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“Tango e salute” su Radio Crossover Disco

Radio Crossover Tango è un programma di divulgazione della musica, storia e cultura del Tango Argentino, ospitato dalla web radio Torinese Radio Crossover Disco.

CROSSOVER RADIO

 

Il 14 gennaio 2017 alle ore 16 inauguriamo un nuovo ciclo di rubriche: “Tango e salute”. In questo ciclo tratteremo, con professionisti del settore medico e paramedico, il modo in cui il tango può influire sulla nostra salute. Avremo ospite in diretta Gianluca Canzi, ortopedico operante in Milano, che unisce alla sua professionalità anche una lunga esperienza di ballerino. Ci spiegherà come il tango, in quanto attività fisica, può produrre sollecitazioni sui piedi, ginocchia e sulla colonna e quali sono le conseguenze. In particolare affronterà l’argomento dei tacchi, croce e delizia delle ballerine, e gli strumenti utili a limitarne i danni. 

 

Nello stesso appuntamento avremo inoltre ospite in studio il Prof. Nicola de Concilio, di Torino, storico e studioso di “letras de tango”, che nel suo libro “Tango: testi e contesti” ha approfondito le radici culturali italiane nei testi delle canzoni di tango. Con Nicola parleremo dei contenuti letterari del tango, con esempi riferiti a canzoni conosciute dal grande pubblico di appassionati del ballo e della milonga. 

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La trasmissione può essere ascoltata su Radio Crossover Disco: https://www.spreaker.com/user/6251248

Per tutte le informazioni sulla nostra trasmissione:

http://radiocrossovertango.blogspot.it

La madre la donna nella società tradizionale africana

afri4Scrivevamo in altre recenti occasioni della riscoperta dell’Art nègre alle origini del secolo appena passato, dell’interesse che abbracciò alcuni dei nomi più interessanti delle manifestazioni artistiche dell’epoca, dello stesso interesse che in questi ultimi decenni, grazie ai viaggiatori e agli appassionati, ai collezionisti e a tutti quanti guardano all’arte africana con studi ammirevoli e con rispetto, nei contatti e negli scambi, nelle frequentazioni sempre più costanti di quelle tribù e di quei popoli che ancora sopravvivono alle più differenti contaminazioni, ha trovato un proprio intimo e ragionato posto. Scrivevamo pure delle mostre – con quelle meno recenti apertesi a palazzo Salmatoris a Cherasco e a palazzo Lomellini a Carmagnola, restando in campo regionale – tuttora in corso, alla rivolese Casa del Conte Verde (“Africa, dove vive lo spirito dell’arte”, sino al 29 gennaio) e a palazzo Foscolo a Oderzo (in provincia di Treviso), “Africa, la Grande Madre”, visitabile sino al 28 maggio del prossimo anno. Mostre, queste ultime due, che hanno visto l’apporto principale nel corpus delle varie opere esposte, pittoriche come scultoree, della coppia Bruno Albertino – Anna Alberghina, nelle molteplici e raffinate vesti di studiosi, ricercatori, studiosi, viaggiatori e collezionisti. Fotografa, inoltre, lei a testimoniare i momenti catturati alla vita quotidiana, i visi e le usanze, le vesti e le acconciature, il lavoro e le afri3atmosfere soprattutto che filtrano dalle tante immagini riportate da villaggi, da panorami mozzafiato, da angoli non ancora contaminati. Su ogni immagine colta, sulla più o meno piccola statua, sugli aspetti religiosi che vanno al di là della bellezza del manufatto, sulla sua prima sensazione artistica, balza prepotente in primissimo piano, a testimoniare se stessa, quella genuinità da sempre messa in pericolo che spinge Bruno Albertino a riaffermare che “i nostri studi, i viaggi che compiamo, gli scambi che da sempre sviluppiamo con altri appassionati e studiosi ci dicono la necessità di testimoniare di un’Africa che lentamente si dilegua, travolta dal vortice della globalizzazione, dall’economia di mercato, dalle religioni importate e dal neocolonialismo economico”.

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A testimoniare ancora una volta la passione e l’interesse di studiosi della coppia, è comparso da breve in libreria, per i caratteri di Neos Edizioni, “Mama Africa, la maternità nell’arte africana” (pp. 176, € 27), dove si sfogliano più di un centinaio d’immagini a colori, corredate ognuna dalle schede delle opere composte di dati tecnici, storici e critici – suddivise in vari capitoli, “Bamboline della fertilità”, “Figure di fertilità”, “Il culto dei gemelli”, “Le figure di maternità”, “Maschere femminili”, “Gli antenati mitici” unite a un ricco apparato bibliografico – in cui compaiono diversissimi gioielli d’arte, provenienti da differenti paesi dell’antico continente, dal Ghana al Burkina Faso, dall’Angola al Mali e alla Costa d’Avorio, in uno scenario assai interessante di materiali (dal legno al metallo, dall’avorio afri2alla terracotta e alla pietra) e di tecniche, di visi e di posture, di composizioni e di forme, di colori e di intarsi. Le figure delle madri, stilizzate o no, levigate o agghindate, sedute o in piedi, rappresentate come unico personaggio o unite al proprio piccolo, abbracciato o tenuto in braccio, o a una coppia di gemelli (comunque diverso è sempre il valore formale della figura materna rispetto al bambino, che riveste sicuramente un ruolo secondario), imponenti o semplici, nere o rossastre, armonizzate o sgraziate, a sviluppare i temi della maternità e della fertilità molto rappresentati nell’arte africana come in tutte le arti figurative delle società umane (come quelli del lavoro agricolo e della cura degli animali affidati alle donne e ai bambini: traccia da cui sviluppare discorsi importanti, come la generazioni di molti figli, le giovani braccia e sane che non devono mai mancare, l’assoggettamento femminile ai maschi e agli anziani che delimitano e definiscono ogni cosa).

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afri1Un tema, quello della maternità nell’arte africana, che trova la propria realizzazione in un’ampia area, dall’Africa subsahariana a quella occidentale sino alle aree più inaccessibili di quella centro-equatoriale, e che si rispecchia nelle opere più geometriche, cubiste dei popoli Dagon e Bamana del Mali a quelle estremamente naturalistiche dei Baoulé, dei Dan e degli Attié della Costa d’Avorio e della Liberia. Balza agli occhi la qualità impeccabile nella figura materna (dove è tra l’altro assente un sentimento materno-filiale), mentre spesso il bambino è scolpito in modo informe, abbozzato, quasi a significare la condizione ancora imperfetta prima dei riti di iniziazione e sempre in pericolo per l’elevatissima mortalità infantile. L’immagine principe della madre appare come miracolosa e misteriosa generatrice di vita, scolpita con tratti ieratici, quasi divini, animata da una taumaturgica forza interiore, lontana dalle cure terrene, la forza di una madre che è capace di traghettare il proprio figlio dal mondo dei morti, un passaggio denso di pericoli, come insegna la tradizione africana.

 

Elio Rabbione

Dialoghi tra l’Arte africana tradizionale e quella contemporanea

donna-mumuila-oderzo“Africa, la Grande Madre”, con opere della collezione Albertino-Alberghina

 

A sottolineare la curiosità, l’interesse e per molti la felice scoperta che la cultura e l’arte africane vanno acquisendo presso una gran parte del pubblico del nostro paese – con la conferma del termine “arte” a dispetto di pregiudizi neppur sospinti troppo in là nei decenni addietro, con buona pace di un necessario quanto tranquillo giudizio estetico -, si estende in questi giorni ancor più il panorama di quel continente con l’inaugurazione di una mostra intitolata “Africa, la Grande Madre”, sotto la cura sempre perfezionista e agguerrita di Donatella Avanzo, che prende il via il 3 dicembre, un lunghissimo periodo sino al 28 maggio del prossimo anno, nelle sale di Palazzo Foscolo a Oderzo, in provincia di Treviso (una eccellente cornice, questa, costruita nel XVI secolo per Alessandro Contarini, con le caratteristiche tipiche della villa veneta cinquecentesca, vittima delle deturpazioni napoleoniche, sede dei comandi militari nel corso della Grande Guerra, vittima ancora di un grave incendio nel 1974, restaurata felicemente nella seconda metà degli anni Ottanta per ospitare oggi una pinacoteca, convegni, esposizioni d’arte). Dicevamo un’estensione di interesse, richiamando alla memoria di chi legge un’altra mostra, “Africa, dove vive lo spirito dell’arte”, apprezzata nei suoi primi quindici giorni d’apertura da un vasto pubblico (l’esposizione si chiuderà il 29 gennaio) nelle sale della Casa Museo del Conte Verde a Rivoli. Uno sguardo sull’arte africana quindi, che qui in un più ampio panorama spazia “dai graffiti preistorici all’oro dei faraoni, dall’arte africana tradizionale all’arte contemporanea”, rimettendo in campo una visione artistica e, ricordiamolo in tutta la sua importanza, religiosa, per troppo lungo tempo sottovalutata e dimenticata, rivalutata in seguito da un gruppo d’artisti come maternita-oderzo-2Picasso, Matisse, Braque, Derain e Brancusi, pronti ad attingere “alla grande lezione formale offerta da quegli idoli, maschere e feticci, per tradurla in una nuova e vitale stagione estetica”, come sottolineano le parole di presentazione alla mostra. Un percorso lungo quello della valorizzazione, che ha trovato un favore incondizionato e supportato dai sentimenti della passione e della consapevolezza da parte dei viaggiatori, dei collezionisti, degli etnografi pronti a guardare con un occhio diverso l’Art nègre, sino a svelarne in tutta la propria completezza l’eredità culturale arrivata sino a noi. Un collezionismo che nella mostra consegna un invidiabile bagaglio (maschere e preziose statuette nei diverse materiali, immagini) ad opera di Bruno Albertino e Anna Alberghina, medici entrambi e viaggiatori nei più diversi paesi del territorio africano (per tutti, la Costa d’Avorio e il Mali, l’Angola e il Mozambico e il Ghana), e non soltanto, un occhio particolarmente attento lui alla scultura dell’antico continente, indagatrice lei, attraverso il mezzo fotografico, nel ritrasmettere ad un pubblico lontano volti e ambienti, tradizioni e costumi, momenti catturati alla vita quotidiana, i villaggi, il lavoro, le acconciature, i colori delle vesti, istantanee di una cultura che va aiutata a mantenere una genuinità da sempre messa in pericolo da fattori esterni (“i nostri studi, i viaggi che compiamo, gli scambi che da sempre sviluppiamo con altri appassionati e studiosi ci dicono la necessità di testimoniare di un’Africa che lentamente si dilegua, travolta dal vortice della globalizzazione, dall’economia di mercato, dalle religioni importate e dal neocolonialismo economico”, sottolineava ancora Albertino presentano la suamaschera-oderzo1 importante partecipazione alla mostra di Rivoli). Per l’occasione, nella volontà di ripercorrere la lunga strada fatta sino qui dall’arte dell’Africa, vengono altresì esposti alcuni calchi dei celebri graffiti preistorici della valle del Bergiug nel Sahara libico, risalenti a circa 11.000 anni fa, documentati dalla spedizione denominata “Fiumi di pietra” condotta da Alfredo e Angelo Castiglioni, celebri ricercatori, con Giancarlo Negro e Luigi Balbo. La ricostruzione di importanti sezioni pittoriche di tombe egizie, realizzate da Gianni Moro, illustranti i temi della vita quotidiana, delle attività agricole e artigianali, sono messe a confronto con un filmato girato dagli stessi Castiglioni nel cuore delle società africane, a dimostrazione del mantenimento di certi atteggiamenti culturali nel tempo; e ancora un grande diorama che fa parte della ricostruzione di un insediamento minerario per lo sfruttamento del quarzo aurifero da cui veniva estratto l’oro per i faraoni dell’Antico Egitto. A lato dei “reperti”, le opere di vari artisti contemporanei, Raffaella Brusaglino, Giuliana Cusino, Ezio Gribaudo, Isidoro Cottino, Giancarlo Laurenti, George Lilanga, Ugo Nespolo, Nino Ventura, Pietro Weber, sono lì a testimoniare le contaminazioni o i ponti di dialogo disposti negli anni più recenti tra l’arte nostra di oggi e le radici che per molti versi l’hanno generata.

 

Elio Rabbione

 

 

Nelle foto, dall’alto verso il basso:

Donna Mumuila, Angola, foto di Anna Alberghina

Maternità Phemba, Kongo-Yombe (coll. Albertino-Alberghina)

Maschera Kifwebe Luba (coll. Albertino-Alberghina)

L’arte africana alla Casa Museo del Conte Verde di Rivoli

Bruno Albertino, con Anna Alberghina collezionista e studioso di arte africana, ci parla di questo mondo misterioso e affascinante

 

Come già scriveva un secolo fa (nel 1915) lo storico dell’arte Carl Einstein, ancora oggi è valida l’osservazione secondo cui “a nessuna arte l’uomo europeo s’accosta con altrettanta diffidenza come all’arte africana. La sua prima reazione è di negare che si tratti d’arte.

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Tale distanza e i pregiudizi che ne derivano rendono difficile ogni giudizio estetico, anzi lo rendono impossibile, in quanto un tale giudizio presuppone in primo luogo un processo di avvicinamento”. E’ proprio grazie al collezionismo se, soprattutto in questi ultimi decenni, a partire dalle antiche sculture, si sono creati degli oggetti rivestiti di un nuovo significato. Una strada, quello del collezionismo appunto, provato e autentico, portatore di profonda quanto significativa conoscenza, percorsa sino a oggi da Bruno Albertino e Anna Alberghina, medici entrambi e viaggiatori, genuinamente appassionati, legato lui in principale modo alla scultura dell’antico continente, alla ricerca lei, attraverso il mezzo fotografico, di fissare ambienti e volti, costumi e tradizioni che siano in grado di consolidare una cultura che per   molti versi non già si stia spegnendo ma vada poco a poco perdendo quella genuinità che dovrebbe essere al contrario la propria maggiore essenza e intimità. Conoscenza e passione che ancora una volta, tra viaggi e volumi editi, tra esposizioni e conferenze, li portano a proporre, da domani 19 novembre fino al 29 gennaio nelle sale della Casa Museo del Conte Verde a Rivoli, con il patrocinio e l’organizzazione della città e dell’Associazione Culturale “Arte per voi”, l’offerta dei loro più preziosi “reperti” nella mostra che ha per titolo “Africa, dove vive lo spirito dell’arte”.

afri-2Dottor Albertino, come è nata in voi la passione che ha portato allo sviluppo della vostra importante collezione di sculture africane?

Con mia moglie Anna, da circa trent’anni compio viaggi attraverso l’Africa, andando dall’Angola al Sudan alla Costa d’Avorio, dal Mozambico alla Nabibia al Ghana, dal Mali al Burkina Faso al Togo. Se spostiamo per un attimo l’attenzione dal solo continente africano, credo che abbiamo toccato complessivamente una sessantina di paesi nel mondo. Una delle nostre prime acquisizioni avvenne proprio in Mali, sulla falesia di Bandiagara, suggestiva roccia sedimentaria che si estende da sud verso nordest per circa 200 km e che termina con il picco dell’Hombori Tondo, il più alto del paese. Proprio lì abbiamo trovato una piccola statuetta Dogon, che conserviamo con affetto.

La statuetta Dogon ha segnato l’inizio ma non soltanto i viaggi vi hanno permesso di raccogliere questo prezioso materiale.

Diciamo che il 30% della collezione è il frutto delle acquisizioni fatte sul terreno da collezionisti e mercanti africani o europei abitanti in Africa, con cui abbiamo costruito un rapporto di rispetto e collaborazione, il restante lo abbiamo ritrovato in altre collezioni europee, come in aste o gallerie d’arte in Italia, Francia, Belgio e Stati Uniti. Ne è nata una raccolta di oggetti d’uso, terrecotte, maschere, figure, bronzi, oggetti dal grande senso plastico riconducibili al vasto panorama di tutto quanto ha incuriosito i primi viaggiatori e esploratori e poi influenzato artisti e avanguardie artistiche del primo Novecento. Potremmo parlare del Cubismo o del Fauvismo, potremmo citare, per il grande interesse all’Art nègre, Matisse, Emil Nolde, André Derain e ancora Picasso che venne folgorato dall’arte dei Grebo e dei Mahongwe vista al Trocadero di Parigi. Una collezione eclettica la nostra, sia per tipologia (essenzialmente maschere, statue e oggetti d’uso) delle sculture che per riferimento territoriale, per cui andiamo dall’Africa sub-sahariana a quella occidentale e centro-equatoriale.

Qual è il significato intrinseco di un oggetto d’arte africana?

Gli artisti del primo Novecento si limitarono ad una analisi plastica delle sculture, traendone grande ispirazione. Tuttavia, è necessario ricordare che, nell’oggetto africano, la funzione è essenziale, è la ragione prima del suo esistere. Si tratta di oggetti, maschere e feticci, figure di maternità e di afri-bimboantenati, carichi di potenza soprannaturale, strumenti di culto, simulacri del divino in grado di proteggere chi li possiede da influssi maligni, in grado di assicurare l’ordine sociale e la giustizia. Addentrandoci con gli anni nella ricerca, abbiamo sempre cercato di approfondire la storia dell’oggetto, sia per quanto riguarda il suo significato rituale che il suo percorso. In Africa non esiste l’arte per l’arte, la pura componente estetica, vi è una stretta, forte connessione tra forma, funzione pragmatica degli oggetti, uso rituale, politico e sociale, è ben viva quella componente magico-religiosa dentro la quale l’artista è il semplice esecutore votato all’anonimato e non certo il creatore da ricordare e celebrare.

Che cosa è cambiato, in questi ultimi anni, nel continente africano per quanto riguarda la realtà artistica che voi più seguite?

I nostri studi, i viaggi che compiamo, gli scambi che da sempre sviluppiamo con altri appassionati e studiosi ci dicono la necessità di testimoniare di un’Africa che lentamente si dilegua, travolta dal vortice della globalizzazione, dall’economia di mercato, dalle religioni importate e dal neocolonialismo economico. Abbiamo visto negli anni affievolirsi lo spirito vitale dei popoli, il nyama che animava riti e tradizioni ancestrali. Nella cultura e nella vita di quei popoli in troppo rapida trasformazione vi sono ferite sempre più aperte. Le maschere d’Africa rappresentano il cuore pulsante del continente, sono spiriti che parlano e che evocano la forza interiore degli antenati. Maschere, volti, sculture che parlano per raccontarci l’esistenza di uomini e donne nella quotidianaafri-asie fatica di vivere.

Oltre all’oggetto, potrebbe essere definita la figura dell’artista africano?

Come dicevamo, l’artista africano è per lo più anonimo se non in rare eccezioni. La storia è tramandata oralmente, con notizie spesso incerte e frammentarie, che l’epoca coloniale non ha certo contribuito a tramandare. Ma in quelle rare eccezioni trovano posto grandi maestri, capolavori che primeggiano su opere poco più che artigianali. Solo negli ultimi anni sono stati approfonditi gli studi sulle attribuzioni ad opera di importanti studiosi come Ezio Bassani, individuando molti grandi autori come il Maestro di Buli, il Maestro di Bouaflé, il Maestro delle capigliature a cascata e altri ancora. Inoltre si presenta il problema della datazione, che per gli oggetti in nostro possesso varia dalla fine dell’800 alla prima metà del ‘900, ad eccezione delle antiche terrecotte della cultura di Nok, stimabile in Nigeria tra il sesto e il terzo secolo avanti Cristo.

Quali sono le sensazioni, i sentimenti che riportate dai vostri viaggi?

Ci colpiscono di volta in volta, ad ogni singola occasione, le esperienze vissute sul campo, la difesa delle tradizioni, il piacere di aggiungere una tappa in più, imbatterci in percorsi sino a quel momento non ancora affrontati; senza dimenticare l’accoglienza che vediamo sempre migliore nei luoghi meno turistici. Negli altri, quelli sempre più percorsi da chi s’affida quasi esclusivamente alla curiosità, ti accorgi di vivere il ruolo del turista, hai un filtro storico che si forma in modo inevitabile tra noi e il nativo.

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Se lei dovesse spiegare il fascino dell’arte africana a chi visiterà la mostra, che cosa direbbe?

L’ingresso al Metropolitan Museum of Art di New York e al Pavillon des Sessions del Louvre parigino nel 2000 ha segnato la definitiva consacrazione dell’arte africana nel mondo occidentale. Direi che essa è caratterizzata da visione plastica e percezione immediata dello spazio, in particolare la maschera è l’estasi immobile del volto, una fissità che esprime una estrema e pura espressione liberata da ogni contestualizzazione e condizionamento. E’ proprio tra ricerca di adeguatezza tra trascendente e realtà concreta che prendono vita e si concretizzano le sculture africane. Si sono attribuiti valori artistici a seconda delle epoche e dei gruppi di collezionisti, dal classicismo all’astratto, dalle raffinate maschere ritratto delle popolazioni Baoulé e Dan della Costa d’Avorio alle maschere cubiste dei Sogye e a quelle straordinariamente astratte dei Tèké, rintracciabili entrambe nel Congo. Si mescolano naturalismo e astrattismo, patine di colori minerali e vegetali naturali opposte a patine lucide, volti umani abbinati a figure zoomorfe. Piani diversi di lettura e di esecuzione, soprattutto la sovrapposizione di fattori estetici e magico-religiosi, da questo nasce nel collezionista e nello studioso di ieri e di oggi la passione per l’arte e per le maschere d’Africa.

Elio Rabbione

Immagini, dall’alto:

Villaggio Gabbra, Kenia, foto di Anna Alberghina

Maschera Galoa, Gabon, coll. Albertino-Alberghina

Bimbo Karimojong, Uganda, foto di Anna Alberghina

Figura Asie Uso Baoulé, Costa d’Avorio, coll. Albertino-Alberghina

Bruno Albertino e Anna Alberghina qui nello Zimbabwe, in uno dei loro tanti viaggi

Confagricoltura, un’annata difficile: “Troppa burocrazia, la Regione deve fare di più”

agricolturaE’ stata un’annata difficile per i settori agricoli di cerealicoltura, zootecnia da latte e apicoltura, invece  ottima per uva da vino e frutta. La fotografia è di Confagricoltura che chiede alle istituzioni e in particolare  alla Regione Piemonte di fare di più per  dare la spinta giusta al comparto. Secondo il presidente dell’associazione torinese Paolo Dentis c’è carenza di  politiche in grado di stimolare la crescita e serve una pianificazione lungimirante. “Sono irrisolti i problemi della burocrazia, del proliferare della fauna selvatica  i giovani faticano a inserirsi”, sostiene. E aggiunge che il “Piano di sviluppo rurale ha creato larga insoddisfazione tra gli agricoltori, in gran parte esclusi dai finanziamenti erogati dall’Europa a favore di un’agricoltura moderna e attenta all’ambiente, come è stato dimostrato dalla massiccia partecipazione alla manifestazione di Confagricoltura Piemonte”. Le imprese agricole nella nostra regione sono 54.960 rispetto alle 55.097 dello stesso periodo dell’anno scorso e delle 54.748 di fine 2015. I giovani agricoltori sono il 5,9%.

Guardia ambientale a Lauriano

guardie-laurianoE’ stata inaugurata la sede della Guardia nazionale ambientale, distaccamento di Lauriano in corso Torino 16. Sono intervenuti il responsabile del distaccamento Antonio Cantafio, la vice responsabile Simona Corio, il presidente Alberto Raggi, il dirigente regionale interregionale Valerio Russo, la dirigente della segreteria di presidenza Milena Solazzi, il dirigente intermedio Alessia Angeli, il sindaco di Monteu da Po Laura Gastaldo, le stazioni dei carabinieri di Casalborgone e Cavagnolo, i dieci agenti della Guardia nazionale ambientale. La Gna è un ente riconosciuto con un decreto del ministro dell’Ambiente del 29 aprile scorso. Il Comune di Monteu ha, sin dallo scorso mese di aprile stipulato una convenzione per l’affidamento dei servizi di vigilanza ambientale sul suo territorio, in particolare per il controllo dell’abbandono dei rifiuti, delle discariche abusive, tutela corsi d’acqua, controllo ecologico sugli animali da affezione o passeggio, monitoraggio per il contenimento del randagismo, controllo, monitoraggio e censimento cani pericolosi, controllo ambientale, forestale e collaborazione di supporto con le forze dell’ordine. “I volontari – spiega il sindaco di Monteu da Po Laura Gastaldo – sono operativi sul territorio e sono stati sinora di grande aiuto alla polizia locale con cui vi è un’ottima collaborazione”.

Massimo Iaretti

 

 

L’Ottocento e il Novecento, “scorci di Torino”

Nelle sale della Galleria Aversa, in via Cavour 13

vellan-aversaFrammenti, sguardi, ricordi lontani che attraversano una intera città. “Scorci di Torino” è il nucleo della mostra che la Galleria Aversa presenta, sino ad inizio novembre, nei suoi locali di Palazzo Luserna – Rorengo di Rorà, in via Cavour 13, giardini, palazzi, periferie, le ampie piazze e i mercati, il susseguirsi di angoli più o meno conosciuti, gli anfratti del fiume, una mostra che si dilata più ampiamente nelle “altre opere fra ‘800 e ‘900”, per un complessivo di una trentina di opere (catalogo in mostra), offrendo immagini di mare o di altipiani, di villaggi montani o di paesi lontani. Acquerelli, tempere, oli – non mancano le sculture con il nervoso gruppo in bronzo dei “Contadini” aversa-lomidi Bistolfi posto a confronto con la figura femminile di Carlo Bonomi o la moderna danzatrice di Francesco Messina del 1980 – che rimandano per molti esempi a note impressionistiche come a squarci immersi in dense pennellate di colore nella descrizione di una umile vita quotidiana. Spiccano all’inizio le leggere geometrie di Giuseppe Canella che offre uno sguardo tra Gran Madre e Cappuccini, i Giardini Reali colpiti da una calda, rassicurante luce nell’opera di Marco Calderini del 1890 e immaginati da Lorenzo Delleani quasi a nascondere, grandi masse alberate, sedici anni dopo le architetture di Palazzo Reale, le atmosfere diverse che attraversano nelle visioni di aversa-delleaniGiovanni Lomi e Leonardo Roda l’ampio spazio di Porta Palazzo, il chiarore che inonda Superga complice la neve di Cesare Maggi, sino alle indecifrabili linee di Spazzapan che vivacizzano il “Canale Michelotti” del 1934 o il paesaggio innevato di Felice Vellan che circonda il “Traghetto di Millefonti” (1923), sino ad un’epoca assai più recente con i “Panni stesi in Bertolla” di Mario Lisa. Non dimenticando le due minuscole dame che nella tela di Calderini (fu allievo del Fontanesi) del 1872, in un capolavoro di luci e di studiatissime ombre, attraversano “Il giardino dei Ripari”, ovvero quel luogo fatto di collinette e sentieri, datato 1834 e destinato ad offrire una tranquilla e verdeggiante zona per il passeggio delle signore torinesi, tra fontane e caffè, nato dopo l’abbattimento delle mura in età napoleonica e oggi da identificarsi con la zona che nel centro della città occupa i giardini Cavour e l’aiuola Balbo, sino a spingersi sino a piazza Maria Teresa. Al di là degli scorci torinesi, Lidio Aimone inonda di sole un romantico “Golfoaversa-lupo del Tigullio” (1912), Carlo Bossoli fotografa con tecnica perfetta “Il castello di Alcazar, a Segovia”, ancora Lorenzo Delleani ricostruisce in una tavola del 1899, tra personaggi e animali, l’aia di un casolare in un vivace villaggio ai piedi delle montagne, mentre Alessandro Lupo ci rende uno splendido esempio dei suoi mercati e Mario Lisa immerge nelle prime ombre della sera le case silenziose di Verrand lasciando che i raggi del sole ancora prepotenti colpiscano le cime del Monte Bianco (1948). Al 1896, altro piccolo capolavoro che colpisce l’attenzione di chi visita la mostra, risale “Cortile arabo”, conosciuto anche per il titolo “Fumatori di narghilè”, di Riccardo Pellegrini, artista formatosi nella Milano del Romanticismo che a lungo viaggiò in Francia, in Spagna o nei paesi mediterranei, pronto a catturare scene come quella che vediamo, gli uomini chiusi nelle loro tipiche vesti, la tranquilla siesta dei cani, il balcone chiuso, le pareti dipinte, resa ogni cosa con raffinatezza e preciso studio, un’immagine non chiusa semplicemente nel ricordo, ma vivace, immediata, personalissima.

 

Elio Rabbione

 

 

Le immagini, a partire dall’alto: 

Felice Vellan, “Torino, il Traghetto di Millefonti”, olio su tela, 1923

Giovanni Lomi, “Torino, Porta Palazzo”, olio su tavoletta

Lorenzo Delleani, “Casa di villaggio”, olio su tavola, 1899

Alessandro Lupo, “Giorno di mercato”, olio su cartone

INFORMAZIONE COMMERCIALE

La Torino “bianca” della magia, tra la Gran Madre e il cancello di Palazzo Reale

“Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati.” (Matteo 26:27-28)

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Ai piedi della collina torinese, in borgo Po,  a poca distanza dal fiume e proprio davanti alla piazza Vittorio Veneto, sorge la  neoclassica chiesa  della Gran Madre di Dio. Sulla sua scalinata, quando scende la sera e – in autunno, con le foglie ad ingiallire i viali – sale quella nebbiolina che ovatta ogni cosa, si fa più acuta la sensazione di trovarsi in uno dei luoghi magici di Torino. Una percezione d’arcano, di soprannaturale che, a poco a poco, diventa quasi palpabile. Commissionata nel 1814 dal Consiglio dei Decurioni, nei fatti l’antenato del moderno consiglio comunale, allo scopo di celebrare il ritorno di Vittorio Emanuele I di Savoia dopo la sconfitta di Napoleone, la chiesa porta sul frontone l’epigrafe latina “Ordo Populusque Taurinus Ob Adventum Regis”, ovvero “la nobiltà e il popolo di Torino per il ritorno del re”. Se c’è un luogo che, tra i tanti di Torino, richiama la “magia bianca”, madre-dragoquesta chiesa lo rappresenta pienamente, a partire dalle due statue poste all’entrata che , richiamando la Fede e la Religione, mostrerebbero il luogo dove è sepolto il Sacro Graal, il calice da cui Gesù bevve durante l’ultima cena con gli apostoli. Una delle due statue, infatti, regge una coppa, che rappresenterebbe il sacro calice, mentre l’altra con lo sguardo rivolto lontano indicherebbe il cammino da seguire per ritrovarlo. Uno studio condotto dal Politecnico di Torino sostiene che lo sguardo della statua indicherebbe il Palazzo di Città dove, prendendo per buona l’inetra storia, sarebbe stato sepolto il Graal; viceversa, alcuni esoterici sostengono che la coppa da cui il figlio di Dio avrebbero bevuto, starebbe proprio lì, in quel punto esatto,collocata tra le due statue. Ovviamente, essendo un mistero, non v’è certezza alcuna. Il “cuore bianco” della città, parrebbe però localizzato tra la piazzetta Reale e i giardini, in particolare attorno alla fontana dei Tritoni. Siamo nell’area adiacente alla centralissima Piazza Castello, da cui si irradiano le principali arterie del centro storico, da via Po a via Roma,  da via Garibaldi a via Pietro Micca. L’influenza positiva dei luoghi dove sono custodite preziose reliquie, prima fra tutti la Basilica Cattedrale di San Giovanni Battista, cioè il Duomo di Torino, dov’è conservata da quattro secoli la Santa Sindone, offre una garanzia alla città che si trova ad una delle estremità di entrambi i triangoli magici e, nel caso, di quello “bianco”, condividendone le sorti con Lione e Praga. Per la Sindone occorrerebbe un discorso a  parte. Alcuni esoteristi sostengono che essa “racchiude in sé i quattro elementi che compongono l’Universo: Terra, Fuoco, Aria e Acqua. E’ nata dalla Terra come un fiore di lino, è stata tessuta dall’uomo, ha viaggiato attraverso l’Acqua, attraverso l’Aria, ossia il tempo, mentre il Fuoco è Cristo medesimo, è la luce, la conoscenza”. Niente e nessuno può distruggerla, a partire da quel fuoco che ne ha più volte minacciata l’integrità. Del resto è sempre in voga la leggenda secondo la quale chi possiede una reliquia del Cristo, di conseguenza, e possiede tutte, sostenendo – ad esempio, nel nostro caso – come i sotterranei della Basilica di Maria Ausiliatrice custodiscano una croce fatta con lo stesso legno di quella su cui Gesù fu crocifisso. Tornando al “cuore bianco”, nella parte recintata dei giardini reali, si trova una bianca, marmorea vasca con al centro la Fontana di Nereide e i Tritoni, più semplicemente conosciuta come “Fontana dei Tritoni”. L’opera raffigura una ninfa marina circondata, appunto, da tritoni che, nella mitologia, sono i figli del dio Poseidone. Siamo sul confine tra la città bianca e quella nera: il cancello del palazzo Reale, con le due stature dei Dioscuri, Castore e Polluce.

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E’ qui che si trova l’immaginaria linea di demarcazione tra la Torino sacra e  quella diabolica,  tra la zona est da quella ovest, tra la parte della luce dalla quella delle tenebre. Per restare nei dintorni di piazza Castello, ci sono altri tre motivi che accrescono l’energia positiva e magica di Torino: il Museo Egizio, la fontana di piazza Solferino e le grotte alchemiche che si troverebbero sotto Palazzo Madama, dove si dice che i Savoia proteggessero chi, usando al pietra filosofale, praticasse antica arte che si proponeva la trasformazione dei metalli in oro, come Cagliostro e Nostradamus. Il Museo Egizio di via Accademia delle Scienze, ospiterebbe invece dei reperti in grado di sprigionare “una carica positiva di grande forza”. Tra questi si segnerebbero quelli che riguardano e raffigurano il faraone Thutmosi III, maestro nelle discipline esoteriche che regnava in Egitto proprio quando la città di Augusta Taurinorum venne fondata. Oggetti dotati di energia positiva e benefica, dunque, necessari a contrastare la nefasta presenza di tutto ciò che riguarderebbe Tutankhamon, il faraone bambino (di cui è esposto un solo reperto, la celebre scultura, proveniente da Tebe, che lo rappresenta al fianco del dio Amon, mentre altri giacciono nei sotterranei del museo). Stesso madre-2discorso per la piccola testa mummificata del malefico Seth, fratello e assassino di Osiride, anch’essa intrisa di energia negativa. Il più importante e antico museo egizio del mondo, dopo che quello del Cairo è stato selvaggiamente saccheggiato,  offrirebbe così alla città che lo ospita un enorme campo energetico positivo. Ci si sposta un po’, nemmeno troppo distante, ed ecco un altro simbolo esoterico tra i più noti: la Fontana Angelica di Piazza Solferino, d’ispirazione massonica. Nella fontana si trovano raffigurate due figure femminili che rappresentano allegoricamente la Primavera e l’Estate e due figure maschili, l’Autunno e l’Inverno. L’Inverno volge lo sguardo verso oriente, dove sorge il sole, simbolo di energia positiva. L’acqua versata dalle otri (che rappresentano i segni zodiacali dell’Acquario e dell’Ariete) rappresenterebbe invece la conoscenza data agli uomini , con una marcata, evidente, simbologia positivista. La Torino “bianca” non esaurisce qui i suoi “luoghi d’elezione” se pensiamo che lo stesso simbolo della città, la Mole Antonelliana, non sarebbe altro che una gigantesca antenna in grado d’irradiare energia positiva sulla città dei quattro fiumi. Nell’elenco non sfigurano certamente il bassorilievo di Cristoforo Colombo, in piazza Castello 211 ( toccarne il mignolo porterebbe fortuna, alla pari del calpestare il toro sotto i portici di piazza San Carlo) e la fontana dei Dodici Mesi, al Valentino, che sorgerebbe nel punto dove si sarebbe schiantato il carro solare di Fetonte, il figlio di Apollo, sulle cui ceneri sarebbe stata fondata la città. E che dire dell’enigmatico e misterioso “quadrato magico” del Sator, composto da 25 lettere, nella forma classica a griglia di caselle a cinque per cinque, sullo stabile al civico 23 di via Gioberti? Messaggio positivo o negativo? Segno che punta sul bianco o sul nero? I più, nel dubbio, immaginano una prevalenza del bene sul male. Più evidente il ruolo dei “guardiani di porta”, che – dalle facciate di molti edifici – mostrano la lingua, proteggendoli dalle influenze negative. Comunque, un fatto è certo. Nella sulfurea Torino, dove si aggirava il solitario Domingo, maestro di trucchi e diastuzie, creato dalla penna di Giovanni Arpino, non mancano certo i misteri.

Marco Travaglini

Un buco di 65 milioni per le Asl piemontesi, ma la Città della Salute va un po’ meglio

molinetteLa sanità piemontese ha un buco di oltre 65 milioni di euro. In realtà il passivo di 65 milioni è meno pesante di quello dello scorso anno che era stato di 84 milioni. Se va un po’ meglio la Città della Salute, i conti delle aziende sanitarie piemontesi e che  la Giunta regionale sta verificando e approvando non sono certo positivi.  Prima della pausa estiva sono state passate in esame Città della Salute, ospedale di Alessandria e alle Asl To2, To5, Novara, Cn2, Veo e Vercelli, e presto toccherà alle altre aziende sanitarie. Per quanto riguarda la Città della salute il 2014 si è chiuso con un disavanzo di 30,6 milioni di euro,  mentre nel  2015 il passivo è dimezzato, di 15 milioni e 80mila euro. Gian Paolo Zanetta, direttore generale, aveva annunciato a suo tempo che sono stati effettuati tagli, la chiusura del Maria Adelaide, e presto si farà l’accorpamento di 30 strutture complesse e 300 strutture semplici,  magazzini e laboratori. Ci sarà anche l’estensione degli orari delle sale operatorie  per superare le liste d’attesa. Eccetto l’Asl di Alessandria e l’ospedale di Cuneo, sono in rosso tutte le aziende sanitarie piemontesi, ad incominciare dalle torinesi: passivo di  7,7 milioni di euro per il San Luigi di Orbassano,  6,5 per il Mauriziano,  3,2 per l’Asl To1,  2,3 milioni per la To2, 2,2 per l’Asl To3, 1,7 per la To4, 1,2 per la To5 . Nel compilare il bilancio, diversi direttori generali hanno scritto che lo squilìbrio economico è stato originato da una delibera della Giunta Chiamparino, del 23 maggio 2016, che  per esigenze del Governo ha dovuto tagliare risorse: sono stati “prelevati” ad Asl e ospedali circa 19 milioni di euro di trasferimenti.

(foto: il Torinese)