L’area si sviluppa su 75 ettari, a valle del ponte, a 640 metri s.l.m. …
Leggi l’articolo su piemonteitalia.eu:
https://www.piemonteitalia.eu/it/natura/parchi-e-riserve-naturali/paesana-riserva-naturale
L’area si sviluppa su 75 ettari, a valle del ponte, a 640 metri s.l.m. …
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E’ il pesce azzurro il protagonista della nostra ricetta, ricco di nobili proprieta’, economico e gustoso. Le alici, freschissime, si cuociono in una stuzzicante marinatura a base di limone o aceto. Un piatto saporito ideale per un fresco antipasto o delle sfiziose bruschette.
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Ingredienti
500gr. di alici freschissime
3 limoni succosi
1 spicchio di aglio
1 peperoncino
½ bicchiere di olio evo
1 cucchiaio di aceto bianco
Sale, pepe, prezzemolo q.b.
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Pulire bene le alici eliminando testa e lisca, lavarle e surgelarle per 24 ore. Scongelare, asciugare bene e disporre i filetti in una teglia (non di metallo) in un unico strato, coprire tutto con il succo dei limoni e l’aceto, lasciar macerare per almeno sei ore o comunque sino a quando sono tutte “cotte” (bianche). Scolare le alici dalla marinatura, sistemarle in un contenitore in vetro con coperchio, condirle con l’olio evo, poco sale, pepe, peperoncino, fettine di aglio e il prezzemolo tritato. Lasciare insaporire bene per qualche ora in frigorifero e servire fresche a piacere.
Paperita Patty
Gli spiedini che vi propongo questa settimana sono ideali come finger food per un aperitivo o come antipasto per un menu’ a base di pesce. Le polpettine, croccanti fuori e morbide dentro, si adattano ad essere preparate con diversi tipi di pesce, sono semplici e gustose, ottime servite calde o tiepide.
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Ingredienti
300gr. di filetti di nasello
1 fetta di pancarre’
2 uova
2 cucchiai di pecorino grattugiato
Latte q.b.
Prezzemolo q.b.
Succo di 1/2 limone
Olio per friggere
Sale e pepe q.b.
Pangrattato q.b.
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Cuocere a vapore i filetti di nasello acidulati con il succo del limone poi frullarli con la fetta di pancarre’, precedentemente bagnata nel latte, il pecorino, il sale, il pepe, il prezzemolo tritato e l’uovo intero. Con il composto ottenuto preparare delle piccole polpette che passerete prima nell’uovo sbattuto e poi nel pangrattato. Friggere in abbondante olio caldo, sgocciolare su carta assorbente ed infilzare sullo spiedino. Servire subito. Delicate e deliziose.
Paperita Patty
Mirella, in quanto gazza, com’è facilmente intuibile dal nome, ha un piccolo particolare che la distingue dagli altri uccelli: subisce il fascino degli oggetti luccicanti, è attratta da quelli particolarmente colorati, che adora rubare e nascondere. “Comunque”, tiene a precisare con gli altri pennuti, “andiamoci piano con le offese: io non sono una ladra. Diciamo che ho la tendenza ad appropriarmi delle cose belle anche se non sono mie. Ma non è un difetto, semmai una qualità. Mi piace il bello e di fronte al bello non resisto. Suvvia, e che sarà mai?“
Mirella è una gazza ladra bella e furba. Bella, poiché possiede un piumaggio iridescente che la rende del tutto particolare, come solo gli uccelli eleganti sanno di poter essere. A prima vista è bianconerama, a seconda della luce, s’intravedono riflessi color verde metallico e grigi. Ne è consapevole e lo fa pesare agli altri uccelli durante il volo, quando alterna veloci battiti d’ala a lunghe planate, inarcando il becco con aria altezzosa. Anche quand’è a terra cammina e saltella impettita, tenendo la coda sollevata. Si crede molto furba e scaltra, abituata com’è a fregare il prossimo. Ma Mirella, in quanto gazza, com’è facilmente intuibile dal nome, ha un piccolo particolare che la distingue dagli altri uccelli: subisce il fascino degli oggetti luccicanti, è attratta da quelli particolarmente colorati, che adora rubare e nascondere. “Comunque”, tiene a precisare con gli altri pennuti, “andiamoci piano con le offese: io non sono una ladra. Diciamo che ho la tendenza ad appropriarmi delle cose belle anche se non sono mie. Ma non è un difetto, semmai una qualità. Mi piace il bello e di fronte al bello non resisto. Suvvia, e che sarà mai?“. Mirella va presa così com’è. Si ritiene, nonostante il difettuccio, una gazza senza aggettivo. E pretende di esser chiamata esclusivamente con il nome proprio. Comunque, visto che – pur negandone l’evidenza – un po’ ladra lo è nei fatti, ha accumulato un bel bottino nel nido che si è ricavata tra le travi del solaio della signora Brigida, l’anziana proprietaria della locanda del “Monte Camoscio”. Lì, nel fitto intreccio di ramoscelli, brillano gli oggetti racimolati durante le sue scorribande. Un bottone dorato, una spilla di latta, una fibbia argentata, alcuni tappi di metallo a corona, una moneta da cinquecento lire di quelle vecchie, con incise le tre Caravelle, il cappuccio di una stilografica. Tutte cose belle, luccicanti e quindi di valore. Ma da un po’ di tempo Mirella ha messo gli occhi sull’orologio del capostazione Ballanzoni. Amleto Ballanzoni è un omone sulla sessantina, con il volto incorniciato da una folta barba bianca. I bambini, per questo, l’hanno ribattezzato “Babbo Natale”.
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Lui, sempre sorridente e pacioso, non se l’è mai presa. Anzi: la somiglianza con il caro e simpatico vecchietto gli garba, strappandogli un sorriso. Da poco meno di trent’anni dirige con fischietto e paletta la stazione ferroviaria di Baveno, sulla linea Milano-Domodossola. Un tempo era una fermata importante, ora un po’ meno, ma il signor Amleto, con in testa il suo berretto da Capostazione di prima classe in panno rosso e galloni dorati, non si scompone. Il dovere è sempre il dovere. “I treni devono viaggiare in orario”, dice scrutando orgoglioso il suo Perseo meccanico, a carica manuale, con la lucida locomotiva turca disegnata sulla cassa. Quest’orologio da tasca, fissato al panciotto con una catena d’argento, è il segno distintivo del ferroviere, quasi un segno del comando. L’orologio assume un’importanza vitale e deve garantire l’assoluta precisione nel calcolo dello scorrere del tempo per regolare il traffico su rotaia. Tutto dipende dal tempo: tabelle, orari, coincidenze, scambi. Tutto dipende dalla sincronia degli orologi. E quello in possesso di Amleto Ballanzoni non è un orologio comune: è un modello costruito appositamente per le Ferrovie dello Stato e quindi è “l’Orologio”, quello con la “o” maiuscola. Preciso e infallibile, da mantenere sincronizzato e perfettamente funzionante. “L’orologio per noi è un po’ come l’Arma dei Carabinieri: nei secoli fedele”, sentenzia al bancone del Circolo Operaio l’Amleto, lisciandosi la barba. Beh, magari non dura proprio dei secoli ma qualche decennio sì. E il suo Perseoera lì, testimone muto ma preciso, a confermarlo. Il destino del ferroviere e quello del suo orologio sono talmente indissolubili che, di norma, vanno in pensione insieme. Infatti, deposto il berretto e riconsegnato fischietto e paletta, l’orologio rimane di proprietà, quasi fosse una medaglia, un distintivo, un segno di riconoscimento per chi ha fatto parte della grande famiglia dei ferrovieri. Proprio a quell’orologio mirava la gazza ladra. Per Mirella rappresentava l’oggetto del desiderio. Un lucente e ticchettante trofeo da aggiungere alla sua collezione. Di più: il pezzo più pregiato, la “chicca” di cui potersi vantare a destra e manca. Iniziò a svolazzare con aria indolente attorno alla stazione. Un battito d’ali così svagato non avrebbe destato i sospetti del capostazione che, tra l’altro, non pareva avere – così almeno pensava Mirella – grandi conoscenze in fatto di uccelli e quindi particolare timore nell’avvistare nei dintorni il volteggiare di una gazza, per di più ladra. Così, nei giorni scorsi, è accaduto il fatto più inatteso e terribile che l’Amleto Ballanzoni si sarebbe mai immaginato di vivere: il furto dell’orologio. Un furto con destrezza, senza dubbio. E’ bastato un attimo di disattenzione, uno sguardo distolto dal prezioso oggetto che il signor Amleto aveva appoggiato sulla scrivania dell’ufficio, dopo averlo staccato dalla catenella per poterlo lucidare per bene, e… puff! Sparito! Il disperato capostazione ha frugato dappertutto, in un crescendo di agitazione e sconforto. Niente. Il suo Perseo non c’è più. Vero che la porta e la finestra erano come sempre aperte ma, mio Dio, e’ successo tutto così in fretta da non riuscire a farsene una ragione. Chi può essere stato? Il perché lo si intuisce: era un signor orologio che poteva senz’altro far gola a qualche malintenzionato. Ma, nonostante si sforzi di pensare a chi possa essere il colpevole, l’identità del ladro rimane un mistero. L’orologio si e’, come dire?, volatilizzato! Non immaginava, il pover’uomo, di aver fatto centro con quella definizione. Sì, perché proprio su di un volatile andava concentrata l’attenzione e, successivamente, la ricerca della refurtiva. Amleto Ballanzoni, però, non s’intende per nulla d’uccelli. Sa distinguere un passero da un’aquila solo per le dimensioni. Sa tutto su locomotive, convogli, linee, ma di ornitologia non conosce nulla. Buio pesto. Non sapendo distinguere un tordo da un merlo, una beccaccia da una poiana, immaginarsi cosa può sapere delle gazze e del loro “vizietto”. Così Mirella impreziosì la sua collezione e per un po’ se ne stette buona buona a rimirare i suoi trofei senza sentire l’impellente bisogno di dedicarsi al furto, alla rapina, all’altrui alleggerimento. Al capostazione, con il morale sotto le scarpe, non restò che arrangiarsi in qualche modo. Nell’attesa di comprarsi un orologio nuovo, pur con la consapevolezza che come il suo Perseo non ce ne sarebbe stato più di eguale, ha recuperato dalla soffitta il vecchio pendolo a cucù. E’ un ricordo della zia Ermelinda che, a sua volta, l’ha ereditato dal signor Giustinetti, un impiegato alle poste svizzere di Martigny che d’estate e per molto tempo soggiornò in una camera d’affitto qui, sul lago Maggiore. Per ringraziare la zia delle gentilezze e di un certo qual affetto che aveva in lei trovato corrispondenza, lasciò come pegno d’amicizia il simbolo più indicativo del tempo per uno svizzero: un orologio. Nella fattispecie, un orologio a cucù. Esattamente questo che, pur impolverato e con la superficie tormentata da qualche scalfittura, mantiene – a dispetto dell’età – un invidiabile funzionamento. Il meccanismo é in buono stato ma il merito del suo pieno recupero va tutto ad Amleto che, con passione e curiosità, si diletta a smontare e rimontare tutti i meccanismi che gli capitano tra le mani. E’ un pezzo veramente raro della produzione tedesca di orologi a cucù di fine ‘800, e deve avere anche un discreto valore economico. Il frontale riproduce, stilizzandola, una tipica stazione ferroviaria dell’epoca, in foggia neogotica. “Quasi un segno del destino”, commenta l’omone, piacevolmente sorpreso dalla scoperta. Il cucù se lo ricordava vagamente e vederlo ora come riproduzione del suo ambiente di lavoro e di vita gli fa dimenticare per un po’ il magone del furto subito. Il movimento, revisionato e sincronizzato, consente – allo scoccare delle ore – l’apertura di uno sportello dal quale esce un uccellino che esegue un intonato canto del cuculo. Tutto questo ovviamente grazie alla suoneria, ma il piccolo volatile canterino sembra quasi vero. “Non è la mia cipolla”, borbotta Amleto, “ma non è neanche poi male e, in fondo, tiene bene il tempo che poi è giusto il mestiere che deve fare”.
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Così, il pendolo a cucù ha preso servizio. La cosa non è passata inosservata nemmeno a Mirella che, finita la fase contemplativa, ha ripreso i suoi giri. Udito il canto del cuculo, si è precipitata a curiosare dalla finestra dell’ufficio della stazione. Ciò che vede la lascia interdetta, con il becco spalancato. “Mamma mia, che fusto! Che melodia, che ugola intonata”, dice tra se, incantata davanti alla visione dell’uccelletto di legno che fa capolino dal pendolo al battere dell’ora. Mirella ha un tuffo al cuore. Avverte il fascino irresistibile del maschio canterino e, turbata, guardandolo con occhio languido, se ne innamora così, su due zampe. Il classico colpo di fulmine, direte voi. Sì, “le coupe de foudre”, come dicono gli svizzeri tra Losanna e Ginevra. Roba da lasciare lì stecchita la gazza, che dimentica d’essere ladra e s’immagina stretta in un abbraccio a cinguettare fitto fitto con quell’esempio superbo di germanico volatile. Come fare ad attirare la sua attenzione? Come farsi vedere e fargli sentire il piacevolissimo brivido che le intirizzisce le piume? Aspetta rapita per ore, alternandosi in volo tra il davanzale della finestra e l’albero di fichi lì davanti. Ogni tanto il cuculo esce, canta e poi si ritira dietro l’anta di legno. Non sembra interessato alla presenza di Mirella. Quasi non l’avvertisse. La gazza è incredula. “Ma come? Non avverte, quel pennuto, il mio fascino? Non incrocia mai il mio sguardo. Anzi, mi pare che tenga sempre gli occhi fissi davanti a se… E quel suo rimanere lì, impettito come uno stoccafisso? E’ una mia idea o quello se la tira un po’? “. Mirella, come tutte le gazze, è caratteriale, piuttosto scontrosa, scorbutica. Ma il fascino esercitato da quell’uccelletto del cucù è troppo forte e lei, nonostante tutto l’orgoglio, non puo’ (e non vuole) resistergli. “Che sia sensibile ai regali?”, pensa Mirella. Dopotutto le gazze come lei subiscono l’attrazione dei bellissimi oggetti lucenti. Chissà che quell’uccello, per timidezza, non avendo il coraggio di volar via da quella strana casetta, non abbia bisogno di qualche incoraggiamento? Detto e fatto, Mirella vola al suo nido e, preso il bottone dorato, lo posa sulla mensola a fianco del pendolo a cucù. Allo scoccare dell’ora, puntualmente, l’uccelletto fa capolino cantando e, senza rivolgere lo sguardo né a destra né a sinistra, ritorna in casa, chiudendosi la porta dietro le spalle. Forse il bottone è un po’ misero, pensa la gazza, e poco per volta si priva di tutto il suo patrimonio, accumulato di furto in furto. In ultimo si priva anche del pezzo più pregiato: l’orologio sottratto al capostazione mettendo a segno il colpo più bello della sua vita. E’ innamorata persa, la povera Mirella. Innamorata senza speranza, ignara del fatto che l’uccello di legno dell’orologio a cucù non può corrisponderle l’affetto essendo lui, per l’appunto, un finto volatile. Così, dopo tutto quel darsi da fare senza ottenere in cambio nemmeno uno sguardo, con il cuore gonfio di amarezza, la gazza fa per riprendersi le sue cose ma – colmo della disperazione – oltre al bottone, ai tappi e alla spilla non trova più l’orologio. Amleto Ballanzoni l’ha visto sulla mensola e, incredulo, si è dato una gran manata in fronte: “Eccolo lì, il mio Perseo! Vecchio balordo, cominci a perdere i colpi! L’avevo davanti agli occhi e non riuscivo a vederlo da tanto ch’ero agitato. Meno male, va… D’ora in poi starò più attento a dove metto le cose”. Per il capostazione, recuperato il prezioso orologio, il caso era chiuso. E il pendolo a cucù? Ormai fa parte dell’arredamento. Funziona bene e, per di più, è perfettamente in “linea” con l’ambiente dato che raffigura una stazione ferroviaria. L’unica modifica che Amleto ha deciso di introdurre riguarda quel fastidioso cuculo che canta, monotono, ogni ora. L’eliminazione è avvenuta senza troppe storie. E’ bastato spegnere il meccanismo della suoneria con l’apposita levetta e l’uccello resta, segregato e silenzioso, dentro la sua casetta trasformatasi in prigione. Mirella, ormai disperata, vedendo quella porticina chiusa ha deciso di andarsene via, il più lontano possibile da quell’odioso uccello pieno di sé che chissà poi cosa credeva di essere. Volata via e stabilitasi sulle colline del Vergante, dalle parti di Massino Visconti, ha conosciuto una gazza maschio. I due vanno d’amore e d’accordo, rastrellando oggetti per abbellire la loro dimora nel bosco alle pendici del monte San Salvatore. Amleto Ballanzoni, a sua volta, fischia e agita la paletta all’arrivo e alla partenza dei treni nella sua stazione, con il berretto rosso in testa e l’orologio ben saldo alla catenella del panciotto. L’uccelletto di legno riposa nella penombra della sua dimora in attesa di tornare a cantare allo scoccare di ogni ora. Può darsi che accadrà presto ma noi non lo sappiamo. E poi questa è un’altra storia.
Marco Travaglini
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Sabato 2 agosto dalle ore 21, a Cesana, in piazza Vittorio Amedeo, la Projoung Pro Loco di Cesana presenta una serata jazz con il trio “So what” dal titolo “Donne che incantano”.
Domenica 3 agosto sempre la Projoung Pro Loco di Cesana presenterà alle ore 21, alla Sala Formont di via Pinerolo “Sorgenti e sotterranei dai monti della Luna”, un viaggio in un mondo nascosto dentro le montagne, sorgenti di acqua e km di sotterranei nascosti. Il curatore del Museo Chaberton, il dottor Roberto Guasco, si racconterà in un incontro tematico, presentando anche il progetto “Bunker opere del Vallo alpino”.
A Sansicario Nonsoloneve propone un weekend di musica, cultura e arte, mentre la Compagnia Teatrale Torinese Onda Larsen presenta la stagione teatrale ‘Spettacoli di mezza estate… in vetta”.
Da venerdì 1 a domenica 3 agosto si svolge la prima edizione di “Deipratidellestelle”, il nuovo festival immersivo che nasce a San Sicario nel cuore della valle di Susa, con l’obiettivo di riportare musica, cultura e arte del paesaggio alpino.
Ideato da Hdemia Collective, con la direzione artistica del pianista e compositore Francesco Taskayali, “Deipratidellestelle” rappresenta un invito a vivere la montagna in modo inedito, lento, condiviso e sensibile. Si tratta di un Festival che si muove a piedi o in bici, che ascolta in silenzio sotto il cielo stellato, che si costruisce nell’incontro e nella scoperta.
Sabato 2 agosto, alle ore 21, al Cinema Sansicario di San Sicario Alto, viene presentato “Il sogno di Bottom” di Onda Larsen, scritto e diretto da Lia Tomatis, con Riccardo De Leo e Gianluca Guastella.
Domenica 3 agosto TOradio dalle 10 alle 12 proporrà un podcast live dal titolo “Siamo freschi”, condotto da Marco Fedeli “ Sansinews”, sport, eventi, cultura, enogastronomia e musica.
All’Olimpic Park Sport dalle ore 12 alle 14 Open Day Sport Beach Volley Tennis- Basket. Dalle 14 alle 15 sarà la volta del “PusaCafe”, torneo superamatoriale di Beach Volley 4×4 Misto.
Per informazioni e prenotazioni rivolgersi al Nonsoloneve 3494179852.
Domenica 3 agosto alle 21 al cinema Sansicario di Sansicario Alto si terrà una serata di cinema con il film “Lunana, il villaggio alla fine del mondo” di Pawo Choyning Dorji.
Sabato 2 agosto, a Segnalonga, l’Associazione Segnalonga presenterà alla chiesetta di Segnalonga un concerto di chitarra classica con Paolo Ricci.
Intanto prosegue al museo Casa delle Lapidi di Bousson la mostra “A capo coperto: le cuffie degli Escartons identità e storia, inaugurata il 19 luglio scorso alla presenza del sindaco Daniele Mazzoleni, del vicesindaco Matteo Ferragut e dell’assessore Marco Vottero.
La mostra, curata da Contempora e Raquel Barriuso Diez, resterà aperta tutti i giorni, esclusi i lunedì, con orario pomeridiano dalle 15.30 alle 18.30 fino al 31 agosto prossimo .
Mara Martellotta
Mettete in una terrina il latte e la panna; aggiungete la farina passata al setaccio, lo zucchero e l’albume al naturale. Amalgamate bene il tutto, evitando di lasciare grumi….
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Pinerolo (Torino)
Notizia ghiotta per il popolo dei “camminatori montagnini”. Di mestiere o per hobby. Esclusi i “fenomeni”, gli “esagerati” quelli del voglio arrivarci a tutti i costi; ben accetti quanti cercano la “vacanza lenta”, quella “per ritrovarsi”, per fare nuovi incontri e amicizie fra lande di natura incontaminata e resti di architetture ferme lì da secoli, testimoni di antiche storie e culture cui ancor oggi abbeverarsi é “cosa più che buona e giusta”.
Tutto è pronto sulle montagne piemontesi al confine con la Francia. Dal 1° di agosto, infatti, per gli amanti della camminata “soft”, sono pienamente percorribili (dopo mesi dedicati agli incontri e alla formazione di esperti operatori nonché all’allestimento di tutta la piattaforma logistica ed organizzativa) le cosiddette “Strade dei Forti”, attentamente studiate per un tipo di turismo (come sopra accennato) rispettoso delle tradizioni e sostenibile in termini di impatto ambientale e accoglienza turistica. Promosso dal “Consorzio Turistico Pinerolese e Valli”, il percorso, dal Po al Monviso, prevede 13 tappe tra i luoghi più belli e culturalmente significati del Pinerolese, tra frutteti, castelli, vigneti, paesini, dimore fiorite, borghi fra i più belli d’Italia come Usseaux e, poi, la “Strada dell’Assietta”, la città di Pinerolo, e ovviamente “Forti minori” disseminati tra prati e rododendri e la grande “Muraglia piemontese”, il Forte di Fenestrelle, con i suoi 4mila gradini, la “più grande struttura fortificata d’Europa” e la più estesa (lo sapevate?) “costruzione in muratura dopo la Muraglia cinese”.
Ben 13, si diceva, le tappe, con percorsi che si snodano, per una parte, all’interno del “Parco delle Alpi Cozie” e, per un lungo tratto, sul “Sentiero del Glorioso Rimpatrio dei Valdesi”. Sentieri già da secoli esistenti e percorribili, ma oggi pienamente riattati. Tutto a regime sotto ogni aspetto, comprese la “logistica” e l’“organizzazione” nel suo complesso.
A confermarlo, sono le cifre: 17 sono attualmente le strutture convenzionate dove dormire, 18 quelle dove fermarsi a mangiare mentre sette realtà partner si occupano di servizi, dalle guide escursionistiche al trasporto bagagli.
È stata inoltre creata la “credenziale”, la compagna di viaggio più fidata dei camminatori. Non solo un documento, ma la “traccia concreta” del percorso effettuato, una collezione di timbri, incontri, storie e chilometri. Durante il tragitto, si potrà farla timbrare in diversi punti: strutture ricettive, uffici turistici, bar, ristoranti e “Associazioni locali”. Ogni timbro equivale ad una tappa conquistata. Una sorta di “trofeo” da esibire con un pizzico di immodestia che, se non è boria sfacciata, non guasta mai!
La “credenziale”, ritirata di persona o spedita via posta, dà anche diritto a uno sconto sulle strutture convenzionate e permette di ottenere la versione Pro dell’“app Outdooractive” per un mese per poter camminare in sicurezza anche senza connessione. Insieme alla “credenziale”, una “surprise bag” raccoglie altri gadget e strumenti utili al Cammino, inserito con i suoi 224 chilometri (distribuiti su tre valli, Chisone, Germanasca e Pellice) sulla piattaforma “Cammini d’Italia”.
Da sottolineare ancora che per i “cicloescursionisti” più accaniti o per chi ami affrontare comunque le strade di montagna in sella ad una bici, il percorso prevede anche 5 tappe speciali, dalla pianura fino alla “Strada dell’Assietta” (2500 metri), verso “Sestriere” e ritorno.
Estremamente orgogliosi gli organizzatori. E ne ha ben donde, se si pensa che “una terra di confine, costellata di Forti e Fortificazioni ideate per dividere e per difendere i territori e le comunità, sotto l’aspetto politico, geografico, culturale e religioso, offre ora, con questo nuovo progetto, l’opportunità di unire, condividere e conoscere questo esteso patrimonio locale”.
Per info: “Ufficio di Turismo e Provincia” , via del Duomo 1, Pinerolo (Torino), tel. 0121/795589 o “Ufficio del Consorzio Turistico Pinerolese e Valli”, via Mazzini 30, Pinerolo (Torino), tel. 331/3901745 o su www.lestradedeiforti.it
g.m.
Nelle foto: Il Forte di Fenestrelle; Il Gran Serin; Il Borgo di Usseaux
La signora Erminia, un tempo, doveva esser stata senz’altro una gran bella donna. Si capiva dai lineamenti, fini e delicati, e da quegli occhi verdi-azzurri come l’acqua del lago in primavera: chissà quante teste avevano fatto girare e quanti cuori palpitarono per lei.
I capelli, bianchi come la neve e raccolti sulla nuca, le incorniciano l’ovale del volto. Com’era arrivata fin qua, sulle sponde del lago? Da quanto tempo viveva, sola con i suoi gatti, in questa bella casa di pietra a Ronco, all’ombra del campanile della chiesa di San Defendente? A queste nostre curiosità, espresse con il timore d’apparire indiscreti , una volta rispose, sorridendo: “Le domande non sono mai indiscrete. Talvolta possono esserle le risposte”. Da quel giorno non vi furono più domande e crebbe ancor più il rispetto per quella donna così gentile e ospitale. Ogni qualvolta si attraccava con la barca al molo di Ronco venivamo invitati a casa sua per una merenda con pane e formaggio, accompagnando il cibo con un buon bicchiere di vino rosso. D’inverno, dalla casseruola che teneva sulla stufa a legna, versava delle generose porzioni di brodo caldo nelle scodelle di ceramica, unendo dei crostini di pane raffermo sui quali aveva passato una testa d’aglio o spalmato ricotta fresca. Quella ricotta che, insieme al burro, la vecchia Onorina portava di casa in casa con la sua piccola gerla dopo aver percorso il ripido sentiero che dall’alpeggio scendeva fino alle case del paese. Una tradizione d’ospitalità che si stava perdendo. Solo qualche anziano manifestava, nei confronti dei viandanti del lago, gesti amichevoli e di conforto. Eppure, un tempo, s’usava offrire il brodo e il vino, quello aspro delle piccole vigne abbarbicate sul fianco delle colline, e anche l’aceto, versato generosamente nell’acqua fredda, in cui intingere una crosta di pane raffermo, duro come un sasso. A pochi passi dalla chiesa di San Defendente, un tempo invocato contro i flagelli dei lupi e gli incendi, abitava anche Libero Frezzini, meglio conosciuto come “lifroch”, cioè fannullone, una persona a detta di tutti ben poco seria. Frezzini, tra l’altro, non ci stava proprio con la testa. Alto,magro e dinoccolato era proprio un po’ tocco. Si vestiva sempre alla stessa maniera, estate e inverno, quasi non sentisse né il caldo né il freddo: giacca di fustagno marrone, ormai lisa sul bavero e sui gomiti; pantaloni scuri di velluto e una camicia a quadrettoni rossi e bianchi. Giovannino lo prendeva in giro: “ Libero, ma come ti sei vestito? Sembri una tovaglia ambulante, unta e bisunta. Dove l’hai fregata, quella camicia lì? Dalla cesta dei panni da lavare dell’osteria?”. Frezzini, carpentiere in una piccola impresa del posto,portava rispetto all’anziano pescatore. Anch’esso, e a modo suo, amava la pesca. Il più delle volte, raccontando le sue imprese, esagerava sulle misure e sul peso delle catture. Giovannino quando lo sentiva sproloquiare, indulgendo nelle sue vanterie impossibili, lo rimproverava: “Cala,cala Trinchetto. Non contar balle, Libero, che al massimo hai tirato fuori dall’acqua un paio di cavedani lunghi una spanna”. Lifroch a volte esagerava davvero, alzando la voce e Giovannino , guardandolo storto, doveva minacciarlo: “A ta dò un sgiafun che ta sbiruli la salamangè“. Che, tradotto da quel dialetto mezzo lombardo, equivaleva ad un “ti dò uno schiaffo da piegarti la mascella”. Un giorno l’aveva preso a calci nel sedere dopo aver scoperto, per caso, che quel balordo era andato a pescar persici nel periodo più proibito che ci sia: il tempo della riproduzione, tra aprile e maggio, quando i pesci depongono le uova. Evitando accuratamente di menzionare il fatto al Conegrina e al Carabiniere, cioè alla coppia di arcigni guardapesca, evitò al Frezzini la poco allegra prospettiva di finire al fresco, costretto a guardare il sole a quadretti , dietro alle sbarre del carcere più vicino. Era un reato, a quei tempi, che non si sanava solo con una multa in denaro ma anche con qualche giorno in gattabuia. Libero, tanto per accentuare la sua stranezza, si esprimeva anche a proverbi. Ne aveva per tutte le situazioni. S’era ingozzato come un maiale all’osteria, al punto da sentirsi male? Alle critiche rispondeva così: “ E’ meglio morire a pancia piena che a pancia vuota”. Aveva bevuto più del solito, alzando un po’ troppo il gomito e camminava sbandando? Si giustificava: “E’ sempre l’ultimo bicchiere a far male”. Teoria alquanto bislacca, a dire il vero. Ricordo di averlo incontrato mentre si recava al lavoro in vespa. C’era un buco nell’asfalto. Non lo vide in tempo, finendoci dentro con la ruota davanti, rischiando di capottarsi. Si rialzò tutto scorticato e dolorante. Prontamente accorso in suo soccorso capii immediatamente che era ubriaco. Evidentemente la sera prima doveva aver fatto bisboccia e si portava addosso una “scimmia” da far paura. Rialzatosi, intontito e acciaccato, mi ringraziò, confidandomi il suo malessere: “Ma sai che ieri sera ho bevuto un bicchiere di acqua tonica che mi è restata sullo stomaco? Non l’ho proprio digerita!”. L’acqua tonica, capito? Non i due o tre litri di rosso che si era scolato e per gli altri comuni mortali rappresentavano una dose da schiantare chiunque. Un altro bel personaggio era Mario Martellanti, detto “cavedano”. Non ricordo dove fosse nato ma era certo che dimorasse sul lago. Mario non amava sentire la terraferma sotto i piedi e, dunque, viveva in barca gran parte del tempo, stagioni permettendo. A fine primavera, durante l’estate e nella prima metà dell’autunno, praticamente non lasciava mai lo scafo della sua “Stella dell’onda”, imbarcazione che lo accompagnava da più di trent’anni nelle sue peregrinazioni lacustri. Quando le foglie ingiallite abbandonavano gli alberi , spargendosi a terra e l’inverno con il suo alito gelido prendeva il sopravvento, cercava di tener duro il più possibile, cedendo solo alla tormenta che scendeva dai contrafforti montuosi, sbarcando proprio a Ronco per cercare riparo nel cascinale dove teneva le sue magre cose. Se l’aria s’infreddoliva, non disperava. Teneva sempre a portata di mano, accanto alla tela cerata indispensabile per ripararsi dagli scrosci di pioggia, una ormai logora trapunta di lana. Non troppo ingombrante ma abbastanza grande da potervi avvolgere l’intero corpo, riparandosi dal freddo e dall’umidità. Sosteneva d’esserci nato, in barca. I genitori, entrambi defunti, avevano passato tutta l’intera vita sull’Isola di San Giulio. Il padre Giovanni, nativo di Ronco, era custode della Villa dei Glicini. La madre Elsa, si era rotta la schiena nel far le pulizie in uno dei più antichi alberghi del posto, la “Locanda del Drago”. Mario, scapolo impenitente, sosteneva d’essersi sposato con il lago. “Sono più di sessant’anni che ho preso in moglie quest’acqua cangiante;ci conosciamo e rispettiamo, e non ci lamentiamo mai, sopportando a vicenda i nostri sbalzi d’umore”, confidava agli amici più stretti. Ormai anziano, continuava a vogare da una sponda all’altra o, più semplicemente, seguendo il margine delle rive nel suo perenne cabotaggio. Anche se, in cuor suo, custodiva un segreto che talvolta lasciava intuire. La luce di quegli occhi verdi-azzurri della signora Erminia l’avevano stregato. Non l’avrebbe mai ammesso, e nemmeno confidato alla bella donna dai capelli bianchi. Era il piccolo suo segreto. Quei mazzetti di primule e viole lasciati vicino all’uscio o i funghi e la frutta appena raccolti, i persici pescati e già puliti che Erminia trovava sul davanzale di pietra della finestra, erano doni che non lasciavano troppi dubbi sul misterioso benefattore. Eminia intuiva e apprezzava, elargendo sorrisi, cibo e buon vino anche a Mario. In fondo affetto e gratitudine si possono esprimere in tanti modi e le parole, a volte, sono davvero superflue.
Marco Travaglini
Nei sette stati delle alpi. Uncem partner del progetto editoriale
Dai passi alpini iconici, ai paesi più remoti, passando per laghi e città: Alpi on the road è la nuova guida attività Lonely Planet – in collaborazione con Uncem – che contiene 50 itinerari da percorrere in auto, moto o camper. I percorsi si snodano lungo tutto l’arco alpino, da Monaco a Trieste, collegando Italia, Francia, Svizzera, Liechtenstein, Germania, Austria e Slovenia. Un volume pensato per chi desidera vivere un’avventura indimenticabile nel pieno rispetto dell’ambiente alpino.
Il volume si può trovare qui:
https://shop.lonelyplanetitalia.it/prodotto/guida-di-viaggio-alpi-on-the-road
Scritta dagli autori Lonely Planet Piero Pasini e Denis Falconieri, che del volume è anche il curatore, la guida propone 25 itinerari in Italia – dalle Alpi Marittime alle montagne friulane, passando per i grandi Quattromila e le Dolomiti – e 25 percorsi oltre confine, alla scoperta di alcune delle aree alpine più spettacolari: Grenoble, Megève, Chamonix, Annecy in Francia; Crans-Montana, Zermatt e l’Oberland Bernese in Svizzera; il Tirolo, il Grossglockner, Klagenfurt e Graz in Austria; Lubiana e le Alpi della Slovenia.
Ogni percorso è studiato per guidare il viaggiatore lungo strade panoramiche e suggestive, accompagnandolo con mappe dettagliate e indicazioni chiare tappa dopo tappa. Non manca l’attenzione alla parte organizzativa: la guida include consigli pratici sull’abbigliamento da montagna e sulla sicurezza, con innumerevoli suggerimenti per chi desidera svolgere attività outdoor, con livelli di esperienza diversi, dall’escursionismo alla bicicletta o alle gite in battello. Una sezione è dedicata a chi viaggia in moto o in auto, con accorgimenti sulla guida in montagna, la stagionalità dei valichi alpini e le specificità dei percorsi ad alta quota.
“Nel 1984 usciva la prima edizione di un libro che è rimasto pietra miliare nella storia delle politiche per la montagna. Il geografo Warner Batzing pubblicava Le Alpi. Un faro per comprendere le geografie europee. Poco dopo sarebbero arrivate una serie di iniziative istituzionali come la Convenzione delle Alpi e poi la cooperazione transnazionale con “Spazio alpino”, da ultimo nel 2013 la Strategia macroregionale alpina. Sette Stati, 70 milioni di abitanti, 48 regioni. È da qui che siamo partiti, Lonely Planet e Uncem – evidenzia Marco Bussone, Presidente nazionale Uncem, che ha ispirato la guida – per un racconto delle Alpi On the Road, da attraversare e da vivere, nella prima guida turistica che unisce la ‘regione unica al centro dell’Europa’, le Alpi-cerniera che non sono più barriera fra gli Stati, ma da solcare per scoprire come stanno cambiando i paesi, come si modificano i versanti, i terrazzamenti e le foreste, le montagne, l’accoglienza, i campanili“.
Il volume è arricchito da approfondimenti culturali – sulla storia locale, le tradizioni, le identità linguistiche -, fa focus sulle Green Community e da sezioni dedicate alle soste gastronomiche e alle specialità regionali. Le numerose fotografie a colori restituiscono la bellezza e la varietà del paesaggio alpino, dalle cime innevate ai borghi di pietra, dai laghi cristallini agli alpeggi. Alpi on the road è una guida per viaggiatori curiosi, consapevoli e indipendenti, scritta, verificata e testata per chi ama costruire il proprio itinerario giorno per giorno, con il piacere della scoperta e lo sguardo sempre rivolto al viaggio.
“Questi itinerari sono i migliori per scoprire innovazione, trasformazioni, grandi opportunità, ma anche la capacità di stare nelle grandi transizioni. Come le Alpi affrontano le crisi climatica e demografica, lo spopolamento, e come le comunità locali che abitano migliaia di piccoli paesi stanno in relazione e dialogano con le città. Questi itinerari partono infatti dai capoluoghi, dove ci sono stazioni, aeroporti, hub di merci, ma anche università, centri di ricerca, grandi imprese. Le città – prosegue Busone – che guardano alle valli alpine per andarle a scoprire in modo nuovo, con nuovi occhi rinnovati dalla scelta di affrontare le crisi di oggi con le risposte di domani. Insieme. Comunità nella sostenibilità, green community che dimostrano come i Comuni alpini di tutti e sette i Paesi sanno crescere nel NOI, oltre i campanilismi, oltre le difficoltà, scoprendo nella montagna più unita alle città. Un nuovo fronte anche di accoglienza, oltreché di vivibilità che fa bene a tutto il vecchio continente“.