LIFESTYLE- Pagina 5

Quando il nord incontra il sud a tavola

Scopri -To  ALLA SCOPERTA DI TORINO 

Tra le tante prelibatezze della cucina italiana molto rinomate sono quelle provenienti dall’sud Italia e a Torino sono molti i locali siciliani e napoletani. Tra i siciliani emerge principalmente il ristorante Banco di Sicilia. Quest’ultimo si trova in una zona molto centrale, in via Arnaldo da Brescia 23 a Torino e propone piatti tipici della cucina siracusana e tantissime varietà di pesce rigorosamente fresco in una location che riporta tutti i colori e l’anima della Sicilia.
Dal 2019 hanno rilevato l’attività gli attuali proprietari nativi di Avola, un piccolo paesino nel sud della Sicilia adiacente a Noto e hanno rinnovato ulteriormente il locale e anche le proposte gastronomiche.
Il menù, scritto sia in siciliano che in italiano, è molto variegato, offre numerosi antipasti e primi tra cui La Marzamemi ovvero busiate con pesto di pistacchio e tartare di tonno rosso a crudo o il loro cavallo di battaglia la Portopalo con fusilli, pesce spada, melanzane, uvetta, mandorle, ricotta, menta e pangrattato.

Anche i secondi meritano di essere assaggiati non solo per la loro bontà ma anche per la freschezza dei prodotti, tra di essi il pesce spada con le mandorle, il polpo con la ricotta fresca, il fritto di calamari e tantissimi altri anche per chi preferisce la carne.
Tra i dolci sua maestà il cannolo farcito al momento con una spumosa ricotta, la cassata e altri dolci tipici siciliani. Spesso per notare la freschezza dei cannoli, i siciliani consigliano di scegliere quelli senza cioccolata all’interno e già farciti perché dovrebbe essere indice di un prodotto preparato il giorno precedente, chiaramente non è sempre così ma dove si riesce conviene preferire sempre quelli farciti al momento solo con la ricotta e qualche goccia di pistacchio o cioccolato sulle punte.
Al banco di Sicilia prediligono materie prime della Trinacria come i pistacchi di Bronte, la ricotta delle pecore allevate come un tempo nel parco delle Madonie e le mandorle d’Avola, o meglio di Noto. Non tutti sanno che le mandorle sono di Noto, ma vengono poi lavorate e imbustate ad Avola e quindi prendono quest’ultima denominazione di provenienza.
Anche l’offerta vinicola è molto ampia e viene gestita dal figlio del titolare Riccardo Ferro, esperto in materia.

L’ ANGOLO PARTENOPEO, LA VERA PIZZA NAPOLETANA A TORINO

Tra i ristoranti napoletani più succulenti della nostra provincia Sabauda vi è L’Angolo Partenopeo, in Corso Cavour 24 a Beinasco, prima cintura di Torino. Il locale su due piani è molto elegante con splendidi quadri che raffigurano il meraviglioso mare napoletano. Tra le loro prelibatezze vi sono le pizze dalle classiche a quelle più elaborate come la Pizzapanz con Fiordilatte, ricotta di bufala, crocchè di patate e guanciale croccante, la Mortadella e Pistacchi, la Polpetta con parmigiano e ragù e tantissime altre.
Tra gli antipasti ricordiamo gli assaggi Street Food che prevedono le principali portate napoletane più conosciute come il crocchè di patate, le zeppole e le frittatine. Tra i primi emergono le linguine all’astice, scialatielli di pasta fresca con pomodorini del piennolo stracciatella di bufala e pistacchi, paccheri e risotti con particolarissimi abbinamenti. Tra i secondi il pesce fresco e una succulenta carne come il filetto caramellizzato.
Al sud non si può concludere una cena senza il dolce e all’Angolo Partenopeo lo sanno bene, la loro proposta è molto ampia dal babà al rum all’aragosta alla crema di pistacchio ma l’eccellenza è la Delizia al limone, un tortino di Pan Di Spagna con semifreddo al limone di Sorrento. Per chi invece ama il cioccolato la mousse ai tre cioccolati con granella di mandorle.
I torinesi si sa, amano molto la cucina, e quella del sud in particolare per la sua bontà e anche per le porzioni che spesso sono molto diverse rispetto a quelle del nord!
Entrambi i locali sono due grandissime eccellenze del territorio e evidenziano quanto sia importante mescolare tradizioni del sud con quelle del nord per rendere il tutto ancora più particolare e ricercato.

NOEMI GARIANO

La pizza, così semplice ma regina della tavola

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La bellezza della semplicita’. Pochi semplici ingredienti che si uniscono e danno vita ad uno dei simboli della tradizione italiana nel mondo: la pizza

Una base croccante farcita con pomodoro, mozzarella, olive. Prepararla in casa e’ davvero semplice e veloce, non occorrono particolari capacita’, potete impastare la base nella planetaria o a mano, il risultato sara’comunque garantito. Profumata, calda, filante….impossibile resisterle!

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Ingredienti :
(dosi per tre teglie tonde da 28cm)
 
500gr. di farina 0
5 cucchiai di olio evo
2 cucchiaini di zucchero
1 cucchiaino di sale fino
1 bustina di lievito secco tipo Mastro Fornaio
275ml di acqua tiepida
Salsa di pomodoro rustica q.b.
Mozzarella q.b.
Olive taggiasche q.b.
Filetti di acciuga (facoltativi, a piacere)
Basilico o origano
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Preparare l’impasto base. Impastare, nel mixer o a mano, per almeno dieci minuti, la farina precedentemente setacciata con la bustina di lievito secco, aggiungere lo zucchero, il sale, l’olio ed infine l’acqua tiepida. Quando si e’ ottenuta una palla morbida ed elastica, metterla sul piano di lavoro infarinato e riprendere ad impastare a pugno chiuso con forza, sbattendo ripetutamente l’impasto sul tavolo. Quando la pasta si presentera’ liscia ed inziera’ a formare delle piccole bolle, inciderla con quattro tagli a croce, metterla in una terrina infarinata, coprirla con un tovagliolo e riporla in forno o nel micronde (spenti) al riparo da correnti d’aria per almeno quattro ore. Terminata la lievitazione riprendere l’impasto, impastarlo nuovamente sino a sgonfiarlo, tagliare la pasta in tre parti, stenderla a mano o con il mattarello,sistemarla nelle teglie  tonde  foderate con carta forno, guarnire con passata di pomodoro, mozzarella a dadini, olive, filetti di acciughe o altro a piacere, irrorare con un filo di olio, salare. Infornare nel forno preriscaldato alla massima potenza e cuocere ciascuna pizza per circa 15/20 minuti. Servire calda.

 

Paperita Patty

Evitiamo di restare prigionieri di rimorsi e rimpianti

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STARE BENE CON NOI STESSI

Chi di noi non ha provato rimorsi o rimpianti? Forse abbiamo imparato ad evitare che essi diventino così profondamente radicati nel nostro presente quotidiano tanto da farci loro prigionieri, e da impedirci di sentirci liberi di vivere serenamente la nostra vita di tutti i giorni… O forse no…

Proviamo rimorso quando siamo pentiti di aver fatto una determinata azione nel passato, mentre il rimpianto consiste nel sentire dolore per qualcosa che non si è fatto nel passato, in genere per non aver colto un’occasione. Queste due condizioni emotive ci provocano spesso disagio e sofferenza.

Rischiamo così di vivere male, o comunque non nel miglior modo possibile, il momento per noi infinitamente più importante, cioè quello presente. Se ci riflettiamo un attimo comprendiamo facilmente che sia il rimorso che il rimpianto hanno a che fare con il senso di colpa.

Ognuno di noi deve in qualche modo farci i conti, e magari anche iniziare a farci pace… In quanto legate al passato, queste due sensazioni sono spesso e decisamente poco utili nel presente, e anzi sovente di grave ostacolo.

Evitiamo quindi di continuare a pensare con tristezza o risentimento a cosa avremmo potuto fare o essere, o a come avremmo potuto agire diversamente, e di restare prigionieri di un rammarico e di un pentimento che ci tolgono serenità, energie e determinazione.

Possiamo mettere in atto a questo scopo alcuni pensieri, atteggiamenti e comportamenti che possono rivelarsi concretamente utili per tornare a vivere in modo più equilibrato e sereno. Ne riparliamo domenica prossima su questa rubrica de “Il Torinese”. Buona domenica!

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.

www.tentoni.it

Cyberbulli si nasce?

Il bullismo non è una novità dei nostri tempi: già 50 anni fa, e anche prima, era piuttosto frequente che nelle scuole ci fosse uno in ogni classe che bullizzava i compagni, o alcuni di essi, forte della sua possenza fisica o del prestigio paterno o, semplicemente, perché abituato a incutere timore.

Con il peggioramento delle condizioni di vita nella società, anche il bullismo è aumentato iperbolicamente non soltanto nelle scuole ma, grazie allo sviluppo dei social e dei media, soprattutto virtualmente.

Leggiamo spesso di adolescenti, ma non soltanto, vittime di cyberbullismo che, complice l’anonimato, percepiscono difficoltà nel reagire, nel denunciare il sopruso.

I cyberbulli, spesso totalmente ignoranti circa il funzionamento della rete, pensano che evitando il contatto fisico e grazie all’anonimato o a false generalità sia impossibile, o quanto meno difficile, risalire all’autore dei reati.

Gli elementi caratteristici del bullismo sono aggressione, molestia e discriminazione, anche nella sua forma virtuale; in realtà una segnalazione alla Polizia postale sfocia in brevissimo tempo nell’identificazione degli autori di un reato informatico, sia esso una calunnia, una diffamazione o una minaccia per la propria incolumità.

Spesso, però, le giovani vittime temendo la reazione dei genitori o ignorando i loro diritti lasciano correre, consentendo ai cyberbulli di continuare la loro attività criminale.

A chi va attribuita la colpa di tutto ciò? Sicuramente i genitori, troppo impegnati a fare gli amici dei figli non si accorgono del disagio vissuto da questi; gli educatori, che troppo spesso tendono a sorvolare su compiti gravosi preferendo non rischiare denunce o problemi. I ragazzi stessi, colpevoli indirettamente, perché non essendo seguiti, non sviluppando autostima, non riescono a reagire, non necessariamente in senso fisico, alle prevaricazioni.

I tribunali sono ulteriori colpevoli: la riforma Cartabia che pareva risolvesse ogni problema del mondo ed è servita soltanto a crearne di ulteriori, ha di fatto svuotato le aule giudiziarie creando il caos nei procedimenti giudiziari, come si nota bene nei Tribunali dei minori di 30 città italiane. Qualsiasi persona, anche non addetta ai lavori, sa che un caposaldo perché la giustizia funzioni è la certezza della pena: se hai serie possibilità che il reato cada in prescrizione o venga giudicato in fretta perché esaminato male, come vittima ti sentirai demotivato a adire le vie giudiziarie, macome carnefice ti sentirai legittimato a reiterare il comportamento deviato.

I costi della Giustizia, l’impunibilità dei magistrati, il sovraffollamento degli istituti di pena, un codice penale non aggiornato alla reale situazione della Società, i costi elevati di indagini ed intercettazioni sono tutti elementi che concorrono, da un lato, a vanificare alcuni tentativi di chiedere ed ottenere giustizia, dall’altro a ridurre l’efficacia di molte indagini.

Ma è dalla società che devono venire i principali segni di miglioramento: i genitori devono tornare a fare i genitori e non essere complici, sempre e comunque, dei figli e delle loro azioni; la scuola, con i limiti che le appartengono, deve vigilare sui comportamenti tenuti nel suo ambito ed educare anche in tal senso. Le istituzioni devono farsi carico della repressione di ogni condotta illecita, di concerto tra educatori, magistrati e psicologi, per prevenire prima che combattere ogni forma di bullismo, violenza, prevaricazione.

Il buon senso sarebbe, in realtà, la prima soluzione al problema:capire che ogni bullo può in realtà trovarne un altro che lo bullizza e, dunque, la catena non si interrompe mai; allo stesso modo, ma è un concetto riservato alle persone intelligenti, quindi ad una élite, che senso ha bullizzare un altro essere umano quando tu hai ottime probabilità di essere peggio di lui?

Molti fattori hanno contribuito a questo peggioramento: non si legge più, troppe ore passate davanti alla tv, genitori assenti, educatori impreparati, compagnie composte da tanti singoli, ognuno intento sul proprio cellulare, hanno modificato, in peggio,il carattere delle persone.

Se cessasse il concetto che mettere al mondo figli sia un “must” e si accettasse che i figli non sono soltanto un atto biologico ma un complesso evento di biologia, psicologia, sociologia, medicina e altro forse, e sottolineo forse, la nostra società potrebbe sperare in un futuro di persone educate, interessate al proprio e altrui benessere anziché essere gettate in pasto ai leoni senza preparazione alcuna.

Sergio Motta

Le lasagne in bianco con verdura e salmone

Le lasagne sono sempre perfette, ideali per le occasioni speciali. Ricche e gustose si possono preparare in tante varianti sfiziose. Gustiamole in bianco con la verdura ed il pesce. 

Ingredienti 

1 Confezione di sfoglia per lasagna (senza precottura) 
200gr. di ricotta 
150gr. di mascarpone 
250gr. di ritagli di salmone affumicato 
1 palla di spinaci cotti 
500ml. di besciamella 
Pepe, sale, timo, parmigiano grattugiato q.b

Saltare in padella, senza condimento, i ritagli di salmone tagliati a striscioline. Lasciar raffreddare. Mescolare la ricotta con il mascarpone, unire gli spinaci cotti e saltati in padella, il timo, il sale, il pepe ed il salmone. In una teglia da forno imburrata assemblare le lasagne a strati alternando le sfoglie al composto e besciamella. Ultimati gli ingredienti cospargere con abbondante parmigiano. Cuocere in forno a 180 gradi per circa 30 minuti. 



Paperita Patty 

La Pista di Torino, a cena sul tetto del Lingotto

Cenare su una delle terrazze più belle di Torino, con una vista mozzafiato a 360° sulla città e sull’arco alpino e con un menù conturbante e innovativo, è un’esperienza che lascia il segno.

Con la bella stagione al Ristorante La Pista di Torino è possibile prenotare un tavolo sulla terrazza panoramica al centro della Pista del Lingotto… perché Torino è bella, ma dall’alto ancora di più!

 

Il Monviso, le Alpi, la Sacra di San Michele, l’Arco Olimpico e la Passerella, i grattacieli, Superga, la bolla di Renzo Piano, la Mole Antonelliana, la collina, il Castello di Moncalieri… la vista offerta dai tavoli esterni del Ristorante La Pista è senza dubbio una delle più suggestive e spettacolari sulle quali cenare in città. La terrazza de La Pista è immersa nel verde del giardino pensile che l’architetto e paesaggista Benedetto Camerana ha realizzato sul tetto del Lingotto, trasformando la vecchia pista di collaudo delle auto dell’ex stabilimento Fiat in un’oasi sostenibile: un grande giardino lineare con quasi 40mila piccoli alberi, arbusti e piante erbacee.

In questa oasi di pace e bellezza lo chef Alessandro Scardina propone i suoi menù fatti di tocchi fusion ed esotici, influenze giapponesi e peruviane, amalgamate con preparazioni classiche e materie prime di qualità, rigorosamente stagionali, per una varietà di suggestioni capace di declinare in chiave contemporanea anche la tradizione più pura. Una proposta culinaria che avvolge, stupisce e sperimenta, ben adattandosi a tutti i tipi di palati, dai più tradizionali a quelli più estrosi.

 

Bellezza, gusto, storia e architettura, a La Pista la cena diventa una vera e propria esperienza da vivere, gustare e condividere.

Oh, Lucrezia…

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E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

 Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco –  nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini,  dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…). 

 

Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e  venne incaricato Libero Fusini, che lavorava  con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.

 

Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai  compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom  e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della  vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.

 

Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative  e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia.  Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e  ora siamo più soli.  L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.

Marco Travaglini

Attimi e tempo a Villa Lascaris

 

Domenica 14 luglio 2024, ore 18.00
Villa Lascaris – Ingresso da Piazza SS. Pietro e Paolo, Pianezza

 

Seneca ha scritto che “Il maggior ostacolo al vivere è l’attesa: tutta rivolta al domani, non fa che perdere l’oggi“. Mentre rincorriamo gli impegni, pianifichiamo il domani, aspettiamo che finalmente arrivino le gratificazioni e si realizzino le nostre speranze, perdiamo gli attimi.

Ma quanti modi ha il tempo?

Il tempo è elastico. Un istante può essere infinito oppure durare un battito di ciglia: lo insegna la musica nel trattenere o prolungare una nota, oppure in una pausa, un accordo, un respiro.

Il tempo ha forme e modi diversi. Esiste il tempo esteriore, scandito da un orologio, e il tempo interiore, esistenziale, indipendente da calendari o misurazioni: lo insegna la filosofia.

Non sappiamo cosa sarà il prossimo istante. Lo insegna la danza, nell’imprevedibilità dei movimenti che possono, in un secondo, passare da fluidi a improvvisi, da morbidi ad aspri.

Sono gli attimi, quelli che restano. Pochi secondi sono sufficienti per cambiare una vita, e il tempo è malleabile. Lo insegnano gli attori e i registi sui palcoscenici, così come gli autori tra le pagine dei libri.

I greci distinguevano tra Chronos, il tempo che scorre suddiviso in minuti, ore, giorni, mesi, anni, e Kairos, il momento da non perdere, che determina la scelta e l’azione. Il momento da vivere con intensità.

Villa Lascaris, casa di spiritualità e cultura dell’Arcidiocesi di Torino, propone un pomeriggio di istanti:

CHRONOS E KAIROS – Attimi e tempo

Domenica 14 luglio 2024 – ore 18.00
Villa Lascaris, ingresso da Piazza SS. Pietro e Paolo – Pianezza (TO)

 

Danza, musica e recitazione si declinano in un percorso, tra il parco e le sale auliche di Villa Lascaris, in cui sarà lo spettatore a comporre il suo viaggio in bilico tra tempo e momenti.

Tre palcoscenici, diversi sentieri per raggiungerli. Il tempo – Chronos -, scandito dai rintocchi di una campana. Le performance di Giulia Balla e Jacopo Masserano, musicisti; Elena Cavallo, danzatrice; Silvia Mercuriati, attrice. Indipendenti, in contemporanea, invisibili l’una all’altra. Kairos.

 Saranno i singoli spettatori a scegliere l’ordine delle performance a cui assistere, muovendosi da un palcoscenico all’altro attraverso percorsi che, anch’essi, nascondono esperienze e istanti.  Marco Fracon, direttore di Villa Lascaris, introdurrà le mappe e le chiavi per districarsi in questa esperienza così diversa dal solito.

Al termine della performance, come sempre accade per Letture e Musica nel Parco, di cui Chronos e Kairos è la quarta edizione, verrà offerto agli spettatori un piccolo aperitivo per fare due chiacchere e godere dell’attimo: un tramonto d’estate nella quieta bellezza del parco di Villa Lascaris.

 

Per partecipare a Chronos e Kairos – attimi e tempo, è indispensabile la prenotazione via mail a eventi@villalascaris.it

Biglietti disponibili in loco.

Adulti: € 12.00

Bambini 5 – 12 anni: € 8.00

Bambini sotto i 5 anni: gratuito