Asili sabaudi, i primi della storia a Rivarolo e Agliè

E l’anno successivo, in un setificio di Agliè, il primo asilo aziendale in Piemonte

 

Il 3 agosto 1838 nasceva a Rivarolo Canavese il primo asilo del Regno sabaudo. Nella cittadina a trenta chilometri da Torino, l’annuncio ufficiale venne dato in una cerimonia a palazzo Farina di Rivarolo, durante un incontro tra il sindaco Maurizio Farina –  che fu, in seguito, senatore del Regno – Ferrante Aporti e Camillo Benso, conte di Cavour. Già da un paio d’anni,  nelle terre dei Savoia, esistevano asili per l’infanzia, come quello istituito a Torino nel 1836 dalla marchesa di Barolo, ma la loro funzione era esclusivamente quella di accudire i bambini. L’abate Ferrante Aporti, sfidando conservatori e perbenisti,  sosteneva invece come questi istituti dovessero porsi anche l’obiettivo di fornire ai piccoli dei principi educativi e istruttivi. Un’idea di stampo progressista, mal vista e mal digerita dal potere costituito. Così il Farina , all’inizio del 1838, in qualità  di sindaco del centro  canavesano, si prese la responsabilità di fondare il primo asilo aportiano  senza darne avviso al questore di Torino e informandone solo ufficiosamente il Marchese di Saluzzo, allora Governatore dei Reali Principi. Una scelta che venne poi ufficialmente riconosciuta qualche mese dopo, con la visita di Cavour a Rivarolo. Ferrante Aporti, pioniere dell’educazione scolastica infantile, aveva fondato pochi anni prima a Cremona il primo asilo d’infanzia a pagamento in Italia per alunni da due anni e mezzo a sei anni; un esperimento che poi diffuse nel lombardo-veneto con scuole infantili gratuite finanziate dal governo austriaco. Scopo degli asili era accogliere i figli dei lavoratori, aiutare le famiglie a sostenerli mediante la refezione, curarne l’educazione fin dall’infanzia nello sviluppo intellettivo, religioso, morale e fisico. La scuola di Rivarolo continuò la sua attività e divenne progetto pilota per l’apertura di altre scuole aportiane. Nel centro storico rivarolese, sul fronte di palazzo Farina, una targa ricorda l’azione “di Camillo Cavour e altri nobili uomini” in quest’ impresa. Un anno dopo, nel 1839, sempre nel canavese venne aperto anche il primo asilo aziendale in Piemonte. Lorenzo Valerio, dirigendo un setificio ad Agliè, guidato dalle sue idee liberali e da un’impostazione sociale molto avanzata per l’epoca, non si limitò a questo ma si distinse per l’impegno profuso nel migliorare le condizioni di lavoro delle operaie.  Tra l’altro si adoperò ad aprire scuole femminili e serali, a quel tempo estremamente rare, dimostrando una sensibilità fuori del comune.

 

Marco Travaglini

Cirio, i “pelati” nati a Torino

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cirio1A Torino, a nord-ovest del centro storico,  c’è Porta Palazzo  (Pòrta Palass o Pòrta Pila in piemontese). E’ lì, in piazza della Repubblica, la più estesa della capitale subalpina, che quotidianamente viene ospitato il mercato all’aperto più grande d’Europa. Ed è lì che, davanti al numero 24, s’incontra una lapide dedicata – nel lontano 1910 –  a Francesco Cirio. Le lettere un po’ consunte ci informano come “con una fede iniziatrice, con ardimentosa energia , fra gioie e dolori ,suscitò gloriose fortune per gli agricoltori italiani insegnando nuovi commerci, nuove vie e nuovi mercati”. E’ noto che nel dire Cirio si è sempre pensato al pomodoro e viceversa, parlando dei “pelati” in latta,  veniva naturale associarli alla ditta che porta quel nome. Francesco Cirio, uno dei pionieri dell’industria conserviera, nato a Nizza Monferrato il giorno di Natale del 1836 e trasferitosi a Torino, riuscì con le sue intuizioni a portare i prodotti ortofrutticoli del paese “del sole e del mare” su tutti i mercati del mondo. Sì, perché Il famoso “pelato” Cirio non vide la luce a Napoli, come si potrebbe pensare, ma nella città della Mole, dove Cirio, dall’astigiana valle Belbo, vi arrivò a quattordici anni, squattrinato ma con una grande determinazione e alcune idee geniali. Prima garzone , poi  commerciante in proprio di frutta e verdura a Porta Palazzo, Francesco Cirio – trasportando la merce con un carretto – rivendeva in periferia la verdura che comprava a prezzo di realizzo al mercato durante l’ora di chiusura. Ma come conservare piselli, peperoni, pomodori, cetrioli , carciofi per più giorni o in modo che si potessero consumare fuori cirio2stagione ? Nel 1856, a soli vent’anni, trovò la riposta applicando – per primo in Italia – il metodo inventato nel 1795 dal cuoco e pasticciere francese Nicolas Appert (detto appunto “appertizzazione”) che consisteva nella sterilizzazione di cibi cotti in contenitori chiusi ermeticamente. Fu un successo e di lì a poco Cirio inaugurò la sua prima fabbrica di conserve in scatola, la “Cirio-Società Generale Conserve Alimentari”. Nella prima e nella seconda Esposizione Agraria di Torino, nel 1864 e 1865, gli furono tributati grandi onori mentre la definitiva consacrazione del “re delle conserve” avvenne nel 1867 all’Esposizione Universale di Parigi, a cui fece seguito l’apertura di stabilimenti in altre zone d’Italia. Nel 1880 la produzione di conserve Cirio superava i 10.000 quintali e i 49.000 quintali cirio-3l’esportazione di prodotti ortofrutticoli all’estero (resa possibile grazie alla collaborazione con le Ferrovie Italiane e all’uso di appositi vagoni refrigeranti). Francesco Cirio lavorò alacremente ai suoi progetti , con esiti e fortune alterne. Poco prima della sua morte, a sessantatre  anni da poco compiuti, ai primi di gennaio del 1900, avvenne lo spostamento della “Ditta Cirio-Società Generale Conserve Alimentari “da Torino a San Giovanni a Teduccio, vicino a Napoli e il passaggio del pacchetto azionario di maggioranza nelle mani della famiglia Signorini. Cirio, che riposa al cimitero Monumentale di Torino, legò comunque il suo nome ai celebri “pomodori pelati” e , in fondo, è giusto che sia così se si pensa che la prima capitale d’Italia è la più grande città meridionale del paese dopo Napoli e Palermo,come disse, a suo tempo, il sindaco di Torino Diego Novelli.

 

Marco Travaglini

4000 FOTO AL SECONDO ALL’ACQUA

Si tratta del più avanzato e più innovativo sistema di monitoraggio della qualità dell’acqua (foto “IMG” allegata) esistente, quello che introduce Acea Pinerolese Industriale S.p.A. sul sistema idrico gestito dalla Multiutility Pinerolese. Si può dire che è una vera e propria rivoluzione nel modo di effettuare controlli sulla qualità dell’acqua servita ai cittadini che porta a un concetto di TELECONTROLLO della qualità in real time, potenziandolo ulteriormente. Il sistema di Telecontrollo (foto in allegato di una postazione), adottato da Acea Pinerolese tra i primi nel settore sin dagli anni ’80, consente già di verificare le portate di rete, i pozzi, le vasche e la richiesta di acqua dall’utenza nei vari periodi dell’anno, ad ogni ora del giorno per gestire al meglio la rete idrica che si estende sul territorio del Pinerolese (Pianura e Pedemontano), Val Chisone e Germanasca, Val Pellice, Alta Valsusa e Val Noce.

Il nuovo sistema, che è complementare e si aggiunge ai già avanzatissimi metodi di monitoraggio presenti sulla rete idrica di Acea Pinerolese che prevedono costanti e continue analisi, scatterà 4000 foto al secondo24 ore su 24, ogni giorno dell’anno, all’acqua distribuita dalla dorsale della Val Chisone per mappare gli aspetti microbiologici.

Acqua fotografata: grazie ad appositi sensori l’acqua viene sottoposta ad una osservazione continua per effettuare uno scan attraverso un sistema ottico di rilevamento. Un sistema di allarmi darà un’immediata comunicazione di eventuali situazioni anomale e consentirà di porre in atto le azioni correttive necessarie.

L’obiettivo finale dell’introduzione di questa nuovissima tecnologia da Acea Pinerolese, è quello di rendere ancora più efficiente il Telecontrollo della qualità dell’acqua che beviamo.

Inoltre, trattandosi di un sistema ottico non necessita di reagenti o additivi chimici per mappare la qualità dell’acqua.

Acea Pinerolese è modello di azienda pubblica che, non solo funziona bene e produce utili, – affermaFrancesco CARCIOFFO A.D. di Acea Pinerolese Industriale S.p.A. – ma è capace di essere leader di efficienza e innovazione tecnologica che diventa esempio per aziende private e pubbliche in Italia ed in Europa. Per questa ragione Acea Pinerolese ha dato vita ad ACSI Acea Centro Sviluppo e Innovazione, un progetto di rilancio per il territorio pinerolese di grande respiro che parte dalla consapevolezza che questo area è Culla di Innovazione Tecnologica e Scoperte”. 

La sfida della Cooperativa Arcobaleno

di Paolo Pietro Biancone *

Ha rappresentato un insieme di sfide, tutte vinte. Massimo Ribasso, il primo lungometraggio prodotto dalla Cooperativa sociale Arcobaleno, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, ha raggiunto l’obiettivo. Il primo: la Cooperativa sociale Arcobaleno, nata nel 1992 da una realtà di accoglienza dell’Associazione Gruppo Abele con il preciso intento di creare a Torino nuove attività finalizzate a offrire opportunità lavorative a persone provenienti dall’area del disagio sociale, occupandosi del riciclo della carta, ha puntato i riflettori sul tema degli appalti e sulle distorsioni relative. Massimo Ribasso, il terzo lungometraggio del regista Riccardo Jacopino dopo le esperienze del film “40% Le Mani Libere del Destino” e del docu-film “NOI, ZAGOR”, si sviluppa sullo sfondo delle gare d’appalto, in cui vince chi presenta l’offerta più bassa a discapito di qualità, sicurezza, dignità del lavoro. Il secondo: per produrre il film, presentato con successo all’ultimo Torino Film Festival, ha lanciato un crowdfunding per il finanziamento, a cui hanno risposto numerosi sostenitori, in cambio di una partecipazione come attori o altro. “La forza del cinema – spiega il presidente della cooperativa, Tito Ammirati – ci ha aiutati a raccontare la nostra esperienza di imprenditori sociali che lavorano per il riciclo della carta e delle persone, per l’ambiente e per la comunità. Con ‘Massimo Ribasso’ abbiamo deciso di approfondire questo racconto allargando l’attenzione allo scenario degli appalti e delle gare pubbliche che coinvolgono le imprese sociali in Italia. Ci abbiamo messo anche un po’ di romanzo e di romanticismo, che ci aspettiamo anche dalle persone che decideranno di aiutarci”. Il terzo e non ultimo: far capire la forza delle imprese sociali sul territorio. “L’economia sociale è un paradosso, una scommessa che sembra contraddirsi. E’ una frattura logica, un corto circuito come un cuore che pensa”,

recita il sito della cooperativa https://www.cooparcobaleno.net/cooperativa/storia/

 

Questo il senso: la cooperativa ha puntato ad attivare servizi con l’utilizzo di manodopera in relazione al livello di investimenti; ampio spazio per non specializzati in modo da tenere bassa la soglia di ingresso. Non solo, l’organizzazione e qualità del lavoro sono improntate su ritmi produttivi all’altezza delle richieste di mercato, mirando, in particolare, all’acquisizione del concetto di assunzione delle responsabilità e dando alle persone l’opportunità di valutare le proprie attitudini e capacità professionali; rispetto di un proprio codice etico che esclude la possibilità di partecipare a gare su lavori esistenti, a maggior ragione se già svolti da altre cooperative sociali. La cooperativa conta 219 lavoratori, di cui 207 soci 21 soci volontari e vanta anche partecipazioni in società quali Transitor, che opera nel campo del trattamento dell’elettronica dismessa, e Biosfered, un’azienda Cleantech focalizzata sulla ricerca e lo sviluppo di tecniche estrattive da alghe e altri vegetali, come fonte naturale, per produrre molecole bioattive titolate ad elevato valore commerciale. La cooperativa risponde così alla necessità di diversificare i propri segmenti di mercato per garantire stabilità occupazionale ai lavoratori. Il motto è progettare insieme ad aziende “for profit” la creazione di nuove opportunità imprenditoriali per crescere insieme al territorio in ottica di sviluppo sociale.

*Professore ordinario di economia aziendale e coordinatore del corso di dottorato in Business e Management dell’Università di Torino

 

Scienze applicate, al Sobrero sperimentazione ministeriale

Ha avuto pieno successo all’Istituto superiore Sobrero di Casale Monferrato la giornata di presentazione, che si è svolta sabato mattina, del nuovo corso del Liceo scientifico delle scienze applicate quadriennale. Si tratta di un prestigioso riconoscimento che deriva dall’esito positivo della procedura selettiva eseguita dal Miur, che aveva emanato un avviso pubblico il 18 ottobre scorso. Il Sobrero è l’unica scuola in tutto il Piemonte nella quale verrà attivata dal prossimo anno scolastico questa sperimentazione, che coinvolge tutta Italia per quanto riguarda le scienze applicate. “I docenti referenti hanno avuto moltissime richieste da parte di persone interessate a questa sperimentazione nell’arco dell’intera mattinata – dichiara il dirigente scolastico Riccardo Rota – molte delle quali venivano da fuori zona, da Alessandria e dalla Provincia, dal Vercellese, dalla Città Metropolitana di Torino”. Si tratta di un corso di studi pensato per coniugare tradizione, innovazione e radicata preparazione. In pratica la solidità formativa delle materie scientifiche ed umanistico – linguistiche si va ad innestare sull’innovazione con quella che non è la didattica dei 5 anni fatta in 4, ma una didattica nuova per il quadriennale. A questo si aggiungeranno poi alcune peculiarità del Sobrero, come i contatti internazionali della scuola, la personalizzazione dei percorsi, l’eccellenza dei laboratori e della tecnologia che viene adottata. Naturalmente l’offerta formativa non si ferma al nuovo corso quadriennale (ci sono anche Istituto tecnico ad indirizzo tecnologico, il Liceo sportivo), ma questa è la novità di quest’anno e sarà anche al centro dell’Open day dell’Istituto che si terrà sabato 20 gennaio, dalle ore 14.30 alle 18, In questa occasione i docenti saranno nuovamente a disposizione per fornire dettagli su questo corso di studi. Le iscrizioni per il nuovo anno si apriranno il prossimo 16 gennaio per chiudere il 6 febbraio. Per ulteriori informazioni è possibile contattare la Segreteria alunni dell’Istituto, via Candiani d’Olivola 19, a Casale Monferrato allo 0142/ 454543

Carta di identità elettronica, si comincia l’8 gennaio

A partire dall’8 gennaio 2018 il Comune di Torino emetterà esclusivamente la Carta d’Identità Elettronica. E’ necessario prenotare tramite il portale predisposto dal Ministero dell’Interno. Per supporto alla registrazione al portale e/o alla prenotazione, consultare i video tutorial oppure la guida.
La carta d’identità può essere richiesta esclusivamente se il precedente documento è in scadenza, scaduto, smarrito, rubato o deteriorato; non deve invece essere richiesta a seguito di cambio indirizzo o residenza. 
Il costo della Carta d’identità elettronica è di euro 22,21 in contanti
Il documento viene spedito dal Poligrafico dello Stato all’indirizzo indicato dall’interessato entro sei giorni lavorativi dalla richiesta. Attualmente la carta d’identità elettronica non può essere rilasciata ai cittadini non residenti a Torino o italiani iscritti all’Anagrafe degli italiani Residenti all’Estero (AIRE) per i quali può essere emesso esclusivamente il formato cartaceo.

Modalità di richiesta

La carta d’identità elettronica può essere richiesta in tutti gli uffici anagrafici della Città previo appuntamento.
Per effettuare la prenotazione è necessario registrarsi al portale predisposto dal Ministero dell’Interno. Dopo la registrazione è possibile scegliere un appuntamento, compatibilmente alle disponibilità, selezionando la sede anagrafica più comoda, la data e l’orario. 
Per supporto alla registrazione al portale e/o alla prenotazione, consultare i video tutorial oppure la guida in formato PDF. (WWW.COMUNE.TORINO.IT)
Prossimamente saranno attivate altre modalità di prenotazione.

Vogliamo fare la pipì senza glifosato

Il glifosato (in inglese glyphosate, noto anche con la denominazione commerciale di Roundup) è il diserbante più usato al mondo e dalla sua comparsa sul mercato, che risale al 1974, ne sono state sparse sui campi quasi 9 milioni e mezzo di tonnellate. Da tempo è sotto accusa per i possibili danni alla salute, tanto che nel 2015 lo IARC, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, legata all’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), lo ha inserito nella lista delle sostanze “probabilmente cancerogene” (gruppo 2A).

Nonostante queste preoccupazioni, lo scorso mese di novembre, l’Unione europea ha rinnovato l’autorizzazione al suo impiego in agricoltura. Una scelta che ha fatto felici gli azionisti della Monsanto, che oggi produce il glifosato (mentre ieri produceva il DDT), ma che lascia perplessi e preoccupati noi consumatori. Diciassette sono i Paesi della UE che hanno votato a favore del rinnovo all’autorizzazione all’uso in agricoltura dell’erbicida, mentre nove sono stati i contrari: Italia, Belgio, Grecia, Francia, Ungheria, Cipro, Malta, Lussemburgo e Lettonia. Astenuto il Portogallo. Contro si è espressa in modo particolare la Francia, che attraverso il suo rappresentante ha affermato: ‘Il glifosato è un prodotto potenzialmente a rischio per la salute, per l’ambiente e la biodiversità’.

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Ricerche sono state fatte per verificare la presenza di residui dell’erbicida negli alimenti, visto che si è riscontrata la sua presenza nell’urina delle persone, così come nel latte materno. Il Test-Salvagente ha effettuato le prime analisi nel nostro Paese su 100 alimenti a base di cereali (e sull’acqua potabile), rilevando tracce di glifosato nella pasta e in altri prodotti come fette biscottate e corn flakes. Anche nell’acqua potabile sono state rilevate tracce e in due casi la concentrazione era superiore ai limiti di legge. Eppure, scrive il mensile Il Salvagente “nessuna Regione italiana analizza la presenza di glifosato e del suo metabolita Ampa nelle acque potabili, nonostante le raccomandazioni comunitarie”. Nella decisione europea hanno prevalso ancora una volta gli interessi dell’industria agrochimica, senza nessun rispetto del principio di precauzione e senza preoccuparsi di ulteriori approfondimenti.

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Se questa prima notizia ci lascia perplessi e preoccupati, c’è però un’interessante conferma che ci giunge da uno studio promosso da Federbio. “Bastano due settimane di una dieta a zero pesticidi per abbattere e in alcuni casi azzerare il contenuto di inquinanti nelle urine di una famiglia italiana. Madre, padre, due bambini di 7 e 9 anni: per tutti loro, per quasi tutte le sostanze chimiche analizzate, si passa da livelli di contaminazione alti a quantità molto basse e spesso sotto i limiti di rilevabilità. La “decontaminazione” ha funzionato per alcuni degli insetticidi più utilizzati dall’agricoltura convenzionale (clorpirifos e piretroidi) e per il glifosato, l’erbicida contro cui si è mobilitata l’opinione pubblica e una parte della ricerca a livello europeo e non solo”. “Un’indicazione importante continua ancora Federbio – del fatto che la chimica contenuta negli alimenti da agricoltura convenzionale anche in presenza di cibi che rispettano le soglie stabilite di fitofarmaci, come capita nella maggior parte dei prodotti consumati in Italia rimane e si accumula nel nostro corpo, con conseguenze che ancora non sono state totalmente studiate e comprese”. Abbiamo, dunque, la facoltà di scegliere e mangiare bio fa bene alla nostra salute e a quella dell’ambiente!

Ignazio Garau

Presidente Italiabio

 

Scusi, è qui la sezione comunista?

Un inverno così non lo ricordavamo da un pezzo. Dall’arco dei monti alle spalle di Biella, dal Mucrone e dal Bo, dalla punta Tre Vescovi e dal colle della Vecchia, scendeva in quei giorni l’alito gelido di un vento che faceva intirizzire al solo pensiero di chiudersi alle spalle l’uscio di casa per affrontarne le folate. Di neve ne era venuta ma, per essere la metà di dicembre , a dire il vero, nemmeno poi tanta se si paragonava alle nevicate di qualche anno prima. Nella sede del PCI faceva un freddo cane nonostante le due stufe a kerosene viaggiassero a pieno regime. Ma ci voleva ben altro per scaldare i locali al 41 di via Trieste  dove erano stati trasferiti gli uffici che un tempo erano  ospitati nella “casa del partito” di via Eugenio Bona. La gloriosa Federazione “biellese e valsesiana” contava sedi in quasi tutti i paesi, da Alagna – ai piedi della parete sud del Monte Rosa – fino a Viverone, sulle rive dell’omonimo lago. Del resto non era stato Togliatti a esprimere l’auspicio che  “si aprisse una sezione in ogni luogo ove ci fosse un campanile“? E non era forse stato Giorgio Amendola, qualche anno dopo, ad affermare soddisfatto “siamo dappertutto”? E allora bisognava andare su e giù per il territorio, incontrare compagni, promuovere il proselitismo, fare riunioni e comizi, organizzare feste de l’Unità. Bisognava prestare attenzione alla formazione dei quadri politici del partito, estenderne l’influenza nelle amministrazioni locali, rafforzare il movimento sindacale. Insomma, una mole di lavoro da lasciare senza fiato. Così, in vista dell’imminente avvio della nuova campagna di tesseramento, si decise d’inviare due giovani ma già esperti compagni a tenere due riunioni a Roppolo e Viverone, ai confini con il territorio che cadeva sotto la giurisdizione politica dei comunisti torinesi. Il più anziano dei due aveva meno di trent’anni, funzionario del partito con in tasca una laurea,  ed era di Borgosesia. L’altro, di quattro anni più giovane, nativo di Portula, era stato operaio alla Bozzalla e Lesna di Coggiola, una delle aziende tessili più importanti della Valsessera. Ora, anch’egli, aveva scelto la vita del “rivoluzionario di professione”. Partirono un pomeriggio da Biella a bordo di una vecchia e un po’ scassata Prinz del 1968 , di proprietà del valsesiano, con la quale avevano percorso migliaia di chilometri, girovagando tra una sezione e l’altra. C’era nebbia già a quell’ora. Uno di quei nebbioni che si tagliavano con il coltello da tanto si presentavano densi, compatti. Un muro grigio. Tra Biella e Gaglianico pareva di viaggiare nell’ovatta e così fu per i circa venti chilometri o poco più che separavano i due da Roppolo. Sandigliano, Boscazzo, Vergnasco..le località scorrevano con una lentezza esasperante, imposta dalla prudenza che, quando si guida in queste condizioni, non era mai troppa. A Salussola sembrò che la nebbia si diradasse ma era un’illusione. Pochi istanti, il tempo di tirare il fiato e la speranza di poter accelerare un po’ s’infranse nuovamente su quel muro grigio e umido. Dorzano, Salomone e, finalmente, le prime case di Roppolo. Erano le 17,30 e all’osteria dei Cavalcanti, nei pressi delle mura del Castello medioevale che s’innalzano in tutta la loro severa mole , li aspettava il segretario della sezione “Primo Maggio”, il compagno Augusto Tremolanti, detto “Gùstin il rosso”. Tra la consegna delle nuove tessere e dei Quaderni del Partito, formidabili strumenti non solo di propaganda ma di vera e propria formazione culturale, passò più di un’ora. Gùstin rese conto dell’attività dei comunisti locali e, incamerati i complimenti dei due dirigenti della Federazione, offrì loro un bicchier di vino, accompagnadolo con delle larghe fette di polenta, formaggio e salame. Consumata la frugale cena, ripartiromo alla volta di Viverone, sul lago. Per chi non lo sapesse, il lago di Viverone è situato nell’anfiteatro morenico d’Ivrea , ed è il secondo lago di origine glaciale in Italia per dimensione, dopo quello del Garda. Per chi vi abita è motivo di vanto anche se, nel vederlo con il bel tempo, paragonarlo al Garda o agli altri laghi piemontesi del nord lascia un po’ perplessi. La Prinz ansimava, procedendo a passo d’uomo nella coltre fitta della nebbia che, semmai fosse possibile, diventò ancora più spessa, obbligando il conducente a strizzare gli occhi per scorgere qualcosa in quella nebbiaccia che impediva quasi di scorgere il ciglio della strada. Enzo – il valsesiano – chiese al più giovane  Willy di metter fuori la testa dal finestrino e controllare che l’auto non finisse in qualche fosso. Potete immaginare l’allegria di quest’ultimo che, imprecando, scrutò il bordo della strada, suggerendo le manovre ( “più a sinistra! Così.. vai che va bene. No, attento, c’è un cordolo..Occhio, sta più al centro che c’è una cunetta”). Senza sapere che strada avessero imboccato si ritrovarono nello spiazzo prospicente al porticciolo. Fermata l’auto, i due – un po’ per la tensione, un po’ per il freddo – scesero per fare pipì nel lago. “ Eh, Willy. Attento che questa zona del lago è frequentata dai Quattrocchi, dagli Svassi e dalle anatre tuffatrici”, dice Enzo, ridendo. “ “E quindi? Qual è il problema? Non si possono fare i propri bisogni qui?”, risponde l’altro. “Oh, per farli li puoi fare. Stai solo attento a non fartelo beccare”, e giù a ridere mentre Willy lo mandò a quel paese. Rientrati in auto il problema era come raggiungere la Sezione che si trovava in paese. Nessuno dei due vi aveva mai messo piede ed entrambi non avevano la minima idea di come trovarla. L’indirizzo non l’avevano preso perché , come rispose Enzo al compagno Tornelli, responsabile provinciale della stampa e propaganda, “cosa vuoi mai che sia..Viverone non è mica Biella o Vercelli. Ci hai detto che è ai margini del paese, vicino al Circolo, no? Quando saremo lì chiederemo all’oste o a quelli che troveremo”.  Tutto bene, salvo un particolare: dov’era il Circolo di Viverone? Riguadagnata a fatica la strada principale dopo una breve salita s’accorsero che non c’era in giro anima viva. Le poche case erano buie. Nemmeno un lumino acceso dietro alle finestre che sembrano occhi chiusi, con gli scuri serrati. I pochi lampioni diffondevano una luce fioca, vaporosa. La nebbia , come per magia, distorceva tutto e lasciva nell’aria un odore di muschio e caligine come fosse fumo dei camini. Ma dov’era mai questo Circolo? E a chi chiedere informazioni? In Sezione il telefono non l’avevano ( figurarsi..con i loro trenta iscritti, compresi quei sette o otto che venivano da Azeglio, era già tanto se riuscissero a pagare l’affitto dei due locali della sede). E poi, anche se l’avessero avuto, di cabine telefoniche non ne avevano intravista nemmeno una. Girarono e rigirarono per più di un’ora, a passo d’uomo, con una lentezza esasperante quando incrociarono una piccola costruzione dove s’intravedeva una flebile luce provenire dalle fessure della porta. “Dai, Willy. Prova a bussare e chiedi dov’è la sezione comunista che magari lo sanno. Anzi, magari è proprio lì”, disse Enzo. Ma Willy rifiutò categoricamente. “Eh,no. Questa volta vai giù tu che io mi sono fatto venire la cervicale a tener la testa fuori dal finestrino con questo freddo del boia”. Era irremovibile e, seppur malvolentieri, Enzo si alzò il bavero della giacca e scese dall’auto. La casetta era piccola, sembrava quasi un capanno. Giunto davanti alla porta, bussò. Dall’altra parte si sentivano dei suoni, ma più che voci parevano grugniti.  “C’è nessuno?”, disse Enzo, alzando la voce. Non ottenendo risposta se non il solito verso, afferrò la maniglia e provò ad aprire. La scena che vide lo lasciò di stucco. Un signore piuttosto anziano, con i pantaloni calati, era accovacciato su un gabinetto alla turca. Si guardarono perplessi ed Enzo, imbarazzato, disse balbettando la prima cosa che gli passò per la testa: “ Scusi, è qui la sezione comunista?”. Quello, visibilmente irritato, risponde “No, è la sezione socialista. E adesso vai fuori dalle balle che devo finire..”. Enzo richiuse in fretta la porta e, raggiunta l’auto, salì mettendola in moto. Willy gli chiese come mai tanta fretta e se avesse ottenuto le informazioni necessarie . La risposta di Enzo fu categorica, tale da non ammettere repliche: “No, mi hanno fatto capire che è meglio tornare a Biella. In questa nebbia la sezione non la troveremo mai. E quelli lì della casa hanno altro da fare e  non sembrano dei compagni”. Così terminò, non certo in gloria, la missione dei due sul lago di Viverone.

Marco Travaglini

I genitori oggi

I bambini di oggi ubbidiscono meno o sono i genitori che sono “formattati” diversamente? Correva il tempo in cui bastava uno sguardo del papà o un accenno della mamma per arrivare alla massima dichiarazione di ubbidienza. L’epoca del “facciamo i conti a casa” per ristabilire l’ordine delle cose, per tranquillizzare quel caos a cui da piccolo avevi provato a dare forma, poiché la famiglia non è una democrazia o almeno non lo era. La famiglia che fu era necessariamente funzionale. Deve esserci un tempo in cui qualcuno decide per noi quando, ad esempio, siamo troppo piccoli e non in grado abbastanza da badare a noi stessi in modo autonomo. Dunque, in passato, veniva applicata, tra le mura domestiche, una logica dittatoriale che passava dalle cucchiarelle di legno della mamma, durante il giorno, agli scapaccioni del papà di ritorno dal lavoro la sera. Una dittatura sana, pragmatica, con ruoli educativi divisi e assegnati, alla mamma l’aspetto accudente, emotivo ed organizzativo domestico, al papà il ruolo di rappresentante delle regole sociali, con qualche scivolata in timide carezze. Un sistema famiglia che si autodefiniva e autodeterminava come nucleo definito, chiaro e distinto. Nessuna confusione sul chi faceva cosa e sul come, né di livello dappartenenza. I genitori erano genitori a quel modo, ed i figli anche. I genitori si percepivano anche quando non c’erano e non tramite whatsapp o un tablet sul tavolo di una pizzeria. I tempi,   però, sono cambiati, è vero. Non ci sono più i genitori di una volta. Non ci sono più le cose di una volta e ce ne sono indubbiamente molte altre. In alcuni punti della casa c’è più segnale, in altri meno, in alcuni punti della città il telefono prende anche a batteria quasi scarica, in altre hai zero tacche sullo schermo, e allora? E allora non tutte le tecnologie presenti, se, da una parte, alleggeriscono il movimento materiale dello scambio informativo e sociale, abbreviandone pragmaticamente soprattutto i tempi, purtroppo possono ricoprire funzioni genitoriali alleggerendone la responsabilità d’impegno che ne deriva. Da questa non ci si può sottrarre nel momento in cui si diventa genitori. Ed è così, che piaccia o meno. Il wi – fi non può sostituirsi a mamma e papà. Per crescere servono mamma e papà presenti, credibili, caldi, in accordo tra loro, almeno di fronte ad un rimprovero o ad un encomio, solidi, autorevoli, intatti, indipendenti dalla tecnologia. Genitori che distribuiscono parole e regole funzionali ad una vita sana, in famiglia e fuori. Il perché delle regole che, a volte, sentiamo tutti come un limite? Per evitare il caos, il libero arbitrio di un bambino o di una bambina di magari dieci anni che vuole andare a dormire alle 3 di notte o cenare con le patatine.

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Bambini moderni, ma pur sempre bambini. Il tempo di sviluppo del cervello, tecnologie intuitive a parte, porta con sé i desideri dei bambini omogenei e rivolti verso il dolce, lo zucchero, lo snack, il deviante spesso dal “noiosamente raccomandato” per una buona salute, a prescindere dall’epoca storica di riferimento.Tutto ciò unito alla voglia del nascituro di affermazione della propria identità, rispondendo ed urlando spesso i proprio “no” a ciò che gli viene, più o meno, educativamente detto di fare da chi si prende cura di lui. E dunque chi si dovrebbe, in primis, responsabilmente porre dinanzi a preservare un giusto sviluppo integrativo, sociale, cognito e psicologico’? I Genitori! Prima i genitori parlavano poco e tu ascoltavi molto spesso quasi impaurito. Oggi chattano molto, parlano quasi niente e tu ascolti poco quasi divertito. Allora chi ubbidisce più? Niente dialogo, niente ascolto, ma improvvisazione pura. Estemporanea educazione gestita lì, sul momento, a caso, quello che viene, viene. Un lavoro frettolosamente veloce e rapido il genitore di oggi, con molto meno tempo, molte più distrazioni e tanta frustrazione individuale in più. Cosa resta così? Molto poco, quasi niente. E allora non è raro incontrare famiglie con bambini che “starnazzano” senza nessun tipo di linearità, magari soltanto perché stanno urlando il loro bisogno di contenimento, il loro bisogno “di sentire i genitori” e dall’altra parte genitori, appunto, distratti, persi su una tastiera a controllare notifiche e batteria. C’è campo, non c’è campo. Ed usano, per tenere a bada i figli, quella tecnologia in grado di ipnotizzare, quasi anestetizzare la coscienza umana. Il tablet o il cellulare ed i suoi giochini. Forse perché pensano “se distrae me magari funziona anche con mio figlio e forse la smette di richiedere la mia attenzione”.

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Distratti noi, distraiamo anche i nostri figli da un loro vitale bisogno primario e vitale di presenza genitoriale. Genitori alla ricerca di “campo” con la famiglia senza un “capo” di riferimento. A batteria esaurita poi, tutti a casa perché l’anestetico tecnologico non dura per sempre e, nel momento in cui si spegne, come si gestisce poi un rapporto via cavo. E’ complicato, impegnativo ed emotivo essere genitori. Forse oggi servirebbero giornate che durano il doppio, che aumentano di spazio come gli schermi delle nostre “protesi” tecnologiche. Spesso l’allontanamento dalla casa e dall’educazione è dato dall’elevato e faticosamente tollerabile peso da stress lavorativo correlato. I ritmi lavorativi attuali sono molto più accelerati rispetto al passato, è tutto più veloce e deve essere tutto quasi immediato. Non è facile essere genitori oggi, ma non è neanche difficile prendere coscienza del fatto che sulla terra, sulla luna, cento anni fa o quarant’anni dopo, i bambini sono bambini e per almeno un po’ del loro tempo di vita avranno sempre, per sempre, necessità delle stesse esigenze emotive e affettive, perché nessuno cresce particolarmente sano senza la presenza di qualcun altro che se ne prende cura, e chi lo fa porta comunque dentro una sofferenza, un vuoto immane. Dunque i telefoni facciano i telefoni, ed i genitori i “Genitori”, partendo dalla consapevolezza che nessun genitore è perfetto e non deve esserlo, ma deve semplicemente “esserci” per i propri figli.

 

 

Dott. Davide Berardi, Psicologo – Psicoterapeuta

Psicologo, Psicoterapeuta ad Indirizzo Relazionale Sistemico, Docente Corsi di Accompagnamento al parto, Psicologo della riabilitazione e del sostegno nella terapia individuale e familiare, Terapeuta del coraggio emotivo.

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