Rubriche- Pagina 101

L’isola del libro

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Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Emmanuelle De Villepin  “Dall’altra riva”    -Longanesi-    euro 18,60

“Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Questo incipit di Tolstoj ad “Anna Karenina” potrebbe applicarsi perfettamente all’ultimo bellissimo romanzo della scrittrice francese Emmanuelle De Villepin che, ancora una volta, dedica la sua sensibilità ai meandri affettivi di una famiglia che vi resterà nel cuore.

Inizia con un funerale, punto di arrivo ma anche di partenza. Siamo in Normandia e davanti al feretro del padre -che non vedeva da 40 anni- arriva Nora, la figlia che se n’era andata non sopportando più il dolore cha aveva attanagliato la sua famiglia.

Approdo che è anche l’avvio di una resa dei conti con chi non c’è più, preludio a chiarimenti e scoperte. L’autrice si addentra con la sua consueta grazia in una vicenda familiare attraversata da abbandono, lutti, amore, solitudine, inadeguatezza rispetto agli impegni affettivi, senso della vita e della morte. Convinta che la letteratura sia una grande indagine sull’animo umano, la De Villepen racconta senza mai giudicare, ed è abilissima nello scandagliare i fondali. Lo fa attraverso una sorta di gioco di specchi in cui si alternano le voci dei due personaggi femminili centrali.

Una è quella di Nadege, donna tormentata che ha lasciato senza più voltarsi indietro marito e tre figli piccoli; non tanto per seguire la passione travolgente per il figlio di amici che ha 15 anni meno di lei, quanto piuttosto per sfuggire a una vita che non sembra le appartenga e a un marito che trova noioso. Uno strappo netto e senza ritorno che lei spiegherà in un diario destinato alle figlie.

Ma non sarà l’unica disperazione che schianta questa famiglia. Un altro tipo di abbandono, irreparabile, coinvolge il figlio 12enne, Mathieu. Tragedia che finirà per dilaniare quello che resta del padre scivolato nella depressione e delle due figlie: la responsabile e matura Apolline e la sorella minore Nora. E’ sua la seconda voce narrante, con la sua versione dei fatti e il suo bagaglio di vissuto. Nora, che non aveva retto il carico di sofferenza all’interno delle pareti domestiche e se ne era andata via dopo il diploma, un taglio netto del cordone ombelicale.

Ecco la tela di questo affresco familiare che tocca corde intime e profonde, senza sdolcinature né pregiudizi. E su tutto aleggia l’opera “L’isola dei morti” del pittore svizzero Anold Böcklin, di struggente bellezza.

 

Hamilton Basso  “La vista da Pompey’s Head”  -Nutrimenti-  euro 22,00

Questo è uno dei capolavori dimenticati della letteratura americana, pubblicato nel 1954 dal giornalista del New Yorker Hamilton Basso (nato a New Orleans nel 1904, morto nel Connecticut nel 1964), finalista al National Book Award dell’epoca, e diventato un film diretto dal regista Philip Dunne nel 1955.  Davvero un peccato l’oblio per tanto tempo e un applauso all’editore Nutrimenti che ce lo  riconsegna.

E’ la bellissima storia del ritorno di un avvocato di New York al suo paese natio, nel South Carolina, per risolvere un’oscura vicenda che anticipa il tema del celebre “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee del 1960 (diventato anche un film interpretato da uno strepitoso Gregory Peck).

Anson Page è il brillante avvocato socio di uno studio newyorkese che rappresenta case editrici prestigiose, felicemente sposato e con due figli. Deve chiarire e chiudere una vertenza scottante: Lucy Wales, moglie del famoso scrittore Garvin Wales, ormai anziano e cieco, accusa  lo scomparso e stimato editore Philip Greene di aver  prelevato ingenti somme dai diritti d’autore del marito. I Wales vivono isolati dal resto del mondo su un’isola del South Carolina che Anson conosce bene perché è nato a due passi da lì. Eccolo tornare a Pompey’ Heard, in quel Sud da cui era scappato da giovane, disgustato dalla mentalità retrograda e razzista, che aveva visto cadere in disgrazia il padre per aver difeso un uomo di colore in un processo contro un illustre cittadino bianco. Deve incontrare la dispotica e diffidente Lucy Wales, strenua protettrice della privacy del marito che nessuno vede più da anni, e chiudere il caso. Sarà l’occasione per Anson di fare un complesso tuffo carpiato all’indietro, nelle amicizie e negli amori di un tempo, nelle contraddizioni di una terra bellissima, ma soffocata da pregiudizi, ottusità e pettegolezzi. Un romanzo corposo ed elegante, uno spaccato del Sud – forse più attuale di quello che pensiamo-che vi trascinerà per oltre 500 pagine fino a un epilogo emblematico.

 

Amitav Gosh  “L’isola dei fucili”  – Neri Pozza-   euro 18,00

Cambiamento climatico e migrazioni sono al centro dell’ultimo libro di uno dei più importanti  scrittori  indiani contemporanei, che veleggia tra saggio e romanzo. Narra la straordinaria avventura del commerciante di libri rari e oggetti di antiquariato Deen Datta, nato nel Bengala, che vive e lavora a Brooklyn.

Durante uno dei suoi periodici viaggi a Calcutta incontra un lontano parente che per sfidare la sua nomea di profondo conoscitore di folklore indiano, gli racconta una storia affascinante. E’ quella del ricco “mercante di fucili” Bonduky Sadagar che aveva scatenato l’ira della dea dei serpenti Manasa Devi, perché si era rifiutato di diventare un suo devoto. Per  ritrovarne traccia, Deen Datta  intraprende un avventuroso viaggio a spasso nei secoli, in miti e leggende, e attraverso vari confini, dall’India a Los Angeles fino a Venezia.

Archetipo di queste pagine è la dea dei serpenti alla quale è dedicato un tempio nelle Sundarbans, in India, tra Bangladesh e Bengala occidentale, frontiera naturale in cui si scontrano natura e profitto. La più grande foresta di mangrovie al mondo, brulicante di serpi e creature velenose, una delle aree più povere del pianeta, funestata da cicloni devastanti, cambiamenti climatici e classificata dal WWF come eco regione. E’ in questo scenario -perfetto per incarnare il disastro- che Amitav Gosh intreccia i suoi sogni, le sue ossessioni, cronaca e storia, simboli e metafore, ed incrocia vissuto personale con il futuro possibile del globo, tra cambi di scena ecologici e culturali.

Il senso della Libertà

PAROLE ROSSE  di Roberto Placido / Questo 25 aprile 2020 lo ricorderemo a lungo. La Festa nazionale della Liberazione da settantacinque anni ci ricorda da dove nasce la Repubblica Italiana e soprattutto grazie a chi il nostro paese ha riacquistato, oltre alla dignità, la libertà e la democrazia. Per troppi anni è stata relegata, oltre ad un giorno di festa da scuola e dal lavoro, a cerimonia istituzionale ristretta ai rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni della resistenza, ai partigiani ed i loro famigliari ed a quanti, una minoranza, hanno sempre avuto una forte sensibilità democratica.

Con il passare degli anni e con la naturale e fisiologica scomparsa dei protagonisti di quello straordinario periodo è sorto il problema di tramandare la loro esperienza e valori e di coinvolgere le giovani generazioni. Periodicamente abbiamo assistito a tentativi revisionistici da parte della destra neofascista o ex fascista e da qualche storico di sinistra o presunto tale. Anche quest’anno, perdendo l’occasione di dare un segno di maturità quanto mai necessario in una situazione emergenziale da destra è arrivata la proposta di dedicare il 25 aprile alle vittime del Corona Virus. Proposta tanto irricevibile quanto idiota. L’ipocrisia porta a non avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome.

Se si fosse mantenuto lo spirito e la composizione delle forze che hanno animato le formazioni partigiane il 25 aprile sarebbe stata vissuta con una partecipazione e condivisione se non unanime, impossibile, certamente in misura decisamente maggiore. Voglio ricordare che nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e nelle formazioni partigiane c’erano rappresentanti socialisti, comunisti, cattolici democratici, liberali, repubblicani, monarchici ed azionisti. Quindi, mi riferisco specialmente ad una parte della sinistra che ha cercato di appropriarsi della “resistenza”, la Resistenza non era e non è di una parte sola, ad essa hanno partecipato, dando sostegno e copertura, operai, impiegati, contadini, civili, preti e suore e molti rappresentanti delle forze dell’ordine. Per chi fosse interessato c’è una bella pubblicazione del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri sul ruolo dei Carabinieri durante la lotta di Liberazione. Un altro elemento da confutare è quello della territorialità, si è svolta solo al nord dell’Italia. Chi lo sostiene dimentica o fa finta di dimenticare lo sbarco alleato, la “ linea gotica” e l’Italia divisa in due. Problema risolto dalla folta e numerosa, molte migliaia, presenza di meridionali nelle formazioni partigiane. Uno su tutti il comandante del CLN che liberò Torino, Pompeo Colajanni, nome di battaglia “Barbato”, siciliano, ufficiale della cavalleria. Sul ruolo e sulla partecipazione dei meridionali alla lotta di liberazione voglio ricordare il convegno organizzato dal Consiglio Regionale del Piemonte il 16 giugno 2013 al Teatro Carignano a Torino.

Per concludere su di un altro elemento, spesso riproposto, quello degli esigui numeri dei partigiani, rammento che alla lotta di Liberazione hanno contribuito sicuramente le formazioni partigiane, i molti civili, ed, non si possono dimenticare e lo sono stati per troppo tempo, i seicentomila internati militari italiani (IMI) che rifiutarono di combattere per la repubblica di Salò e preferirono i campi di concentramento pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni. Tutto questo è la storia passata e recente ma la vera particolarità, che mi ha fatto riflettere, di questo 25 aprile è l’essere tutti “prigionieri” in casa da quasi due mesi. Festeggiare la Liberazione stando chiusi in casa, segregati quasi volontariamente, un ossimoro, per combattere un nemico invisibile e quindi più subdolo, non può che fare riflettere sul senso e sul valore della libertà. E’ proprio vero che una cosa l’apprezzi molto di più quando non ce l’hai, quasi, più o ti viene a mancare. Forse è per questo senso di privazione, di mancanza, che ci sono state un numero straordinario di manifestazioni e di iniziative con una partecipazione e condivisione che ci dà la percezione tangibile di essere liberi pur essendo “prigionieri” e segregati. La libertà e la democrazia sono, insieme alla Costituzione, i più importanti dei grandi “regali” che ci hanno portato la Resistenza e la lotta di liberazione.

La Cuoca Insolita propone: i ravioloni #celafaremo

Tra qualche giorno sarà il 25 aprile, la Festa della Liberazione. È una data importante per l’Italia e quest’anno la sentiamo con maggiore intensità. Ci siamo stretti e continueremo a farlo, da lontano, per alleviare il peso di vivere un momento così complicato, in cui tante persone lavorano per il resto dei cittadini, con un fortissimo senso di altruismo, tanti lottano contro una malattia e tanti aspettano pazienti che arrivino tempi migliori, grati verso chi li aiuta. Questa è l’Italia, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ma siamo noi. E io desidero celebrarla con voi, scegliendo solo ingredienti italiani, nelle vostre case, nelle vostre cucine. Viva l’Italia! #celafaremo #iorestoacasa

Tempi: Preparazione 1 ora;

Cottura 10 min per il ripieno + 2 minuti per i ravioli;

Attrezzatura necessaria: Contenitore bordi alti, piccolo contenitore per il ripieno, pentola per cottura ravioli, 1 padella piccola, pellicola per alimenti, un matterello grande

Difficoltà (da 1 a 3): 2

Costo totale: 2,90 € (4,40 €/kg)

Ingredienti per 4 persone (per ogni porzione sono previsti tre ravioli, uno per colore):

Per la pasta verde:

  • Farina di semola bianca – 50 g
  • Farina di piselli – 10 g
  • Acqua – 30 g

Olio e.v.o. – 1 cucchiaino scarso

Per la pasta bianca:

  • Farina di semola bianca – 65 g
  • Acqua – 25-30 g
  • Olio e.v.o. – 1 cucchiaino scarso

Per la pasta rossa:

  • Farina di semola bianca – 50 g
  • Farina di barbabietola – 10 g
  • Acqua – 25 g
  • Olio e.v.o. – 1 cucchiaino scarso

Per il ripieno:

  • Porri – 80 g
  • Finocchi al vapore – 80 g
  • Ricotta – 160 g
  • Olio extra vergine oliva – 40 g
  • Sale – ½ cucchiaino (4 g)
  • Pepe – 4 macinate

Per condire il piatto:

  • Parmigiano grattugiato – 20 g
  • Foglie di salvia sminuzzate – 2 a testa

Olio extra vergine – 1 filo

Perché vi consiglio questa ricetta?

  • Valori nutrizionali: rispetto ai classici ravioli ricotta e spinaci, questa ricetta ha il 26% di calorie in meno, il 45% in meno di carboidrati (e stiamo parlando di un primo piatto) e il 20% di grassi saturi in meno.
  • Avete colorato la pasta con coloranti naturali, preparati da voi a partire dalla verdura. Coloratissimi, profumati e ricchissimi di fibre. Per sapere come produrre le farine di piselli e di barbabietola, potete andare sulla ricetta Ravioloni #celafaremo su www.lacuocainsolita.it
  • Le farine colorate si conservano per 6 mesi a temperatura ambiente chiuse in un barattolo. Potrete usarle per ricette salate ma anche per colorare creme dolci e biscotti.
  • Se volete, potrete usare anche la farina di semola integrale (ricordando che assorbe più acqua: usate più acqua per l’impasto), per un maggiore apporto di fibre
  • Se avete problemi con i latticini o se siete vegani, potete sostituire la ricotta con il tofu aromatizzato alle erbe e il parmigiano con il lievito alimentare in scaglie.

Per sapere come produrre le farine di piselli e di barbabietola, potete andare sulla ricetta Ravioloni #celafaremo su www.lacuocainsolita.it

Approfondimenti e i consigli per l’acquisto degli “ingredienti insoliti” a questo link: https://www.lacuocainsolita.it/ingredienti/).

In caso di allergie…

Allergeni presenti: Cereali contenenti glutine, latte

Preparazione

Fase 1: LA PASTA FRESCA

Per ogni colore, separatamente, mescolate tutti gli ingredienti in una terrina a bordi alti. Lavorate l’impasto per circa 5-10 minuti con le mani, su un piano di lavoro pulito, fino a quando vi accorgerete che la superficie diventa liscia, quasi come la seta. Se volete velocizzare il lavoro, potete anche fare un impasto unico sommando tutti gli ingredienti (ma non mettete tutta l’acqua subito: ne aggiungerete dopo, poco alla volta) tranne le farine colorate e dopo 6-7 minuti dividete l’impasto in tre parti uguali; una parte resterà così; ad una parte invece andrà mescolata la farina rossa di barbabietola, mentre alla terza parte aggiungerete la farina verde di piselli. Aggiungete l’acqua che non avevate aggiunto prima (attenzione perché ogni impasto richiede delle quantità di acqua diversa). Mescolate bene gli impasti rosso e verde in modo che il colore diventi ancora più uniforme. Chiudete separatamente le tre palline di pasta fresca in fogli di pellicola e lasciate riposare per 30 min.

FASE 2: IL RIPIENO

Fate imbiondire a fuoco vivo i porri sminuzzati finemente nell’olio in una padella. Versate quindi un poco di acqua (meno di una tazzina da caffè) e lasciate evaporare completamente (questo servirà per rendere i porri più leggeri e digeribili). Aggiungete ora i finocchi già cotti a vapore e schiacciati con una forchetta e lasciate cuocere ancora 2 minuti. Togliete dal fuoco e unite la ricotta fresca, il sale e il pepe e amalgamate bene.

FASE 3: LA PREPARAZIONE DEI RAVIOLONI #CELAFAREMO

Prendete circa 20 g di pasta fresca e create una piccola pallina. Infarinate leggermente il piano di lavoro e con il matterello stendete la pasta, creando un disco di circa 10-12 cm (la pasta non dovrà essere troppo sottile). Cercate di non infarinare la parte superiore del disco. Fate la stessa cosa con ogni impasto colorato.

In una metà del cerchio disponete una cucchiaiata di ripieno (circa 30 g) e poi chiudete sopra l’altra metà del cerchio. Sigillate bene la mezzaluna con i lembi di una forchetta. Disponete su un piano infarinato con semola.

FASE 4: LA COTTURA

Portate a bollore una pentola di acqua. Salate e buttate delicatamente i ravioloni. Scolate dopo 2 minuti, con l’aiuto della schiumarola.

FASE 5: LA PRESENTAZIONE DEL PIATTO

Condite i vostri Ravioloni #celafaremo con le foglie di salvia sminuzzate, il parmigiano e un filo d’olio, che daranno ancora più sapore al vostro piatto senza nascondere i tre colori della nostra bandiera!

Buon appetito e buona festa!

CONSERVAZIONE

Nel surgelatore (da crudi): separate bene tra loro i ravioloni e cospargeteli di semola. Una volta surgelati, potete metterli tutti insieme in un sacchetto gelo e conservarli per 3-6 mesi. Al momento dello scongelamento, separateli nuovamente tra loro e sistemateli su un vassoio con della semola.

In frigorifero (da crudi): 2-3 giorni (fateli asciugare un pò all’aria prima di metterli frigorifero e poi chiudeteli in un contenitore). Sconsigliato conservarli dopo cottura (si attaccano tra loro).

Chi è La Cuoca Insolita

La Cuoca Insolita (Elsa Panini) è nata e vive a Torino. E’ biologa, esperta in Igiene e Sicurezza Alimentare per la ristorazione, in cucina da sempre per passione. Qualche anno fa ha scoperto di avere il diabete insulino-dipendente e ha dovuto cambiare il suo modo di mangiare. Sentendo il desiderio di aiutare chi, come lei, vuole modificare qualche abitudine a tavola, ha creato un blog (www.lacuocainsolita.it) e organizza corsi di cucina. Il punto fermo è sempre questo: regalare la gioia di mangiare con gusto, anche quando si cerca qualcosa di più sano, si vuole perdere peso, tenere a bada glicemia e colesterolo alto o in caso di intolleranze o allergie alimentari.

Tante ricette sono pensate anche per i bambini (perché non sono buone solo le merende succulente delle pubblicità). Restando lontano dalle mode del momento e dagli estremismi, sceglie prodotti di stagione e ingredienti poco lavorati (a volte un po’ “insoliti”) che abbiano meno controindicazioni rispetto a quelli impiegati nella cucina tradizionale. Usa solo attrezzature normalmente a disposizione in tutte le case, per essere alla portata di tutti.

Calendario corsi di cucina ed eventi con La Cuoca Insolita alla pagina https://www.lacuocainsolita.it/consigli/corsi/

Giuseppe Bergamaschi, chi è l’uomo che ha trasformato le maschere di Decathlon per gli ospedali

Rubrica a cura di ScattoTorino

Papà bresciano e mamma coreana, Giuseppe Bergamaschi è un cittadino del mondo. Nato in Sud America, ha vissuto i primi anni di vita in Africa e sin da bambino ha interagito in un contesto multiculturale ricco di contaminazioni. La sua visione ampia del mondo è una qualità che ancora oggi fa di lui un uomo lungimirante sia nella vita sia nel lavoro. Benché non sia torinese, ha vissuto all’ombra della Mole. Grazie al ruolo del padre, Amministratore Delegato del gruppo Fiat, ha conosciuto la Torino dei capi di stato, degli imprenditori, ma anche delle persone meno note. Amante delle sfide che il territorio gli pone, Giuseppe Bergamaschi si è specializzato nel campo tecnologico quando il settore era ancora agli esordi e ha fondato la Onevo Group. L’azienda è specializzata nella progettazione, prototipazione, produzione e fornitura per le imprese di tecnologie e servizi ICT all’avanguardia, dedicate alla gestione Smart dei settori City, Retail, Office, Bulding, Eventi, Mobility e Industry 4.0. Poiché, dice Bergamaschi, convivere è diverso dal semplice appuntamento di lavoro, dal 2014 ha creato infine degli uffici dedicati allo smart office in modo da ospitare altre aziende con le quali collaborare e creare una contaminazione di idee. Perché ScattoTorino lo intervista­­­? Perché in epoca Covid-19 quest’uomo ricco di energia e di passione ha sentito l’esigenza di fare qualcosa per aiutare e in una domenica di pandemia ha realizzato i raccordi e le valvole stampate in 3d che permettono l’adattamento delle maschere da snorkeling di Decathlon per l’utilizzo in cpap. Quelle utilizzate nei reparti di rianimazione.

L’attenzione verso il prossimo è nel suo dna?

I miei genitori hanno portato avanti una grande attività sociale in Sud America. Quando ero bambino e vivevamo là per il lavoro di mio padre, nei fine settimana ci recavamo nelle zone abitate dagli Indios per portare cibo e tutto ciò che mancava, inoltre costruivamo case, chiese, scuole e sviluppavamo l’allevamento. Utilizzavamo materiali di scarto come gli imballi in legno delle portiere delle auto che dovevano essere mandati al macero o i vetri difettosi delle macchine. Il metodo che papà aveva ideato era sostenibile ed ecologico. Quando gli stabilimenti erano chiusi, poi, i miei genitori organizzavano giorni di scuola per i bambini che non potevano frequentarla regolarmente”.

Avrebbe potuto seguire la professione paterna, invece ha optato per la tecnologia. Perché?

“Perché un tema in continuo divenire ed è sinonimo di ciò che è l’uomo: è curiosa, ha bisogno di evolvere e di scoprire aspetti nuovi della vita e lavora per migliorarli. All’inizio la tecnologia era per pochi e il mio compito era dare una prospettiva di sviluppo al settore, ad esempio facendo capire ai clienti la sua importanza non solo professionale, ma anche nella vita privata. Siccome credo che la specializzazione sia fondamentale, ho creato delle business unit con competenze mirate per ogni settore e successivamente ho interconnesso le diverse tecnologie – dall’informatica alla sorveglianza, dalla telefonia al web – per creare possibilità quasi infinite di utilizzo che portassero a innovazione, efficienza organizzativa e funzionale e ad un’economia sostenibile che puntasse all’ottimizzazione”.

Di cosa si occupa Onevo Group?

“È un’azienda tecnologica ICT e system integrator di telecomunicazioni, videoanalisi, networking, IoT, raccolta dati, sicurezza informatica e videosorveglianza che sviluppa tecnologie a supporto delle aziende e degli utilizzatori finali. La sua mission è migliorare le esperienze e renderle più fruibili, innovative e sicure in ogni ambiente. Onevo ha il compito di rendere interconnessi i luoghi, gli strumenti, le necessità, le persone con la massima attenzione verso l’esigenza dell’uomo e non del suo controllo. È in prima linea in questa rivoluzione grazie a tecnologie proprietarie sviluppate per i settori office, retail, building, industry e automotive e, con il supporto di partner di eccellenza, completa e integra la propria offerta con servizi a 360° su soluzioni innovative di piattaforme, design e arredi”.

Onevo e Salone dell’Auto Parco Valentino di Torino. Una partnership importante?

“Dalla seconda edizione abbiamo promosso quello che è stato un evento rappresentativo della città, condividendo i temi dell’innovazione, del design e della ricerca, da sempre orgoglio di Torino. Abbiamo sviluppato un nuovo ecosistema composto da Smart City, Smart Mobility, Smart Building e Smart Interior con il quale ognuno di noi vivrà e si confronterà nei prossimi anni.

Siamo infatti consapevoli che i luoghi diventeranno ibridi e dovranno mutare in base alle esigenze degli utilizzatori e che la tecnologia contaminerà anche gli arredi, che diventeranno intelligenti. Il nostro lavoro ha riscosso molto successo e saremo presenti anche al Milano Monza Open-Air Motor Show dove ci occuperemo della parte tecnologica dell’evento”.

In che modo Onevo Group sta supportando la sanità durante la pandemia?

“In questi giorni la costante di molti è vivere in modo passivo la situazione, perché è difficile pensare di fare qualcosa di utile. Io invece avevo una grande energia, ma non sapevo come incanalarla. Poi una domenica a pranzo ho letto che a Brescia stampavano delle valvole 3D e lanciavano un appello a tutta Italia perché l’emergenza era ormai avanzata e ne avevano bisogno. Sono andato in ufficio, ho preparato e stampato tutto in modo da spedire già il lunedì successivo. Ho anche parlato con i collaboratori, che come sempre si sono dimostrati coesi, e abbiamo iniziato a lavorare senza sosta per produrre i raccordi e le valvole stampate in 3D che permettono l’adattamento delle maschere da snorkeling di Decathlon per l’utilizzo in cpap. Per intenderci, quelle usate nei reparti di rianimazione degli ospedali”.

Come è stato l’iter per consentire l’utilizzo delle valvole?

“Abbiamo contattato gli ospedali piemontesi per dare la nostra collaborazione e abbiamo iniziato un confronto proattivo con i medici per capire come usare questi strumenti, ma è stato tutto molto complesso. Il primo problema era reperire le maschere perché eravamo appena entrati nel lockdown, così abbiamo utilizzato Facebook per chiedere alle persone di donarcele e centinaia di contatti hanno risposto subito all’appello. Oltre al fatto che non potevamo incontrare i donatori e quindi non sapevamo come recuperare le maschere, c’era il problema che i dispositivi non sono medici né certificati. Abbiamo contattato la Polizia di stato, la Protezione Civile, i comuni, gli ospedali e le altre istituzioni per creare un protocollo funzionale. Il materiale non certificato può essere usato solo in caso compassionevole, quindi quando non si hanno altri mezzi, e abbiamo percorso questa via”.

A chi state dando i dispositivi di protezione?

“Abbiamo iniziato a collaborare con la Protezione Civile di Acqui Terme che si è occupato della distribuzione delle maschere agli ospedali. Abbiamo svolto un lavoro di igienizzazione, sanificazione, disinfezione all’ozono, montaggio e collaudo di ogni kit, che abbiamo consegnato agli ospedali e alle case di cura della zona di Acqui Terme e di Torino”.

Un altro problema è il reperimento delle mascherine. Come state procedendo?

“Abbiamo pensato ad una modifica della maschera da snorkeling di Decathlon per i medici e per il personale sanitario in modo da proteggere occhi, naso e bocca. Abbiamo progettato dei nuovi kit, che abbiamo stampato in 3D, che ci permettono di utilizzare dei filtri usati in ambito medico, militare e agricolo, per cui meno difficili da reperire, con una protezione garantita al 99% e una ventilazione sufficiente che permette di non far appannare la maschera. Questi filtri costano meno delle mascherine fpp2 e fpp3 e durano di più: la mascherina usata dal personale medico, infatti, dopo 4 ore deve essere buttata via, mentre i filtri durano dalle 24 ore ad oltre un mese. Abbiamo studiato i pezzi in ospedale e cercato velocemente la tecnologia più adatta e il materiale utilizzabile. Inoltre non tutti i filtri, i raccordi e le valvole hanno la stessa misura per cui ci è stato richiesto dalla Protezione Civile di riadattarli e in meno di 24 ore lo abbiamo fatto. Si sono complimentati dicendo che i nostri prodotti sono precisi e di qualità. Sono contento di contribuire ad aiutare in questo stato di emergenza”.

Torino per lei è?

“È una città che scelgo perché mi ci sono ritrovato a vivere, ma è anche una scelta confermata. È a misura d’uomo e ha un valore storico e artistico importante. Torino è una piazza dura perché non si apre subito alle nuove idee, ma se si riesce qui, si riesce anche altrove e questo è stimolante. Spesso a Torino nascono delle eccellenze che poi vengono abbandonate perché non si hanno le risorse per sostenerle. Avremmo bisogno di consolidare le capacità e valorizzarle nel territorio perché quando l’innovazione fatta con coscienza si unisce alla tradizione al buon gusto, si crea un luogo di cultura e qualità”.

Un ricordo legato alla città?

“Da bambino andavo al Club Scherma Torino che ha sede presso il parco del Valentino e a pranzo, con mia madre, consumavamo un panino al Giardino delle rose e dopo facevamo una passeggiata fino in centro. Questo ricordo mi ha indotto ad essere partner del Salone dell’Auto Parco Valentino: volevo fornire dei servizi e metterlo in sicurezza perché volevo valorizzarlo”.

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

L’isola del libro

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Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

John le Carré  “La spia corre sul campo”   – Mondadori-  euro  20,00

L’88enne scrittore inglese David John Moore Cornwell, che da quasi 60 anni firma i suoi libri ad alto tasso di adrenalina con lo pseudonimo John le Carré, ambienta la sua ultima spy story al tempo della controversa Brexit e inventa una spia che incarna lo stato d’animo di un patriota deluso. E’ Nat, 47 anni, vanta una genealogia affascinante: il padre, un malinconico maggiore delle Guardie Scozzesi, mentre la madre -discendente da nobile famiglia russa scampata alla rivoluzione- era propensa a spassarsela con ammiratori vari. Negli ultimi 25 anni Nat è stato membro dei Servizi Segreti Britannici, fedele fino al midollo alla sua Regina. Se era convinto che il suo lavoro di agente segreto volgesse verso una meritata pensione, è costretto a rivedere i suoi piani perché un nuovo incarico lo attende. Deve riesumare e rendere operativo il “Rifugio”, sezione russa con base a Londra, più che altro “…una succursale in disuso….discarica per disertori da quattro soldi ricollocati e informatori allo sbando di infima categoria..” Ecco Nat alle prese con più problemi: oligarchi russi che nella city riciclano soldi sporchi, reclutamento di amanti di suddetti oligarchi, la moglie blasonata di uno dei capi dell’MI6 che intrallazza con i miliardari russi e mette i bastoni tra le ruote alle spie che cercano di incastrarli. Insomma gli elementi per una bella spy story ci sono tutti. Aggiungete personaggi interessanti come la giovane Florence (idealista che svetta a capo della scalcagnata squadra del Rifugio), la moglie paziente e la figlia ribelle di Nat, il ricercatore Ed (che odia la Brexit Trump e Putin). Collocateli tutti sullo sfondo di un’Inghilterra in cui non ci si riconosce più, ed avrete tutte le coordinate per un libro che trasuda anche una certa rabbia politica.

 

Dolores  Reyes  “Mangiaterra”  -Solferino-  euro  17,00

E’ un indimenticabile personaggio femminile quello creato dalla scrittrice argentina Dolores Reyes, nata a Buenos Aires nel 1978, femminista, insegnante e madre di 7 figli, che dedica questo libro di esordio alla memoria di due adolescenti vittime di femminicidio. Inutile dire che il romanzo è un caso politico oltreché editoriale, perché onora la memoria delle giovani Melina Romero e Araceli Ramos, uccise dalla brutalità maschile e i cui resti riposano in un cimitero nell’area metropolitana della capitale argentina.

Protagonista di queste intese 205 pagine è Mangiaterra, ragazzina che scopre presto di avere un potere misterioso. Un dono che è anche una maledizione.

Le basta inghiottire un pugno di terra perché le appaiano persone morte o scomparse, e vedere che fine hanno fatto. Ha iniziato mangiando la terra sulla tomba della madre, nella speranza di sentirla ancora vicina per qualche istante. Ed è la sua prima visione agghiacciante perché scopre che è stata picchiata a morte dal marito…e dopo nulla sarà mai più come prima.

Da allora diventa una sorta di veggente, dapprima vista con sospetto; poi la notizia del suo dono si diffonde e a lei finisce per rivolgersi un’umanità dolente in cerca di risposte sulla sorte dei suoi cari. Nei sobborghi miseri di Buenos Aires le tragedie sono una costante: donne e bambini spariscono o vengono uccisi quotidianamente. E’ a Mangiaterra che chiedono aiuto i parenti: la conducono su tombe o luoghi cari ai scomparsi, lei affonda le mani in zolle e segreti racchiusi nel suolo, il suo corpo e la sua anima si contraggono e il suo sguardo scalfisce la nebbia che avvolge una morte, una prigionia, una scomparsa. Lei può regalare speranze oppure annunciare una morte. E lei può fare giustizia smascherando mostri assassini, trovando donne tenute prigioniere da folli, indicando corpi martoriati e occultati in sepolture nascoste. Può restituire alle famiglie angosciate i cari che davano per persi e regalare il sollievo della pace alle anime di chi non tornerà più, ma almeno avrà una degna sepoltura.

 

 

Juan José Saer  “Il fiume senza sponde”  -La Nuova Frontiera – euro 18,00

E’ un reportage tra storia, antropologia, follie, aneddoti e ricordi: di fatto un trattato immaginario sul Rio de la Plata, corso d’acqua immenso in cui confluiscono i fiumi Uruguay e Paranà. E’stato scritto e pubblicato nel 1991 da uno dei massimi scrittori argentini della seconda metà del 900, Juan José Saer (nato nel 1937, morto nel 2005), ora tradotto da Nuova Frontiera. Sulle sponde del Rio de la Plata -dove sorgono le metropoli di Buenos Aires e Montevideo- nel 1516 c’era l’assoluta desolazione.

Fu scoperto da Juan Diaz de Solís che lo chiamò Mar Dulce; però, ironia della sorte, proprio lì fece una fine orrenda. Appena sbarcato con un piccolo contingente di uomini fu assalito dagli indios che a colpi di frecce, lance e mazze lo massacrarono e mangiarono crudo insieme ai suoi compagni, tutto sotto gli occhi inorriditi dei marinai rimasti sulla nave. A detta di storici equilibrati, de Solis e i suoi uomini furono considerati cacciagione e come tali braccati e uccisi.

Parte da lì, Saer –narratore colto e profondo- per mettere a fuoco credenze e usanze degli indigeni che abitavano la zona. Poi ripercorre le rotte di altri navigatori come Magellano e Caboto,  per arrivare alle fasi della fondazione e dello sviluppo di Buenos Aires. Città tra le più affascinanti e complesse al mondo: dalla fase coloniale in cui era un agglomerato di ranchos squallidi e poveri, poi lo sviluppo da metà del 1700, fino agli anni terribili della dittatura militare e dei desaparecidos. Ed è proprio il Rio de la Plata la tomba per migliaia di prigionieri che, dopo essere stati sequestrati e torturati, venivano storditi col pentotal, caricati su aerei ed elicotteri della marina e gettati, ancora vivi, in mare e nel grande fiume.

 

 

 

#iosorrido, il coinvolgente progetto fotografico di Barbara Odetto e Alessandro Lercara

Rubrica a cura di ScattoTorino

Da un anno e mezzo ScattoTorino racconta i protagonisti della città. A dar loro voce è la giornalista Barbara Odetto, che ha creduto nel format ideato da Carole Allamandi sin dagli inizi. Questa volta, però, i ruoli si invertono e Carole intervista Barbara che, come addetta stampa e giornalista di moda e lifestyle, è abituata a lavorare “dietro le quinte” per dare luce ai clienti o ai tanti cantanti e attori che intervista. Come copywriter e titolare di un’agenzia di comunicazione, sono invece le campagne pubblicitarie a parlare per lei. Con lei intervista anche Alessandro Lercara, fotogiornalista e reportaggista da oltre 20 anni che ha mantenuto viva la propria produzione artistica personale ottenendo riconoscimenti di cui il più recente è la vittoria del concorso fotografico indetto dal UNHCR – Agenzia ONU per i rifugiati – dal titolo Per Amore. Perché ScattoTorino dedica loro spazio? Perché sono gli autori di #iosorrido: un progetto fotogiornalistico che si sta muovendo sui social e che in pochi giorni ha riscosso molto interesse. In dieci anni di amicizia, Barbara e Alessandro hanno collaborato insieme sia per alcuni magazine sia per dei clienti comuni. Nel 2012, dopo aver visitato i Campi di Concentramento e Sterminio di Auschwitz-Birkenau con il Treno della Memoria, hanno dato vita ad un progetto fotogiornalistico che successivamente si è trasformato in una mostra che ancora oggi viene richiesta da enti privati durante il Giorno della Memoria o il 25 aprile: Echi da Auschwitz. Viaggio nella memoria attraverso le immagini di Alessandro Lercara e i testi di Barbara Odetto.

Barbara, come è nato #iosorrido?

In quarantena nelle nostre case, come tutti, a causa del Coronavirus, qualche giorno fa Alessandro Lercara ed io, parlando al cellulare, ci siamo chiesti come avremmo potuto fare qualcosa di utile. Il nostro lavoro è sempre stato raccontare e confrontandoci abbiamo capito che in questi giorni così difficili volevamo provare a dare un punto di vista positivo. Così, proprio ora che una mascherina davanti alla bocca è sinonimo di rispetto per il prossimo, è nato #iosorrido”.

Alessandro, di cosa si tratta?

“È un reportage che vuole documentare questo periodo così surreale attraverso le parole e le immagini di chi da ormai un mese è forzatamente in casa ed esce solo per lavoro o per svolgere le mansioni previste dalla legge. È un invito a cercare dentro di sé uno o più aspetti positivi di questo momento storico, un hashtag per sentirsi uniti a distanza e per trasmettere forza a chi fatica a ritrovare il bello nel quotidiano”.

Barbara, sorridere durante la pandemia può sembrare in controtendenza?

“In effetti, durante i numerosi brainstorming che hanno preceduto la nascita del progetto e il relativo lancio sui social, Alessandro ed io ci siamo chiesti più volte se fosse giusto sorridere durante questa terribile emergenza causata dal Covid-19 che, come purtroppo testimonia quotidianamente la cronaca, sta cancellando una generazione e distruggendo gli affetti più preziosi. Ci siamo domandati se fosse irrispettoso verso le vittime, i contagiati e le loro famiglie. Poi abbiamo pensato che forse tutti abbiamo bisogno un sorriso, di un momento spensierato per spezzare la tensione. Questo virus è democratico e in maniera diversa colpisce tutti: chi è stato contagiato, i medici che lottano ogni giorno e quando tornano a casa devono stare lontano dalla famiglia, i professionisti e i commercianti obbligati a rinunciare al lavoro, chi invece ogni giorno lavora con la paura di contrarre la malattia. Forse un sorriso può alleviare la tensione e distogliere per un attimo il pensiero da questo dramma”.

Alessandro, come si partecipa a #iosorrido?

“Chi desidera far parte della community può inviare un’email a iosorridoprogetto@gmail.com oppure contattarci su Facebook e Instagram. Le pagine si chiamano Iosorrido. Ognuno dei protagonisti deve mandarci 3 foto orizzontali in alta risoluzione indicando il nome dell’autore: un primo piano dove si vede solo il viso coperto dalla mascherina, una a figura intera o a mezzo busto, sempre con la mascherina indossata, e un primo piano con la mascherina che pende da un orecchio che useremo a fine quarantena. Le foto possono essere scattate in casa, sul balcone, in cortile, per strada mentre si fa la spesa o si svolge una delle attività consentite dalla legge. Io effettuerò la post produzione in modo che ogni immagine sia perfetta e in linea con lo stile del progetto e in alcuni casi ho potuto scattare personalmente le foto con un teleobiettivo, che mi ha permesso di rimanere ad una distanza di almeno 5 metri, durante i miei spostamenti per i servizi fotogiornalistici. I partecipanti dovranno poi rispondere a 3 domande che invieremo e che saranno studiate specificamente per la persona, delle quali una è il leit motiv del progetto: per chi o per cosa sorridi? A tutti sarà richiesto infine di compilare la liberatoria che inoltreremo”.

Barbara, come evolverà il progetto dopo la quarantena?

“In questa prima fase le foto e le interviste saranno pubblicate sui social, ma un giorno ci piacerebbe allestire una mostra o pubblicare un libro per testimoniare il periodo storico e per ringraziare chi ha creduto nell’iniziativa”.

Alessandro, è difficile lavorare al progetto insieme, ma distanti?

“La tecnologia ci aiuta, ma ci sentiamo spesso per definire il piano editoriale e verificare i materiali che riceviamo. L’energia positiva di #iosorrido è stata capita e in tanti ci hanno già inviato foto e interviste. La partecipazione è così elevata che anche noi ci siamo stupiti e queste persone, senza saperlo, non solo ci hanno regalato i loro sorrisi, ma hanno fatto sorridere anche noi”.

Torino per voi è?

Barbara: “Una bella signora che si svela a poco a poco. Molti amici stranieri, quando vengono a Torino, rimangono impressionati dalla sua bellezza e dal patrimonio artistico e culturale che impreziosisce le nostre piazze e le nostre vie. Io stessa a volte scopro angoli affascinanti che non conoscevo”.

#IOSORRIDO

Alessandro: “Una fonte continua d’ispirazione, una città molto regolare nelle forme che cela un’energia e un temperamento forti. Quel temperamento che l’ha resa precursore di molteplici invenzioni e capace di distinguersi nel mondo. Torino è il luogo in cui mi sento protetto e allo stesso tempo libero”.

Un ricordo legato alla città?

Barbara: “Come addetta stampa seguo eventi moda che vedono la partecipazione di moltissime persone. Ricordo l’emozione che provo poco prima di far entrare il pubblico. Mi piace sapere che noi Torinesi non siamo poi così immobili come spesso veniamo descritti e sono contenta, nel mio piccolo, di contribuire a far conoscere un’anima dinamica della città. Perché Torino è così: può sembrare distratta e non interessata, ma se sai affascinarla, risponde con il cuore. ScattoTorino lo dimostra ed anche #iosorrido”.

Alessandro: “Come fotogiornalista ho avuto il piacere di documentare molti degli avvenimenti accaduti nella mia città negli ultimi 20 anni ed è bellissimo vedere l’energia con cui partecipa Torino, il senso d’appartenenza dei Torinesi e il sorriso di soddisfazione che ho visto nascere più volte alla richiesta di informazioni da parte di un turista in visita. Perché all’apparenza Torino è austera, ma ha un cuore enorme”.

Coordinamento e intervista: Carole Allamandi

Ph: Alessandro Lercara

Nella foto di copertina (da sinistra in alto): Barbara Odetto giornalista e addetta stampa, Alessandro Lercara fotografo, Sergio Rosso responsabile degli Asili Notturni e dell’associazione Piccolo Cosmo, Maurizio Maina imprenditore agricolo, Rosanna Tonello pensionata ed ex sarta, Virginia Sanchesi organizzatrice di eventi, Luciano Gallino dirigente d’azienda, Erika Lercara fiorista, Ivan Bert musicista, Barbara Bonassin impiegata comunale, Antonella Moira Zabarino presidente di Progesia, Carole Allamandi imprenditrice, Beppe Tamburino running motivator.

N’aso carià ‘d sòld, il profondo detto piemontese

Rubrica a cura del Centro Studi Piemontesi 

N’aso carià ‘d sòld. Un modo di dire piemontese che letteralmente si traduce “un asino carico di soldi”. Il significato è profondo: si riferisce a persona che per quanto si abbellisca di orpelli, di soldi, se non arricchisce il suo animo resta comunque quel che è. “In effetti un asino anche se lo carichi di ornamenti, gioielli e lo si tappezza di banconote rimane sempre un asino

[Vedi: Piero Abrate – Pino Perrone, Modi di dire piemontesi, prefazione di Albina Malerba, disegni di Dario Allolio, Genova, Ligurpress, 2016, pp. 366].

A tu per tu con Luca Balbiano, ultima guida della famiglia che ridiede lustro alla Freisa

Rubrica a cura di ScattoTorino

Il filosofo britannico Herbert Spencer sosteneva: “L’uomo saggio deve ricordarsi che è un discendente del passato, ma anche un genitore del futuro”. Questo pensiero è condiviso dalla Famiglia Balbiano, che vanta 79 anni di storia e notorietà nel settore vitivinicolo. Le loro uve crescono in Piemonte, sulla collina torinese, e danno origine al celebre Freisa di Chieri e ad un considerevole numero di etichette che si suddividono in vini rossi, bianchi, rosati, spumanti, vini per dolci e grappe che da Andezeno, sede delle Cantine Balbiano ricche di charme e tradizione, vengono distribuite in Italia e all’estero grazie anche all’e-commerce. Perché la storia non esclude l’innovazione. ScattoTorino ha incontrato Luca Balbiano, terza generazione alla guida dell’azienda oltre che Presidente del Consorzio di Tutela delle DOC Freisa di Chieri e Collina Torinese, Cavaliere del Tartufo e dei Vini di Alba e Cittadino Onorario della Republique du Montmartre. Curioso, dinamico e attento alle sfide che il presente gli offre, da poco ha lanciato l’interessante iniziativa #stappatincasa, la campagna in diretta social per condividere l’amore per il vino anche durante la quarantena che il Covid-19 ci impone.

L’azienda vitivinicola nasce nel 1941. Ripercorriamo la sua storia?

“Il fondatore della Balbiano Melchiorre snc fu mio nonno che era un mediatore di uve e gestiva le cascine del territorio. Nel ’41 si mise in proprio e iniziò a vinificare. Molti di coloro che vivevano nelle campagne piemontesi possedevano delle terre, ma la vigna era la più laboriosa da gestire e raggiungere un buon risultato era punto di orgoglio. La parte del Piemonte in cui operiamo è spesso conosciuta per la propensione alla meccanica e alla meccatronica, ma la grande espansione viticola sulla collina di Torino è stata la culla di molte varietà autoctone già citate in scritti di 500 anni fa. Il primo documento storico che parla di Freisa, ad esempio, è una bolla doganale di Pancalieri del 1517. Con l’avvento di mio padre Francesco in azienda, nella metà degli anni ‘70, c’è stato un innalzamento della qualità a scapito della quantità. Il concetto su cui ha puntato era: bere meno, ma bere meglio. Si è passati dal vino sfuso nella damigiana al vino in bottiglia, si è posta maggiore attenzione alla vigna e alla cantina e c’è stata una rivoluzione tecnologica per cui la vinificazione veniva fatta a temperatura controllata e si impiegavano fondi per le ricerche scientifiche in modo da conoscere meglio il vino del territorio. In quegli anni abbiamo trasferito la sede da Andezeno a quella che era la casa di campagna di famiglia, una villa del 1700 che oggi ospita la cantina di produzione, la cantina di invecchiamento e il Museo Balbiano. Io mi sono laureato in giurisprudenza nel 2006, ma lavoravo già in azienda durante gli studi. Desideravo continuare la tradizione dei Balbiano, consapevole che fare il vignaiolo è una professione difficile dove non ci sono week end e neppure vacanze. Ho appreso le dinamiche di questo mondo vivendolo, ma l’università mi ha permesso di avere una visione diversa del settore. Come mio padre e mio nonno, ho sempre amato coltivare passioni diverse che nel tempo sono servite per il mio lavoro e che oggi mi aiutano, in qualche caso, anche per apportare delle innovazioni”.

Una delle vostre eccellenze è la Freisa di Chieri

“Abbiamo scelto di vinificare solo vitigni autoctoni, soprattutto la Freisa che nel chierese trova la sua sede storica e che un tempo era uno dei vitigni più diffusi in Piemonte. Le difficoltà di vinificazione l’hanno reso meno modaiolo per cui la nostra è stata una scelta un po’ donchisciottesca, ma volevamo una varietà che raccontasse la storia delle nostre terre. Con mio padre c’è stata la grande trasformazione che ha salvato la Freisa dal rischio di scomparire dal panorama vitivinicolo piemontese, che in quegli anni si proiettava su qualità più gentili come Barbera e Dolcetto perché erano più facili da coltivare. La Freisa per secoli è stato un vitigno di supporto ad altre varietà, ad esempio al Nebbiolo con il colore. Era un vitigno da taglio, per cui l’altra grande operazione di mio padre è stata la rinascita del blasone Freisa che è sempre stato poco amato dall’intellighenzia vinicola piemontese. È stato un percorso complesso portarlo all’attuale rango, ma oggi il comparto Freisa rappresenta il 2% della produzione locale ed è entrato nei salotti buoni grazie a papà e agli altri viticoltori. In Italia è più difficile sradicare la sua nomea, ma il pubblico giovane è interessato a scoprirlo e siamo contenti di averlo preservato dal suo declino. Siamo una delle cantine pioniere”.

Tradizione fa rima con innovazione?

“Ho sempre avuto interesse per la tecnologia e cerco di applicare le dinamiche moderne ad un mondo che per certi versi è ancora legato al passato e alla storia. Infatti il vino si produce più o meno sempre nello stesso modo da secoli. A me piace andare oltre le abitudini, soprattutto nella comunicazione. Non si può parlare ad un trentenne con un linguaggio aulico e i millennial hanno un accesso rapido alle informazioni, verificano, vogliono essere consigliati dai coetanei e il dialogo con loro deve essere diverso. Rispetto al cibo, che ha un’esposizione mediatica notevole grazie anche ai format televisivi, il vino non parla al grande pubblico. Il nostro racconto è quindi più arretrato, ma si può attualizzarlo, ad esempio è possibile comunicare in modo targetizzato in base all’età. I social network hanno un ruolo importante in questo senso, ma sarà sempre più fondamentale che i produttori ci mettano la faccia e comunichino in modo diretto. La strada da fare è ancora lunga perché occorre mettere in gioco certezze cristallizzate, ma ogni produttore nel suo piccolo può fare la differenza e nei prossimi anni vincerà la sfida”.

Grazie a voi Vigna della Regina è una delle pochissime vigne urbane del mondo. Come è nato questo progetto?

“È un pezzo di cuore perché è il primo progetto che ho seguito in prima persona, dal 2004 quando è nato. È un lavoro entusiasmante perché all’inizio sembrava una missione quasi impossibile. Come sa, Villa della Regina è stata ripresa da uno stato di abbandono e ci sono voluti 10 anni per restaurarla. L’architetto Fontana, persona di grande visione, voleva che tornasse alla sua vocazione agricola ed essendo nostro cliente, ci ha contattati per avere un’opinione sulla fattibilità del progetto. Siamo andati a fare la supervisione al versante nord della proprietà in un giorno cupo di novembre e vedendo dove l’architetto voleva che crescesse la vigna, eravamo propensi a non accettare la sfida. Il tempo di andare dalla Villa in azienda e lo abbiamo chiamato per dare la nostra disponibilità.

Per mesi abbiamo fatto le analisi dell’aria, dell’acqua, delle falde e abbiamo cercato di capire cosa fosse stato piantato in passato. Siamo riusciti a recuperare alcune radici che sono state studiate da Anna Schneider, una delle più grandi ampelografe italiane, e dal Professor Vincenzo Gerbi della facoltà di Agraria dell’Università di Torino e pare che un tempo in quelle terre ci fosse proprio la Freisa. Così abbiamo reimpiantato 2700 barbatelle di Freisa nel 2005, nel 2009 c’è stata la prima vendemmia e dal 2011 il vigneto di Villa della Regina è a Denominazione di Origine Controllata, oltre che uno dei pochi vigneti urbani. È stato complicato e faticoso, ma ci siamo riusciti. L’orgoglio di ridare a Torino il suo unico vino è stato importante. La vigna è sotto la tutela del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e l’azienda Balbiano lo gestisce per conto del Ministero per cui sappiamo che, allo scadere del contratto, potremmo perdere questo ruolo, ma non importa perché questo vino è un distillato d’amore in bottiglia”.

In questi giorni di quarantena lei ha ideato #stappatincasa. Di cosa si tratta?

“È un’operazione di azione-reazione. Il 9 marzo, dopo il discorso del Presidente Conte alla nazione, ho pensato che non volevo rimanere passivo nei confronti della situazione e mi sono chiesto cosa potevo fare per essere di aiuto. Lavorando nel settore vitivinicolo so che il nostro è un mondo fatto di socialità: il vino è un collante importante che spesso viene consumato in compagnia. Con lo stop forzato delle attività si rischiava di fermare il racconto del vino, che è fortemente legato al territorio, alle epoche e alle persone.

Con la nostra azienda ho sempre cercato di portare avanti una comunicazione che raccontasse le emozioni, perché altrimenti il vino sarebbe solo una bevanda. Avendo il tempo, il mattino dopo ho registrato un video dove invitavo i colleghi e gli appassionati che hanno un feeling con il vino a realizzare un video o una diretta per raccontare una bottiglia del cuore legata ad un ricordo. L’idea era potenzialmente semplice, ma ha avuto un enorme riscontro e in pochi giorni migliaia di persone hanno iniziato a seguire le pagine Facebook e Instagram. Sono contento perché vuol dire che questo tipo di approccio ha un senso e che la passione per il vino è vera”.

Qual è lo step successivo di #stappatincasa?

“Una campagna di raccolta fondi per la Croce Rossa di Bergamo perché abbiamo amici e colleghi della zona che ci raccontano le grandi difficoltà che purtroppo stanno vivendo. Abbiamo chiesto alle circa 60 cantine che fanno parte del progetto di offrire degustazioni nelle loro strutture. Chi donerà più di 10 euro per la CRI di Bergamo riceverà in cambio una degustazione: un’occasione per fare del bene, per degustare – quando si potrà uscire – vini di qualità, e per aiutare il comparto a ripartire”.

Torino per lei è?

“Per me è senso di appartenenza. Senza questo legame per il territorio e per la città un’operazione come la vigna di Villa della Regina non l’avrei mai intrapresa. Questo mix tra l’understatement sabaudo e l’orgoglio di voler fare qualcosa di unico e lasciare un piccolo segno nel grande libro di Torino ha spinto mio padre e me a fare cose che forse non avremmo fatto. Il mio è un legame vero, fisico, viscerale che mi rende orgoglioso e che mi porta a parlare di Torino e della mia terra prima ancora che dei miei vini. Credo infatti che sia importante raccontare la provenienza di qualcosa prima della cosa stessa”.

Un ricordo legato alla città?

“Se chiudo gli occhi e penso a Torino vedo la vigna di Villa della Regina con la Mole sul fondo e le montagne e in quel ricordo è sintetizzata la storia della città e la voglia di rinascere. Un po’ come la vite che ogni volta nasce, cresce, dà i suoi frutti poi si ferma per ricominciare, anche Torino ha saputo covare sotto la cenere la sua bellezza ed ora è pronta a farsi vedere. L’understatement sabaudo rischia di svalutare ciò che abbiamo, ma in realtà a noi Torinesi non manca nulla. Forse in questo momento dobbiamo rivedere le nostre idee e capire che ci sono tantissime cose vicino a noi che parlano di storia, arte, tradizione millenaria e non sono affatto scontate”.

La vigna Balbiano, accanto a Villa della Regina, che guarda Torino dalla collina

Coordinamento: Carole Allamandi

Intervista: Barbara Odetto

Le rolatine in crosta de La Cuoca Insolita

Non so voi, ma io mi sto organizzando per preparare il pranzo di Pasqua senza bisogno di uscire di casa a fare la spesa. La cosa più divertente è scoprire che si possono preparare da zero tanti piatti deliziosi, a casa propria, con ingredienti semplici, quasi sempre già nella dispensa. Nella grande difficoltà che tutti noi stiamo vivendo in questi mesi, la cucina può essere un bel momento di condivisione con la famiglia. E così sarà anche la Pasqua, che auguro a tutti di festeggiare in modo sereno, tra le mura di casa propria, resistendo alla tentazione di uscire. E gli agnellini, almeno con questa ricetta, saranno stati risparmiati!

Tempi: Preparazione 1 ora; Cottura 30 min

Attrezzatura necessaria: Tagliere e coltello a lama liscia, robot mixer tritatutto, leccapentole, 2 ciotole di medie dimensioni, pellicola da cucina, teglia da forno, matterello, rotella per losanghe (non essenziale)

Difficoltà (da 1 a 3): 2

Costo totale: 4,40 € (3,60 €/kg)

Ingredienti (4 rolatine da 150 g cad):

Per la pasta brisée

  • Farina manitoba – 75 g
  • Olio di oliva – 2 cucchiai
  • Acqua + vino bianco – 25 g in tutto (metà e metà)
  • Lievito di birra secco – 1 g
  • Sale fino – 3 pizzichi

Per l’impasto del polpettone

  • Ceci cotti e sgocciolati – 130 g
  • Noci sgusciate – 40 g
  • Verdure cotte – 40 g (finocchi e carote)
  • Uovo intero miscelato – 40 g
  • Cipolla – 40 g + Aglio – 1 pezzetto piccolissimo (1 g)
  • Olio e.v.o. – 15 g
  • Rosmarino (1 rametto) e prezzemolo fresco tritato (2 cucchiai)
  • Sale fino (1/2 cucchiaino) e pepe
  • Farina di semi di lino – 55 g
  • Farina di mais – 35 g

Per completare la rolata

  • Spinaci in padella – 160 g
  • Parmigiano – 4 cucchiai
  • Olio extra vergine – 4 cucchiai
  • 1 rosso d’uovo

Per completare il piatto

  • Patate – 500 g

1 rametto di rosmarino, olio e sale

Perché vi consiglio questa ricetta?

  • Valori nutrizionali: 236 Kcal/100 g (escluse le patate)
  • Oltre alla soddisfazione di aver fatto tutto voi, andate a vedere su un’etichetta qualsiasi di un prodotto industriale quanti conservanti e additivi ci sono.  In questa ricetta non ne avete neanche uno.
  • Le noci sono ricche di Vitamina E, utile a contrastare la formazione dei radicali liberi.
  • Grazie alle noci e ai semi di lino, ci garantiamo la dose giornaliera raccomandata (RDA) di acidi grassi Omega 3 (la stessa quantità in un filetto di salmone) = riduzione del rischio di malattie cardiovascolari.
  • In 100 g di impasto delle rolatine c’è una quantità di fibre circa 3-4 volte superiore rispetto a 100 g di una carota. Aggiungete anche gli spinaci e saranno ancora di più!

Approfondimenti e i consigli per l’acquisto degli “ingredienti insoliti” a questo link: https://www.lacuocainsolita.it/ingredienti/).

In caso di allergie…

Allergeni presenti: Cereali contenenti glutine, latte, uova, anidride solforosa e solfiti (da vino bianco)

Preparazione

FASE 1: LA PASTA BRISEE

Mescolate tutti gli ingredienti tranne il sale fino ad ottenere una palla omogenea. Aggiungete quindi il sale e mescolate ancora per un minuto. Chiudete in un foglio di pellicola e fate riposare per mezz’ora a temperatura ambiente.

Fase 2: L’IMPASTO DELLE ROLATINE

Se avete un robot con una buona potenza, potete preparare in casa la farina di semi di lino. Strappate le foglioline di rosmarino dal gambo e tagliatele a piccoli pezzetti con un coltello a lama liscia. Nel contenitore del robot mixer mettete tutti gli ingredienti tranne le farine (di lino e di mais). Tritate a massima velocità fino ad ottenere un composto cremoso (va benissimo che resti qualche pezzetto intero). Aggiungete la farina di semi di lino e la farina di mais e mescolate ancora con il robot. L’impasto dovrà risultare morbido ma non appiccicoso. Se necessario, aggiungete altra farina di semi di lino o di mais. Lasciate riposare per 15 minuti circa.

FASE 3: IL MONTAGGIO DELLE ROLATINE E LE PATATE

Tritate grossolanamente gli spinaci già cotti in modo che non siano filosi. Dividete la palla di pasta brisée in 4 parti uguali e formate con il matterello 4 fogli più o meno quadrati. Con la rotella per losanghe create una maglia e aprite i fori in modo regolare.

Dividete in 4 pezzi uguali l’impasto delle rolatine e ponetene una parte alla volta in un foglio di pellicola: con le mani schiacciate l’impasto per formare un rettangolo di circa 10 x 15 cm. Ripetete l’operazione per ogni pezzo. Distribuite gli spinaci sulla superficie di ogni rettangolo di impasto delle rolatine, spolverate con il parmigiano, un filo d’olio e una macinata di pepe.

Ora arrotolate ogni rettangolo su sé stesso e con le mani sigillate le due estremità del rotolo, formando una rolatina. Avvolgetela ora con la maglia di pasta brisée, che chiuderete nella parte inferiore, eliminando l’esubero di pasta con un coltello. Spennellate la pasta brisée con il rosso d’uovo.

Spelate le patate e tagliatele a cubetti piccoli (2 cm). Se possibile mettetele a bagno per 30 min in modo che rilascino parte dell’amido. Scolatele e asciugatele.

FASE 4: LA COTTURA

Accendete il forno a 190° C in modalità statica. Disponete in una teglia da forno le patate, condite con olio, rosmarino e sale e le rolatine in crosta. Cuocete per 30 minuti circa. Se la pasta brisée non è ben cotta nella parte inferiore, girate le rolatine e cuocete ancora per qualche minuto.

CONSERVAZIONE

In frigorifero: 4-5 giorni (cotti)

Nel surgelatore: 3-6 mesi (da crudi)

Chi è La Cuoca Insolita

La Cuoca Insolita (Elsa Panini) è nata e vive a Torino. E’ biologa, esperta in Igiene e Sicurezza Alimentare per la ristorazione, in cucina da sempre per passione. Qualche anno fa ha scoperto di avere il diabete insulino-dipendente e ha dovuto cambiare il suo modo di mangiare. Sentendo il desiderio di aiutare chi, come lei, vuole modificare qualche abitudine a tavola, ha creato un blog (www.lacuocainsolita.it) e organizza corsi di cucina. Il punto fermo è sempre questo: regalare la gioia di mangiare con gusto, anche quando si cerca qualcosa di più sano, si vuole perdere peso, tenere a bada glicemia e colesterolo alto o in caso di intolleranze o allergie alimentari.

Tante ricette sono pensate anche per i bambini (perché non sono buone solo le merende succulente delle pubblicità). Restando lontano dalle mode del momento e dagli estremismi, sceglie prodotti di stagione e ingredienti poco lavorati (a volte un po’ “insoliti”) che abbiano meno controindicazioni rispetto a quelli impiegati nella cucina tradizionale. Usa solo attrezzature normalmente a disposizione in tutte le case, per essere alla portata di tutti.

Calendario corsi di cucina ed eventi con La Cuoca Insolita alla pagina https://www.lacuocainsolita.it/consigli/corsi/