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Le torte di Torino: una città da gustare morso dopo morso

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Scopri – To alla scoperta di Torino

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Passeggiare per Torino significa anche lasciarsi tentare da profumi e sapori che si diffondono dalle sue caffetterie più caratteristiche. In alcuni angoli del centro e nei quartieri più vivaci si celano piccole meraviglie artigianali, dove il dolce diventa esperienza. C’è un mondo fatto di glassa, burro, impasti profumati e farciture inattese che merita di essere raccontato. Tra le varie realtà che animano la scena cittadina, alcune si distinguono per originalità e cura. Ecco un itinerario del gusto che parte dal cuore di Vanchiglia, attraversa Via Po e tocca un’altra tappa immancabile per gli amanti delle torte fatte come una volta. Un viaggio che non è solo gastronomico, ma anche estetico e affettivo: i luoghi del dolce raccontano storie di città, di passioni e di mani che lavorano con dedizione ogni giorno.
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Caffè Cesare: dolci che raccontano storie
In Via Vanchiglia 9, in una zona che mescola anima studentesca e atmosfere retrò, Caffè Cesare non passa inosservato. Il bancone è un invito continuo alla curiosità, e appena si entra si capisce che qui la pasticceria non è solo una questione di ricette, ma di cultura del gusto. La proposta è sorprendente e variegata, a cominciare dagli alfajores: due biscotti friabili uniti da un generoso strato di dulce de leche, rifiniti con una leggera spolverata di cocco. Un omaggio alla tradizione argentina, che conquista chiunque abbia voglia di provare qualcosa di autentico e diverso.
Ma non finisce qui. La Charlotte all’ananas, elegante nella sua semplicità, è una proposta che pochi conoscono ma che lascia il segno. C’è poi il matcha fresco con fragole pestate, che affianca profumi orientali alla freschezza della frutta, in un contrasto perfettamente bilanciato.
Chi ama le ricette più familiari potrà invece contare su una carrot cake che non tradisce, oppure tuffarsi tra muffin per ogni gusto e palato. Ogni settimana spuntano anche novità fuori menu, che rispecchiano la stagionalità e l’inventiva dello staff.
La vera firma della casa però sono i Crumbl Cookies. Chi entra una volta per provarli, ritorna. Grandi, friabili, burrosi: esistono in infinite combinazioni, come se ogni gusto fosse una tappa di un viaggio. Dal classico cioccolato, passando per cheesecake, red velvet, Lotus, caramello salato, fino al pistacchio, la scelta è praticamente infinita. Qui non si parla di semplici biscotti, ma di piccoli dessert da assaporare con lentezza. Il tutto accompagnato da bevande che escono dalla consuetudine: chai latte profumato, cinnamon caldo e speziato, oppure una lemon cake da gustare con il tè del pomeriggio. Anche il cappuccino ha un tocco personale, decorato con disegni di latte art che rendono ogni tazza un piccolo quadro da bere.
Caffè Cesare è un luogo dove sedersi a leggere, chiacchierare, studiare o semplicemente lasciarsi coccolare da un profumo che cambia ogni giorno. L’arredamento semplice ma curato, i tavolini in legno e la luce naturale che filtra dalle grandi finestre rendono questo posto una seconda casa per molti.
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Caffetteria Clarissa: eleganza, torte e feste sotto i portici
Spostandosi verso il centro storico, in Via Po, la Caffetteria Clarissa si rivela un’altra tappa imperdibile. Un locale dall’anima sontuosa, arredato in tonalità rosso scuro che evocano ambienti retrò, ma mai superati. L’atmosfera è intima, raffinata, ideale per una pausa ma anche per qualcosa di più: qui infatti si organizzano feste di laurea, compleanni e incontri privati nelle sale interne, che assicurano privacy e uno stile unico.
Le torte di Clarissa hanno una personalità precisa: artigianali, curate nei dettagli, con ingredienti selezionati e combinazioni equilibrate. Che si tratti di una classica Sacher, di una millefoglie rivisitata o di una torta moderna al cioccolato e lamponi, ogni fetta racconta una ricerca e un amore per la pasticceria fatta con passione. Il personale accoglie sempre con un sorriso e sa consigliare chi cerca qualcosa di particolare per una ricorrenza o semplicemente per sé. L’attenzione al cliente è un altro ingrediente che fa la differenza.
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Berlicabarbis: l’altra dolce faccia di Torino (FOTO DI COPERTINA)
Infine, non si può concludere un giro tra le torterie di Torino senza citare Berlicabarbis. Il nome è già una dichiarazione d’intenti, un richiamo al dialetto piemontese che promette dolcezza. Qui le torte sono protagoniste assolute: alte, colorate, spesso scenografiche. I gusti variano a seconda delle stagioni e dell’ispirazione del momento, ma ciò che non cambia è la sensazione di casa che si respira appena varcata la soglia.Berlicabarbis è un rifugio per chi cerca una pausa sincera, un luogo che mette d’accordo amanti della pasticceria classica e fan delle novità. Tra cheesecake, crostate, torte di mele, red velvet e brownies, si può passare un pomeriggio senza accorgersi del tempo che scorre. Il locale ha anche una vena giocosa, con arredi colorati e citazioni sparse qua e là, che lo rendono perfetto per chi ama un tocco di originalità. Non è raro vedere clienti scattare foto alle vetrine prima ancora di ordinare: qui anche l’occhio vuole la sua parte.
In queste tre caffetterie Torino si racconta attraverso il dolce. Ogni torta è un gesto, una piccola forma di accoglienza, un invito a fermarsi. In un mondo che corre veloce, i profumi che escono da questi forni ci ricordano che a volte basta un biscotto ben fatto per cambiare il ritmo della giornata. E in una città che unisce tradizione e innovazione, sedersi davanti a una fetta di torta è anche un modo per sentirsi, per un attimo, nel posto giusto al momento giusto.
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NOEMI GARIANO

Mele al forno: sapori e ricordi d’infanzia

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Le mele cotte evocano ricordi e profumi d’infanzia, un comfort food della stagione invernale. Non necessitano di elaborate cotture, sono buone cosi’, nella loro semplicita’, un alimento prezioso per il nostro organismo per le loro spiccate proprieta’ benefiche. Di facile digestione rappresentano un dessert ideale per tutti, sia per un fine pasto che per una dolce merenda.

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Ingredienti
 
4 grosse mele
La scorza di un limone
Una noce di burro
Poco vino bianco secco
2 chiodi di garofano
2 cucchiai di zucchero di canna
Un pizzico di zenzero in polvere
Un pizzico di cannella
Poca acqua
 

Lavare e asciugare bene le mele, sistemarle in una pirofila da forno, versare un dito di acqua e il vino bianco, aggiungere la scorza del limone, i chiodi di garofano e cospargere le mele con la cannella, lo zenzero, lo zucchero di canna e un poco burro. Cuocere a 200 gradi per circa 30 minuti o sino a quando il liquido  e’ diventato uno sciroppo caramellato.

Paperita Patty

L’ombrello e l’anguilla

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Non tanto alto, uno sguardo furbo e due gote belle rosse,Faustino non possiede “quarti di nobiltà”. Anche di sangue blu, nelle sue vene, non c’era traccia. Ma il suo doppio cognome – Giulini-Nobiletti – con quel trattino nobiliare può trarre in inganno. Quel trattino non era altro che un aggiunta posticcia, frutto di un errore dell’impiegato dell’anagrafe che aveva registrato l’atto di nascita aggiungendo al cognome paterno anche quello materno, separando l’uno dall’altro con un tratto di penna. Così, negli atti ufficiali e col tempo, la svista si affermò come la più reale delle realtà, con buona pace di tutti e di Fausto Giulini-Nobiletti per primo. L’errore non poteva però esser definito tale al cospetto del signor Francazzali, impiegato comunale con trent’anni e più di onorato servizio sulle spalle. Di fronte alla segnalazione del refuso, senz’altro frutto di una svista, s’irrigidì come uno stoccafisso: “Qui di errori non se ne fanno e non se ne sono mai fatti, chiaro?”. Non ammettendo, Eugenio Francazzali, alcuna possibilità di replica, la cosa finì lì. Di tempo,da allora, ne è trascorso tanto, praticamente una vita intera, e a parte l’essere riconosciuto come uno dei più accaniti giocatori di scopa d’assi della zona, il buon Giulini-Nobiletti, da tempo in pensione, è noto anche come il più formidabile pescatore d’anguille che si sia mai visto all’opera sul lago Maggiore. La zona dove “praticava” si estendeva lungo quel tratto di costa della sponda piemontese del Verbano che va tra la foce del Toce e il “molino di Ripa”, a Baveno. Nella pesca all’anguilla era facilitato, per così dire,  da un problema che da oltre vent’anni lo tormentava: l’insonnia. Dato che l’anguilla si pesca di notte, affondando la lenza nell’acqua scura come la pece, Faustino era avvantaggiato da quell’assenza di sonno nelle ore dedicate al riposo. Così, vigile e attento, per far passare le ore, pescava. A volte senza successo,  tornando a casa a mani vuote, lamentandosi con quelli che incontrava. La “solfa” era sempre la stessa. “L’Anguilla è in calo, vacca boia. E’ un po’ di  tempo che le cose vanno in malora. Tutte le anguille sono nate nel Mar dei Sargassi, l’unico posto dove si riproducono. Devono migrare, capito? Và di qui e và di là, l’anguilla. Un viaggio da Marco Polo. E, mondo ladro, adesso ci sono quelle dighe che regolano i livelli dell’acqua lungo il Ticino a rompergli le scatole, in particolare quella di Porto della Torre, tra Somma Lombardo e Varallo Pombia. Ecco, quella lì è diventata la linea del Piave per le anguille: da lì se pasà no! E se non si riproducono, io cosa pesco? Le scarpe vecchie e i barattoli arrugginiti?”.

 

Tra l’altro non è una pesca facile. Essendo l’anguilla un pesce potente e lottatore, occorre attrezzarsi a dovere. La canna? Con il cimino rigido, robusto e un mulinello in grado di ospitare una bobina di nylon di grosso spessore. La montatura dov’essere resistente, da combattimento: lenza dello 0,30 ,  amo del sette a gambo corto o del sei, forgiato storto, e un bel piombo a pera da 20 grammi. La ferrata non può essere incerta, balbettante. Non s’indugia, con l’anguilla: occorrono decisione e rapidità. Anche il recupero dovrà essere fatto nel modo più veloce possibile per evitare che l’anguilla riesca ad afferrarsi con la coda a qualche ostacolo sott’acqua, ancorandosi. A quel punto, ciao bambina: non la tiri fuori più neanche con il crick. Faustino é coscienzioso, attento, quasi uno svizzero. In quanto a precisione e professionalità pare la copia esatta del dottor Rossigni, quando visita con scrupolo i suoi pazienti. Faustino, la sua “visita”, la fa all’attrezzatura, ogni qualvolta – calate le prime ore della sera -parte per il lago. Oltre a canna, cassetta degli attrezzi ( ami,piombi, galleggianti, bave e così via), esche e guadino, non si scordava mai dell’ombrello. Sì, perché l’ombrello, come vedremo, è indispensabile. Quello che il buon Giulini-Nobiletti è solito usare l’ha acquistato da uno degli ultimi ombrellai della zona. Nella bottega di mastro Luciano il tempo si è fermato: vecchi mobili di legno con le vetrine piene di ombrelli artigianali di tutte le fogge. Erano amici e di lui Faustino parlava con entusiasmo. “ E’ lì, in quella bottega, che Luciano ripara ancora gli ombrelli, come faceva suo padre e prima di loro il nonno e lo zio. E’ uno come me, di quelli di una volta. Ormai quel mestiere, in giro per l’Italia,chi volete che lo faccia? Non lo fa quasi più nessuno ma lui resiste, tiene duro, altro che storie. Ho comprato due ombrelli fatti da lui, quello di tela pesante e con asta, manico e stecche in bambù e il puntale di ferro, e un altro di seta grezza. Una meraviglia! Il primo lo uso per ripararmi dalla pioggia, l’altro è il mio porta-anguille”. Il porta-anguille? Quando l’interlocutore sente questa storia per la prima volta, sgrana gli occhi. Ma cos’è? E lui, per tutta risposta, con quel suo sguardo malandrino, sfoderando uno dei suoi sorrisi più larghi, si mette a  parlare della pesca con il “mazzetto” e con l’ombrello. Lo fa pacatamente, con pazienza, senza “mettersi in cattedra”. Dice che si pesca sotto riva, con la canna fissa di bambù. Senz’amo, perché non serve. Stupiti? Tutti, la prima volta che hanno udito il racconto. Eppure si pesca così, sostiene Faustino, usando una lenza speciale: uno di quei normalissimi cordini di canapa per l’imballaggio e un sottilissimo filo di ferro cotto, morbido e pieghevole, della lunghezza di un metro. Quest’ultimo serve a legare “a mazzetto” una manciata di lombrichi. Prima di iniziare la pesca, occorre disporre l’ombrello aperto e capovolto, con la punta fissata per bene nel terreno. L’interno di questa  grande “scodella” va bagnato, così da renderne scivolose le pareti. Appena l’anguilla addenta il “mazzetto” si avvertono dei piccoli strappi che si alternano a tirate più decise e brevi pause. E’ l’anguilla che, con voracità, sta ingoiando l’esca. “ Qui non bisogna aver fretta”,spiega Faustino. “Occorre dar tempo, all’ingorda. I movimenti bruschi la insospettirebbero. La canna va alzata prima con lentezza e poi più in fretta , fino a portare la preda a pelo d’acqua. L’ultima fase, sempre senza strappi, è la prova del nove di abilità: si solleva l’anguilla per calarla nell’ombrello. Colta di sorpresa cercherà di riparare al suo errore e lo farà tentando di sputare l’esca.  Ma ormai è tardi,  per sua sfortuna:  non potendo sputare tutto il groviglio di vermi, si accorgerà che questi istanti saranno fatali. Cadendo nell’ombrello non avrà scampo: dal fondo, viscida com’è, non potrà risalire. Se però  ricade in terra, non resta che salutarla: sveltissima, al buio, riguadagnerà l’acqua”. Ride sornione, Faustino. E, visto che ormai il sole è in procinto di scomparire dietro al monte, con la canna e l’ombrello s’avvia verso il lago.

 

Marco Travaglini

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

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SOMMARIO: Trump, il buzzurro che vorrebbe comandare il mondo –  Israele al Comune di Torino – Lettere

Trump, il buzzurro che vorrebbe comandare il mondo
L’altra sera una piacevole cena in riva al mare rischiava di essere un po’ compromessa  da una discussione animata  su Trump e sui dazi che vuole imporre all’Europa. Il tono del confronto mi ha portato a rinfrescare alcuni dati  storici: dalle economie curtensi stagnanti  del Medio Evo  a quelle dell’età comunale e delle Signorie fondate sul commercio e sulle banche, sia pure ancora limitate dai pedaggi che gravavano sulla libera circolazione delle merci. Ho ricordato il mercantilismo delle monarchie assolute settecentesche fondate sui dazi e il protezionismo. Quest’ultima esperienza rivelò la negatività delle scelte che danneggiarono in primis chi praticava il protezionismo e impediva un’economia dinamica fondata sulla libera concorrenza. La tentazione dei dazi come soluzione dei problemi di un’economia in crisi è tornata spesso nel corso di epoche successive con risultati deludenti.
Appare quindi  di tutta evidenza che un buzzurro come Trump assolutamente privo di cultura politica ed economica e anche di semplice ed elementare cultura abbia riscoperto ricette superate di cui non conosce neppure la storia. Gli Stati Uniti hanno votato un presidente inaffidabile che in un quadro già turbato da due guerre innesca una possibile guerra dei dazi a danno degli alleati europei. La situazione difficile richiederebbe un’America capace di un ruolo internazionale equilibratore , anche se va riconosciuto che la Ue è diventata quasi nulla, lasciando ai singoli Stati  delle politiche nazionali e nazionaliste incompatibili con  l’idea di Europa, come la definiva Federico Chabod. Forse il professore ha prevalso sul commensale e posso aver annoiato. La mia cena poi, all’arrivo di un piatto molto invitante, è proseguita in tutta calma ed allegria perché i commensali, da veri liberali, hanno deciso che ognuno si teneva le sue idee. Questa tolleranza un po’ epicurea  in fondo andrebbe allargata dalle cene al nostro vivere civile. Ne trarrebbe vantaggio quel che resta della democrazia liberale che si fonda sul rispetto di tutte le idee anche quelle più intollerabili e quelle di Trump appartengono a questa ultima categoria.
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Israele al Comune di Torino
Ho letto con attenzione il circostanziato ordine del giorno elaborato dalla consigliera comunale Sara  Diena e votato da 23 consiglieri con sole due astensioni. Ci vorrebbe un lungo ragionamento storico per contestare l’ordine del giorno almeno in alcune sue parti del tutto da rifiutare: l’interruzione di rapporti con Israele, riprendendo la tesi degli studenti filo palestinesi, è sbagliata e non si concilia con la storia della città. Inoltre l’ipotesi di un ritorno ai confini precedenti la guerra del 1967 è da rifiutare perché  quella  guerra  difese Israele da un’aggressione dei paesi arabi sconfitti in pochi giorni. Nel ‘67 Primo Levi donava il sangue per Israele e il ritorno a quei confini sarebbe sbagliato oltre che impossibile.
Ho letto che un solo consigliere comunale leghista  ha fatto un intervento contrario. Dov’era la opposizione? Ho cercato di documentarmi, ma non ho trovato traccia di interventi e soprattutto di voti. L’informazione su quell’ordine del giorno non è stata adeguata. Va riconosciuto che i filopalestinesi hanno atteso in piazza senza ricorsi alla solita violenza: un atteggiamento diverso  in fondo, si sarebbe tradotto in fuoco amico. Una bella testimonianza di coraggio e di  libero pensiero, come si addice ai docenti degni di questo nome,  ha dato il Politecnico di Torino che ha preso le distanze da posizioni ideologiche e politiche che non si addicono ad un Ateneo. Peccato che invece l’Universita’ di Torino abbia ceduto già oltre un anno fa alla demagogia filo palestinese che ha invaso Palazzo Nuovo e il Campus Einaudi.
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LETTERE  scrivere a quaglieni@gmail.com
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Le guardie del Pantheon
Esiste un istituto delle guardie d’onore alle tombe  reali del Pantheon fondato nel decennale della Marcia su Roma nel 1932 come ente morale.
Questo istituto, malgrado le tombe al Pantheon riguardino solo i primi due re d’Italia, continua ad esistere. Non è un’associazione combattentistica o d’arma fin dalle sue origini, anche se ambirebbe a diventarlo, malgrado si sia contraddittoriamente  aperto a chiunque ,anche non militare o ex militare. L’istituto è presieduto da vent’anni sempre dalla stessa persona  e partecipa a manifestazioni  pubbliche  chiaramente monarchiche in cui è presente come ospite d’onore il principe ballerino Emanuele Filiberto di Savoia. L’istituto andrebbe commissariato dal ministero della Difesa o soppresso come ente inutile , dannoso persino alla Causa monarchica. Umberto Oddone
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Non so risponderle. Ho conosciuto per caso  qualche guardia  in Liguria e debbo dire che ne ho tratto una pessima impressione. Spesso si è tratta di gente che non ha mai fatto il servizio militare. Esibiscono un vistoso  mantello come quello dei Lancieri di Montebello con un certo sussiego, quasi un po’  da operetta. D’altra parte il servizio di leva è stato abolito e quindi per sopravvivere l’Istituto doveva aprirsi a tutti. Certo un istituto sottoposto al Ministero della Difesa della Repubblica deve stare attento a muoversi, anche se nessun governo è mai intervenuto , constatando la sua irrilevanza.
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Milano trema
Lo scandalo di vastissime dimensioni che emerge a  Milano impone di riproporre una questione morale . Al di là dell’arresto di un assessore , il sindaco Sala e ‘ indagato per falso e induzione indebita. Cosa aspetta a dimettersi? Anna  Soldini
Non ho mai avuto simpatia per il sindaco di Milano Sala per mille motivi: è un demagogo in doppio petto che non incarna certo lo spirito della città che solo il sindaco Albertini ha saputo degnamente rappresentare.  Non ne chiedo tuttavia le dimissioni perché il garantismo deve sempre prevalere. Semmai mi domando che sorte avrà l’assessore all’ Urbanistica torinese implicato nello scandalo milanese.
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La Malfa e il Campo Largo
L’85 enne Giorgio La Malfa che distrusse il partito repubblicano con Tangentopoli  e fu anche ministro di Berlusconi, scrive ancora articoli, consigliando come si possa battere la Meloni . Uno stratega tanto poco credibile  non andrebbe preso in considerazione. Ha sempre sbagliato tutto. Ugo Stella
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Ho letto su Facebook che il figlio di La Malfa continua a scrivere articoli che sistematicamente non leggo. Non ho mai avuto stima di lui che ho conosciuto bene.  Non parlo quindi per partito preso. Dovrebbe riposare la mente e stare zitto, questo mestierante della politica passato da sinistra a destra e poi da destra a sinistra. Adesso si schiera per il Campo Largo, ma lui è solo esperto di campi stretti, anzi strettissimi, oggi quasi inesistenti. Vuole trovare posto sotto la “tenda” di Bettini. Ridicolo e patetico.

Oriente a Torino: viaggio nel cuore asiatico della città tra arte, cultura e sapori

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SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO 
Torino è una città che sorprende.
Dietro la sua eleganza sabauda e l’ordine geometrico dei viali alberati e delle sue strade si nasconde un’anima meticcia, che mescola culture e tradizioni da ogni angolo del mondo. Se c’è una parte del mondo che ha saputo radicarsi con grazia e profondità nel tessuto urbano torinese è senza dubbio quella dell’Estremo Oriente. Dai musei ai templi del gusto, la città ha accolto nei suoi quartieri e nelle sue piazze un’Asia silenziosa ma viva, che racconta storie, offre esperienze, stimola i sensi e l’immaginazione.
Tutto inizia nel cuore del centro storico, in via San Domenico, dove si trova il MAO – Museo d’Arte Orientale. Aperto nel 2008 all’interno di Palazzo Mazzonis, il MAO è una delle realtà più affascinanti e meno convenzionali della Torino culturale. Non è solo una collezione: è un vero e proprio viaggio sensoriale e spirituale attraverso l’Asia. Le sue sale custodiscono reperti e opere provenienti da cinque grandi aree culturali: il Sud-Est asiatico, la Cina, il Giappone, il subcontinente indiano e la regione islamica dell’Asia. Le statue del Buddha, i paraventi giapponesi, le maschere rituali e le calligrafie cinesi dialogano con uno spazio che invita al silenzio e alla contemplazione. Visitare il MAO non è solo un’esperienza estetica: è un modo per rallentare, ascoltare e riflettere. Ogni esposizione temporanea, ogni laboratorio o conferenza ospitata al museo è un tassello in più per costruire ponti tra culture e aprire finestre su mondi che, seppur lontani geograficamente, oggi ci toccano da vicino.
Dall’arte alla tavola: quando l’Oriente si fa gusto.
Ma la scoperta dell’Oriente a Torino non si ferma alle sale museali. Basta uscire dal MAO e percorrere pochi isolati per accorgersi di quanto le influenze asiatiche abbiano messo radici anche nella vita quotidiana, soprattutto a tavola. Il centro storico e le vie limitrofe pullulano di ristoranti, botteghe e locali che propongono una cucina autentica, spesso gestita da famiglie arrivate in città molti anni fa e ormai parte integrante del tessuto sociale torinese.
Tra i nomi storici c’è Wasabi, in via Mazzini, uno dei primi ristoranti giapponesi a proporre sushi di qualità con una forte attenzione alla tradizione. Atmosfera minimalista, cura del dettaglio e una selezione di pesce sempre fresco lo rendono un punto di riferimento per gli amanti della cucina nipponica.
Poco distante, in via Maria Vittoria, troviamo Kensho, che ha portato in città l’idea del sushi contemporaneo e creativo, con accostamenti audaci e una filosofia estetica che ricorda la raffinatezza delle tavole di Tokyo.
Per chi cerca sapori decisi e speziati, il consiglio è dirigersi verso Via Principe Tommaso, dove si concentrano alcuni tra i migliori locali thailandesi e vietnamiti di Torino. Saigon, ad esempio, è un piccolo gioiello che propone autentica cucina vietnamita in un ambiente caldo e accogliente. I suoi “pho” fumanti e i “roll” estivi a base di carta di riso sono tra i più apprezzati in città. Non molto lontano, in via Berthollet, La Piccola Bangkok è invece il regno del curry e dei “pad thai”, serviti con gentilezza e generosità. L’arredamento è semplice ma pieno di colore e spesso ci si ritrova circondati da clienti affezionati che conoscono i titolari per nome.
Tradizione e contaminazione: l’Oriente che evolve.
Oggi, l’Oriente torinese è anche contaminazione e sperimentazione. Un esempio? Oh Crispa!, in zona Vanchiglia, dove l’Oriente incontra lo street food in chiave contemporanea: ravioli cinesi fatti a mano, bao bun con carne affumicata, noodles saltati con verdure locali. L’ambiente è giovane, conviviale, e rappresenta la nuova generazione di imprenditori asiatici (e non solo) che scelgono Torino come laboratorio di creatività gastronomica.
A fare da contraltare a questa vivacità culinaria c’è anche una crescente proposta culturale: corsi di lingua giapponese e cinese, pratiche di meditazione zen, yoga tibetano, workshop di calligrafia e cerimonia del tè sono sempre più presenti nei programmi dei centri culturali, delle librerie indipendenti e delle associazioni di quartiere. In questo senso, Torino non è solo un luogo che accoglie: è un crocevia fertile in cui l’Oriente non è un’esotica comparsa, ma un interlocutore stabile.
In un mondo sempre più connesso, la capacità di una città di far convivere tradizioni diverse diventa segno di intelligenza collettiva. E Torino, con la sua discrezione e il suo ritmo lento, sta costruendo un dialogo profondo con l’Asia, fatto di rispetto, bellezza e sapori indimenticabili. Un Oriente torinese che non fa rumore, ma che sa lasciare il segno.
NOEMI GARIANO

I Grandi Laghi del Rock

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Caleidoscopio rock usa anni 60

La Iowa Great Lakes Recording Company, Inc.” era etichetta e studio di registrazione di Milford, nella zona dell’Iowa conosciuta come la regione dei “Grandi Laghi dell’Iowa”. Co-fondatori e proprietari originali erano Roger Blunt, Cliff Plagman e John Senn, che iniziarono il processo di costruzione dello studio nel febbraio 1965; dopo circa 5 mesi, con un costo di oltre 10.000 dollari per l’attrezzatura e un costo indeterminato per la manodopera impiegata dal trio nel progetto, lo studio aprì ufficialmente i battenti nel giugno 1965. La “IGL Recording Company” fu tra le prime società ad utilizzare registratori a nastro multitraccia, coprendo stili musicali diversi, tra cui rock, pop, gospel, ballabili e cori scolastici. Oltre ad offrire uno spazio professionale e l’attrezzatura necessaria per la registrazione, IGL si occupava pure della gestione della stampa e del confezionamento del prodotto registrato; gli artisti potevano scegliere l’impronta IGL/Sonic o, se lo desideravano, progettare la propria etichetta. Nel 1965 il compenso richiesto da IGL per l’utilizzo della struttura, che includeva un ingegnere del suono, era di 45 dollari l’ora. Come parte di questo costo IGL inviava copie di 45 giri alle stazioni radio della zona e a quelle dell’area di residenza degli artisti; venivano inviate anche più copie a distributori di dischi delle relative aree, nella speranza che accettassero le offerte dello studio. Questo meccanismo sembrava piuttosto congeniale per le bands, tanto che IGL tuttora rientra tra le etichette che popolano regolarmente “compilations” del genere surf e garage rock. Dopo alterne fortune nel corso degli anni Settanta e successivi cambi di proprietà, IGL chiuse i battenti nel 1980; da rilevare che “IGL Recording Co.” è stata inserita nella “Iowa Rock ‘n’ Roll Hall of Fame”, nella “Minnesota Music Hall of Fame” e nella “South Dakota Rock and Roll of Fame”. Qui di seguito si elencano i soli 45 giri di surf, garage e psych rock degli anni 1965-1969:

– SHA-DELS “Hand Jive / Suddenly” (101) [1965];

– THE ROCKERS “There’s A Pain / Runaway” (45-102) [1965];

– DEE JAY AND THE RUNAWAYS “Peter Rabbit / Three Steps To Heaven” (45-103) [1965];

– THE CONTINENTAL CO-ETS “I Don’t Love You No More / Medley Of Junk” (45-105) [1966];

– THE SCAVENGERS “But If You’re Happy / It’s Over” (45-106) [1966];

– THE CASTELS “Look What Love Has Done / How Can You Tell” (45-107) [1966];

– TOMMY TUCKER & THE ESQUIRES “Peace Of Mind / How Did I Know” (45-108) [1966];

– THE “7” SONS “Don’t You Dare Say No / House Of The Rising Sun” (45-110) [1966];

– THE DARK KNIGHTS “Dark Knight / Send Her To Me” (45-111) [1966];

– BYRON BREFFLE “Why Did It Happen / Maybe Baby” (45-112) [1966];

– EPICUREANS “I Don’t Know Why I Cry / Baby Be Mine” (45-113) [1966];

– THE TORRES “Play Your Games / Don’t You Know” (45-114) [1966];

– THE X-MEN “Believe Me / Untill I Leave” (45-115) [1966];

– DALE & THE DEVONAIRES “Take A Look At A Fool / Never Be Free” (45-116) [1966];

– THE MAD HATTERS “Route 66 / Her Love” (45-117) [1966];

– BIRD DOGS “Shoppin Around / Unchain My Heart” (45-118) [1966];

– CANOISE “Something I Could Do / Born In Chicago” (45-120) [1966];

– TOMMY TUCKER & THE ESQUIRES “Don’t Tell Me Lies / What Would You Do” (45-121) [1966];

– BILLY RAT & THE FINKS “All American Boy / Little Queenie” (45-122) [1966];

– THE GOLDEN CABALEERS “Come Back To Me / All Alone” (45-123) [1966];

– THOSE OF US “Without You / Thats Love” (45-124) [1966];

– THOSE GUYS “You’re Gonna Leave Me / Sinner Man” (45-128) [1967];

– THOSE GUYS “It’s Been A Long Time Coming / Love Is A Beautiful Thing” (45-129) [1967];

– THE NOBLEMEN “Things Aren’t The Same / Night Rider” (45-130) [1967];

– THE SECOND HALF “Forever In Your World / Knight In Armour” (45-131) [1967];

– THE BERRIES “Baby, That’s All / I’ve Been Looking” (45-133) [1967];

– KOATS OF MALE “Life’s Matter / Swinebarn No. 3” (45-134) [1967];

– THE DYNAMIC HURSEMEN “You Tell Me Why / Love Is A Beautiful Thing” (45-135) [1967];

– THE MAD LADS “Runaway / Everything Is Blue” (45-136) [1967];

– THE PRINCEMEN “Love Is A Beautiful Thing / Don’t You Even Care?” (45-137) [1967];

– NAPOLEON I & HIS RELATIVES “Summer Love / Good Times” (45-139) [1967];

– GEMINI 6 “Two Faced Girls / One Last Kiss” (45-142) [1967];

– PAWNBROKERS “Someday / This Fine Day” (45-143) [1967];

– THE RESTRICTIONS “She’s Gone Away / Down On The Corner” (45-147) [1967];

– THE SENDERS “She Told Me / Sometimes Good Guys Don’t Wear White” (45-149) [1967];

– DYNAMIC DISCHORDS “Passageway (To Your Heart) / This Girl Of Mine” (45-150) [1967];

– THE KING PINS “Come And See / What Kind Of Love Is That” (45-151) [1967];

– THE FOWL “You Know / My Love Has Changed” (45-179) [1968];

– LIBERTY STREET FERRY “Gloria / Bear’s Blues” (45-184) [1968];

– FREEDOM ROAD “Hayseed / You Ain’t Goin Nowhere” (45-193) [1969].

Gian Marchisio

Nome di battaglia, Camelia

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Lucia si faceva chiamare Camelia. Per quale ragione avesse scelto quel nome di battaglia era un mistero. Gianpiero, il Bruno, sosteneva derivasse dalla passione per le piante che il padre coltivava nel parco della Villa delle Rose, dove svolgeva la mansione di giardiniere per i marchesi d’Angera. Mario, il Milanese, accennava ad una storia ben diversa, riferita in confidenza da Giacinta, la miglior amica di Lucia. “Nel linguaggio dei fiori – raccontò – la camelia è sinonimo di bellezza e devozione eterna tra gli innamorati. Ma in questo caso l’amore è finito in tragedia quando Martino, il promesso sposo di Lucia, uscito in barca per pescare, era annegato durante un’improvvisa burrasca che l’aveva colto quand’era al largo di Stresa”. E forse quella era la ragione della malinconia che rivela il suo sguardo triste. Parlava poco, Camelia.

Al peso che portava nell’anima per quella disgrazia si era aggiunto quello del padre che era stato deportato in Germania con un gruppo di altre persone, durante una retata delle SS. L’episodio, con le sue drammatiche conseguenze, era avvenuto sulla sponda magra del Verbano, a Sesto Calende, nei pressi della Savoia-Marchetti, l’azienda aeronautica che da poco aveva cambiato come in SIAI Marchetti. La villa dei marchesi d’Angera si trovava da quelle parti e il giardiniere venne arrestato insieme a un gruppo di operai accusati di aver sabotato gli aerei destinati alla Regia Aeronautica. Una dannatissima disgrazia per lui, di cui non si seppe più nulla, e anche per la ragazza che, orfana di madre morta nel darle la luce, era rimasta sola e senza parenti prossimi, se si escludeva un anziano cugino della madre che viveva a Saronno. Così Lucia prese la sua decisione. Contattati i partigiani della banda del Mottarone, si unì a loro con quel nome – Camelia – che crucchi e camicie nere impararono ben presto a temere. La notte profumava d’erba tagliata. Merico, nell’alpeggio più a est di Vidabbia, si era dato da fare con il taglio maggengo, per ottenere il foraggio più ricco di graminacee per le sue due vacche. Benedetto uomo! Grazie a quel latte, che generosamente ci forniva insieme ad un poco di farina gialla, si riusciva a calmare i brontolii della fame che salivano cupi dai nostri stomaci spesso vuoti. Rannicchiato dietro a un masso erratico, ricoperto di una patina verdastra di muschi e licheni, guardai su verso il crinale, oltre la chioma degli ultimi alberi. La luna, tonda e bianca come latte appena munto, segnava il profilo del monte Zughero. Poi, volgendo lo sguardo verso il lago, vidi che la luna riverberava quella sua luce sulla superficie dell’acqua, accarezzandola. Una larga fascia d’argento si stendeva tra le due sponde, da Baveno a Pallanza. Le isole Borromee parevano macchie scure e buie, annegate in quella luce. Le rive erano anch’esse tenebrose, con le poche luci soffocate dal coprifuoco. Pensai a chi era giù, nei paesi. Dormivano, dietro quelle persiane chiuse? O erano ancora svegli, tormentati dall’insonnia in quei tempi tristi e duri? E se dormivano, com’era il loro sonno? Sereno o agitato? Sognavano o il loro riposo era ghermito dagli incubi? Chissà. Io, intanto, qui di vedetta con gli occhi che tentavano di chiudersi per la stanchezza e la testa pesante, pensavo a come sarebbe stato il giorno in cui avremmo finalmente raggiunto la libertà, posando il fucile, tornando a casa. Ci saremmo arrivati, a quel giorno? E quando? E chi, di noi? Non certamente Maurizio, l’amico più caro di Camelia. Dinamite, così aveva scelto di farsi chiamare, era morto in quella maledetta, gelida alba sulle balze del monte Camoscio. Non era rientrato al comando. Attendemmo a lungo e poi mandammo alcuni uomini a pattugliare il bosco delle querce verso la cava di granito. Lo trovammo io e Pernod, all’indomani, morto. Era duro, rigido, con la pelle diafana per il freddo. Una smorfia in volto che pareva quasi un mezzo sorriso e la camicia lacera, strappata sul petto dalla raffica di mitra che l’aveva falciato. Accanto al suo, il corpo di Rolando. Aveva solo sedici anni e, con il suo moschetto, quasi più grande di lui, l’aveva accompagnato in quella che era stata la loro ultima missione. Camelia era distrutta dal dolore ma quando si riprese disse che l’avrebbero pagata quei delinquenti in camicia nera e i loro alleati tedeschi. Era il 24 dicembre, la vigilia di Natale del 1943. Una festa triste, dove nessuno ebbe voglia di aprir bocca. Solo Marcello, che aveva studiato in seminario, mormoro una breve preghiera: “L’eterno riposo dona a loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen”.

Marco Travaglini

Gli occhiali per leggere

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Albertino era venuto al mondo quando ormai Maddalena e Giovanni non ci speravano più. E così, passando gli anni in un rincorrersi di stagioni che rendevano sempre più duro e faticoso il lavoro nei campi, venne il giorno del ventunesimo compleanno per l’erede di casa Carabelli-Astuti.

E con la maggiore età  arrivò, puntuale come le tasse, anche la chiamata obbligatoria alla leva militare. Albertino salutò gli anziani genitori con un lungo abbraccio e partì, arruolato negli alpini. Un mese dopo, alla porta della casa colonica di Giovanni Carabelli, alle porte di San Maurizio d’Opaglio, dove la vista si apriva sul lago, bussò il postino. Non una e nemmeno due volte ma a lungo poiché Giovanni era fuori nel campo e Maddalena, un po’ sorda, teneva la radio accesa con il volume piuttosto alto. La lettera, annunciò il portalettere, era stata spedita dal loro figliolo. Non sapendo leggere e scrivere, come pure il marito, Maddalena si recò in sacrestia dal parroco. Don Ovidio Fedeli era abituato all’incombenza, dato che tra i suoi parrocchiani erano in molti a non aver mai varcato il portone della scuola e nemmeno preso in mano un libro. Chiesti alla perpetua gli occhiali, lesse il contenuto alla trepidante madre. E così, più o meno ogni mese, dalla primavera all’autunno, la scena si ripetette. Maddalena arrivata concitata con la lettera in mano, sventagliandola. E il prete, ben sapendo di che si trattasse, diceva calmo: “ E’ del suo figliolo? Dai, che leggiamo. Margherita, per favore, gli occhiali..”. E leggeva.  Poi, arrivò l’inverno con la neve e il freddo che gelava la terra e metteva i brividi in corpo. Il giorno di dicembre che il postino Rotella gli porse la lettera del figlio, decise che non si poteva andar avanti così. E rivolgendosi al marito con ben impressa nella mente la scena che ogni volta precedeva la lettura da parte del parroco, disse al povero uomo, puntando i pugni sui fianchi: “ Senti un po’, Gìuanin. Non è giunta l’ora di comprarti anche te un paio d’occhiali così le leggi tu le lettere e  mi eviti di far tutta la strada da casa alla parrocchia che fa un freddo del boia? “.

Marco Travaglini