Torino e la Scuola
1“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati. Come i greci e i latini ci hanno insegnato “la scuola”
Una delle prime raccomandazioni che Geppetto fa a Pinocchio è di comportarsi bene e di andare a scuola, ma quanto sarà arduo per il burattino portare a termine questa elementare impresa! La favola di Collodi racconta che il bambino di legno si avvia verso la meta prestabilita, con tanto di quaderno e sussidiario, ma subito incontra diverse distrazioni che lo allontanano dalla sua destinazione: si tratta ovviamente di una metafora sulla strada della vita, lungo la quale sono molti gli ostacoli che dobbiamo superare. L’impresa che Pinocchio deve affrontare è in realtà quella di crescere, egli infatti incontrerà sul suo percorso persone malvagie e individui buoni, dovrà imparare a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, finché, una volta divenuto responsabile e saggio, capirà qual è la via giusta da percorrere e potrà infine vedere esaudito il suo desiderio più grande.
Vi è un altro episodio, all’interno della stessa narrazione, che sottolinea l’importanza attribuita dallo scrittore fiorentino al tema dello studio: il capitolo riguardante il Paese dei Balocchi.
Questa volta l’ingenuo protagonista si ritrova in un luogo dove tutto appare meraviglioso, i bambini giocano incessantemente da mattina a sera, addirittura possono fumare, bere e rompere le cose (una scena della versione disneyana mostra anche la distruzione del celebre dipinto della “Gioconda”), ma non tutto è come sembra. I fanciulli a furia di divertirsi e basta si trasformano in asini, e, una volta divenuti bestie, vengono venduti per lavorare nei campi. Il messaggio è crudo e drammatico ma ancora una volta molto chiaro: la mancanza di istruzione porta alla schiavitù.
Ma quanti sono i bambini che da sempre piagnucolano per non voler andare a studiare in classe?
Non c’è niente da fare, nessuno, dall’albore dei tempi, è mai stato contento di svegliarsi presto per andare a farsi interrogare, eppure a scuola bisogna andarci.
L’ultimo drammatico periodo pandemico ci ha fatto sicuramente aprire gli occhi su quanto le istituzioni scolastiche siano essenziali. Mai come negli ultimi mesi si è sentita così tanto pronunciare la parola “scuola”.
Ma, nonostante tutte le riflessioni fatte, se vi si chiedesse “a cosa serve andare a scuola?” cosa rispondereste?
Ricordo che una volta incontrai un mio professore del liceo, chiacchierando mi disse che la scuola è quella cosa che rimane invariata mentre il resto cambia e si trasforma; non capii all’epoca il senso della sua affermazione, non mi trovai d’accordo con lui, poiché, come ben si addice ad una giovane studentessa, pensavo che la didattica dovesse modificarsi con il passare delle epoche, adattarsi agli studenti e scrollarsi di dosso un po’ di “vecchiume”.
Ebbene, ora che sto tentando di passare dall’altra parte della barricata, sento di aver cambiato idea, o, quantomeno, di aver compreso che la questione è assai complessa.
Forse, distratti dalla frenesia costante della vita contemporanea, ci siamo dimenticati del vero motivo per cui è necessario ed essenziale che gli studenti si siedano dietro i soliti banchi sgangherati, all’interno di aule pregne di spifferi. Vediamo se riusciamo a ricordarcelo.
Per prima cosa credo sia importante partire dall’etimologia di alcuni termini, come, appunto, “scuola”: “pop. o poet. scòla s. f., lat. schŏla, dal gr. σχολή, che in origine significava (come “otium” per i Latini) libero e piacevole uso delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e più tardi luogo dove si attende allo studio” (Enciclopedia Treccani). Già con questa definizione potremmo ritenerci sufficientemente soddisfatti: a scuola si va per ricevere un’educazione. Ma allora che cosa significa “educare”? Il termine ha una doppia derivazione latina, esso si riconduce sia a “ex duco” ossia “tiro fuori”, sia a “educo”, cioè“conduco”. Ed è proprio qui che sta l’inghippo: dalla duplice significazione del termine derivano anche due differenti modelli pedagogico-educativi. Appurato dunque che la scuola serve ad educare, ora è quindi necessario capire “come” farlo: è meglio l’esempio della “paideia” (“sistema educativo”) di Socrate o quello platonico tanto caro alla patristica medievale? È più giusto che il maestro ricopra il ruolo di stimolatore, come si evince dal romanzo didattico “Emilio” di Rousseau o è preferibile che colui che insegna sia una vera e propria guida, e che educhi il discente alla moralitàattraverso la ragione, come diceva Kant? Ha più senso un tipo di apprendimento laboratoriale o uno basato sull’accumulare nozioni?
Il “file rouge” che lega l’evoluzione della storia delle istituzioni scolastiche è proprio questo dualismo di metodologie pedagogiche, l’una incentrata sulla libertà dell’educando e sull’importanza dell’esperienza e l’altra invece a sostegno dell’autorità dell’educatore, unico detentore della verità.
Ma partiamo dall’inizio. Chi l’ha inventata questa scuola così tanto “mal voluta”? Ancora una volta è colpa dei greci. La civiltà europea nasce dalla civiltà greca, e da questa ha innegabilmente ricevuto le forme essenziali del pensiero e dell’espressione.
Nel lontanissimo 594 a.C., l’arconte Solone promulgò alcune leggi che disciplinavano le attività scolastiche. E chissà se già all’epoca i piccoli scolari erano soliti inventarsi pestiferi stratagemmi per ingannare le madri al fine di scampare all’interrogazione di matematica?
Altre testimonianze dell’esistenza di un sistema d’istruzione sono costituite da ritrovamenti di cocci di vasi risalenti al VI secolo a.C., rinvenuti ad Atene; tali reperti sono essenziali per comprendere che il saper scrivere era, almeno nella polis egemone, un’abilità ordinaria.
Vi sono altri reperti, risalenti al V secolo, di vasi a figure rosse che ritraggono specificatamente scene di vita scolastica, con alunni che imparano a leggere e scrivere. In realtà le informazioni sul reale funzionamento del sistema scolastico sono assai poche. Sappiamo che i ragazzi (pare non ci fossero scuole femminili) erano istruiti in ginnastica da un “paidotribes”; in musica (cioè a eseguire pezzi cantati con accompagnamento di cetra) da un “chitaristes”; a leggere e a scrivere da un “grammatistes”. Secondo Platone (“Protagora 325e), il “grammatistes” “poneva davanti a loro sui banchi i carmi di maestri della poesia da leggere e da imparare a memoria”. Si può dedurre che tali istituzioni non fossero statali, poiché “i figli dei ricchi”, secondo il “Protagora” di Platone, “sono i primi a intraprendere gli studi nelle scuole, e gli ultimi a uscirne”. L’ istruzione elementare non era obbligatoria, non di meno lo stesso Aristofane (il grande commediografo greco, V-IV sec. a.C.) afferma che perfino i cittadini più disagiati, anche se non potevano permettersi di studiare musica e poesia con un “kitaristes”, a leggere e a scrivere in qualche modo imparavano. Gli studenti più piccoli trascorrevano i primi cinque anni del percorso scolastico con il “grammatistes”, un vero e proprio “maestro elementare” che insegnava loro dapprima l’alfabeto, poi le sillabe, poi le parole intere, con la corretta suddivisione in sillabe. I papiri ci testimoniano i mille esercizi di copiatura e di scrittura sotto dettato. I testi scelti per la copiatura erano lineari, ma ricchi di contenuto morale, favole, racconti su figure illustri della storia o del mito. La seconda fascia scolastica interessava i ragazzi fra i dodici e i quindici anni, i quali, sotto la guida del “grammatikos”, imparavano ad esercitarsi nella lettura e nel comporre. La materia base di questi specifici anni scolastici era la poesia, materia assai importante, che forniva agli studenti conoscenze mitologiche, geografiche, storiche, associate alla comprensione delle regole grammaticali e stilistiche. Vi erano poi i “gymnasia”, dove i discenti erano seguiti da docenti di retorica e filosofi.
Lo schema educativo greco venne ripreso a Roma, anche se qui la questione sembra complicarsi ulteriormente. La scuola romana èsuddivisa in tre momenti differenti: dai sette ai dodici anni, dai dodici ai sedici anni e infine dai diciassette ai vent’anni.
I primi anni di formazione sono affidati al “magister ludi”, il “maestro di gioco”, che ha il compito di insegnare a leggere e a scrivere e a fare i calcoli più semplici. Accanto a tale figura vi è il “paedagogus”, “pedagogo”, lo schiavo greco incaricato di accompagnare a scuola i bambini (e anche i ragazzi più grandi), in tal modo il giovane era costretto ad assimilare perfettamente la lingua greca. Segue poi la scuola del “grammaticus”, in questi anni le materie di studio aumentano e diventa centrale l’approfondimento dei testi poetici e il loro commento. Gli studenti affrontano anche le prime esercitazioni retoriche, ad esempio composizione di favole di tipo esopico, e brevi e semplici composizioni moraleggianti. Altre materie erano la musica, la geometria, la recitazione e la ginnastica.
Avanzando nel percorso scolastico, spiccano gli insegnamenti di retorica, diritto e filosofia.
Lo sviluppo delle scuole retoriche viene tenuto in gran considerazione, soprattutto sotto i Flavi, a tal proposito è bene ricordare il noto provvedimento di Vespasiano di assegnare uno stipendio statale annuo di 100.000 sesterzi ai retori di Roma, con lo scopo di fare dei giovani usciti dalle scuole dei funzionari imperiali capaci di valorizzare la loro azione di governo con l’aiuto dell’eloquenza. I punti fondamentali dell’insegnamento retorico erano i seguenti: esercizi preliminari; insegnamento sistematico dei cinque momenti competitivi dell’oratoria: “inventio”, “dispositio”, “elocutio”, “memoria”, “actio”; “declamatio”, “recitazione a memoria”, da parte di ogni discepolo, di orazioni da lui preparate sotto la guida del docente. La scuola di diritto rappresenta la sola innovazione originale latina rispetto all’insegnamento greco. Alla sua base sta la grande tradizione e sensibilità giuridica romana, potenziata e approfondita dalle esperienze filosofiche del mondo greco.
La storia del sistema scolastico è assi lunga e complessa e nei prossimi articoli di questo ciclo che ho voluto dedicare al tema dell’istruzione e della scuola ne ripercorrerò le tappe fondamentali attraverso i vari periodi storici.
Che dire ancora? Volenti o nolenti da sempre la scuola bisogna frequentarla, e da sempre dapprima non ci si vuole andare e poi la si rimpiange. Ad un certo punto poi la scuola finisce ed inizia la vita vera e propria, e alla domanda “a che cosa serve la scuola” ognuno risponderà a modo suo.
Alessia Cagnotto