Leonardo Lidi riscrive Alceste e lo immerge nella solitudine di oggi

“Il misantropo” di Molière sino al 22 maggio al Carignano

 

Leonardo Lidi (classe 1988, anche attore che piace, dopo i successi di “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” e del televisivo “Noi”) non è uno di quei tranquilli registi che s’affiancano buoni buoni alle indicazioni di un autore, alle strade percorse, mansueti, pazienti, educati, obbedienti: lui fa lo scavezzacollo, lui ribolle, lui ha necessità di afferrare quel testo e di pararglisi davanti, di affrontarlo, di lottare, di usare il bisturi come pochi, di tagliare e di mescolare, di scandagliarlo a fondo, pur anche di sovvertirlo (“o non vale la pena di metterci mano”). Con risultati a tratti discutibili (all’indomani della prima, avevo coltivato una profonda aria di sospetto con “La casa di Bernarda Alba”, ovvero l’originalità ad ogni costo, disordinata, sfacciata), o con una rilettura come si usa inevitabilmente oggi che – all’insegna dell’est modus in rebus – convince, che ti spinge ad abbracciare i salti mortali che Lidi ti mette davanti agli occhi. E dico rilettura, non (forzata) attualizzazione, tanto è il soppesato scavare con cui Lidi compie il proprio lavoro. Nel 400mo dalla nascita di Molière si mette a inventariare il corpus del Grande Francese, pensa e ripensa e scarta, per scegliere “Il misantropo” (per la stagione dello Stabile torinese che lo produce in solitaria, 80’ minuti tesi e avvincenti, grandi applausi finali, sino a domenica 22 maggio sul palcoscenico del Carignano), ne sbandiera tutta la vita pulsante e la modernità e butta in scena il protagonista, quell’Alceste che, con dolori e spirito autobiografici, don Chisciotte senza se e senza ma, intransigente sino allo spasimo, infaticabile raisonneur, rifugge dalle convenienze e dai falsi abbracci, dai fabbricanti di smancerie e dai collezionisti di parole inutili per innalzare inascoltato monumenti alla verità e alla rettitudine, all’amicizia senza tornaconto, alla franchezza e alla stima e alla sincerità. Un gioco di maschere che portate dinanzi alla corte di Versailles dovevano far inorridire più di un notabile. Accanto a lui, l’amico Filinte, la parte accomodante di ogni individuo, la “sua” più che ipotetica parte accomodante, colui che conosce il mondo e le sue leggi; accanto a lui Celimène, amata e di lui innamorata, ma ventenne allegra, con la civetteria nel sangue e certo non pronta a rifuggire dai tanti corteggiatori che le ronzano intorno, specchio di quella Armande Béjart che faceva sanguinare il cuore del povero Poquelin.

Queste le colonne portanti, o quasi. Diciamolo subito, con il piacevolissimo dubbio da parte di chi scrive queste note che il lavoro migliore di Lidi stia proprio nelle rinvenzioni, nella riscrittura, nei sovvertimenti, nei tratti e nei caratteri approfonditi, nel gioco calibrato di allontanamento che spreme i frutti migliori. Denunciando la parte più “fedele” del lavoro una certa sembianza sfocata, non tracciata a fondo, che finisce col coinvolgere anche il protagonista interpretato da Christian La Rosa, troppo perennemente itinerante, o l’oggetto dei suoi ardori, che è Giuliana Vigogna. Niente più sale sfarzose e candelabri e boiserie, luci cupe e una faticosa distesa di pietrisco a riempire il palcoscenico, un’alta e scura parete sullo sfondo, semicircolare, una stretta e bassa porticina da cui si accede nel mondo di Alceste (la scena è di Nicolas Bovey, allucinata prigione non solo fisica ma della mente), una distesa lunare attraverso cui s’arrabatta e fugge e fatica il protagonista, e soffre, come Lidi sottolinea, non soltanto con le parole che portano alla moderna depressione e alla solitudine, ma pure avanzando con l’aiuto di un bastone e con la gamba sinistra chiusa in un tutore ortopedico. In un tale mare (e male) oscuro, Lidi ci offre il suo “atrabiliare innamorato”. Proponendo a Orietta Notari, attrice come sempre appassionata ed emozionante, il ruolo di Filinte, ecco che il personaggio (al) femminile deve imboccare strade nuove e esplorare una omosessualità che in Molière nessuno caverebbe mai fuori: ma l’invenzione non è che ci trovi seduti in poltrona con il pollice verso, l’invenzione lavora appieno sull’intero terreno della commedia che ha contorni di dramma (l’eterna questione: Alceste è comico o drammatico? è un cammino lungo e graduale quello che il regista compie: “vero che Alceste cade in un baratro sempre più profondo di autocommiserazione: se nelle prime scene si sforza di combattere le mode malate del momento, battuta dopo battuta, si tappa sempre più le orecchie desiderando soltanto un eremo dove dettare le regole della propria società.”) e le profferte amorose tra “la” femminile Filinte e la dolcissima Eliante conducono senza fatica lo spettatore alla quotidianità che stiamo vivendo.

Nella riscrittura di Lidi il personaggio più bello e completo, spinto in certi momenti a ritagliarsi una singolarità e una eccellenza che credo abbia mai avuto, è quello di Arsinoè. Tratteggiata quasi con affetto dal regista. Non più l’amica pettegola di Celimène, attenta alla sua reputazione e pronta a riferire tutto quanto si dice nei salotti del suo disinvolto vivere: è innamorata di Alceste, è la donna che ama un uomo più giovane di lei, è la donna frustata, che il successo letterario non lo ha mai afferrato, dove ormai coabitano la nostalgia e il viale del tramonto e la bellezza che ogni giorno vede venire meno (“Dite che sono vecchia? Non dite quella parola, vi prego. Non vecchia, vi prego. Grande”). Ne dà un ritratto doloroso, tutto raccolto nelle più raccolte intimità, una eccellente Francesca Mazza. E poi ancora, l’invenzione di “Lui” (Riccardo Micheletti), l’alter ego, un volto magrittiano senza sembianze, ricoperto da una grigia calzamaglia, un altro se stesso in cui guardare, un confessore a cui affidarsi. E Oronte (Alfonso De Vreese), da poeta a stornellatore con doverosa chitarra, con l’ossessivo e straniante “Guarda che luna”. Li vedremo tutti allineati in proscenio, immobili a ripresentarsi al termine dello spettacolo al pubblico preso a testimone, inondati da una pioggia che è sinonimo di pulizia, di cancellazione di quelle maschere che sinora hanno indossato e che lasceranno il posto all’autenticità dei sentimenti. Al di fuori di ogni retorica, motore al centro di ogni cosa e di ogni soluzione, la ricerca dell’amore, quello che, taumaturgicamente, potrà mettere in salvo l’uomo, l’amore “che deve tornare al centro del nostro pensiero intellettuale”.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma

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