico Monte dei Cappuccini, la bianca Basilica di Superga: tutto quanto di più torinese e di più bello c’è a Torino. Sarà uno spettacolo per […] forestieri, i quali potranno visitare con l’occhio la nostra città, standosene comodamente seduti sulle gradinate di cemento, fasciate da scranni di legno, e assistendo contemporaneamente a un emozionante spettacolo sportivo.
L’elegante tribuna è in stile Liberty, fatta di ghisa e legno, come di legno sono le poltroncine tutte numerate: bellissima. Le gradinate invece sono di cemento armato. La mia facciata è in mattoni rossi, grandi finestre dai bianchi infissi, colonne e un lungo ballatoio con la ringhiera in ferro. Sembrava una casa: un segno del mio destino. «Il campo sportivo costerà tre milioni di lire», dice il medesimo articolo: a quanto pare si riuscì addirittura a risparmiare, visto che il primo investimento non superò i due milioni e mezzo. «II campo avrà una capacità complessiva di 15.000 spettatori […] Ma la capacità massima del campo sarà facilmente raggiunta con altre due gradinate, qualora l’affluenza del pubblico crescesse in misura così… consolante da richiedere altri posti. L’ing. Gamba ha predisposto il progetto per questa lieta e possibile probabilità: il campo allora potrà raggiungere la capacità di 25.000 spettatori». E così sarà presto: nel 1932 arriverò a contenere oltre trentamila spettatori. In cinque mesi, ero pronto.

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Si comincia!
Il 17 ottobre 1926, a pagina quattro, «La Stampa», tra «L’inaugurazione del Tennis Club allo Stadium» e «Il turno delle farmacie» diffondeva la seguente notizia di cronaca cittadina:
Il nuovo campo del Torino F.B.C.
Come abbiamo già pubblicato, oggi alle 14.30 verrà inaugurato il nuovo campo del Torino F.B.C, alla presenza del Duca d’Aosta, del Duca di Pistoia e della Principessa Adelaide, che ne sarà la madrina. Monsignor Gamba, Arcivescovo di Torino, impartirà la benedizione al nuovo campo. La Direzione del FC Torino comunica che, per gentile concessione della Divisione militare, presterà servizio la Banda dei Reali Carabinieri, che suonerà per la prima volta l’inno del «Torino», musica del maestro Consiglio. Ricordiamo che, in occasione dell’eccezionale avvenimento, è stato disposto un servizio di autobus con partenza da piazza Paleocapa.
La piazzetta gemella della Lagrange ai lati di piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione ferroviaria Porta Nuova: il centro di Torino. Servizio autobus provvidenziale e sfruttatissimo dai cittadini, che letteralmente mi assediarono. Sempre «La Stampa», sempre cronaca cittadina di pagina quattro ma il dì appresso, il titolo più grande recita: «15.000 persone all’inaugurazione del nuovo campo del Torino».
Il nuovo campo del Torino F.B.C. ha ricevuto ieri il battesimo dell’Arcivescovo Monsignor Gamba, presente una folla varia ed elegante di almeno quindicimila spettatori. Il magnifico viale di Stupinigi in un meriggio dolce di primavera, festoso di sole e d’azzurro, era percorso già prima delle 14 da una lunga teoria di automobili, che si affannavano, in un groviglio insolito e pittoresco, a trovare un tratto di strada libera. Il movimento delle macchine è stato per breve tempo addirittura fantastico, e molti sono stati gli «arresti», ma nessuno si è lamentato. L’inaugurazione del nuovo campo sportivo ha assunto così le proporzioni di un vero e proprio avvenimento cittadino. Quando, alle 14.30 annunciati da uno squillo di tromba sono giunti in automobile il Duca d’Aosta, il Duca di Pistoia e la Principessa Maria Adelaide, il nuovo campo, pittorescamente bello nella sua allegria di colori, era nereggiante di folla. Il duplice sfondo delle nostre dolci colline, ancora verdi in quest’autunno avanzato, e del massiccio delle montagne già incappucciate di neve, chiude in un cerchio panoramico sereno e giocondo il nuovo campo che era tutto uno sventolio dei gonfaloni tricolori.
Questo era il clima della mia prima volta… Un impasto ribollente di emozione, tra passione e colore, suoni e voci, cose e uomini. Sempre «La Stampa» del 18 ottobre:
Nella verde pelouse, sbucano improvvisamente dal sottopassaggio undici casacche granata: è la prima squadra del Torino, accolta, ça va sans dire, da un subisso d’applausi. Segue immediatamente l’“undici” della Fortitudo. Le due squadre s’allineano sul campo su una sola fila, rivolte alla tribuna d’onore. E qui viene la sorpresa: casacche granata continuano a sbucare sul campo; più si continua e più gli […] atleti che le vestono diventano piccini: è una scala decrescente. È una parata di […] forza del Torino, che allinea sul campo le sue squadre di giocatori. Ultima ad arrivare è quella dei biberons, di cui fa parte il figlio del dottor Laugeri che conta la bellezza di… due primavere e mezza, il piccolo footballer reca tra le mani – fatica non lieve – il pallone che dovrà servire all’incontro. Dodici sono ora le squadre in campo: undici del Torino, e quella della Fortitudo.
Lo so cosa state pensando, ed è proprio così. Sì, la mia è un’autentica vocazione: tutti quei piccoli granatini sin dal primo giorno. Allevare giovani torelli è stata una missione, probabilmente la mia più importante. Più delle vittorie e delle bolge di tifo, più degli allenamenti e di tanti provini: da me, in me, con me, si imparavano tante cose, senza accorgersene. Valori, ideali, passioni, capacità di soffrire e di superare le difficoltà, senso di appartenenza e spirito di corpo. Si imparava il Toro. Si diventava il Toro. Si era il Toro.
Le note della Marcia Reale, suonata dalla Banda dei Carabinieri, echeggiano nel campo. I giuocatori s’irrigidiscono sull’attenti, mentre nel pubblico si fa un gran silenzio. L’Arcivescovo di Torino, Monsignor Gamba, entra allora nel campo, seguito dalla Principessa e dal Principe ed accompagnato dal presidente del FC Torino, comm. Marone. Nel seguito ci sono: il generale Ferrari, gli onorevoli Italo Foschi, Olivetti, Lando Ferretti [presidente del Coni, nda], Bagnasco, il reggente la Federazione fascista Conte di Robilant, il questore comm. Chiaravalloti…
L’inutile lista è lunga. C’è incredibile silenzio.
La musica tace. Si ode distintamente la voce di Monsignor Gamba che pronuncia le frasi di rito, mentre con l’aspersorio getta l’acqua benedetta sul campo. Le due porte di giuoco sono sbarrate. Un leggero nastro tricolore le attraversa chiudendo per ora la via […] ai goals. Il compito della gentile madrina, la Principessa Maria Adelaide, è di spezzare quell’ostacolo. La Principessa, con a lato il Duca d’Aosta, e sempre seguita dalle autorità, taglia prima il nastro di una porta e poi quello dell’altra. Il campo è inaugurato. Mentre l’ultimo nastro tricolore cade a terra, la banda dei Carabinieri suona per la prima volta il nuovo inno del Torino.
S’intitola Va’, calciator!, musica di Alberto Consiglio, parole di Giuseppe Montesi, sottotitolo Alle valorose casacche granata. Ammetto una certa ironia, a cotanto sussiego, ma ogni epoca ha le sue impettite ridicolaggini. Confesso, però, pure sincera emozione: in fondo sono tutti quanti lì per me. E, giuro senza vanto, ritengo che non avessero tutti i torti, a esserci.

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Il genio del signor Anacleto

Il signor Anacleto abitava in pieno centro storico a Torino. Anni prima aveva visitato molti palazzi per poi imbattersi in quello che, a suo dire, l’aveva “affascinato dal primo istante. Palazzo Bertalazone di San Fermo, edificio di origine seicentesca  che nel ‘700 aveva ospitato la pinacoteca del conte d’Arache, si trova in via San Francesco d’ Assisi, a poca distanza da piazza Solferino e a due passi dalla centralissima via Garibaldi che collega piazza Castello con piazza Statuto, saldando le due realtà esoteriche della città della Mole, quella bianca e quella nera. Dietro al grande  portone si cela il cortile, dalle facciate ricoperte d’edera e vite californiana. A fianco, un altro cortile e l’ingresso delle scale che, con cinque rampe e ben 88 gradini, mettevano ogni giorno a dura prova le sue forze per salire e scendere dal proprio alloggio. Ma, come faceva notare lo stesso Anacleto ad amici e conoscenti, quel lieve disagio era per certi versi benefico: “E’ un buon allenamento per gambe e fiato. C’è chi butta i soldi frequentando palestre; io, invece, ho la fortuna di far ginnastica gratis”. Quell’aria di nobiltà un poco demodé era perfetta per un uomo di mezza età che vestiva con eleganza e distinzione, accompagnando il passo con un vecchio bastone dal pomello d’avorio. Non che gli servisse, intendiamoci, ma era così chic che non se ne separava mai. Ogni mattina, puntualmente, appena la suoneria della sveglia a carica manuale rompeva il silenzio con i suoi squillanti  drin-drin, si alzava e – dopo una rapida riassettata – preparava l’immancabile moka di caffè. Un ultimo sguardo nello specchio e, impugnando il suo bastone da passeggio, scendeva con flemmatico passo le scale per intraprendere la sua giornata in “ufficio”. In realtà, per Anacleto Pauperis, l’ufficio corrispondeva al solito tavolino del Caffè dei Portici, in via Pietro Micca. Era lì che, dopo una seconda tazzina di caffè e la lettura de La Stampa, cavava dalla tasca della giacca un piccolo taccuino e prendeva nota dei suoi impegni.

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Alle 9,30 il primo rendezvous era con il Conte De Bellis per il quale doveva svolgere il delicato incarico di redigere una copia di un atto di compravendita, modificando alcuni termini della transazione. Alle 10,45 l’avrebbe raggiunto Oscar Pautasso, committente di un passaporto nuovo di zecca necessario per l’espatrio, a nome di Eugenio Recalchini. L’ultimo appuntamento, poco prima della mezza e dell’immancabile pausa-pranzo ( coincidente con la fine delle audizioni con la clientela da parte del signor Anacleto ) l’aveva riservato all’avvenente signorina Fulminante che, tenendo fede al suo cognome, aveva fatto colpo sul Pauperis. Tutt’altro che insensibile al fascino femminile, il signor Anacleto aveva già predisposto il documento richiesto dalla bella donna. Si trattava di una copia del testamento di un suo vecchio zio appena defunto, rivista e corretta nell’occasione con una piccola, quasi impercettibile modifica del testo originario: al posto del nipote Gerlando l’unica erede dei beni del trapassato risultava ora Domitilla Fulminante. Con buona pace per tutti e un bell’amen alla memoria dello scomparso. Se ancora vi fossero dei dubbi, a scanso di spiacevoli equivoci, è bene svelare l’attività che occupava gran parte del tempo e dell’ingegno del signor Anacleto: quella del falsario. Stando alla definizione del vocabolario, falsàrio  – dal latino falsarius – era chi falsifica documenti, monete o altro. Nel caso del signor Anacleto si trattava, più che altro, di contraffazione di documenti perché, a onor del vero, con banconote e quadri occorreva un talento del quale il Pauperis pareva non disporre. Non che non ci avesse provato ma in risultati erano stati piuttosto modesti a tal punto da consigliarlo di lasciar perdere. Sui documenti, invece, aveva mostrato subito un estro e un’attitudine veramente fuori del comune. Già in tenera età, alle elementari, falsificava perfettamente calligrafia e firma della madre, producendo le necessarie autogiustificazioni che maestre e maestri prendevano per buone. Crescendo aveva perfezionato questa vocazione, sviluppando capacità veramente notevoli. Era entrato al cinema e nei teatri con tesserini che lo esentavano dal pagamento del biglietto; aveva schivato il servizio militare grazie ad un esonero dovuto alle “cagionevoli condizioni di salute” nonostante fosse sano come un pesce; si era persino intestato un piccolo appartamento, con la maggiore età, grazie a qualche leggera modifica in senso correttivo su di un atto redatto dal vicino di casa, Orazio Mellarmè. Il pover’uomo, in punto di morte, non avendo parenti e sapendo a malapena fare la propria firma, aveva chiesto ad Anacleto di scrivere sotto dettature le sue ultime volontà. Solo che l’unico bene – tre stanze più i servizi nel vecchio stabile torinese – non era stato destinato all’Opera Pia ma al nostro Pauperis che, quando si trattava di curare i propri affari, non temeva rivali. Ma l’attività di Anacleto non si limitava a questo genere d’imprese. Anche il ramo commerciale esercitò su di lui una forte, fortissima attrazione. Un’irresistibile fascino che gli sollecitò la fantasia, del quale  trovò conferma leggendo una frase su un vecchio libro: “La truffa è necessaria al buon mercante quanto la lucidatura al vasellame di scarsa qualità”. “Ah, sante parole!”, esclamò tra se e se Anacleto, fregandosi le mani. Così, con poca spesa e quel tanto d’ingegno necessario, accordatosi con un vecchio pasticciere in pensione, inventò una barretta di gelatina e  frutta secca macinata che ribattezzò con diversi nomi. Nell’uso comune, con l’espressione “frutta secca” si intendono di solito noci, mandorle, nocciole, arachidi e così via. Ed ecco allora le barrette di “Spagnolina”, “Nocina”, “Mandorletta” e “Castagnella”. L’anacardo, proposto dall’ex pasticciere che di nome faceva Arialdo e di cognome Maneggi, venne scartato poiché non persuase Anacleto, forse per la vaga somiglianza con il suo nome.

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Citando un proverbio che aveva letto su un bigliettino trovato nei biscotti della Fortuna in una rosticceria cinese che di tanto in tanto frequentava dalle parti della stazione di Porta Nuova (“Un uomo non diventa ricco senza truffare; un cavallo non diventa grasso senza rubare il fieno agli altri”), aggiunse che per completare l’opera occorreva garantirsi l’anonimato. Quindi, morale del discorso, niente anacardo e nemmeno quella “Maneggina” che tanto piaceva al povero Arialdo, mosso da un impeto di vanità. Ovviamente la qualità delle materie prime, comprate all’ingrosso per poca moneta, era alquanto scarsa ma l’origine del guadagno stava proprio lì, nel costo contenuto a fronte di un prezzo non esoso. Le barrette vennero prodotte in uno scantinato attrezzato alla belle e meglio mentre l’ingegnoso Anacleto pensò alla costituzione della società a responsabilità limitata. Ovviamente scelse di registrare alla Camera di Commercio quella con capitale minimo di un euro, formula agevolata e senza vincoli e requisiti di età.I soci risultavano loro due e il capitale sociale sottoscritto e interamente versato all’atto della costituzione ammontava ben a 150 euro: dieci suoi e 140 del Maneggi. Atto costitutivo, spese di apertura, Statuto furono redatti in quattro e quattr’otto da Anacleto che lasciò decidere la denominazione  – “ Delizie del Palato SrL” –  al suo braccio destro. Che, a ricompensa dell’onore attribuitogli, dovette corrispondere di tasca sua   anche i 168 euro di imposta di registro più le tasse camerali. In breve tempo la vecchia impastatrice, gli ormai anacronistici macchinari per spruzzare la gelatina, macinare la frutta secca e  confezionare i piccoli imballaggi – tra guasti vari e rotture meccaniche – consentirono di accumulare qualche migliaio di barrette. Il successo, a detta di Anacleto, era assicurato. “I prodotti che contengono gelatina si sciolgono in bocca, garantendo un rilascio ideale del loro sapore. Inoltre, la gelatina, non contiene colesterolo, zuccheri o grassi, è facile da digerire e non provoca reazioni allergiche”. Quindi, cosa poteva volere di più la clientela? E poco importava se la qualità era scarsa, la frutta secca ormai molto, ma molto “datata” e le condizioni igieniche del processo produttivo non proprio ideali.“Quello che non ammazza, ingrassa”, disse Anacleto, pensando soprattutto al loro guadagno. Non era il caso di farsi troppi scrupoli. La parte più delicata era quella promozionale ma anche in questo campo, nonostante l’apparente mitezza, il signor Anacleto era un vero e proprio mastino che conosceva tutte le tecniche, lecite e illecite, della nobile arte dell’inganno. “Gli imbroglioni hanno sempre saputo,da che mondo è mondo, che il loro mestiere non è quello di convincere gli scettici, ma di permettere ai creduloni di continuare a credere quello che vogliono credere. E noi faremo credere che le nostre barrette sono le migliori, le più buone e nutrienti mai comparse sul mercato”. Una lezione in piena regola che il povero Maneggi ascoltò a bocca aperta, annuendo.

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Con poca spesa, ovviamente a carico di Arialdo, fecero stampare dei volantini. Puntarono decisamente sul pubblico femminile, ipotizzando una maggior disponibilità del “sesso debole” a farsi “permeare” dalla campagna di lancio architettata da Anacleto. Il messaggio era inequivocabile: “ Cara signorina, ha mai provato la nostra spagnolina? E tu, bimbetta, vuoi gustare la gustosa mandorletta? E lei, signora bella? Le andrebbe un morso di castagnella? I prodotti in gelatina della Delizie del Palato sono di gran lunga i migliori sul mercato”. Pauperis sosteneva che non occorresse tanto studio per invogliare signore e signorine di ogni ceto a preferire i loro prodotti. “In tanti fanno i raffinati, proponendo messaggi pieni di allusioni, subdoli inviti, promesse strabilianti. Noi puntiamo su semplicità e immediatezza, senza tanti giri di parole”. Come spesso accadeva quando s’infervorava, sottolineando fisicamente l’importanza delle sue parole, mollava delle tremende pacche sulle spalle del socio che, con una smorfia, annuiva immediatamente temendo forse altre e più determinate “sottolineature”. Gli affari andarono bene nei primi due giorni di vendita sul piccolo banco affittato in un angolo di buon passaggio al mercato di Porta Palazzo. Le barrette si vendevano che era un piacere. La novità, il prezzo conveniente, il prodotto piacevole al gusto e gradito anche dai palati più esigenti fecero ben presto finire le scorte a disposizione. Un successo incredibile che i due soci festeggiarono con una lauta cena in una trattoria di Borgo Dora, innaffiando generosamente le varie portate con un dolcetto di Dogliani che avrebbe risvegliato anche un morto. Ovviamente il conto venne addebitato da Anacleto ad Arialdo Maneggi perché non usciva mai con del denaro in tasca. Il socio fece buon viso e pagò, guadagnandosi una sonora pacca sulla spalla che Pauperis accompagnò con poche parole: “A buon rendere, amico mio”. Nell’attesa di rifornire ancora il banco, disertarono nei giorni successivi il mercato. Anacleto era impegnato a reperire nuove materie prime che, come già aveva fatto, provenivano dagli scarti del mercato generale.Basso costo e massima resa” rappresentavano per il nostro Pauperis i migliori presupposti per garantire un margine di guadagno che fosse il più alto possibile. Anche la gelatina, utilizzata per addensare e conferire consistenza e solidità alle barrette di frutta secca, non era certo di gran qualità ma come lui stesso ripeteva “il miglior condimento del cibo è la fame”. E se proprio fame non era, era lo stesso. Si vendevano le barrette? Sì? Quindi, nessun problema.

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Arialdo, una di quelle mattine, si recò a Porta Palazzo e vide, nei pressi dell’angolo dove avevano montato il loro banchetto, una piccola folla vociante. Incuriositosi, s’avvicinò. Appena udì le prime parole ( “Dove sono quei maledetti avvelenatori? Dove sono finiti quelli delle barrette? Ne hanno già mandati tre all’ospedale e anche mia sorella è stata da cani”) si calò il berretto sugli occhi e, con noncuranza, si nascose dietro una delle tende del venditore di giacche e cappotti. I commenti variavano dal dolente all’inferocito e tutti lamentavano il fatto che quegli affari di gelatina avevano provocato tremendi dolori intestinali a chi li aveva assaggiati. Un signore ben vestito dichiarò di essere un medico e di aver fatto analizzare quella gelatina. Era risultata un collagene composto di scarti della macellazione suina e bovina. E anche la frutta secca non era certamente di prima qualità. “Qui si tratta di sofisticazione alimentare, cari miei”, sentenziò il medico. “Una frode alimentare, un’azione fraudolenta perpetrata ai danni dei consumatori, arrecando danni alla salute e al portafoglio” . Arialdo aveva sentito abbastanza e, tra l’impaurito e l’infuriato, si allontanò in fretta. Quel disgraziato di un Pauperis, chissà che sostanze aveva utilizzato allo scopo di migliorarne l’aspetto delle barrette, coprendone difetti e falsificandone la qualità che, evidentemente, doveva essere scadente per non dire pessima. Quando incontrò Anacleto lo affrontò con tutta l’ira che aveva in corpo. Paonazzo in viso e agitando minacciosamente i pugni, accusò il socio di tutte le nefandezze possibili e prima che quello potesse replicare gli urlò in faccia che la società era sciolta e che andasse a quel paese. Anacleto non si scompose e vedendo l’ex sodale andarsene via a passi lunghi e ben distesi, scrollò il capo e sul viso gli comparve la piega di un sogghigno. Non si sentiva in colpa per le avversità e gli insuccessi. Non dipendeva certo da lui la qualità dei prodotti. Semmai doveva pensarci il pasticciere a fare il suo mestiere, come diceva il proverbio. Lui era esperto nel fare affari non nell’impastare dolci o altri prodotti alimentari. Resosi conto che quell’avventura era finita, in fondo senza troppi danni – a parte il mal di pancia di qualche cliente e l’arrabbiatura feroce di quello che era ormai il suo ex socio – e con qualche guadagno, ripiegò sulla sua attività di sempre. Che dire? Per una persona così a modo e distinta, la lieve correzione della realtà era un’attività quasi meritoria. E pazienza se alcuni avevano dimostrato di non apprezzare le sue doti. Comunque, era meglio lasciar perdere il settore alimentare e tornare alle carte e ai documenti. Anacleto era più che convinto che gli artisti del falso sapessero unire crimine e bellezza in un connubio misterioso e intrigante. E tanto bastava a renderlo felice.

Le scorze d’arancia e il camion di latta rossa e blu

Ricordi e profumi del Natale di una volta 

Natale 1964 Le scorze di mandarino e d’arancia, scaldandosi sui cerchi della stufa a legna, riempivano l’aria della cucina con il loro aroma. Le metteva mia madre, per “fare Natale”. Sosteneva che quel profumo d’agrumi bruciati portava con sé l’atmosfera delle feste di fine anno

 

 Poco importava se il calendario segnava ancora i giorni della luna di novembre, quella del sogno e del riposo, mancando più o meno quattro settimane al venticinque dicembre. Erano i giorni in cui si avviava l’Avvento. Un mese d’attesa, una lunga preparazione scandita dal conto alla rovescia che ci avrebbe accompagnati verso la festa più bella dell’anno. Nella vecchia casa che un tempo aveva ospitato i magazzini del cotonificio, non ci voleva molto a percepire il cambio di stagione. Lo sentivamo sulla pelle! In cucina la stufa divorava la legna ma nelle stanze fredde il mercurio nel termometro rabbrividiva con noi. Il freddo, oltre che sentirlo, si “vedeva. Bastava un rapido sguardo al colore del volto quando, io e mio fratello, ci svegliavamo al mattino. Metà roseo e metà bianco,metà tiepido e metà infreddolito. Era quella l’unica parte del corpo che non infilavamo sotto le coperte e quale delle due metà fosse l’una o l’altra, dipendeva da come si appoggiava la testa sul cuscino, addormentandoci alla sera. La nostra dimora, essendo un ex-fabbrica, sul piano del riscaldamento lasciava molto a desiderare. Ma i disagi non finivano lì. L’impianto elettrico risaliva alla destinazione industriale dello stabile e la tensione disponibile nelle prese di casa misurava 160 volt. Le lampadine si trovavano ancora in commercio (sempre più rare) ma per il frigorifero occorreva un piccolo e pesantissimo trasformatore per commutarla nei più idonei e “moderni” 220 volt (in seguito comprammo anche la Tv e i trasformatori diventarono due).  Anche il rifornimento d’acqua potabile era un bel problema.

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Quella che usciva dal rubinetto proveniva dalla canalizzazione che captava direttamente dal fiume, trasformandosi – quando pioveva – in un liquido color della terra. Per lo sciacquone del gabinetto poteva andar bene ( tra l’altro non era in casa, comodo: era stato ricavato sotto la scala che portava al locale del lavatoio, all’esterno) e pure anche il bagno, rito che veniva compiuto riempiendo il mastello di zinco dopo aver fatto bollire l’acqua sul fuoco della stufa. Per quella  potabile c’erano i fiaschi da riempire alla fontana pubblica, non troppo lontana ma nemmeno tanto vicina a casa. Come spesso capitava, in barba al calendario, il passaggio dall’autunno all’inverno era repentino. L’aria fredda, cavalcando i venti che scendevano dal Mottarone, dallo Zughero e dal Camoscio, scrollava via le ultime foglie secche dagli alberi, lasciando i tronchi spogli a rabbrividire nei prati e sui viali. Solo il bosco di castagni e querce, le faggete e le macchie di robinie opponevano una testarda resistenza che, con il passare dei giorni, diventata sempre meno convinta. Quell’ostinata riluttanza a liberarsi della propria chioma in breve si esauriva e anche gli alberi del bosco, malvolentieri, erano costretti a cedere il passo all’inverno che bussava alla porta, lasciando a terra un soffice tappeto di foglie che rifletteva tutte le sfumature del giallo e del marrone. A scuola si andava a piedi, imbacuccati. Un paio di chilometri scarsi tra andata e ritorno, attraversando il paese fino al vecchio edificio bianco-verde delle scuole elementari (non ho mai capito per quale ragione estetica il colore dell’intonaco è restato sempre quello nel tempo, mah..)

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Più avanti, duecento metri oltre le scuole, c’era ( e c’è tutt’ora) il Selvaspessa, il nostro “fiume” (anche se il demanio idrico lo cataloga torrente), attraversato dalla vecchia e malmessa passerella di ferro e legno che divideva l’abitato di Baveno dalla sua più popolosa frazione. Quello sì che era un altro mondo. Rappresentava il luogo dell’avventura, della fantasia, dei giochi per tutti e in tutte le stagioni. D’inverno la parte bassa del Selvaspessa si prosciugava e il gelo solidificava l’aria umida in leggerissime e fragili lastre di ghiaccio tra un sasso e l’altro.Bastava lanciare una piccola pietra per incrinarle o frantumarle in mille pezzi. Ma i giochi sul fiume erano un frutto proibito per noi “reclute”. Questione d’età e d’autonomia. Solo i più “vecchi” tra noi ragazzi, quelli che avevano raggiunto il limite del primo ciclo scolastico e che – a dieci anni o giù di lì- erano pronti per “avviarsi” alle medie, avevano accesso alle meraviglie di quel luogo misterioso. Per quelli che come me frequentavano le prime classi, c’era l’obbligo dell’immediato rientro a casa quando, al termine della mattinata, lo squillo della campanella chiudeva le lezioni. Con la cartella di cuoio a tracolla o in spalla – salutata la maestra Pedrelli e i bidelli- uscivano dall’aula, imboccando di corsa il cancello della scuola. Un breve saluto, la promessa di rivedersi l’indomani e via, ognuno per la propria strada. Siamo cresciuti così, in quei primi anni ‘60. Con la giusta attenzione a libri e quaderni e la voglia di giocare che si ha a quell’età. I nostri erano giochi poveri, dove a far la differenza – non costando nulla – la faceva la fantasia, arricchendoli e rinnovandoli al punto d’apparire sempre nuovi e differenti nonostante fossero il più delle volte gli stessi.

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A quell’epoca non c’erano pistole laser, playstation, videogame o altre diavolerie elettroniche. Men che meno i computer. I giochi s’andava raramente a comprarli nei negozi. Un po’ perché di soldi ce n’erano pochi, un po’ perché non c’erano nemmeno i negozi. I giochi ce li costruivamo da soli. Usando legnetti, elastici, un gessetto colorato, un vecchio cerchione arrugginito di bicicletta, un fazzoletto, il cono di cartone di una rocca del filato e un po’ d’abilità comparivano la lippa, una fionda, il campo tracciato per i quattro cantoni o la pista per i tappi, il gioco del cerchio, ruba bandiera o moscacieca, una cerbottana. Era meglio essere in “banda”, in compagnia, ma ci si poteva divertire anche da soli. In questi casi  d’immaginazione ce ne voleva davvero tanta. Ricordo, ad esempio, le lunghe discussioni con la mia immagine riflessa nel vecchio frigorifero Ignis. In testa portavo una bustina militare di mio padre, sulle spalle uno zainetto grigioverde ereditato da chissachì e tra le mani uno “sciopp da legn”, un fucile di legno artigianale. A quell’epoca sottostavo agli ordini del “sergente”, la cui immagine rispondeva immediatamente al mio saluto militare, imitando ogni mio gesto nel mettermi sull’attenti davanti alla porta lucida del frigo. Non avendo il dono della parola toccava a me, improvvisandomi ventriloquo, dare una voce al “sergente” che, come tutti i sergenti che si rispettano, l’aveva un po’ roca e un tantino autoritaria. Solo più tardi l’artigianale sciopp fu sostituito con il fucilino ad aria con il tappo di sughero tenuto dallo spago. Un’arma straordinaria, tecnologicamente avanzata per quell’epoca, che faceva risuonare nell’aria il suo minaccioso e secco “plop!”. 

 

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I più fortunati possedevano i bastoncini di legno dello Shangai, gli aerei di carta dei formaggini Galbani, la mucca Carolina o la Susanna “tutta-panna” gonfiabile che si otteneva con i punti dell’Invernizzi, le palline clic-clac, il gioco dell’Oca o del Monopoli (per i più grandi che cominciavano a capire il senso e il valore del denaro), il traforo, il Meccano o il trenino elettrico della Lima. Alcuni amici possedevano i soldatini prodotti dalla Nardi, belli e colorati, di plastica e con le parti del corpo staccabili: le Giubbe Rosse a cavallo, con le divise fiammanti e quegli strani copricapo, gli antichi romani e i barbari, gli indiani e i cowboy, i nordisti e i sudisti impegnati a combattersi in un’infinita guerra civile con le loro divise blu e grigie. Io, schioppo di legno a parte, non possedevo altro che la mia fantasia. E, a onor del vero, un asino rosso di plastica, ricordo dell’infanzia, comprato da mia madre alla festa del santuario del Boden, che faceva compagnia a un Calimero di celluloide. A esser sinceri c’era stato qualcos’altro: la bambola “Caterina”. Mi era stata donata da una bambina, vicina di casa e compagna di giochi, e io – pur essendo un maschietto, forse per affetto o per curiosità – le detti da mangiare. Nella piccola bocca aperta della bambola, per qualche settimana, infilai qualche chicco di riso, un po’ di minestra, dell’acqua, delle briciole di pane. La povera Caterina non gradì molto le mie cure poiché, di lì a poco, con mio grande stupore e rammarico, iniziò a emanare uno sgradevole odore. Il cibo, fermentandole nel ventre di gomma, la fece marcire. Così, strappandomi qualche lacrima, fusoppressa. Peccato, se quella bimba mi avesse regalato una bambola di quelle magre, quasi anoressiche e dalle labbra strette e chiuse come le Barbie (che proprio in quel 1964, sbarcò in Italia provenendo dall’America), forse l’avrei conservata. Il mondo dei balocchi era racchiuso nella vetrina del negozio della signora Alfonsina. Guardare attraverso quell’esile barriera di vetro equivaleva ad affacciarsi su di una realtà fantastica. In quel piccolo negozio si comprava di tutto: dal sale ai tabacchi, dalle riviste piene di foto ai quotidiani che sfogliandoli annerivano le dita d’inchiostro, dalle mollette colorate per il bucato ai lumini bianchi e rossi per il cimitero. Ma noi, in prossimità del Natale, eravamo attratti da quelle luci colorate e intermittenti, capaci di rendere ancora più straordinaria la piccola parata dei giocattoli esposti al centro della vetrina. Nulla a che vedere con quelle più ricche e ben fornite dei negozi di giocattoli di Intra, Pallanza o Stresa. Già a Baveno, in piazza del municipio, si trovava di meglio. Però, nella vetrina della signora Alfonsina, c’era quel tanto che bastava a farci rimanere con il naso incollato al vetro e la bocca aperta. Spiccavano le racchette da ping-pong dell’Arco Falc, rivestite di sughero, con cui giocare sul tavolo da cucina – quand’era sgombro- immaginando la stessa superficie simile del verde e scolorito tennis da tavolo che c’era nella sala dell’oratorio. C’era l’aquilone Air-Jet della Quercetti (la stessa ditta che produceva i chiodini colorati di gomma per comporre mosaici): bastava gonfiarlo – come ci aveva fatto vedere Luca, fortunato possessore di una copia – e diventava come una grande supposta bianco-rossa con le alette blu, quasi impossibile da governare perché andava di qua e di là in preda a un delirio di traiettorie anarchiche. C’erano i trasferelli, la cera Pongo, gli aerei di balsa con l’elastico che ti dovevi costruire da solo e che stavano in aria quei pochi secondi che separavano il lancio dallo schianto al suolo, pistole e fucili di plastica o metallo brunito, dal calcio di legno. M’incuriosiva la pistola di latta nera (che in seguito mi fu regalata): aveva le munizioni stese su dei rotolini di carta rossa che riproducevano lo stesso rumore delle nocciole schiacciate, lasciando nell’aria un odore acre e sgradevole. E come non citare il caleidoscopio, le trottole di legno e quelle di latta ( “di tolla”) a pressione, i pentolini e le bambole, i pastelli a cera e il missile Mach-X, quello che si lanciava con l’elastico tenendolo fermo con i piedi e una volta giunto in aria apriva il paracadute. Ero terribilmente attratto da quel razzo ma, tempo dopo, avendone ottenuto un esemplare,  restai deluso da quel vettore: per salire, saliva ma il più delle volte precipitava (appunto, come un missile..) a terra, schiantandosi al suolo e solo allora, beffardamente, il paracadute rotolava mollemente fuori.

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Il sogno proibito per noi maschi era l’autopista elettrica della Polistil che si vendeva nelle due versioni a circuito ovale e a forma di otto, con le due o le quattro corsie per le auto in corsa. Si sentiva parlare, a quell’epoca,  delle sfide tra le Lotus e le Ferrari e gli eroi delle quattro ruote erano Stirling Moss  e Graham Hill, Jim Clarck (l’asso della Lotus)  e i ferraristi John Surtees, Wolfgang Von Trips e Giancarlo Baghetti che guidavano le rosse monoposto del Cavallino rampante di Maranello. Quell’autopista, che dalle pagine di Topolino veniva propostada una bellissima Paola Pitagora, rappresentava l’oggetto del desiderio numero uno. Desiderio, con molto rammarico, destinato a rimanere tale. Alfio invece era fortunato. I suoi genitori e gli zii gli compravano le figurine dei calciatori. Un “di più” che la mia famiglia non mi consentiva di avere.  Solo mia nonna materna, che mi voleva un bene dell’anima, risparmiando come e quanto poteva, mi dava qualche soldo di mancia che investivo nei fumetti con le avventure di Topolino e Paperino, Tiramolla, Cucciolo e Beppe, il lupo Pugacioff e Cocco Bill, il cowboy che beveva solo camomilla. E, quando si poteva disporre di qualcosa in più, la scelta cadeva sulle bustine di figurine da dieci lire. Nulla di paragonabile a quanto aveva Alfio ma non mi sono mai lamentato. Nel primo album dei calciatori della Panini ogni squadra di serie A era raffigurata con quattordici giocatori e in molti casi si vedeva che le figurine non erano altro che fotografie in bianco e nero colorate a mano. Nelle ultime pagine dell’album (che in copertina raffigurava Nils Liedholm, il forte attaccante svedese del Milan) c’era un’intera sezione dedicata al grande Torino, la squadra che dominò i campionati dal 1942 al 1949 e che perì il 4 maggio di quell’anno nel disastro aereo di Superga. Il mito, a pochi anni dalla tragedia, era fortissimo. La formazione la sapevamo anche noi piccoli a memoria, quasi fosse uno scioglilingua, a prescindere dal tifo: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar,Rigamonti,Castigliano,Menti,Loik,Gabetto,Mazzola,Ossola.Quelle immagini rappresentavano le gesta sportive degli eroi del pallone, alimentando i nostri sogni di carta. Nel primo anno delle elementari il Milan di Nereo Rocco si aggiudicò, nello stadio londinese di Wembley,  la prima coppa dei Campioni per una squadra italiana. I diavoli rossoneri sconfissero il Benefica di Eusebio (che segnò la rete dei lusitani) per 2-1, grazie a una doppietta di José Altafini. Poi vennero gli anni della grande Inter di Helenio Herrera mentre era una realtà di grande spessore la Juventus di Charles e Sivori. Con le figurine si giocava, componendo squadre immaginarie, vincendole o perdendole a sopra, a lungo, a chi le lanciava più lontano. Ricordo quelle di Dennis Law, che giocava nel Torino con Gigi Meroni, la farfalla granata, dei bolognesi Haller, Janich, Fogli e Pascutti (che era un po’ pelato e ci ha lasciati – con l’altro felsineo, Marino Perani – quest’anno), di Enrico Albertosi con la maglia da portiere della Fiorentina, degli juventini Stacchini, Salvadore, Del Sol, Castano e Anzolin, di Amarildo con i colori del Mantova e di Gianni Rivera, prima con i grigi dell’Alessandria e poi con il Milan, per tutta la carriera. Mi ricordo Carlo Dell’Omodarme, ala della Spal e della Juve. Non lo vidi mai giocare. Lo rammento con una faccia seria e sofferente, ritratto a busto interno nella sua figurina con la maglia a righe verticali bianco-celesti della squadra di Ferrara. La Spal, appunto. Mi sembrava un calciatore tosto, affidabile. Trasmetteva, in qualche modo, la certezza che avrebbe fatto fino in fondo il suo dovere. Del resto il cognome lo garantiva.

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Un vecchio zio di madre, Edoardo, tipografo di Milano, mi portava in dono gli album colorati con le fiabe di Esopo e La Fontaine. Era un personaggio, lo zio “Eduard”. Non tanto alto, ben vestito, portava un cappello a tesa larga e una cravatta stretta e nera. Era un vecchio anarchico dai modi gentili e miti. Mi portò anche un libricino, dicendomi “ l’ha scritto uno che non la pensa come me, ma vale la pena leggerlo perché è scritto bene”. Io non ero in grado di capire il significato di quel “ non la pensa come me” e mi lasciai incuriosire dal fatto che era “scritto bene”.  Iniziava così: “ La mattina del 24 dicembre 1914, un piccolo gruppo di persone saliva su per la strada del Gran San Bernardo. Quelle persone erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Mi piacque molto “Il piccolo alpino” di Salvator Gotta. L’edizione era la prima, già allora vecchia, del 1926. Il libro, pur essendo usato, era ben conservato. Lo zio l’aveva acquistato su una bancarella alla fiera degli “Oh, Bei Oh, Bei” che si svolgeva nei giorni dell’Immacolata nelle vie attorno alla Basilica di Sant’Ambrogio. Era lì, dove risuonava quell’esclamazione (oh bei, oh bei ! che belli, che belli!) che tradizionalmente si compravano i regali di Natale a Milano. Le bancarelle vendevano dolci e delle sleppe di torrone da far paura, che poi venivavo tagliate in tanti pezzi più piccoli. Gli ambulanti offrivano giochi, berrette e sciarpe, cianfrusaglie di ogni tipo.

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Lo zio Edoardo raccontava – non a me, troppo piccino – che i ragazzi erano soliti comprare le mele da regalare alle proprie fidanzate come pegno di perenne amore. Il libro l’aveva trovato da un suo amico che vendeva copie usate di libri in un banchetto d’angolo. Per questa ragione, ho sempre pensato, che quel libricino fosse ancor più prezioso: non solo perché era un regalo ma perché la sua lettura, nel tempo, era stata condivisa con altri. Lo tenevo come un oracolo. Era tra i miei primi libri, in quegli anni senza dubbio il più amato. Le avventure di quel ragazzo capitato tra gli alpini aostani impegnati sul Carso durante la guerra ’15-’18 suscitavano una grande emozione. In seguito arrivarono anche Il giornalino di Giamburrasca di Vamba, Pel di carota, il libro Cuore di De Amicis (mi ero preso in simpatia la piccola vedetta lombarda), quelli fantastici di Giulio Verne e la scoperta di Salgari, nelle edizioni torinesi cartonate di Viglongo. Ma quella de Il piccolo alpino era una storia che si era guadagnata un posto nel cuore e per questo non ringraziai mai abbastanza lo zio Edoardo, soprattutto per lo sforzo che aveva compiuto nel regalarmi il libro più bello di quel signore che, tra le altre opere, aveva composto una canzone come Giovinezza che, non è difficile immaginarlo, allo zio faceva venire i nervi. Si avvicinava intanto il fatidico giorno e cresceva l’attesa. Ricordo uno dei primi regali: un autocarro con rimorchio di legno che mio padre mi costruì con le sue mani. La forma era un po’ grezza, non livellata, piuttosto artigianale ma forse per questo ancora più bella. Ero orgoglioso di quel mio camion. Il cassone del rimorchio era capiente e si riempiva bene con ghiaia e sassolini. Le ruote, pur non essendo perfettamente circolari, giravano che era un piacere. Con i pastelli a cera l’avevo colorato di un bel rosso carico, intenso. Non del tutto perfetto perché le impurità del legno e la mia scarsa manualità non consentirono una colorazione uniforme. Non era però un problema. Sul camion volevo caricare anche il mio cane, Dick. Quando mio padre lo portò a casa, fu una sorpresa. L’aveva nascosto sotto la giacca e mi spaventai non poco nel vedere quella testolina bianconera che faceva capolino. Era un batuffolo di bastardino che campò più di vent’anni, crescendomi accanto. Anche lui guardava il camion, curioso ma diffidente. Gli girava attorno, lo annusava. Io volevo caricarcelo su, lui scappava e guaiva. Non c’era verso di convincerlo. Preferiva muoversi sulle sue zampe piuttosto che salire su quel trabiccolo. A quel tempo le finanze di casa erano decisamente magre. Mio padre faceva anche due turni consecutivi al lavoro. Partiva all’alba con la bicicletta e pedalava da Oltrefiume fino al confine tra Feriolo e Fondotoce, poco oltre la cascina Garlanda, dove faceva il segantino. Non c’erano stagioni o giornate brutte o belle: piovesse, nevicasse, tirasse vento o si soffocasse per l’afa, gli toccava andare. Il suo lavoro consisteva nel tagliare le lastre di marmo e granito. Era piuttosto duro e rischioso per la salute, con tutta quella polvere e la silicosi sempre in agguato. Mia madre, invece, badava alla casa. S’ingegnava a far quadrare i conti del bilancio familiare. Compito tutt’altro che agevole, al quale dedicava il meglio di sé.

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Nonostante ciò, io e mio fratello – nato da poco – eravamo tenuti come due bijoux. Puliti da capo a piedi, vestiti sobriamente ma con dignità. Educati al rispetto dei genitori, dei nonni e dei vicini. Quel Natale del 1964, a dispetto della buona volontà, si annunciava povero di doni. Forse qualche mandarino, un pugno di arachidi, magari un torrone e qualche caramella di zucchero. In fondo, grazie allo zio Edoardo, avevo avuto qualcosa e poteva anche bastare. Mia madre era piuttosto rassegnata quando accadde un piccolo miracolo. Stava andando a far la spesa dal Tabaccaio, dove avrebbe fatto scorta di sale grosso e fine, quando – per terra, poco prima della curva a fianco del prato cintato da un muretto che formava un triangolo geometrico, scorse un biglietto da mille lire. Non credo che la vista del volto di Giuseppe Verdi le avesse mai fatto tanto piacere quanto in quell’occasione. Si guardò in giro. Non c’era anima viva. Si chinò rapidamente e arpionò il biglietto, infilandoselo in tasca. Me la immagino, rossa in volto e tutta agitata. Dopo qualche passo si fermò a guardare quel tesoro e preso coraggio si avvio di buon passo dal signor Martini, il macellaio, per trasformare quell’inaspettata fortuna in un certo numero di fette di lonza di maiale. Dopo il macellaio fu la volta del negozio di alimentari per un etto di formaggio e di prosciutto cotto. Lasciata alle spalle la drogheria, calcolò rapidamente quanto rimaneva delle mille lire e si accorse che erano 280 lire. Quella fu la somma che spese dalla signora Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era il mio regalo per Natale. Quando vidi l’inaspettato dono sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non credevo ai miei occhi: era un camioncino bello e colorato, con nere e lucenti ruote di gomma. Sull’abitacolo erano disegnate le porte e il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito! Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo e rigirandolo sotto e sopra. Mia madre mi consolò, giocando con me, la nonna e la zia Annetta al gioco dell’Oca. Tiravo il dado, seguivo il percorso dell’oca di legno sulle caselle ma non dimenticai quel camioncino. Era successo qualcosa che non riuscivo ancora a capire. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Venne poi la notte della Befana. Nella calza appesa vicino al camino, che era sempre spento, trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.

 

IL GUSTO DEL NATALE, Doni & Suggestioni al Borgo Medievale

gusto nataleMotori al massimo per la prima edizione de Il Gusto del Natale, l’evento e mercatino natalizio che si svolgerà al Borgo medievale di Torino

 
La manifestazione, che ruota intorno al tema del dono, del gusto, ma anche della solidarietà e della convivenza, ospiterà nei saloni, nelle corti e sotto i portici del Borgo medievale una cinquantina di realtà selezionatissime, tra Maestri del Gusto, Eccellenze Artigiane e Cooperative sociali, ciascuno con le proprie creazioni e squisitezze oltre a un fitto cartellone di appuntamenti culturali a tema natalizio… Il Gusto del Natale intende così offrire al pubblico torinese un’opportunità per prepararsi a vivere la ricorrenza più importante del nostro calendario, riscoprendone i valori più autentici, in modo gioioso e festoso. 

 

Dolci e cioccolato, birre di Natale e delicatessen, Cucina di strada e delle feste, Artigianato di pregio, Creatività & Design e molto altro ancora ispireranno le produzioni di maestri virtuosi, pronti a emozionarvi con le loro creazioni. Dietro ogni oggetto, ogni prodotto ci saranno persone originali e storie da raccontare: un’idea, un’intuizione, un progetto, un valore…Gli artisti di Cirko Vertigo, partner della manifestazione, effettueranno incursioni entrando in relazione con il pubblico con arditi equilibri, doppie colonne, scambi di clave, passing di giocoleria, animazioni itineranti e brevi performance. La compagnia The Fools animerà un inedito juke box teatrale a gettoni, e poi ancora… street poetry, face painting, danze e musiche popolari, cori Gospel, atelier di ghirlande, decori natalizi e giochi per grandi e piccini in compagnia del Ludobus e del Pa.ka.bu’s, la scuola di pasticceria in versione food truck per bambini.

 

Non mancheranno gli showcooking guidati da Chef Kumalé e dai suoi ospiti, per scoprire le ricette della tradizione natalizia italiana e del mondo. Per una volta non saranno i grandi chef a stupirci con le loro creazioni ma i protagonisti del progetto Nati per Soffriggere, dei centri di accoglienza profughi che si racconteranno ai fornelli: Hawaldar con il Kabuli palaw piatto simbolo della cucina Pashtun dall’Afghanistan, Luminitza con la sua cucina nomade dalla Romania, Pamela con il fried rice, piatto delle feste nigeriano. Il Perù e la Norvegia saranno i paesi ospiti, per gustare i cibi del natale da nord a sud del mondo, con Caroline Schøning da Oslo e Roxana Rondan da Chiclayo.

 

A rendere magica l’atmosfera, l’allestimento del presepe dell’artista genovese Emanuele Luzzati, che verrà inaugurato sabato 5 dicembre e la mostra Carissimo Pinocchio, illustrata da Attilio Mussino, che proseguirà fino al 14 febbraio 2016. Vi aspetteranno… Gran finale allo Spazio 211 dove alle ore 21,30 si terrà il concerto rock di chiusura de Il Gusto del Natalecon i Truzzi Broders e la partecipazione dei Quarantena dalle Cucine Musicali di Mondovi. Il Gusto del Natale è un’iniziativa ideata dal giornalista “gastronomade” Vittorio Castellani, meglio conosciuto come Chef Kumalè, organizzata con la Cooperativa Animazione Valdocco, che quest’anno festeggia il suo 35° compleanno e la Fondazione Torino Musei.

 

Il Gusto del Natale è realizzato con il patrocinio di Città di Torino, Regione Piemonte, Alleanza delle Cooperative Italiane e con il contributo di Banca Popolare Etica, UnipolSai Assicurazioni, Cirko Vertigo e Coopfond.


 
Orari di apertura al pubblico
Sabato, domenica, lunedì, martedì, dalle ore 10.00 alle 19.00


 
L’ingresso è libero e gratuito


 
CONTATTI & INFO
 
Email: 
natalealborgo@gmail.com

www.ilgustodelnatale.it

www.facebook.com/gustonatale

 

 

Cappuccino e parole nel microcosmo di un bar

Per colazione,  pausa relax  o aperitivo.  Un recente sondaggio della Fipe conferma il ruolo sociale dei caffè. Torino  è all’avanguardia per numero e qualità di locali storici (o che faranno storia)

 

BICELe relazioni, ormai, si intrecciano online e la mancanza di rete per la connessione  crea ansia da isolamento e paura di non far più parte di questo mondo. Ma resiste un luogo dello spirito, per noi italiani in particolare, che accomuna tutti, sia nelle metropoli che nel più sperduto villaggio. E’ un’abitudine che si potrebbe definire “istituzionale” e anche decisamente democratica, visto che ce l’hanno un po’ tutti, indipendentemente dal ruolo che ricoprono, dal censo e dall’età.  E’ l’abitudine di andare al bar. Dal Settecento, quando in Francia ci si trovava nei salons a discutere di tutto un po’, il rito del Café Philosophique non è mai tramontato. Soprattutto  nel Bel Paese, dove il caffè è un’arte

 

Che sia per colazione, pausa caffè o aperitivo. Tutto ciò, se ci fosse mai bisogno di una conferma, emerge da un recente sondaggio della Fipe, la federazione nazionale dei pubblici esercizi. Al bar si va per rilassarsi, per consuetudine e per lasciarsi avvolgere da quell’atmosfera rassicurante di cui si ha bisogno. E che ancora , grazie a Dio, il bar con i suoi profumi, con i suoi rumori e chiacchiericcio riesce a regalarci. Si fa un salto al caffè, si dà un’occhiata al giornale  si fa il pronostico della partita,o ancora ci si fa viziare con tutte le varianti possibili di caffe’  e di paste. E poi ci sono le chiacchiere da bar, sempre diverse e sempre uguali. Insomma gli irriducibili del bancone, quelli che non rinunciano al primo e forse l’unico o al primo di una serie. Torino, la prima e blasonata capitale d’Italia non è seconda a nessuno in quanto a locali storici o di tendenza. Proviamo a fare una panoramica – anche se non certo esaustiva –  della realtà dei caffè subalpini.

 

Incominciamo da alcuni di quelli d’epoca.  In piazza San Carlo il Caffè Torino, atmosfera  belle epoque e luogo per eccellenza degli incontri d’affari.  Di fronte,  Stratta, da qualche anno trasformatasi da “semplice” boutique del cioccolato – fornito ai bei tempi alla Real Casa – a elegante bar con dehor nel salotto buono della città. E naturalmente Platti, in Corso Re Umberto, con annessa pasticceria, una delle più antiche (nella foto del Torinese). Il Bicerin, in pochi metri quadrati, è il più antico bar d’Europa: risale a metà  Settecento e fabbrica ogni giorno, instancabilmente, la squisita bevanda intitolata a Cavour.

 

In piazza Castello Mulassano, inventore del tramezzino e Baratti e Milano, caffè storico e  premiata ditta di caramelle. I giovani prediligono invece gli aperitivi del Wall Paper, del Gran Bar in zona Gran Madre, o del One Apple (meta di calciatori zebrati) a due passi da via Lagrange.  Chissà, forse saranno i locali storici del futuro. Non dimentichiamo Norman, in piazza Solferino, dove venne fondato il Torino calcio e dove si possono gustare apericene sfiziose.  Zucca, con i suoi aperitivi, il Rosso e il verde, ha riaperto dopo un decennio di chiusura, nella nuova sede di via Gramsci, grazie ad una illuminata iniziativa imprenditoriale. Proprio qui, a fine gennaio, la guida del Gambero Rosso ha presentato l’edizione 2014 che propone 59 caffè torinesi su un totale nazionale di 4000. E ancora il Caffè San Tommaso, nell’omonima via che fu sede storica della Lavazza e  Fiorio in via Po, da cui si è diramata la nuova catena di gelaterie che occupano dolcemente ormai quasi tutti i quartieri. 

 

Gerla, sotto i portici di corso Vittorio,  da un paio di anni si è arricchita (in aggiunta alla pasticceria di antica tradizione), di un elegante ristorante-bar e di annessa gastronomia. Pfatish  in via Sacchi prosegue la lunga storia dell’arte pasticcera, senza mai cambiare gli arredi originali anni Venti.  In corso re Umberto  il caffè Testa, rinomato per i croissant burrosi.  La Croisette, in corso De Gasperi, sembra quasi una nave  con la prua arrotondata, meta di giovani e meno giovani nel cuore dell’elegante Crocetta.  A due passi si trova la rinomata pasticceria Sacco, famosa anche per il profumatissimo caffè. Ha aperto da pochi mesi in via  San Secondo il caffè-pasticceria-panetteria Stillitano, già divenuto celebre per i mini-pasticcini incartati in eleganti confezioni bianche e verde lime. 

 

Enzo e Grazia, in  via Capelli  è apprezzato per le golosissime zeppole e per la pasticceria in genere, così come la  Cioccolateria Zuccarello di Collegno che ricorda vagamente l’atmosfera cinematografica della Fabbrica del cioccolato, seppur senza Johnny Depp al bancone.  Se amate la qualità nella quantità, la pasticceria Primavera  in via Sant’Ottavio  vi proporrà brioches  grandi il doppio di quelle normali, oltre alla più vasta gamma di dolciumi siciliani. Da Rivetti a Moncalieri e da Beatrice  in piazza Carducci, troverete squisite torte e paste eccellenti.  Zichella in via Saluzzo, vi affascinerà anche solo per le sue sei vetrine “zuccherose” affacciate sulla città. Prima di prendere il treno, nell’atrio principale di Porta Nuova è d’obbligo una tappa da Vyta Boulangerie: ottimo cappuccino e panini variopinti e croccanti. Infine, se cercate l’atmosfera da caffè letterario, fa certamente per voi Mood, moderno bar libreria a pochi metri da piazza Carignano.

 

Insomma, è inutile fare i conti con la crisi, le tasse che aumentano e il lavoro spesso precario. Il bar è l’essenza di un luogo, e’ un appiglio sociale. L’unico cui (per ora?) la Rete non trova il modo di sostituirsi.

 

(foto: il Torinese)

Giuliana Romano