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Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

7  Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino

C’era una volta una ragazzina che aveva capito che cosa le sarebbe piaciuto fare da grande. Un giorno la piccola tornò da scuola e disse ai genitori: “io voglio andare al liceo artistico!”, ma i due adulti presero la sua affermazione come una barzelletta, si misero a ridere e replicarono: “tanto tu andrai al classico”. Una storia breve, triste e autobiografica.
Difficile, se non impossibile, per me è scrivere questo articolo mantenendomi “narratore esterno”, senza raccontare della mia personale esperienza “giobertina” e senza ricordare gli aneddoti di quegli anni che, come mi è già capitato di dire, si vuole che passino in fretta mentre li si vive e li si rimpiange quando poi sono trascorsi.

Del “mio” Gioberti (ho conseguito la maturità classica nel 2009) ricordo le aule prive di LIM, odorose di gessetto da lavagna, rammento le pareti smunte, sulle tinte dell’ocra, i banchi rettangolari dotati di sottobanco, ossia quegli spazi perennemente ricolmi di fogli piegati, di carta delle merendine, di bigliettini dimenticati che mamma mia se fossero caduti all’improvviso! E poi l’armadio di classe, strabordante dei libri che non sempre riportavamo a casa e i grandi finestroni che si affacciavano sul cortile quadrato, che dall’alto mi ricordava quello di una prigione e ancora i lunghi corridoi e i caffè presi sul suono della campanella. “E”, “e”, “e” tante congiunzioni per un’infinità di momenti che non so se posso descrivere così apertamente.
Ma continuiamo con la storia della ragazzina inascoltata. La sventurata non rispose alla replica di mamma e papà, perché a tredici anni non è facile né essere presi sul serio, né rendersi conto di quanto sia importante la scelta della scuola superiore. L’ignara ragazzina obiettò che almeno voleva scegliere in quale liceo classico si sarebbe iscritta e, dopo qualche litigata, riuscì ad avere la meglio almeno su questo punto. Dopo un’attenta analisi di mercato l’inconsapevole tredicenne si convinse che il Gioberti sarebbe stata la sua opzione definitiva: scuola “politicizzata”, di fronte all’Università e le leggende che lo definivano “il più leggero tra i classici”, in cui si facevano autogestioni e manifestazioni a non finire. Così alla domanda: “Allora hai scelto il Gioberti?”, “la sventurata rispose”, e disse “si”.

Il liceo Gioberti è una delle più antiche istituzioni scolastiche presenti a Torino, la storia della scuola si intreccia non solo con quella del capoluogo piemontese ma anche con le trasformazioni politiche, sociali e legislative del Regno d’Italia. L’istituto nasce grazie alla politica sull’istruzione pubblica che prevede l’apertura di Ginnasi e Licei “governativi” o “regi”.
Per essere più precisi è utile ricordare la Legge Casati, che, nel 1859, codifica l’educazione umanistica in due successivi e distinti corsi di studi: il Ginnasio, corso inferiore della durata di cinque anni, detto di “Grammatica”, ed il Liceo, ossia un corso superiore triennale detto di “Filosofia”. Il 4 marzo 1865, sotto il Ministero Lamarmora, viene pubblicato il Regio Decreto n°229, con tale documento vengono istituiti i primi sessantotto licei classici del Regno d’Italia e ad ognuno di essi è assegnato il nome di un grande personaggio italiano. Tra questi sessantotto istituti compaiono il Liceo Cavour e il Liceo Gioberti, la cui denominazione celebra due eminenti protagonisti della nostra storia.

Le cose non accadono mai per caso: lo “spaventoso” Liceo Cavour nasce (almeno come titolazione) in contemporanea al Liceo Gioberti, un po’ come i “Sith” di Guerre Stellari che sono sempre in due.  La nascita dei Licei di Stato risponde al desiderio di favorire una convergenza di intellettuali intorno al nuovo Regno italiano; a sostegno di tale intento è anche istituita una “Festa Letteraria” da tenersi annualmente ogni 17 di marzo in tutti i Licei del Regno, con il nome di “Solennità Commemorativa degli illustri Scrittori e Pensatori Italiani.”
Una festa antica, forse col tempo caduta in disuso, almeno, da che ne so io, il 17 marzo noi “giobertini” non abbiamo mai festeggiato nulla, anzi, non ricordo che le feste fossero ammesse a scuola: comportano inutile dispersione d’energia e sottraggono tempo utile ai compiti in classe!

È opportuno precisare che le due istituzioni scolastiche prese in esame in realtà esistono già anche prima del 1865, ma sono conosciute con un altro nome. Il Liceo Gioberti è in origine il Regio Collegio di San Francesco da Paola, con sede nel complesso conventuale dei Frati Minimi, edificato a partire dal 1627 in Contrada Po, grazie alle ingenti donazioni di Maria Cristina di Borbone-Francia, (moglie di Vittorio Amedeo I di Savoia), e diretto a partire dal 1821 dai Gesuiti. Il Cavour, invece, in origine conosciuto come Collegio dei Nobili, è un’istituzione risalente al XVI secolo un tempo situato presso il convento del Carmine. Tra i licei, secondo quanto riportato nei documenti storici, il Gioberti è sempre stato l’istituto più frequentato. Chissà se tale moltitudine di scolari ha commesso un “errore di valutazione” simile a quello iniziale della ragazzina? E chissà quanti ignari studenti ancora si lasceranno ingannare dalle malelingue, iscrivendosi ad una scuola che per anni -proprio quelli in cui l’ho frequentata io- è stata considerata pari al Liceo Cavour, emblema assoluto della severità e del rigore?
Vorrei altresì ricordare, prima di proseguire con la storia della nostra fanciulla, che nel 1969, proprio il Liceo Gioberti, è stato sede della prima “Commissione Fabbriche” mai costituita in una scuola superiore italiana, anche citata nel film “Vento dell’est” di Jean-Luc Godard.

Torniamo a noi. La ragazza ben presto si rese conto che quella scuola non le calzava proprio a pennello, ma era anche evidente che non le sarebbe stato permesso cambiare corso di studi, quindi era meglio rimboccarsi le maniche e tapparsi il naso. “Tyche” venne in soccorso della studentessa e la inserì nel miglior gruppo classe che avrebbe mai avuto anche in futuro. I compagni erano proprio quelli “giusti” per affrontare quell’avventura. Con il tempo l’amicizia e la complicità limarono gli sforzi dello studio e le risate sommesse – mai durante l’ora di greco- resero la prova sopportabile. Ma voi che siete lettori curiosi vorrete sapere qualche dettaglio in più. Da narratore onnisciente posso dirvi che c’era un’insegnate temutissima, che si mostrò per la primissima volta a noi studenti durante un intervallo, asserendo che già tutti dovevano sapere chi fosse e che il giorno dopo si sarebbero corretti i compiti delle vacanze. Va da sé che in quelle ore di lezione a stento si respirava. Vi era poi un’altra docente, tanto preparata ma non sempre precisa, che alla lavagna era solita scrivere “parola importante” anziché il termine o il nome che sarebbe stato meglio ricordare. Vi posso dire che alla spocchia del primo anno corrisposero altre interrogazioni svoltesi in clima più disteso, addirittura mangiando caramelle e “chupa-chups” oppure versioni così commentate: “bella storia ma non è quella che c’è scritta qui”.

Vi posso raccontare di un “maiale volante” appeso al soffitto, comprato grazie ad una colletta di classe proprio come “mascotte” porta fortuna. E quanto ci sarebbe ancora da dire. Quanti pianti fece la mattina la ragazzina mentre andava a scuola, quante notti passò a studiare per poi prendere talvolta solo delle misere sufficienze, quante sconfitte ma anche quante vittorie. E quante rinunce: inconciliabile con l’intensità dello studio la scuola di danza, che ha dovuto lasciare proprio quando stava imparando a ballare sulle punte. Le scarpette rosa rimasero un ricordo riposto in solaio.

Ma noi abbiamo anche un altro discorso da portare avanti, quello degli storici studenti torinesi: tra i tanti coraggiosi che affrontarono i temibili professori del Gioberti (allora Ginnasio San Francesco da Paola di Torino) ci fu niente meno che Giovanni Giolitti (1842-1928), il grande politico italiano, più volte Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel 1901, Vittorio Emanuele III affida l’incarico di formare il governo a Giuseppe Zanardelli, uno dei principali esponenti della Sinistra; nel 1903 Zanardelli, dopo aver concesso un’amnistia ai condannati politici e aver ristabilito una libertà di associazione, seppur limitata, si ritira dall’incarico a causa di una malattia. Nello stesso anno viene chiamato a capo del governo Giovanni Giolitti, ministro dell’interno; egli tiene la carica per quasi dieci anni, periodo comunemente definito “età giolittiana”. Giolitti, liberale ed esponente della Sinistra Costituzionale, si preoccupa di unire gli interessi dei proletari con quelli dei borghesi e degli operai, a tal proposito si dimostra abilissimo nel riuscire a trovare un neutrale equilibrio tra le varie forze in gioco, infatti da una parte favorisce l’industria e dall’altra promuove la legislazione sociale. Giolitti sostiene che lo Stato deve essere “super partes” rispetto agli interessi delle varie fazioni. Non a caso si può definire la parentesi giolittiana democratica e liberale.  L’intelligente perizia politica, nonché la dirittura morale, dello statista è testimoniata anche dall’ampio spazio che egli concede alla libertà di sciopero e dal modo in cui riesce a mantenere l’ordine pubblico durante le varie manifestazioni, in modo perentorio e vigilato, ma sempre evitando repressioni violente.

Nel corso del decennio dell’”età giolittiana”, egli perfeziona la legislazione in favore dei lavoratori più anziani e degli invalidi, emana nuove norme sul lavoro per le donne e per i lavoratori giovanissimi, inoltre estende l’obbligo dell’istruzione elementare fino al dodicesimo anno d’età. Giolitti favorisce poi l’attuazione di migliori retribuzioni stipendiarie, accrescendo così le possibilità di acquisto delle classi lavoratrici. Da ricordare anche gli interventi nel campo sanitario, come la distribuzione gratuita del chinino contro la malaria, e l’intenso programma di lavori pubblici, che comporta la nazionalizzazione della rete ferroviaria. Uno dei provvedimenti più importanti del governo Giolitti è l’estensione del diritto di voto: secondo la nuova legge del 1912 vengono ammessi al voto tutti i cittadini di sesso maschile purché abbiano compiuto 21 anni, se in grado di leggere e scrivere e con servizio militare svolto, o 30 anni, se analfabeti e non chiamati sotto le armi. Il numero degli elettori sale così da tre milioni e mezzo a otto milioni e mezzo su un totale di 36 milioni di persone.

Mi sento di poter dire che forse un po’ dell’integrità d’animo di Giolitti derivò sicuramente dai suoi studi liceali, anche se non fu proprio uno scolaro modello, come racconta egli stesso.
Ho voluto un po’ ironizzare in questo articolo che più di altri sento “mio”, ma ora siamo seri: la formazione che ho ricevuto è senza dubbio impareggiabile, quegli anni di duro lavoro, di sforzi e di rinunce e di crescita intellettuale mi hanno aiutato ad affrontare le prove successive e mi hanno effettivamente dato quella “formazione classica che apre tutte le porte”.
Com’è finita la storia della ragazzina? Beh ora la fanciulla (è ormai chiaro che sto parlando di me) è cresciuta, ha realizzato il suo sogno di frequentare l’Accademia di Belle Arti e ricorda un po’ in filigrana i bei momenti passati, quelli che l’hanno aiutata a superare le difficoltà che all’epoca sembravano così insormontabili. La ragazza ancora pensa a quel laboratorio liceale pomeridiano che l’ha portata a fare teatro di strada a Mentone e che in un qualche modo l’ha supportata nella scelta del percorso universitario. Pensa alla cara insegnante di educazione fisica che dirigeva il corso, che spesso sul palco la prendeva in braccio e la faceva volare come “Il Gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach. Il “mio” Gioberti è sempre lì, in centro, con le pareti tappezzate di manifesti politici rattrappiti dall’umidità, e ora ammetto che l’unico modo che ho trovato per superare i miei traumi adolescenziali è stato quello di intraprendere, a mia volta, la bella carriera di insegnante.

Alessia Cagnotto

Quanto sono buone le patate farcite con prosciutto e parmigiano

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Le patate sono tra gli ingredienti piu’ versatili e piu’ amati in cucina. La ricetta che vi propongo questa settimana e’ davvero golosa, scenografica e semplice. Patate farcite con ingredienti a gradimento, cotte al forno con la buccia, tagliate a soffietto per una presentazione originale.

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Ingredienti
4 patate di medie dimensioni
4 fette di prosciutto crudo
Poco burro per spennellare
Sale ed erbe aromatiche a piacere
Parmigiano grattugiato
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Spazzolare e lavare molto bene le patate, asciugarle, tagliare una fetta alla base  per renderle stabili e inciderle per circa 3/4 . Sciogliere il burro e spennellare bene le patate, insaporire con erbe aromatiche a piacere e poco sale. Disporle in una teglia foderata con carta forno, cuocerle in forno a 200 gradi per 30 minuti. Estrarre le patate, lasciarle indiepidire, farcire le incisioni con il prosciutto crudo, spolverizzare con il parmigiano e rimettere in forno per circa altri 30 minuti o sino a cottura ultimata. Servire calde.
 

Paperita Patty

La tirlindana

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Sono ormai in pochi, sui laghi, a praticare la pesca a traino dalla barca con la tirlindana. Eppure questo semplice attrezzo ha un suo fascino e una storia. Immaginatevi una lenza in filo di rame o, in versione più moderna, in monofilo di nàilon, lunga da un minimo di 30 a oltre 60 – 70 metri, recante un finale di nàilon a cui è assicurata l’esca, il tutto avvolto su uno speciale telaietto girevole dalla sagoma molto nota detto aspo

Ci siete? Bene. L’aspo, un tempo, veniva costruito dallo stesso pescatore, artigianalmente. Oggi come oggi quest’attrezzo si trova già pronto in commercio, spesso in alluminio leggero e lucente: non vi resta che applicare il terminale con l’esca ritenuta più idonea e, sul piano teorico, siete a posto. Perché solo in teoria? Perché la chiave del successo nella pesca a tirlindana dipende dalla mano di chi la manovra. A prima vista parrebbe tutto semplice e facile come bere un bicchier d’acqua  ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: occorre un certo tirocinio per impadronirsi al meglio di questa tecnica, in grado di riservare delle gran belle soddisfazioni. Intanto, occorre una buona conoscenza del fondale da battere e saper valutare con esattezza la profondità di pescaggio dell’attrezzo. Mai lasciare le cose al caso, quando si pesca con la tirlindana: sarebbe un errore imperdonabile. Ho conosciuto un “lupo di lago”, il vecchio Giuanin, in grado di valutare fondali e correnti, neanche avesse una carta nautica ficcata dentro la sua testa pelata. Per non parlare poi dei movimenti: sia lui che il suo “socio” Faustino erano dei maghi nell’accompagnare la lenza , imprimendole i movimenti giusti, manovrando la barca con misura e mestiere. Di norma i “professionisti” della pesca su lago fanno tutto da soli, usando piccole barche leggere, dei veri gusci di noce che manovrano con un solo remo, essendo l’altro braccio impegnato con la lenza.

 

Taluni ricorrono al motore di potenza fra 2 e 3,5 HP, ma è ovvio che, per quanto condotto al minimo, quest’ultimo provoca un fastidioso rumore specialmente nei fondali bassi. Un’alternativa ci sarebbe, a dire il vero: un motore elettrico, silenzioso, facile da gestire e con una velocità giusta. La tradizione però conta; e la tradizione suggerisce  che l’ideale consiste nell’ agire in due, uno in gamba nel manovrare i remi, l’altro con il tocco giusto per far andare la tirlindana. La lenza tradizionale è in rame, quella moderna – come si è detto – in nàilon. Il tipo classico, in rame cotto,  e si trova in due diametri: lo 0,30 per la pesca leggera a mezz’acqua, lo 0,50 per andare più a fondo, puntando al luccio. Un materiale flessibile ed elastico, preferibile a quello attorcigliato a treccia che risulta meno malleabile. Il nàilon, occorre ammetterlo, offre maggiori vantaggi, con un però: richiede una piombatura distribuita o raggruppata, per consentirne il corretto e rapido affondamento. Cosa che, con il filo di rame, avviene spontaneamente grazie al suo peso specifico. Il nailon non richiede una particolare manutenzione, ha un carico di rottura e di resistenza decisamente elevato, le lenze sono vendute già zavorrate e, cosa non secondaria,  costano meno. “La zavorra è il cuore di tutto!”, dice Giuanin, quando all’osteria, tra un mezzino e l’altro, molla il freno e sale in cattedra. “ Una volta si lavorava con il rame piombato alla fine, facendoci i muscoli nell’accompagnare il peso in acqua. Adesso, cari miei, si va avanti a filo di nailon  e allora non resta che applicare delle olivette di piombo lunghe di un paio di centimetri e di peso attorno  ai a due o tre grammi, distribuendole in modo regolare fino a raggiungere un peso di quasi mezzo chilo. Così, se zavorri bene, la lenza va giù che è un piacere e non corri il rischio che ti resti troppo in superficie,trascinandotela a pelo d’acqua, o di farla affondare fino a raschiare i sassi del fondo”.

 

Il “prof” Giuanin accompagna le parole con gesti decisi, caparbi quel tanto da sconsigliare il contraddittorio. La sua esperienza non ammette repliche. “ E’ molto importante anche la velocità con cui avanza la barca. Se si è in due la cosa migliore è procedere a remi, come abbiamo sempre fatto io e Faustino”, confida il vecchio pescatore.  “ Uno tiene in mano la tirlindana e l’altro rema facendo ogni tanto delle piccole pause. Occhio, però:  chi tiene la tirlindana non deve star lì come un cucù ma imprimere al filo dei piccoli, leggeri strappi per simulare una veloce fuga del pesciolino finto”. Questo genere di movimento, visto dalle parte dei predatori, equivale allo squillo di tromba della carica, scatenandone l’istinto di predatori.“Qui viene il bello. Avvertita la mangiata non perder tempo: uno strappo per ferrare il pesce e avvia lentamente il recupero. La barca non deve arrestare il suo movimento, capito? Se lo fai, se ti fermi, la preda ti frega, soprattutto se è di una certa dimensione. I pesci non sono fessi, e non ti saltano a bordo di spontanea volontà. La preda, se riesce ad avvicinarsi troppo, tenterà come ultima fuga di inabissarsi sotto la barca. Quando accade, sono cavoli amari: il rischio di perderla è alto perché, puoi esserne certo,  il filo andrà sicuramente ad impigliarsi in qualche sporgenza con tutte le conseguenze del caso”. Mai dimenticarsi il guadino: se non lo si trova a portata di mano, al momento giusto, tirare in secco la preda è un problema. Questa è la lezione di Giuanin. Applicandola per filo e per segno porterà alla tirlindana un tributo certo di prede, dai persici ai lucci, dai cavedani alle trote.

Marco Travaglini

 

(Foto: molagnacavedanera.it)

 

Penne integrali in crema di zucchine: salutari e nutrienti

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Eccovi un primo piatto ricco di sapore, sfizioso ed invitante, perfetto per ogni occasione.

Ingredienti :

380gr. di penne integrali
400gr. di zucchine
80gr. di grana grattugiato
120gr. di dadini di Speck
1/2 spicchio d’aglio
1 cucchiaio di prezzemolo grattugiato
3 foglie di basilico
Olio evo, sale, pepe.

Dorare i dadini di Speck in padella, tenere da parte.
Lavare e tagliare a metà le zucchine, scavare un poco la polpa e lessare al dente in acqua salata. Raffreddare e conservare l’acqua di cottura nella quale cuocerete poi la pasta.
Frullare grossolanamente le zucchine con olio, aglio, prezzemolo, basilico, grana, sale e pepe. Cuocere la pasta, unire lo speck alla crema di zucchine e servire subito. Se risultasse poco cremosa, aggiungere un mestolino d’acqua di cottura.
Buon appetito.

Paperitapatty

Le zucchine in carpione, gustosa tradizione

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Le zucchine, quelle verdi chiare, tenere e dolci, ricche di acqua e vitamine ideali per reintegrare i sali minerali

 

Le ricette devono essere veloci, facili da preparare, leggere ma allo stesso tempo saporite. E le zucchine, quelle verdi chiare, tenere e dolci, ricche di acqua e vitamine sono  ideali per reintegrare i sali minerali persi con la sudorazione, molto gradevoli nel gusto e versatili nelle diverse preparazioni. Un modo goloso per cucinarle e’ con una gustosissima marinatura.

Ingredienti:

 

1 kg.di zucchinette

1 cipolla bianca

2 spicchi di aglio

1 rametto di salvia

6 foglie di basilico

origano fresco

½ bicchiere di aceto di mele

½ bicchiere di olio evo

sale q.b.

Lavare le zucchine, spuntarle e tagliarle a tronchetti. In una larga padella soffriggere la cipolla e l’aglio affettati, aggiungere le zucchine e rosolare mescolando ripetutamente a fuoco vivace per 10 minuti, aggiungere gli aromi, salare e sfumare con l’aceto, proseguire la cottura per altri 2 minuti. Lasciar marinare in frigo per almeno un giorno. Servire freddo. Croccanti e gustose.

Paperita Patty

Mariolino e la guida dell’uomo col cappello

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Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini

Una gustosissima torta salata di zucca

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D’autunno e inverno una ricetta con la zucca e’ d’obbligo.

Innumerevoli sono le preparazioni che si possono realizzare con la zucca, regina indiscussa della stagione autunnale e invernale, gustose zuppe, cremosi risotti, dolci delicati e deliziose “torte salate”. Perfette da preparare in anticipo le torte racchiudono, in un fragrante guscio di pasta sfoglia,  un vellutato e appetitoso ripieno, ideale per uno sfizioso antipasto.

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Ingredienti

 

1 disco di pasta sfoglia pronta

800gr. di zucca fresca

250gr. di ricotta vaccina

50gr.di parmigiano grattugiato

2 cucchiai di gorgonzola cremosa

1 piccolo porro

Un pizzico di noce moscata

Poco latte

Sale e pepe q.b.

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Pelare e lavare la zucca, tagliarla a pezzetti e cuocerla a vapore. Lasciarla scolare per perdere l’acqua in eccesso poi, passarla al passaverdura. In una padella con una noce di burro, stufare la parte bianca di un piccolo porro,  aggiungere il passato di zucca, mescolare e lasciar insaporire per alcuni minuti. Srotolare la pasta sfoglia, sistemarla in una tortiera da forno e bucherellare il fondo. In una terrina mescolare la ricotta con il parmigiano, due cucchiai di gorgonzola, la noce moscata, il sale e il pepe, aggiungere il passato di zucca e versare nella tortiera. Ripiegare i bordi di pasta e  spennellarli con un poco di latte, infornare a 200 gradi e cuocere per 30 minuti circa.

 

Paperita Patty