LIFESTYLE- Pagina 6

Di motori non ne capisce niente…

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Armando Belletti, per ragioni di lavoro, si trovò costretto a vivere in città per buona parte della settimana.

Non che Pavia fosse una gran metropoli ma era ben altra cosa dalla quieta e sonnecchiosa Borgolavezzaro.

Smog, traffico, ritmi caotici e stressanti lo inducevano quanto prima a fuggir via lontano da quel trambusto. Con la sua utilitaria, sbrigati gli impegni, s’avviava verso la periferia e, in breve, si trovava in aperta campagna. La Lomellina con i suoi campi geometrici, le risaie, i prati, le boschine, l’aria finalmente pulita e l’unico rumore – oltre al ronfare del motore dell’auto – non era tale ma un delicato e allegro cinguettare degli uccelli.Armando rallentava la corsa e si godeva la vista di quell’ambiente naturale salvaguardato da eccessi edilizi, punteggiato da cascine e campanili, immaginando cosa l’aspettava a tavola: il risotto, il salame d’oca di Mortara, le cipolle di Breme, gli asparagi di Cilavegna e, come dolce, le offelle di Parona. Questi pensieri gli mettevano quasi commozione. “Cavolo, quando torno al mio paese mi pare di rinascere. Qui sì che la vita ha i tempi giusti. Stare in città sarà anche necessario ma mi pesa troppo”. Un giorno, imboccata una strada non asfaltata che tagliava in due una collinetta, l’auto si mise a fare le bizze. Il motore tossiva, ingolfato. Perdeva colpi e si fermò. Armando, pronunciando termini sui quali – per rispetto del lettore – si ritiene più utile sorvolare –   provò a rimetterla in moto, girando con foga la chiave d’accensione. Ma non c’era nulla da fare. Il motorino – grrr, grrr – girava   vuoto. L’auto restava lì, immobile, senza dar segni di vita, nel bel mezzo della stradina di campagna. Belletti scese, sollevò il cofano, guardò perplesso e sconsolato il motore senza avere la minima idea di dove mettere le mani. Mentre rimuginava sull’incidente che gli era capitato, avvertì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide   un bellissimo ed elegante cavallo dal manto lucido e nero. L’animale lo guardava e si mise a girare attorno al veicolo. S’avvicinò e, con sguardo indagatore, scrutando il motore disse , con voce grave :“ Un bel guaio, sa? Per me è partito lo spinterogeno”. Armando, attonito e ammutolito lo guardò incredulo mentre l’animale, trotterellando se ne andò via per la sua strada. Di lì a pochi minuti sopraggiunse un contadino, con un forcone in spalla. Si conoscevano. Bernardo Trefossi era noto nei dintorni per la sua eccentricità. Vide il Belletti stranito, con la bocca aperta, e chiese cosa mai gli fosse capitato. Armando, balbettando, raccontò l’episodio del cavallo e il contadino, incuriosito, domandò: “ Mi dica. Il cavallo era forse nero?”. Alla risposta affermativa del Belletti, il contadino, battendogli la mano sulla spalle, lo rassicurò: “Mi dia retta. Non creda ad una parola di quanto le ha detto quel cavallo. Di motori non ne capisce niente”.

E se ne andò, fischiettando per la sua strada. Quando Armando, chiamato il soccorso stradale, riuscì ad arrivare a Borgolavezzaro era omai sera inoltrata. Ancora scosso per l’avventura del pomeriggio, raccontò il fatto agli amici del Bar “Al cervo d’oro”. Nessuno lo contraddisse ma Vittorio Scalmanati, detto “incudine”, fabbro di mestiere, all’insaputa del vicesindaco e guardando gli altri avventori,   si portò l’indice alla tempia. Dalla smorfia e dal gesto tutti intesero ciò che andava inteso: il Belletti era un po’ “tocco” ma non era il caso di contraddirlo. In fondo, come diceva lui stesso, “cavolo, quelli lì un po’ balordi non fanno poi del male a nessuno”. Appunto!

Marco Travaglini

Le ciliegie “salate”

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Stavamo bevendo un bicchiere in compagnia quando Giorgio mi rivolse – all’improvviso – una domanda: “Ti ricordi quando andavamo per ciliegie?”.  Ci misi un attimo, giusto il tempo di mettere le mani nel cassetto dei ricordi e – trovato il filo giusto – mi vennero in mente, nitidamente, quei tempi

A Giorgio erano state le amarene rosso scuro che la Maria aveva sistemato nel cestino della frutta ad accendere la “lampadina“. In quell’istante, la nipotina della Maria, ne prese due coppie, tenute insieme dai gambi, e se le appese come fossero orecchini. Ridemmo, entrambi, di quel gesto che, tanti anni fa, avevamo fatto anche noi, scherzando tra ragazzini. All’epoca si andava in “banda” per i poderi a far razzia. Tra la fine di giugno ed i primi di luglio, nei tardi pomeriggi di quelle calde giornate d’estate, si cercavano gli alberi più carichi di ciliegie. Era una “caccia” troppo invitante. Le ciliegie sono frutti allegri, dissetanti. Ci sono quelle dolci, zuccherose, a polpa tenera ( le tenerine) e a polpa più carnosa (i duroni). E poi, le amarene e le marasche. Con gli anni ho imparato altre cose: oltre ad essere buone fanno pure bene. Sono indicate  nella cura di artriti, arteriosclerosi, disturbi renali. Contengono  buone quantità di fibre, potassio, calcio, fosforo e vitamine. Ci si possono produrre sciroppi, marmellate e liquori come maraschino, cherry e ratafià. Insomma, c’è tutto un elenco di cose positive che fanno rima con ciliegia. Ma noi, all’epoca in cui eravamo ragazzi, piacevano soprattutto perché erano il frutto di un piccolo furto e questo fatto, accompagnato dall’avventura, dai rischi e dalla voglia di trasgredire, rendeva le ciliegie il “frutto proibito” per eccellenza. Mario era arrivato al punto di sostenere una tesi tutta sua: Adamo ed Eva erano stati cacciati dal Paradiso non per colpa di una mela colta senza permesso ma di un cestino di ciliegie rosse e carnose. Il rischio più grande era quello di trovarle “salate“.

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Infatti, capitava che i contadini di un tempo, poco inclini a tollerare le nostre scorribande, ci accoglievano con una doppietta caricata a sale grosso, determinati a scoraggiarci con la minaccia di  piantarci due schioppettate nel sedere. All’arrivo dell’estate, immancabilmente, sembravamo due eserciti in assetto di guerra. “Noi“, a gruppi di 4 o 5, lesti a salire sull’albero, cogliere le ciliegie al volo, riempire il sacco di tela o il cestino, cercando di fare il più in fretta possibile. “Loro“, i proprietari dei ciliegi dove cresceva quel ben di Dio, confezionavano cartucce di diverso calibro con sale grosso, in sostituzione dei pallini di piombo. Rinforzavano anche le linee difensive lungo i confini dei frutteti: reti metalliche orlate di filo spinato, staccionate, siepi irte di spine. Era la “guerra delle ciliegie” che, in altre località, si trasformava in una vera e propria “guerra della frutta”. Se i contadini erano i difensori del loro diritto alla proprietà privata noi, gli incursori che negavano questo diritto, sostenendo che la natura non aveva padroni, colpivamo senza pietà, svanendo subito dopo nei boschi e nella campagna circostante, a volte trascinandoci appresso i compagni feriti. “Lo si faceva per fame e per gioco. Per molti di noi era l’unico modo per mettere sotto i denti quella frutta che non potevamo comprare. Ed era una cuccagna perché a casa il cibo era scarso“, rammentava Giorgio. E, come un rosario, sgranavamo i  nomi dei nostri compagni di quella guerriglia senz’armi: io e Giorgio, Mario, Luigino “Trota” – abilissimo nel pescare nei ruscelli e nel fiume -, Remo, Marco ed anche Marina. Era, quest’ultima, una ragazzina sveglia che dava dei punti a tutti noi. Ed era golosissima di ciliegie. Il campo di battaglia più duro era il frutteto del vecchio Roger Zuffoli, detto “il marsigliese“. Aveva un paio d’ettari piantati a frutta dove si trovava di tutto: susine, albicocche, pesche, mele, pere ed ovviamente ciliegie ed amarene. Verso il limite del bosco aveva anche noci e nocciole. Roger, piccolo e secco, vestiva i pantaloni alla zuava e camicie a quadrettoni mentre in testa teneva sempre il suo basco calato sulle “ventitré“. All’epoca poteva avere si e no una settantina d’anni, gran parte dei quali passati a scaricare merci nei porti di Marsiglia e di Tolone. Era tornato a Baveno già anziano perché, diceva, ” dopo tanta acqua salata ho sentito la nostalgia dell’acqua dolce del Maggiore“. In ricordo di quegli anni, al circolo comandava sempre un bicchiere di  “pastis“,  liquore profumato all’anice, tipicamente francese, che allungava con l’acqua di una caraffa dove galleggiavano dei grossi pezzi di ghiaccio. Attaccare le sue piante era molto ma molto rischioso. Raramente riuscimmo a farla franca ed una volta, quasi, ci lasciammo le penne. Quell’episodio, ancor meglio di me se lo ricorda Mario. Stranamente silenzioso, il frutteto pareva incustodito quella sera. Saranno state le diciannove o poco meno. Roger mangiava presto e quindi pensavamo fosse quello il momento giusto per compiere l’incursione. Invece il perfido vecchietto, mangiata la foglia, si era appostato dietro al piccolo fienile con la doppietta in mano.

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Non facemmo in tempo a renderci conto di quanto stava accadendo che l’eco dello sparo risuonò secco, costringendoci a tappare le orecchie. Colpito al sedere dalla fucilata di sale grosso, Mario cadde dal ramo. Dolorante si rialzò e tutti insieme corremmo a più non posso verso il bosco per far perdere le tracce. Mentre fuggiva a gambe levate, Mario sentiva il dolore delle ferite, poi il bruciore dei grani di sale che si scioglievano nella carne viva. Appena avvistò il ruscello, vinto dal bruciore, si gettò nell’acqua per calmare il fuoco che gli stava divorando il fondoschiena. Ma il rimedio si rivelò peggiore del male: l’acqua , accelerando lo scioglimento del sale, rese insopportabile il bruciore. Remo, appassionato collezionista di francobolli, portava sempre con se una pinzetta e con quella, tra le grida ed i lamenti di Mario, estraemmo i grani di sale, pulendo alla meglio le ferite. Per un po’, da quella sera, gli assalti vennero sospesi per poi, calmate le acque, proseguire per la disperazione dei contadini della zona, compreso Roger. Quella volta però, la “missione” si era conclusa senza il “bottino“. Mario , d’allora, non volle più prendere parte alle nostre imprese. L’invitavamo, lo pregavamo ma lui diceva sempre di no,  opponendo resistenza. Diceva che lui, ormai, non aveva più “il sedere di una volta“. In cuor nostro non ce la sentivamo di dargli torto.

Marco Travaglini

Paparazzi

Chi di noi non ricorda il film “Ecco noi per esempio”, dove Clic (Adriano Celentano) scatta fotografie in qualsiasi situazione giungendo, durante una rapina, a perdere un occhio perché preso di mira mentre scattava?

Un altro film, “Paparazzi” in chiave diversa mostra anch’esso come alcuni soggetti, per lavoro, fotografino di continuo qualsiasi scena si pari loro davanti, con tutto ciò che questo comporta.

Ho scritto volutamente “per lavoro” perché per alcuni versi potrebbe essere un’attenuante, un giustificativo del fatto che questi professionisti fotografano ogni situazione da loro ritenuta interessante, vendibile, adatta al gossip senza preoccuparsi di cosa ne pensi chi viene fotografato.

A me succede spessissimo, soprattutto durante eventi religiosi o caratterizzanti aventi luogo nel Comune che amministro, o in quelli dove vengo invitato come Amministratore, dove i cittadini (particolarmente le donne, ad onore del vero) fotografano ciò che forma oggetto dell’evento (ciclisti, processione, alpini, auto d’epoca, ecc) ma anche chi si trova nei paraggi, così per essere sicuri di non perdersi nulla.

A me personalmente, anche in ossequio al fatto che i personaggi pubblici sono fotografabili (in ambito pubblico) senza particolari restrizioni, non da fastidio, anzi è bello potersi rivedere negli scatti poi pubblicati, ma non sarebbe un’idea malvagia chiedere se una persona gradisca essere fotografata o no.

Ricordo che un anno, alla parata del 2 giugno a Torino, mentre mi accingevo a fotografare i reparti in formazione (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, ecc.)  chiedendo ad alcuni poliziotti il consenso, una di essi mi fece segno che non gradiva essere fotografata e, doverosamente, la esclusi dall’inquadratura.

E’ pur vero che se ho qualcosa da nascondere non vado in un luogo affollato, specie in un Comune dove si conoscono tutti, ma è pur vero che vorrei sapere quale fine faranno gli scatti che mi riprendono, per quale motivo tu stia scattando.

Solitamente, se non si tratta di personaggi pubblici (politica, spettacolo), o per motivi di ricerca scientifica o per diritto di cronaca, la pubblicazioni di foto e video deve essere autorizzata da una liberatoria che il soggetto fotografato rilascia al fotografo e/o a chi diffonderà l’immagine. Va notato che, anche in presenza di una liberatoria, l‘immagine non può ledere l’onorabilità di una persona: se mi fotografi con i pantaloni macchiati e metti, come didascalia, “così povero da non avere i soldi per il detersivo” è palese che tale foto mi stia offendendo e, dunque, potrà partire da parte mia una richiesta di risarcimento.

E’ anche vero che ultimamente le persone hanno un livello di litigiosità mai visto in precedenza, per cui se uno pensa di essere fotografato, pur in un contesto più ampio, prima si infuria e, eventualmente, solo dopo chiede di visionare gli scatti fatti (ledendo a sua volta la privacy del fotografo).

Sostengo che, in ogni ambito, la tolleranza e l’educazione sono in grado di dirimere il 90% delle contestazioni, usando buon senso, empatia, ironia e autoironia e, in ultima analisi, non pensando che gli altri vogliano sempre fregarti o che siano tutti più scemi di te, perché spesso chi ti dimostra il contrario è alto 2 metri e picchia come un fabbro.

Se io dovessi impedire ai miei amici di pubblicare le foto che mi scattano in gita, in vacanza, a cena ridurrei a tutti il piacere dirivivere l’evento anche nei giorni successivi, magari ridendo dell’espressione ebete di qualcuno o dei chili in più di qualcun altro, me compreso si intende.

Questo, a mio parere, si inserisce in un quadro molto più ampio di intolleranza in generale che nasce dal non sopportare il cane che abbaia 3 volte di fila, spazientirsi se la comanda al ristorante tarda 5 minuti, passa per il cartello “Divieto di giocare nel cortile” che va di moda da alcuni anni nei condomini, per arrivare alle aule giudiziarie intasate di cause, promosse quasi sempre da chi non conosce la legge e si stupisce, dopo anni di iter, che il giudice gli abbia dato torto.

Sicuramente “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria non è stato letto a sufficienza; di certo è ora di riscriverlo. 260 anni fa il libro venne inserito nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che esso indicava tra reato e peccato. Ora il vero peccato è fomentare i reati.

Sergio Motta

Turismo al femminile: le destinazioni preferite dalle donne

Quelle più sicure per viaggiare sole (con un invito comunque alla prudenza).

Sempre più donne viaggiano da sole, all’insegna della libertà, per seguire percorsi che con altri risulterebbero diversi sia in termini di conoscenza che di emozioni e per celebrare un’importante conquista che è quella di poter fare delle esperienze in autonomia senza l’accompagnamento di uomini per troppo tempo considerato una protezione necessaria e legittima.

Non si tratta più solo di una nicchia “alternativa”: oggi è un vero fenomeno globale, che riguarda donne di tutte le età, dai 20 ai 70 anni, spinte da motivazioni diverse ma unite da un nodo comune: il desiderio di libertà e indipendenza.

Secondo agenzie di viaggio specializzate in viaggi al femminile come Solo Female Travelers o Women Who Travel e in base a ricerche di mercato condotte da enti turistici locali ed internazionali come il Global Wellness Institute o i rapporti annuali di Skyscanner e Expedia, che non rappresentano dati ufficiali, ma raccolgono e analizzano comportamenti e preferenze, i viaggi al femminile hanno avuto una crescita significativa, rappresentano una tendenza sempre più consolidata.

Tra luoghi più apprezzati grazie ad una miscela di elementi importanti, come l’attrattività’ e la bellezza, ma anche la sicurezza ci sono: Portogallo, Giappone, Francia, Canada, Islanda e anche l’Italia, ma le più sicure in assoluto risultano Finlandia, Norvegia, Svezia, Nuova Zelanda, Austria e Svizzera.

Da qualche anno sono nate molte realtà e reti di ospitalità solidale che si occupano del turismo dedicato alle donne (che viaggiano principalmente sole), e proprio da queste ultime arrivano diversi consigli per viaggiare al meglio e incolumi come: usare app di sicurezza e condivisione della posizione con familiari o amiche, scegliere strutture recensite da altre donne, attraverso forum o community dedicate, non esitare mai a cambiare programma se qualcosa non convince. Nella narrazione positiva della “donna che viaggia da sola e si sente libera”, è essenziale comunque non perdere il senso della realtà soprattutto in alcuni paesi che rimangono culturalmente, socialmente o logisticamente più complessi per una viaggiatrice solitaria. Si tratta di muoversi, dunque, con consapevolezza per esempio rispettando le consuetudini locali, informarsi sulle zone da evitare (anche nelle città più famose) e gestire la condivisione sui social con cognizione come evitare di postare costantemente la propria posizione. Libertà non significa incoscienza, ma coraggio, prudenza e responsabilità. Le favole “dell’eroina solitaria” bisogna lasciarle nella fantasia, il buon senso non deve mai mancare. Non serve rinunciare, ma bisogna stare attente, sempre!

MARIA LA BARBERA

Scaloppine di vitello al limone

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Un secondo piatto di carne amato da tutti, da preparare a pranzo o a cena anche all’ultimo momento. Le scaloppine al limone si preparano con  pochi ingredienti, semplicemente tenere e sottili fettine di vitello avvolte da una fresca e agrumata salsa cremosa e vellutata. Davvero stuzzicanti ed irresistibili.

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Ingredienti

 

6 fettine di carne divitello

1 limone

1 noce di burro

1 rametto di rosmarino

1 spicchio di aglio intero

Poca farina bianca

Mezzo bicchiere di vino bianco secco

Sale, pepe q.b.

Appiattire le fette di carne con il batticarne, incidere i bordi delle fettine per non farle arricciare. Passare le fettine nella farina bianca facendola aderire bene. In una larga padella far spumeggiare il burro con il rosmarino e l’aglio, mettere le fettine e lasciarle rosolare da entrambi i lati, sfumare con il vino bianco, lasciar evaporare, abbassare la fiamma e lasciar cuocere per alcuni minuti. Aromatizzare con il succo di limone e la buccia grattugiata, lasciare insaporire per due minuti poi salare e pepare. Filtrare la salsa per renderla piu’ vellutata e servire subito.

Paperita Patty

La Torino delle due ruote: viaggio fra Vespa, moto e paesaggi

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SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO
La Vespa, un’icona intramontabile
A Torino, la Vespa è molto più di un semplice scooter: è un simbolo di italianità, di eleganza senza tempo e di un modo di vivere il viaggio che sa di libertà, leggerezza e storia. Da generazioni accompagna i torinesi nelle loro avventure estive, nelle commissioni quotidiane e nei momenti di svago. In città si vedono ancora modelli d’epoca splendidamente conservati, affiancati alle versioni più moderne, ma sempre con quell’inconfondibile fascino che solo la Vespa sa evocare. Basta un casco, un paio di occhiali da sole e si è pronti per partire, senza fretta, per godersi le strade della città o dirigersi verso i paesaggi collinari appena fuori porta. La Vespa è compagna perfetta per attraversare il centro storico, per arrampicarsi su verso la collina torinese, o per costeggiare il Po in una calda sera d’estate. Le sue linee morbide e il ronzio del motore diventano quasi poesia in movimento, un modo romantico e personale per vivere la mobilità urbana e oltre. Con l’arrivo dell’estate, moltissimi torinesi tirano fuori dal box la loro Vespa, la lucidano e la rimettono in strada per piccoli viaggi, escursioni e fughe improvvisate verso il verde della Val di Susa o i borghi incastonati tra le colline del Canavese. La Vespa non è solo un mezzo: è uno stile di vita, una filosofia del viaggio lento, che mette al centro il piacere di guardarsi intorno, di sentire l’aria calda sul viso e di godersi ogni chilometro.
Il Vespa Club Torino, passione e comunità
C’è chi ama la Vespa in solitaria e chi invece ha trovato nella passione per questo scooter leggendario un’occasione per condividere emozioni, esperienze e percorsi. Il Vespa Club Torino rappresenta da anni un punto fermo per centinaia di appassionati, una vera e propria comunità in cui la Vespa è il trait d’union tra persone di età, background e storie diverse. Il club non è solo un’associazione: è un luogo dell’anima dove si respira amicizia, appartenenza e desiderio di scoperta. Organizzano raduni, viaggi di gruppo, eventi tematici e tour che toccano luoghi suggestivi del Piemonte, dalle risaie del vercellese ai laghi alpini, dai castelli nascosti ai panorami mozzafiato delle Alpi Cozie. Le uscite collettive del club trasformano la strada in una piccola festa itinerante, fatta di Vespa colorate, bandiere, saluti ai passanti e soste gastronomiche nei posti più autentici. Ma dietro ogni viaggio c’è anche una cura maniacale per i dettagli, una passione che si vede nei restauri minuziosi, nei racconti tramandati tra i soci e nell’amore per la tradizione. Il Vespa Club Torino rappresenta un pezzo importante del tessuto sociale cittadino, un esempio di come la mobilità su due ruote possa anche diventare cultura e aggregazione. Partecipare a una loro uscita significa non solo guidare, ma anche ascoltare storie, stringere nuove amicizie, sentirsi parte di qualcosa di più grande. E non mancano i momenti di solidarietà, con eventi organizzati per beneficenza o per promuovere la sicurezza stradale, a dimostrazione che dietro un casco e una marmitta c’è spesso un cuore che batte forte.
Le moto, adrenalina e libertà nei paesaggi piemontesi
Accanto alla Vespa, i torinesi nutrono da sempre una grande passione per le moto. Che siano naked, sportive, custom o touring, le due ruote a motore rappresentano una vera valvola di sfogo per molti cittadini, un modo per fuggire dal traffico, per esplorare nuove strade e per ritrovare il senso più puro della libertà. L’estate è il momento in cui i motociclisti torinesi si rimettono in sella con maggiore frequenza, approfittando delle giornate lunghe e del clima favorevole per organizzare giri spettacolari nei dintorni. Le strade del Piemonte offrono scenari mozzafiato: curve sinuose che attraversano i vigneti delle Langhe, salite panoramiche che portano al Colle della Maddalena, sentieri d’asfalto che costeggiano i laghi di Avigliana o si inoltrano nelle valli meno battute del biellese. La moto diventa il mezzo ideale per esplorare in profondità il territorio, per raggiungere luoghi lontani dal turismo di massa, dove la natura è ancora autentica e il tempo sembra rallentare. I motociclisti torinesi si danno appuntamento in piazze, benzinai e locali storici, pronti a partire all’alba per un giro di centinaia di chilometri, spinti solo dalla voglia di guidare e di scoprire. C’è chi cerca l’adrenalina pura, affrontando i tornanti come in una sfida personale, e chi invece preferisce la dimensione contemplativa del viaggio, quella in cui il paesaggio è parte integrante dell’esperienza. Le moto, a Torino, non sono solo un hobby, ma un vero stile di vita. E in estate, quando la città si svuota e il richiamo delle montagne si fa più forte, non c’è niente di meglio che allacciare il casco, avviare il motore e lasciarsi portare dove porta la strada.
NOEMI GARIANO

La tennista Beatrice Bo è Miss Piemonte 2025, Alycia Ferrero Miss Valle d’Aosta

Sarà proprio la tennista di Brandizzo, Beatrice Bo, 21 anni, a rappresentare il Piemonte, la regione delle ATP Finals, alla finalissima di Miss Italia 2025, in programma il prossimo 15 settembre  a Porto San Giorgio nelle Marche, finalissima che finalmente ritornerà sugli schermi della RAI. L’evento, infatti, sarà trasmesso da San Marino RTV e RAI Play. Con lei, di diritto in finale, anche Alycia Ferrero, 19 anni, di Borgaro, Miss Valle d’Aosta 2025. L’elezione è avvenuta il 27 agosto scorso a Fossano, nella splendida cornice dell’Auditorium della Musica Italo Calvino, durante la serata condotta dalla coppia Andrea Beltramo e Francesca Spinelli. Attore e doppiatore il primo, modella ed ex  Miss Italia la seconda, insieme stanno rendendo le varie tappe del concorso uno spettacolo divertente, elegante, senza tempi morti. Al loro fianco Mirella Rocca, agente esclusivista per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta, cui spetta il merito di avere riportato la corona in Piemonte nel 2023 con la bellissima Francesca Bergesio.


Le ragazze hanno sfilato con abiti da sera da favola e hanno realizzato il musical “I meravigliosi anni Settanta”, coinvolgendo il pubblico sotto la regia musicale di Tony Brera e la musica del Village Peaple. Tutte le Miss hanno poi sfilato con outfit anni Settanta creato da loro stesse.

Beatrice Bo ha conquistato la giuria con la sua avvenenza, il fascino e le capacità. Alta 1.80 per 61 chili, è una ragazza intelligente, con molte doti e una grande passione, il tennis, sport che pratica a livello agonistico,  di cui è anche istruttrice presso il Club Tirumapifort di Chivasso, e che si sposa con le tendenze che Torino ha assunto negli ultimi anni. Sogna anche il cinema e una carriera  come modella, per la quale studia costantemente in parallelo alla sua attività di tennista.
“È  un grande traguardo aver vinto questo titolo, frutto di impegno e determinazione, è un riconoscimento che va oltre l’aspetto esteriore, un premio alla persona che sono diventata – ha commentato ieri sera dopo l’inconorazione.
Alycia Ferrero, 19 anni di Borgaro, due occhi azzurri come il mare, proprio come Cristina Chiabotto, rappresenterà i monti della valle d’Aosta. Giovanissima, ma già determinata, studia moda e cultura d’impresa e sogna la grande fiction dove vorrebbe ricoprire ruoli da protagonista.
“Sono orgogliosissima di essere alla guida del concorso di Miss Italia, perché non si tratta soltanto di bellezza, ma di un percorso di crescita per tutte le ragazze che vi partecipano. Miss Italia rappresenta un’esperienza di formazione,  solidarietà e consapevolezza – spiega Mirella Rocca,  esclusivista regionale per il Piemonte, la valle d’Aosta e la Liguria, ma anche punto di riferimento importante per tante ragazze che desiderano iscriversi allo storico concorso di Miss Italia e per chi sogna di entrare nel mondo della moda e del cinema, essendo lei una professionista del settore.

Mara Martellotta

I “chiodini” intelligenti della Quercetti

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore 67 anni fa. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti

 

Caro Alessandro, i “plonini” hanno compiuto sessantacinque anni. Sette in più del tuo papà, più del doppio dei tuoi. Ma sono sempre quelli, di plastica colorata, che infilavi nei buchi per disegnare figure”. Così scriverei a mio figlio, in una ipotetica lettera, ricordando il tempo in cui giocava con i chiodini della Quercetti. Sì, erano quelli i “plonini” ( i bimbi tendono a reinventarsi i nomi; anche Snoopy era diventato “Stuyng” e i Puffi si erano ritrovati come d’incanto ad essere dei “fuppi” ) che nel 1950 uscirono dalla fabbrica torinese di Corso Vigevano,25. Esattamente 67 anni fa, Alessandro Quercetti, diede vita a uno fra gli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia. E, nonostante il paese sia cambiato dall’inizio del secondo dopoguerra e almeno tre generazioni di italiani hanno giocato con quei chiodini di plastica, sembra che per la “Quercetti & C.” il tempo si sia fermato. Certo, la fabbrica è più grande, moderna e tecnologica, ma il nome sulla porta è sempre lo stesso ed a  guidarla è sempre la stessa famiglia: Andrea, Alberto e Stefano Quercetti, i figli di Alessandro. L’azienda torinese rappresenta uno degli esempi più longevi dell’industria del giocattolo in Italia, un comparto che, nella maggior parte dei casi, ha dovuto arrendersi allo strapotere dei produttori asiatici.

Ovviamente i giochi si sono evoluti, ma quel che conta e che fa la differenza è che l’impronta è la stessa data dal fondatore. Giochi tradizionali, manuali, intelligenti. E il “pezzo forte” dell’azienda è sempre lui, il mitico “Chiodino“, intuizione straordinaria che ha reso il marchio “Quercetti” e i suoi giochi riconoscibili in tutto il mondo. La gamma dei giochi nel tempo è decuplicata, e sono cambiati materiali e tecnologie produttive: ai chiodini, si sono aggiunti biglie, costruzioni, aerei, magneti. Ma ogni pezzo viene realizzato ancora oggi in Italia, nello stabilimento di Torino, dove la Quercetti  può vantare di essere una delle pochissime realtà con un controllo diretto dell’intera filiera produttiva. Tutto il lavoro, a partire dalla progettazione del giocattolo fino al confezionamento del prodotto finito è interamente realizzato in Corso Vigevano. L’intero ciclo di produzione, dall’idea al prototipo, dallo sviluppo del prodotto alla costruzione degli  stampi, dallo stampaggio al confezionamento fino alla spedizione è svolto in Italia, sviluppando un indotto sul territorio. Così, nel tempo, la Quercetti  ha mantenuto la sua identità e non è mai scesa a compromessi. Perché per fare giocattoli, per essere in grado di offrire ai bambini una ricca gamma di esperienze, per realizzare un prodotto che non si limiti ad attrarre ma che stimoli l’intelligenza dei bambini. Rispettandola e coltivandola nel tempo, chiodino dopo chiodino.

Marco Travaglini