Rubriche- Pagina 13

Alla Beccaccia una signora “dedita all’altrui piacere”

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La notizia, lì e nei dintorni, girava già da qualche settimana. A mezza voce, tra ammiccamenti e gomitate, si era sparsa la voce che “La Beccaccia”, un’osteria con locanda, ospitasse una signora dedita alla promozione dell’altrui piacere.

Ovviamente, dietro pagamento di una modica somma perché, com’è noto, il “mestiere più vecchio del mondo”, come tutte le attività che si rispettino, non era gratis. Natalino e Pacifico, un po’ per curiosità, un po’ per l’indole trasgressiva che li accomunava, decisero di andare a vedere se quanto si sentiva dire corrispondesse poi al vero. “Un sopralluogo s’impone”, sentenziò Pacifico, che per mestiere s’occupava a tempo pieno della tutela dei lavoratori ( “di tutti i lavoratori”). Ovviamente Natalino, operaio e pubblico amministratore, non obiettò alcunché, trovandosi d’accordo con l’amico in tutto e per tutto. Quindi, inforcate le bici, partirono. La strada non era molta tra il loro paese e quello dell’osteria. Pedalando di buona gamba, i sette chilometri e mezzo s’accorciarono in un baleno e i due amici, raggiunto il campanile del paese, svoltarono a sinistra, imboccando la strada che saliva verso la stazione ferroviaria, dove – un po’ prima dello spiazzo davanti all’edificio – si scorgeva, sulla facciata di una vecchia casa a  due piani,  l’insegna de “La Beccaccia”. Lasciate le bici- nell’apposita rastrelliera collocata tra la Stazione e la locanda, i due entrarono. L’oste, tal Tossichini Aristide, detto “Burbero” per il carattere

ruvido e scontroso, in maniche di camicia, era intento ad asciugare dei bicchieri. Vedendo comparire  sull’uscio Natalino e Pacifico, non tradì particolare curiosità. Continuando a passare i calici nell’asciugamano, senza dire una sola parola e con un cenno del mento, chiese ragione della loro presenza. Un po’ impacciati, i due esitarono a parlare per qualche istante. Poi, incrociato lo sguardo interrogativo del Tossichini, Natalino prese coraggio e, schiaritasi la voce, chiese: “Si può vederla?”. “Burbero”, senza scomporsi più di tanto, con fare svogliato, indicò la scala in fondo al locale che portava al piano superiore. I due amici, ringraziando, salirono svelti i gradini di legno, trovandosi davanti ad un corridoio dove, da una parte e dall’altra, s’aprivano tre

porte. Due a sinistra e una a destra. Quale delle tre era quella giusta? Tentarono a destra ma la porta era chiusa a chiave. Afferrata la maniglia della prima a sinistra, il risultato fu lo stesso: bloccata. Rimaneva l’ultima porta. E questa s’aprì, con un lieve cigolio. Entrati nella stanza, restarono a bocca aperta, sgranando gli occhi davanti alla scena che si presentò  davanti al loro sguardo smarrito. Altro che femmina compiacente e lussuriosa! Nella penombra della stanza, sdraiata sul letto, vestita di nero e con il rosario in mano, s’intravvedeva il cadavere di un’anziana donna.  Ai fianchi del letto quattro grossi ceri accesi diffondevano una luce tremolante e fioca da far venire i brividi. Pacifico e Natalino si guardarono in faccia e, quasi di scatto, fecero dietrofront, uscendo dalla stanza, chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. La scala dalla quale erano saliti con un po’ d’imbarazzo e circospezione, venne ridiscesa in fretta e furia. Quell’impazienza insospettì l’oste che non ci mise molto a capire la situazione, considerando che i due non erano i primi a sbagliare indirizzo e credere che nella sua locanda si praticasse il mercimonio. Rosso in volto, furibondo perché i due avevano scambiato la vecchia zia Giuditta, morta il giorno prima a ottant’anni d’infarto , per una poco di buono, “Burbero” iniziò ad inveire. Brandendo minaccioso una vecchia scopa di saggina, si lanciò all’inseguimento dei malcapitati che, inforcate al volo le biciclette, pedalarono via come due indemoniati. Giunti al paese, trafelati e stanchi, si presentarono ansimando all’osteria dell’Uva Pigiata. Paolino Pianelli, a conoscenza della loro avventura, vedendoli in quello stato, fece l’occhiolino sussurrando: “L’avete vista, eh?”. Pacifico, con un filo di fiato e una buona dose d’ironia, rispose che sì, l’avevano vista. Ma che già al primo sguardo, avevano capito subito che non faceva per loro e se n’erano andati via.

 

 Marco Travaglini

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

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SOMMARIO: Bulli, delinquenti, autonomi a Torino – Il sindaco Lorusso e l’insicurezza  urbana – Daniele Sacco e il “Cambio” – Lettere

Bulli, delinquenti, autonomi a Torino
Il bullo e delinquente che getto’ dai Murazzi una bicicletta elettrica che colpì un giovane universitario, oggi paraplegico e che ha avuto la vita rovinata, ha avuto una sentenza di cinque anni inferiore (perché scelse il rito abbreviato) della ragazza che fu presente al fattaccio dei Murazzi, ma non vi partecipò. 16 anni sono molti per un concorso morale non facilmente dimostrabile. C’è da domandarsi perché la ragazza non prese le distanze dai suoi amici, ma il mondo del bullismo ha regole mafiose.
C’è da dire, pur senza aver letto le carte e pur condannando l’ omertà  della ragazza, summum ius, summa iniuria.
Soprattutto, rifiuto l’idea delle sentenze esemplari:  esse contengono in sé elementi illiberali che non potrò mai condividere.
In concomitanza con la sentenza  ci sono state le violenze di autonomi e studenti che hanno imbrattato Torino, danneggiato vetrine, ferito due poliziotti e un carabiniere.  Momenti di violenza  urbana, si dice oggi, che il prefetto vede legati anche alla criminalità. Un commento a se’ meriterebbe il solito sociologo (come aveva ragione Croce a tenere in nessun conto i sociologi) che giustifica la violenza dei “fragili”, incitando ad un dialogo con loro. Ma le sue parole sono talmente fuori da ogni logica che discuterle sarebbe uno sforzo inutile. Vanno citate  per documentare ancora una volta a che punto giungano certi intellettuali come nel 1968 e nel 1977, per non ricordare i complici di Lotta Continua e delle Br.  Nel caso dei violenti e nostalgici degli anni di piombo non ci possono essere indulgenze. Lo Stato deve tutelare i veri fragili che sono i cittadini. Ma, in ogni caso,  senza sentenze esemplari che sminuiscono il valore della nostra democrazia

Il sindaco Lorusso e l’insicurezza  urbana
In un ‘intervista al “Corriere della Sera”, il sindaco di Torino ha dichiarato che “l’illegalità colpisce soprattutto i fragili” Ed ancora “la sinistra non può aver paura di parlare di sicurezza” , riecheggiando l’ex sindaco Veltroni, oggi editorialista del “Corriere”, che considera un errore pensare alla sicurezza non  come una priorità sottovalutata dalla sinistra.
Ha anche ragione il sindaco di Torino nel dire che l’insicurezza non è solo problema di ordine pubblico, ma certi giustificazionismi  da tardo positivismo sociale di Verdi e Sinistra italiana sono superficiali e falsi. Lo Stato deve essere presente nelle periferie come nelle Ztl.
Ma in certe zone il degrado e il permissivismo hanno raggiunto dei livelli tali che neppure i Carabinieri sono sufficienti: gli spacciatori – ricorda il sindaco di Torino – si spostano dai luoghi presidiati di trecento metri e riprendono il loro mercato.  Sono problemi che vanno risolti , altrimenti  continueremo a baloccarci con la insicurezza percepita, mentre l’obiettivo è neutralizzare quella reale. Anche in una dichiarazione dell’on. Laus ci sono spunti di riflessione che meritano di essere considerati. Vorrei aggiungere che gli spacciatori che si arricchiscono, vanno perseguiti nel modo più duro, direi manu militari. Per loro nessuna comprensione diventa accettabile.
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Daniele Sacco e il “ Cambio”
Dicono che il conte di Cavour, che pranzava al “Cambio”,  si senta più solo dal 1 gennaio quando il cav. Daniele Sacco ha lasciato dopo 42 anni la direzione del ristorante, che con lui si era aperta alle novità, rimanendo una valida tutela della tradizione dell’unico locale storico di Torino, fondato  nel 1757.  Nella sua storia più recente Sacco ha attinto all’esempio del proprietario e direttore il comm.  Parandero, che tenne mirabilmente il locale per lunghi decenni persino durante la guerra. I locali del “Cambio” appartengono oggi all’erede di Parandero che è molto orgogliosa di suo padre. Ricordo i pranzi con la mia famiglia : mio padre era di casa anche per motivi di lavoro.
Ma non posso dimenticare che Arrigo Olivetti volle fondare al Cambio il Centro “Pannunzio” e Soldati  nel 1982 fondò  nella sala “Risorgimento” il Premio “Pannunzio”. E nelle sere d’estate, come scrisse Valdo Fusi, cenare nel  dehors a contatto visivo con palazzo Carignano suscita delle emozioni proustiane. Il “Cambio” ha avuto visitatori e clienti illustri a livello internazionale. Sacco con diplomazia e caparbietà tutta piemontese ha tenuto alto il nome di uno dei luoghi mitici di Torino. Lo ha fatto con il passo di corsa del bersagliere perché questi 42 anni sono passati in fretta Ricordo il primo  Premio “Pannunzio” del 1982 con il presidente del Consiglio Spadolini, che smaniava perché Galante Garrone ricordasse nella sua laudatio che lui a 25 anni era già professore, mentre Sacco da una parte e chi scrive dall’altra cercavamo di far funzionare le cose.
In un  elegante libro al quale io stesso ho collaborato, uscito  per i 200 anni del locale, Chiamparino ha banalizzato il ristorante, mettendo insieme agnolotti e Risorgimento. Fu una delle tante volte che non mi sentii rappresentato dal sindaco. Sacco dopo oltre quarant’anni è  rimasto giovane: ad un certo punto della storia del ristorante ha dovuto affrontare momenti difficili che ha fatto superare con la sua autorevolezza da tutti riconosciuta. Cosa farà  il diversamente giovane Sacco dopo la pensione ? Non è facile pensarlo anziano seduto su una panchina a svernare in riviera.
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LETTERE  scrivere a quaglieni@gmail.com
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Follie metropolitane
A Chieri l’abbonamento alla sosta delle auto in centro è aumentato da 80 a 400 euro. Una follia. Il centro di Chieri verrà ucciso da una giunta di demagoghi e incompetenti. Cosa ne pensa? Barbara Enrico

Mi sembra un provvedimento privo di buon senso. Chieri non vuole essere da meno di Moncalieri che ha chiuso il centro storico, facendone un deserto.  Basta a volte un sindaco o un assessore verde per provocare guasti terribili che distruggono  il tessuto urbano di una città. A Torino via Roma tutta pedonale provocherà dei contraccolpi che solo i ciechi non possono prevedere.

Torino: capitale del Barocco tra palazzi, chiese e monumenti

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Scopri – To      Alla scoperta di Torino

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Torino è una città che incanta con il suo fascino elegante e la sua ricca eredità artistica. Tra le epoche che hanno definito il suo volto, il Barocco occupa un posto speciale, trasformando la capitale sabauda in un teatro di grandiosità e bellezza. Questa corrente artistica, sviluppatasi tra il XVII e il XVIII secolo, ha influenzato profondamente la città, sia dal punto di vista urbanistico che architettonico, grazie al lavoro di grandi maestri come Guarino Guarini e Filippo Juvarra. Torino, infatti, è un museo a cielo aperto, dove i palazzi, le chiese e i monumenti narrano una storia di potere, fede e splendore artistico.
PALAZZI BAROCCHI: la Torino nobiliare.
I palazzi nobiliari di Torino sono tra i migliori esempi dell’architettura barocca in Italia. Camminando lungo le vie del centro, come Via Po o Via Garibaldi, è possibile ammirare eleganti facciate, portoni monumentali e cortili interni decorati con statue e fontane. Tra i più celebri spicca PALAZZO CARIGNANO, una delle opere più iconiche di Guarino Guarini. Costruito nel 1679, il palazzo si distingue per la sua facciata ondulata in mattoni rossi, un esempio di come il Barocco giochi con forme e volumi per creare un effetto dinamico. Oggi, Palazzo Carignano ospita il Museo Nazionale del Risorgimento, ma un tempo fu sede del primo Parlamento italiano.
Un altro gioiello barocco è PALAZZO BIRAGO DI BORGARO, progettato da Filippo Juvarra. Situato in Via Carlo Alberto, questo palazzo è un esempio di raffinatezza e funzionalità, con interni decorati da affreschi e stucchi che riflettono il gusto della nobiltà torinese dell’epoca. PALAZZO GRANERI DELLA ROCCIA, invece, è famoso non solo per la sua architettura ma anche per aver ospitato eventi culturali e letterari che hanno segnato la vita intellettuale della città.
PALAZZO MADAMA: un viaggio attraverso i secoli; si erge nel cuore di Piazza Castello, è un edificio che racconta la storia di Torino come nessun altro. Nato come Porta Romana, il palazzo è stato trasformato nei secoli fino a diventare una delle residenze preferite delle “Madame Reali”, le potenti reggenti sabaude. La sua trasformazione barocca è opera di Filippo Juvarra, che progettò la monumentale facciata in marmo. Con le sue colonne corinzie, i timpani e le ampie finestre, Juvarra riuscì a creare un’opera che combina eleganza e maestosità. Oggi, il palazzo ospita il Museo Civico d’Arte Antica, un luogo dove storia e arte si incontrano in un percorso che va dal Medioevo al Settecento.
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CHIESE BAROCCHE: la fede diventa spettacolo.
Le chiese barocche di Torino sono capolavori che uniscono devozione e creatività architettonica. La CHIESA DI SAN LORENZO, progettata da Guarino Guarini, è un esempio straordinario di come il Barocco utilizzi la luce e la geometria per creare un’esperienza spirituale unica. L’interno, con la sua cupola complessa e luminosa, sembra dissolversi in un intreccio di archi e aperture, invitando il fedele a guardare verso il cielo.
Un’altra meraviglia è la CHIESA DEI SANTI MARTIRI, situata in Via Garibaldi. Costruita dai Gesuiti, questa chiesa è famosa per i suoi ricchi interni, decorati con marmi policromi, affreschi e stucchi dorati. La CHIESA DELLA CONSOLATA, invece, è un esempio di come il Barocco sia stato utilizzato per rinnovare edifici più antichi. Il santuario, dedicato alla Madonna Consolata, è un luogo di grande devozione popolare, ma anche un capolavoro architettonico, grazie all’intervento di Guarini e Juvarra.
LA BASILICA DI SUPERGA, tra cielo e terra,
è uno dei simboli più riconoscibili di Torino. Situata su una collina che domina la città, la basilica fu progettata da Filippo Juvarra per celebrare la vittoria di Torino sull’assedio francese del 1706. La sua posizione panoramica, combinata con l’imponenza della struttura, rende Superga un luogo unico, dove arte e natura si incontrano. All’interno si trovano le tombe della Famiglia Reale dei Savoia, mentre il piazzale offre una vista mozzafiato dalle Alpi alla città sottostante.
LA REGGIA DI VENARIA è la Versailles piemontese; un altro capolavoro barocco, una delle residenze sabaude più grandiose. Dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, la reggia è un esempio perfetto di come il Barocco sia stato utilizzato per glorificare il potere regale. I suoi giardini, la Galleria di Diana e la Cappella di Sant’Uberto sono solo alcune delle meraviglie che attendono i visitatori. Restaurata negli ultimi decenni, la reggia è oggi uno spazio culturale dinamico, che ospita mostre ed eventi internazionali.
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IL BAROCCO NEL TESSUTO URBANO tra piazze e portici.
Il Barocco non si limita ai palazzi e alle chiese, ma definisce anche l’urbanistica di Torino. Le piazze principali, come PIAZZA SAN CARLO, sono esempi di come lo spazio pubblico possa essere trasformato in un luogo di bellezza e armonia. I PORTICI, che si estendono per chilometri, sono un’altra caratteristica unica della città, offrendo riparo e un senso di continuità tra gli edifici.
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TORINO, un patrimonio da vivere, non solo  una città da visitare, ogni strada, ogni palazzo e ogni chiesa raccontano una storia di grandezza e innovazione. Il Barocco, con la sua capacità di sorprendere e affascinare, è parte integrante dell’identità di Torino, una città che continua a incantare chiunque la scopra.
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NOEMI GARIANO

L’Innominabile

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Ve lo ricordate lo jettatore Rosario Chiàrchiaro, magistralmente interpretato da Totò nel film a episodi “Questa è la vita” ? Era il personaggio creato da Pirandello nel racconto “La patente”, dove un uomo con la fama di menagramo decideva di sfruttarla quasi fosse un mestiere per campare, pretendendo la “patente di iettatore” al fine  d’essere pagato per evitare gli effetti dei suoi malefici. Il principe della risata si combinò una faccia da jettatore che era una meraviglia: barba ispida, incolta sulle gote; baffi  stretti e spioventi; un paio di grossi occhiali scuri, un abito e un cappello neri come la pece e un’ espressione  che obbligava , senza indugio, a fare i debiti scongiuri.

 

Nell’immaginario popolare lo iettatore è stato descritto come un essere magro, pallido, arcigno, leggermente curvo, solitario, taciturno, dal naso ricurvo e con occhi grandi e sporgenti, sormontati da folte sopracciglia . Bene, ora che ve lo siete immaginato, dimenticate tutto. Sì, perché il menagramo di cui si parla – che chiameremo a titolo scaramantico “l’innominabile”, era un uomo del tutto normale, impegnato nella vita amministrativa e politica dopo essere stato partigiano,amministratore pubblico, dirigente del PCI. L’unico “neo” era quella reputazione da uccello del malaugurio che lo accompagnava. Era pur vero che un giorno, in un salone per ricevimenti, guardando il soffitto, puntò l’indice verso il grande lampadario esprimendo una perplessità sulla sua “tenuta” e quest’ultimo pochi minuti dopo s’infranse sul pavimento lasciando i presenti sbigottiti e, fortunatamente, illesi. Non fu, ad essere onesti, un episodio isolato.  Per una serie di casi certamente fortuiti, molte delle sue sventurate “previsioni” s’avverarono suscitando, oltre allo sconcerto e all’incredulità di chi non era e non intendeva diventare superstizioso , una forte preoccupazione in coloro che, non pochi,  iniziarono a sospettare che emanasse davvero un’influenza negativa, portando sfortuna al prossimo. Così, di episodio in episodio, pur ammettendo la possibilità del caso, anche gli scettici furono rosi dal dubbio che le  coincidenze diventassero davvero un po’ troppe. Così, quando l’innominabile s’avviava a prendere un volo per Roma, i conoscenti evitavano accuratamente di salire sullo stesso aereo, accampando le scuse più varie.

Nonostante ostentassero indifferenza, tradivano una comune preoccupazione: l’aereo avrebbe potuto cadere e, nel caso, l’unico passeggero che sarebbe senz’altro miracolosamente scampato alla tragedia non avrebbe potuto essere nessun’altro che lui, l’incolpevole portatore sano di sfiga. L’innominabile soffriva molto per questa situazione davvero imbarazzante. Per un po’ aveva fatto finta d’ignorare la cosa ma , con il tempo, la sua “fama” era cresciuta a dismisura e capitava spesso che, incontrando amici e compagni, questi ultimi infilassero in fretta le mani in tasca dei pantaloniper la rituale toccata dei genitali finalizzata a  scongiurare gli effetti della sua presenza. Che tristezza provava nello scoprire che anche delle signore ben vestite e dal portamento elegante si lasciavano andare a gesti volgari, affrettandosi  a fare le corna. Ci soffriva parecchio poiché, essendo d’animo mite, non avrebbe mai e poi mai immaginato di poter arrecare danno alcuno al prossimo. La sua vita e il suo impegno potevano testimoniare l’esatto contrario, con una infinità d’episodi che l’avevano visto protagonista di gesti d’altruismo e di solidarietà. E’ proprio vero che, su cento cose giuste  che si fanno ne basta una discutibile e si è segnati per sempre. Cosa poteva farci? Il lampadario non l’aveva certo staccato lui dal soffitto. Luigi e Carletto, quando erano saliti in auto, erano un po’ “allegri” e lui aveva solo manifestato la preoccupazione che potessero andare a sbattere da qualche parte. Cosa poteva farci se la loro auto, nemmeno un minuto dopo, si era fracassata contro il muro della stazione e i due erano finiti all’ospedale con le ossa rotte?

A Don Giuseppe l’aveva detto per scrupolo che quella candela poteva incendiare la tovaglia dell’altare. Era colpa sua se metà chiesa aveva preso fuoco? E Marcello? Si era infuriato con lui solo perché , notando il platano oscillare pericolosamente a causa del vento, gli aveva suggerito di non parcheggiare sotto quei rami a sua Gilera. Se poi il vecchio albero del viale delle Rimembranze era caduto  sulla moto scassandola tutta era per sua responsabilità o a causa della tromba d’aria improvvisa ? Suvvia, se la gente era un po’ sfortunata non poteva pagarne lui le conseguenze, vi pare? Eppure qualcosa non quadrava se due persone come Arturo e Lido,  assolutamente prive di pregiudizi e solidamente scettiche nei confronti di ogni diceria, avevano maturato qualche ragionevole dubbio in proposito. Una sera tardi, tornando in auto da una riunione nel novarese, passando di fronte ad un capannone sormontato da una grande insegna luminosa che informava di come si trattasse delle “Officine” che portavano lo stesso cognome dell’Innominabile. Arturo non mancò di far notare il caso di omonimia. Come durante le tempeste magnetiche dei film di fantascienza la macchina si arrestò, senza dare ulteriori segni di vita. Motore muto, quadro elettrico senza vita, luci spente, motorino d’avviamento che non girava. Niente da fare. Ai due non restò che andarsene a piedi fino al primo centro abitato, a quasi dieci chilometri. L’unico albergo era chiuso in quella stagione e in giro non c’era anima viva. Girarono a zonzo per un bel po’ e poi trovarono da dormire in un fienile, come due vagabondi. Al mattino, accompagnati da un meccanico che s’ingegnava anche da elettrauto, tornarono all’auto che, appena girata la chiave nel cruscotto, si mise in moto. I due, increduli si guardarono stupiti mentre il meccanico scuoteva la testa. Così, a causa dell’omonimo industriale metallurgico, la fama dell’Innominabile si allargò anche verso i confini orientali del Piemonte, minacciando di varcare il Ticino. Cosa che, per fortuna dei lombardi, non avvenne.

 

Marco Travaglini

Dolci piemontesi. Sapori e colori di una terra magica

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Non si può non parlare dei dolci piemontesi, non si può non raccontare delle prelibatezze che deliziano il palato di chi vive in questa splendida regione, ma anche di chi la visita e la conosce

Quando ti siedi al ristorante e vedi che nella lista dei dolci c’è il Bonèt sei sicuro che sarà una deliziosa esperienza culinaria, quando entri nelle pasticcerie che dilettano questa terra e trovi le Bignole e gli altri dolci tipici sai che la felicità è lì, ad un passo, e ti cambierà la giornata.
 Vediamo quali sono i più conosciuti, i più amati, i più graditi, i dolci che conferiscono al Piemonte l’etichetta di dolce regione di meravigliose prelibatezze.

Il Bonèt, dolce al cioccolato tipico delle Langhe e del Monferrato, è molto simile ad una crème caramel. Un tempo fatto col fernet, oggi sostituito spesso dal rhum, è arricchito da nocciole e caffè. Il nome bonet è in realtà un cappello un po’ tondeggiante che si indossa ovviamente a fine pasto, dopo aver mangiato il dolce, prima di andare via. Dulcis in fundo.

Cri CriIl Cri Cri, un cioccolatino avvolto da carta colorata e da piccole sfere di zucchero, prendendo così la forma di una caramella, ha una storia davvero romantica, quella di Cristina una ragazza appassionata di moda a cui il fidanzato portava questi dolcetti. La commessa della pasticceria chiedeva se i cioccolatini fossero per Cri e il suo moroso rispondeva: “sì per Cri”. La storia d’amore per questa squisitezza appassionata continua!

Le buonissime Bignole in passato non si glassavano ma si spennellavano semplicemente con lo zucchero. Si deve la loro apparizione in Piemonte ad un frate, Pasquale de Baylon,
che le preparava per rallegrare le merende Torinesi. Al cioccolato, al caffè, allo zabaglione, alla nocciola sono riconoscibili per la loro glassa colorata che le rende bellissime alla vista. Graziose e ghiotte.

I Bicciolani sono dei semplicissimi biscotti di pasta frolla resi speciali dall’aggiunta di varie spezie: il coriandolo, la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata. Tipici di Vercelli, questi buonissimi frollini, hanno anch’essi una antica tradizione e la loro comparsa risale ai primi anni del 1800 quando il proprietario di una bottega, Vittorio Rosso, con una ricetta che pare essere ancora segreta, diede loro vita. Sembra che grazie alla loro compattezza arrivino, in caso di spedizione, comunque e sempre integri. «Patrimonio unico e irrinunciabile della tradizione cultural-gastronomica piemontese».
Krumiri
Ricordano i baffi di Vittorio Emanuele II i Krumiri, i gustosi dolcetti di Casale Monferrato nati nel 1878, anno della sua morte. Appartengono ai P.A.T. – prodotti agroalimentari tradizionali – e furono paragonati, per la loro forma curva, secondo le voci dell’epoca, a coloro che a schiena bassa disertavano gli scioperi operai, divenendo così per i colleghi, vicini, in maniera servile, alla borghesia industriale. Ovviamente questa connotazione negativa, legata agli eventi storici dell’epoca, non ne ha alterato la percezione positiva e gradevole. “Ai dolci gustosi Krumiri eleganti dei bimbi golosi s’allietan i canti”, scriveva Ottavio Ottavi.

Maria La Barbera

 

Sapore d’Oriente nel piatto: straccetti speciali di pollo

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Il piatto non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura

 

Un ottimo secondo piatto leggero, fresco e veloce, non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura che esaltera’ il delicato gusto del pollo abbinato alla croccantezza delle verdure.

Semplice, dal successo garantito.

 

 Ingredienti:

1/2 petto di pollo intero

2 carote

2 zucchine

1 limone

1 spicchio di aglio

1 cucchiaino di zenzero in polvere

1 cucchiaino di semi di cumino

1 cucchiaino di semi di sesamo

olio evo q.b.

sale, pepe q.b.

Lavare le verdure e tagliarle a bastoncini nel senso della lunghezza.Tagliare il petto di pollo a striscioline, metterlo in una terrina, cospargerlo con le verdure, le spezie, l’aglio a fettine, bagnare il tutto con il limone, l’olio, il sale,e il pepe. Mescolare bene e lasciar marinare in frigorifero per almeno due ore. In una piastra in ghisa rovente, cuocere gli straccetti di pollo con le verdure scolate per circa dieci minuti, mescolare con una paletta e bagnare con la marinatura, lasciar sfumare. A cottura ultimata, servire subito.

Paperita Patty

“Gesù, perdonami”… Don Siro e il giovane Ardenti

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Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma…e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione,  dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo  blasfema ma intollerabile visto che  campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera –  sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane  fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto  il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a  sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il  vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.

Marco Travaglini

L’isola del libro

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RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

Jane Smiley “Erediterai la terra” -La nuova frontiera- euro 22,00

Con questo romanzo, pubblicato in patria nel 1991, Jane Smiley (nata a Los Angeles nel 1949), autrice di una ventina di opere di narrativa e saggistica, ha vinto il Premio Pulitzer nel 1992;

il libro ha anche ispirato il film con Michelle Pfeiffer e Jessica Lange.

Dopo generazioni che hanno sudato fatica e duro lavoro, la famiglia Cook è riuscita nell’ardua impresa di trasformare una terra inospitale in una delle tenute più floride della contea di Zebulon, nell’Iowa.

Il romanzo racconta cosa accade dopo che l’anziano proprietario decide improvvisamente di dividere il terreno tra le figlie. E’ l’innesco perfetto che fa esplodere rivalità, segreti, tradimenti e violenze che tornano a galla.

Il corposo testo, ambientato in pieno Midwest, è il resoconto della battaglia ingaggiata da Ginny, Rose e Caroline nel momento in cui il padre Larry Cook, vedovo da decenni, divide tra loro tre i mille acri della sua fattoria. Le sorelle si amano e si odiano allo stesso tempo, ed hanno con il genitore rapporti grevi e conflittuali.

L’io narrante è quello della 36enne primogenita Ginny: la più remissiva, con la vita segnata dal padre-padrone e da 5 aborti spontanei, dei quali due taciuti a tutti, marito compreso.

Poi c’è Rose, che da sempre ha cercato di ribellarsi al genitore violento; è moglie di un uomo affascinante e madre di due figlie.

L’ultima, Caroline, è l’unica che, pur di non restare impigliata nella ragnatela familiare, è andata lontano, in città, dove fa l’avvocato ed ha sposato un collega senza neanche dirlo in famiglia.

Un romanzo strepitoso che corre nel solco di quelli di Faulkner, in cui la terra è il fulcro di tutto, con corollario di sentimenti contrastanti ed imperiosi.

 

 

Andrea De Carlo “La geografia del danno” -La nave di Teseo” euro 18,00

Siamo padroni del nostro destino? Quello che siamo, pensiamo, scegliamo, il nostro carattere, affondano radici profonde nella famiglia e alla latitudine del globo in cui nasciamo?

Il timone della nostra vita lo prendiamo a un certo punto, ma più che altro conta da dove arriviamo.

Sembra essere questa la risposta di Andrea De Carlo nel 23esimo libro della sua carriera di scrittore, lunga 43 anni. Il testo, più che un romanzo, è la biografia della sua famiglia, una vera e propria indagine che lo conduce a rivelazioni sorprendenti.

L’albero genealogico che ricompone è la mappa della geografia del danno, e descrive soprattutto la ricerca di sé.

Inizia dalla scoperta che la nonna paterna sarebbe vissuta due volte….e via a seguire altre ricerche sugli antenati. Un passato in cui si sono incrociati i destini di migranti siciliani in Tunisia e di migranti cilene a Genova; tra teatranti, ingegneri navali e un fattaccio che stravolge il destino delle persone. La scoperta è che la realtà supera l’immaginazione.

L’eredità più profonda è quella del sangue, di cosa ci è stato trasmesso; scopriamo che le nostre predisposizioni sono solo in parte il risultato dell’ambiente e dell’educazione ricevuta. La verità è che, se indaghiamo i tratti del nostro carattere o le nostre doti, scopriamo che appartenevano a qualche nostro antenato, magari saltando una o più generazioni.

E questo vale per ogni famiglia, tutte hanno molto da raccontare se si scava nella notte dei tempi. Ognuno di noi è figlio, nipote, pronipote di storie straordinarie….cercare per credere.

 

 

Angela Frenda “Una torta per dirti addio. Vita (e ricette) di Nora Ephron” -Guido Tommasi Editore- euro 18,00

A 13 anni dalla scomparsa (nel 2012) della brillante scrittrice e sceneggiatrice newyorkese Nora Ephron, stroncata da leucemia fulminante, questo libro è la prima biografia italiana che ne ripercorre la vita in modo anomalo, ovvero attraverso un ricettario. Scritta dalla responsabile editoriale di Cook, Angela Frenda, ci racconta l’esistenza, i tormenti e le delusioni, ma anche i piatti tanto apprezzati dalla scrittrice.

Nata a New York nel 1941 e lì morta nel 2012, Nora Ephron è stata regista, produttrice cinematografica, sceneggiatrice, commediografa, giornalista e scrittrice. Tra i fiori all’occhiello della sua poliedrica genialità ci sono le sceneggiature di film cult come “Harry ti presento Sally” e “Affari cuore”; ha diretto commedie romantiche tra le quali “Insonnia d’amore” e “C’è posta per te”.

Una vita entusiasmante, le parole erano il suo mestiere, la cucina la sua passione e il modo di condividere pensieri e vita con chi amava.

Tra egg salade, biscotti, polpettoni e timballi, il cibo per lei era anche il collante che teneva insieme il tutto.

Scrittura e piaceri della tavola hanno sempre accompagnato le fasi più salienti della sua vita; per esempio scrisse il suo primo romanzo “Affari di cuore” dopo ave scoperto che il secondo marito (lei si sposò tre volte), il giornalista investigativo Carl Bernstein (che contribuì a scoperchiare lo scandalo Watergate) la tradiva mentre lei era incinta.

Quando ebbe la nefasta diagnosi del male che l’avrebbe portata via nel pieno degli anni, decise di preparare il suo funerale fin nei minimi dettagli. Ideò un ricettario personalizzato da consegnare agli amici più intimi a fine funzione, con le istruzioni di tutti i piatti che aveva cucinato per ognuno di loro….e quale viatico potrebbe rappresentarla meglio…..?

 

 

Sveva Casati Modignani “Lui, lei e il Paradiso” -Sperling&Kupfer- euro 21,00

Non avremmo mai pensato che un testo come questo fosse nelle corde della scrittrice da 12 milioni di copie vendute, Sveva Casati Modignani; nom de plume di Bice Cairati, classe 1938 e da sempre in vetta alle classifiche con la sua narrativa spesso snobbata dalla critica.

Questo romanzo è ambientato in Paradiso dove avviene l’incontro tra Dino Solbiati, grande imprenditore geniale che ha costruito la sua fortuna dal nulla e la scrittrice Stella Recalcati.

Solbiati rimanda a Silvio Berlusconi e l’idea di ispirarsi a lui ha solleticato l’immaginazione di Sveva Casati Modignani quando ha assistito ai suoi fastosi funerali in tv. Allora ha pensato che le sarebbe piaciuto intervistare il magnate per scoprirne soprattutto il profilo psicologico.

Ed ecco l’escamotage di incontrarlo (nei panni di Stella, suo alter ego) tra nuvole e meraviglie di un Paradiso da spot pubblicitario Lavazza. Solbiati si ritrova sospeso nel nulla a raccontare di se, riannodando i fili della sua vita intensa e vissuta a mille. Balzano tra ricordi delle mogli, tradimenti, la genialità e la sete smoderata di vita, ma anche qualche segretuccio. Insomma le contraddizioni dell’esistenza terrena.