LIFESTYLE- Pagina 15

La gestione ottimale delle nostre energie / 1

Prima parte 

Dio come sono stanca/stanco! Non riesco a trovare le energie per fare tutto ciò che dovrei! Quante volte sentiamo (o diciamo noi stessi…) queste frasi? Anche nei miei colloqui di coaching e counselling, e nelle attività di sportello d’ascolto che svolgo in aziende ed enti, queste considerazioni sono frequenti.

Sempre più persone hanno pesanti difficoltà nel trovare le energie sufficienti ad affrontare i tanti impegni della quotidianità. Qualunque sia il nostro ruolo sociale, lavorativo e familiare, ognuno di noi vive situazioni che richiedono un forte impiego di energie fisiche e mentali.

Per stare bene, dobbiamo perciò fare in modo di avere un sufficiente livello energetico, che ci permetta di affrontare nel modo migliore i tanti impegni (e ruoli…) della nostra vita. È sorprendente notare che ci sono persone sempre attive e piene di energia, che affrontano con vigore i numerosi e pressanti impegni della loro vita.

Viceversa tutti noi conosciamo altri soggetti che sono sempre stanchi, nonostante che le loro giornate siano tutt’altro che piene di impegni e di incombenze… Quali sono le caratteristiche e i comportamenti che rendono così diverse tra loro queste persone, rispetto alla gestione delle loro energie?

Uso spesso, anche nei miei corsi di formazione sulle Soft Skills, la metafora del serbatoio di energie: possiamo visualizzare il nostro livello energetico come fosse, appunto, un serbatoio, con un immaginario rubinetto, spesso troppo aperto a causa dei tanti impegni e dello stress.

Da cui escono le nostre energie e una apertura superiore nella quale immettiamo, attraverso l’alimentazione, il sonno, il relax, ecc, nuove energie. Se le energie che escono dal serbatoio sono superiori a quelle che entrano, e se questa situazione si prolunga per un tempo eccessivo, inevitabilmente ci troviamo in carenza energetica.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

(Fine della prima parte)

Potete trovare questi e altri argomenti dello stesso autore legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Città vs campagna

Da alcuni anni, particolarmente dalle metropoli come Milano, si assiste ad una migrazione verso la periferia, verso la campagna, oggetto tanto di vantaggi quanto di svantaggi nei confronti della metropoli. Esempio eclatante sono i milanesi che, pur lavorando ogni giorno sotto la Madonnina, a fine giornata prendono il treno AV e vengono a Torino dove hanno preso casa, mangiano e dormono, per tornare il giorno dopo verso la metropoli lombarda e così via finché non cambino le condizioni di vita o non arrivi la sospirata pensione. Al di là di ogni considerazione economica, è evidente che l’apparente sacrificio cui si sottopongono questi pendolari interregionali viene ripagato da qualche altro vantaggio; se fosse solo un problema economico basterebbe andare ad abitare in qualche Comune del milanese o dei dintorni (magari Cassinetta di Lugagnano, Tavazzano con Villavesco, Pantigliate, ecc) dove gli affitti sono sicuramente inferiori a quelli del capoluogo.

E’ evidente come questa tendenza, sempre più frequente, affondialtrove le sue origini: da un lato i tempi di percorrenza, specie se si è costretti ad utilizzare l’auto, sono tra le principali cause di insoddisfazione in chi lavora ed abita in Milano; dall’altro lo stress di inquinamento, traffico, rumore, problemi di parcheggio, costi (parcheggi a 4 euro l’ora non sono giustificabili) rendono competitiva qualsiasi soluzione alternativa.

Parlando con uno di questi pendolari che quotidianamente sale a Porta Susa su un treno AV per scendere circa ¾ d’ora dopo in Centrale, è emerso come il tempo impiegato dal lavoro a casa sia lo stesso (prima doveva attraversare Milano da un’estremità all’altra), ma il risparmio sull’affitto di casa permette di acquistare l’abbonamento mensile e avanzano ancora alcune centinaia di euro al mese.

Io personalmente adoro Milano ma non vi ho mai abitato, escludendo periodi di 4-5 giorni per corsi, progetti, ecc) dunque non ho una realistica percezione di cosa significhi affrontare la quotidianità; posso però dedurre che, scioperi ferroviari a parte, mettendo su un piatto della bilancia il risparmio e sull’altro il disagio di dover viaggiare, sarà il primo piatto quello che penderà verso il basso.

Naturalmente questo criterio non può essere considerato universale perché molti fattori intervengono nella scelta: genitori anziani da accudire, problemi di salute che sconsigliano i viaggi, discordanza con gli orari di uscita da scuola dei figli, distanza della sede di lavoro dalla stazione ferroviaria e altro ancora.

Ma quello che deve fare riflettere è che una società che ha fatto dello sviluppo industriale la propria carta vincente ora è satura di tutto ciò che questo sviluppo ha portato con sé: motorizzazione di massa, edifici dove anche dopo anni non ci si conosce tutti, assemblee condominiali più simili ad un saloon del far west che ad un ritrovo dove decidere gli interessi di tutti, mezzi pubblici spesso inadatti alle esigenze degli utenti e distanze enormi da percorrere per soddisfare le esigenze basilari (spesa, medico, scuola) hanno di fatto saturato gli animi di chi vi abita.

Fra quanti ancora ancora resistono, una minima parte ha interessi tali da non potersi spostare di città, da non potersi allontanare dai luoghi sede di questi interessi, mentre la maggior parte non vuole uscire dalla confort zone, da quel luogo virtuale nel quale non si sta poi così male e, in ogni caso, starebbe peggio a dover decidere diversamente, a dover affrontare un cambiamento.

Questo non cambiare, però, non è sempre la scelta migliore: l’epigenetica studia e spiega proprio come alcune patologie siano influenzate dall’ambiente in cui viviamo; pensiamo soltanto ad inquinamento dell’aria, elettronico o acustico, allo stress negativo di stare in colonna in auto, sentendosi impotenti, di dover giocare alle slot con i parcometri su una strada già nostra grazie al gettito IRPEF e così via.

E’ evidente, però, vedendo l’ampiezza del fenomeno che questo disagio, questa nuova tendenza sia la testimonianza che la nostra società stia correndo ai ripari dopo aver fatto indigestione di agi, di lusso, di comodità.

Forse se riprogrammassimo le nostre abitudini attribuendo un giusto equilibrio tra efficienza, comodità, natura, risparmio e, perché no, tempo libero riusciremmo a trovare la giusta collocazione.

Oppure continuare a lamentarci.

Sergio Motta

Gli occhiali per leggere

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Albertino era venuto al mondo quando ormai Maddalena e Giovanni non ci speravano più. E così, passando gli anni in un rincorrersi di stagioni che rendevano sempre più duro e faticoso il lavoro nei campi, venne il giorno del ventunesimo compleanno per l’erede di casa Carabelli-Astuti.

E con la maggiore età  arrivò, puntuale come le tasse, anche la chiamata obbligatoria alla leva militare. Albertino salutò gli anziani genitori con un lungo abbraccio e partì, arruolato negli alpini. Un mese dopo, alla porta della casa colonica di Giovanni Carabelli, alle porte di San Maurizio d’Opaglio, dove la vista si apriva sul lago, bussò il postino. Non una e nemmeno due volte ma a lungo poiché Giovanni era fuori nel campo e Maddalena, un po’ sorda, teneva la radio accesa con il volume piuttosto alto. La lettera, annunciò il portalettere, era stata spedita dal loro figliolo. Non sapendo leggere e scrivere, come pure il marito, Maddalena si recò in sacrestia dal parroco. Don Ovidio Fedeli era abituato all’incombenza, dato che tra i suoi parrocchiani erano in molti a non aver mai varcato il portone della scuola e nemmeno preso in mano un libro. Chiesti alla perpetua gli occhiali, lesse il contenuto alla trepidante madre. E così, più o meno ogni mese, dalla primavera all’autunno, la scena si ripetette. Maddalena arrivata concitata con la lettera in mano, sventagliandola. E il prete, ben sapendo di che si trattasse, diceva calmo: “ E’ del suo figliolo? Dai, che leggiamo. Margherita, per favore, gli occhiali..”. E leggeva.  Poi, arrivò l’inverno con la neve e il freddo che gelava la terra e metteva i brividi in corpo. Il giorno di dicembre che il postino Rotella gli porse la lettera del figlio, decise che non si poteva andar avanti così. E rivolgendosi al marito con ben impressa nella mente la scena che ogni volta precedeva la lettura da parte del parroco, disse al povero uomo, puntando i pugni sui fianchi: “ Senti un po’, Gìuanin. Non è giunta l’ora di comprarti anche te un paio d’occhiali così le leggi tu le lettere e  mi eviti di far tutta la strada da casa alla parrocchia che fa un freddo del boia? “.

Marco Travaglini

 

 

Panfua: Il Nuovo Tempio dei Fluffy Pancake a Torino

SCOPRI – TO   ALLA SCOPERTA DI TORINO

Torino è una città che ha sempre saputo mescolare tradizione e innovazione e ora accoglie con entusiasmo un nuovo indirizzo gastronomico che sta già conquistando il cuore degli amanti della colazione e non solo. Si chiama Panfua, ed è un locale che ha appena aperto in Via Maria Vittoria, con un’offerta che ruota attorno a uno dei piatti più amati e confortanti: i fluffy pancake.
Da sempre simbolo della colazione americana, i pancake sono diventati un must per molti anche in Italia, ma a Panfua la ricetta si reinventa, con una proposta unica che non si limita alla versione dolce. Il ristorante offre anche pancake salati, pensati per soddisfare i gusti più diversi e adattarsi a ogni momento della giornata. Se fino a qualche tempo fa i pancake erano considerati un piatto esclusivamente dolce, oggi si trovano anche con farciture salate, un’idea innovativa che Panfua ha portato a Torino con grande successo.
Il fascino dei fluffy pancake, rispetto alla versione più sottile e compatta, risiede nella loro morbidezza e leggerezza. Questi pancake, alti e soffici, si sciolgono praticamente in bocca, regalando una sensazione di piacere che si sposa perfettamente con gli ingredienti freschi e di qualità che il locale utilizza. La preparazione è un’arte che richiede attenzione e cura: l’impasto, arricchito da lievito e una selezione precisa di farine, crea una base perfetta, che si presta a mille varianti, sia dolci che salate.
Ma a Panfua non si trova solo la versione tradizionale con sciroppo d’acero e frutta fresca. La vera novità è la possibilità di personalizzare il piatto come meglio si crede, scegliendo tra una vasta gamma di farciture, salse, frutta, formaggi e addirittura piatti salati. Immaginate un pancake farcito con uova strapazzate, bacon croccante, o una versione vegetariana con avocado, pomodori secchi e hummus: un abbinamento che potrebbe sembrare inusuale, ma che si rivela assolutamente irresistibile
Un’Offerta Sana e Deliziosa
Ma quello che distingue davvero Panfua è la sua attenzione al benessere e all’equilibrio alimentare. Molti dei suoi clienti, infatti, apprezzano anche la possibilità di gustare i pancake senza sensi di colpa. Il locale propone diverse varianti che rispondono alle esigenze alimentari di chi segue diete particolari. Per chi è intollerante al glutine o preferisce una versione vegana, Panfua ha pensato a pancake preparati con farine alternative e dolcificanti naturali, offrendo anche la possibilità di scegliere una versione a basso contenuto di zuccheri. Grazie a queste varianti, anche chi è attento alla propria alimentazione può concedersi un piccolo piacere senza rinunciare alla leggerezza.
E per accompagnare i pancake, il locale offre una selezione di bevande salutari, come succhi freschi, centrifughe di frutta e verdura, e smoothies ricchi di vitamine. Non mancano ovviamente caffè, tè e altre bevande più tradizionali, ma l’idea è di proporre una colazione sana e nutriente, senza rinunciare al gusto.
L’atmosfera di Panfua è un altro punto di forza; il locale, dall’aspetto moderno ma caldo e accogliente è perfetto per trascorrere una mattina in compagnia o per una pausa rilassante durante la giornata. Gli interni, semplici ma eleganti, invitano a sedersi e godere di un’esperienza che va oltre il semplice pasto: qui, infatti, si viene accolti con un sorriso e con la promessa di un prodotto genuino, preparato con cura.
Il team di Panfua è giovane e dinamico, sempre pronto a consigliare i clienti nella scelta della versione migliore dei pancake, che possono essere gustati sia per un brunch, che per una cena alternativa. La passione e l’entusiasmo che si percepiscono in ogni dettaglio fanno di questo locale un punto di riferimento per chi cerca qualcosa di nuovo, ma anche di qualità, nel panorama gastronomico torinese.
Panfua non è solo un luogo dove mangiare, ma un’esperienza che celebra la creatività in cucina e l’incontro di culture gastronomiche. Grazie alla sua proposta variegata, il locale è perfetto per ogni tipo di cliente, da chi cerca un piatto goloso ma sano a chi è sempre alla ricerca di nuove tendenze culinarie. Ogni visita a Panfua è un’opportunità per esplorare nuovi abbinamenti di ingredienti e scoprire combinazioni che forse non sibsarebbero mai immaginate. Che si tratti di una colazione abbondante, una merenda o una cena fuori dagli schemi, i fluffy pancake di Panfua sono pronti a conquistare anche i palati più esigenti.
Con l’apertura di questo nuovo locale, Torino si conferma come una città che guarda al futuro senza dimenticare le tradizioni, in un perfetto equilibrio tra innovazione e cultura gastronomica.
NOEMI GARIANO

Ecomuseo dei Seggiolai di Azeglio, una storia antica che inizia con “un pezzo di legno”

C’era una volta… “un pezzo di legno” scriveva Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Anche questa storia inizia con un pezzo di legno, ma il legno non è destinato a diventare burattino, bensì una sedia impagliata che in comune con Pinocchio ha avventure, viaggi e un legame stretto con i suoi artigiani: il seggiolaio, il cadregat in dialetto e l’impagliatrice, l’ampajaura.

L’attività, sviluppatasi a partire dalla metà dell’Ottocento, coinvolge gran parte delle famiglie del Comune di Azeglio e si sviluppa a tal punto da riuscire a dare impulso non solo al commercio locale, ma a creare flussi stabili verso il Nord Italia, la Svizzera, la Francia e gli Stati Uniti, affievolendosi, per poi cessare del tutto intorno agli anni ’80 del secolo scorso, travolta dalla produzione in serie, dalle macchine e dall’utilizzo di quella tecnologia che ha tutto uniformato, spazzando via il calore del passato a vantaggio della freddezza di un presente sempre più rapido e superficiale. Nel 2004, con grande impegno e amore, i volontari dell’Associazione ARTEV hanno creato l’ecomuseo “La Cadrega fiurja”, un piccolo gioiello che custodisce e sottrae al trascorrere del tempo il racconto della nascita della produzione e dell’impagliatura delle sedie, un luogo di gozzaniana memoria dove regna non il rimpianto, ma semplicemente quella sottile malinconia che tutto avvolge e tutto rende caro.

Ai locali si accede attraverso una piccola scalinata che da piazza Massimo d’Azeglio scende verso via XX Settembre, costeggiando la Torre Campanaria e la Chiesa Parrocchiale. Una lungo e ampio ingresso ospita numerosi esemplari di sedie sottratte al trascorrere del tempo, sedie umili per la cucina contadina e sedie eleganti per la sala da pranzo, sedie impagliate con la lesca, l’erba palustre che con la paglia di segale costituisce la seduta, e sedie alle quali si intreccia la canapa, sedie che si fronteggiano e si affiancano, richiamando alla mente la “Sedia di Vincent” e la “Sedia di Gauguin” dipinte da Van Gogh, in apparenza vuote, ma evocative di presenze, di volti, di storie, di emozioni. Non poteva mancare la ricostruzione della sala da pranzo o salotto con i manufatti azegliesi, con il servizio “buono” che nessuno utilizzerà, con il canapè impagliato sul quale non siederà nessuno, con i volti sottratti per sempre al trascorrere del tempo da uno scatto fotografico. “Fuga delle stanze morte! Odore d’ombra! Odore di passato!”, citando Gozzano. E poi la cucina con l’angolo per impagliare e il laboratorio di falegnameria del cadregat con gli utensili, gli attrezzi, le sedie incompiute, la paglia ancora da intrecciare. Questo sito espositivo che dovrebbe essere conosciuto e protetto, come conosciute e preservate devono essere le nostre radici perché il presente e il futuro non si possono costruire senza passato, senza origini, senza un punto dal quale partire e al quale tornare, rappresenta solo una cellula dell’Ecomuseo, che si compone anche del “Sentiero della lesca”, il percorso naturalistico nel bosco e sulla sponda azegliese del lago di Viverone, dove si può osservare l’erba lacustre usata per l’impagliatura, e dovrebbe coinvolgere la vecchia fabbrica di sedie fondata nel 1879 dal cav. Santina, in regione Pila, nella quale i macchinari funzionano ancora. Una via dell’anima, un ritorno alle origini e alle storie delle generazioni che ci hanno preceduto, di quegli antenati che vivono nelle memorie e nei gesti ripetuti, oltre che nei nostri cuori e che un umile oggetto come una semplice sedia può riportarci, per caso, alla mente, simile alla “madeleine intinta nell’infuso di tiglio del ricordo”.

 

Barbara Castellaro

 

Visite su prenotazione

P.za M. d’Azeglio – 10010, Azeglio

0125 72537 / 3398151581

artev@libero.it

Sapori di famiglia: il polpettone gustoso e casereccio

Polpettone al forno con patate

Una ricetta della tradizione dagli antichi sapori di pranzi in famiglia. Questo è il polpettone, un secondo gustoso ed economico che racchiude un goloso e succulento ripieno.
Un piatto che rende felice tutti.

Ingredienti

600gr. di carne trita di manzo
2 uova
50gr.di grana grattugiato
4 grissini ridotti in polvere
3 fette di prosciutto crudo
100gr. di toma o fontina
Sale, pepe q.b.
5 patate
1 rametto di rosmarino
Sale, olio q.b.

In una ciotola impastare la carne con le uova, il parmigiano, la polvere di grissini, il sale ed il pepe. Stendere l’impasto su un foglio di carta forno, dare una forma rettangolare, sistemare le fette di prosciutto e sopra, il formaggio a tocchetti.
Arrotolare la carne aiutandosi con la carta forno e sigillare bene. Chiudere a caramella e sovrapporre un altro foglio di carta forno sigillando bene. Sistemare il polpettone al centro di una pirofila da forno, aggiungere le patate tagliate a cubetti condite con olio e rosmarino.
Infornare a 180 gradi per 30 minuti. Estrarre il polpettone, togliere la carta e rimettere in teglia per altri 15 minuti.

Servire caldo.

Paperita Patty

 

La tirlindana

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Sono ormai in pochi, sui laghi, a praticare la pesca a traino dalla barca con la tirlindana. Eppure questo semplice attrezzo ha un suo fascino e una storia. Immaginatevi una lenza in filo di rame o, in versione più moderna, in monofilo di nàilon, lunga da un minimo di 30 a oltre 60 – 70 metri, recante un finale di nàilon a cui è assicurata l’esca, il tutto avvolto su uno speciale telaietto girevole dalla sagoma molto nota detto aspo

Ci siete? Bene. L’aspo, un tempo, veniva costruito dallo stesso pescatore, artigianalmente. Oggi come oggi quest’attrezzo si trova già pronto in commercio, spesso in alluminio leggero e lucente: non vi resta che applicare il terminale con l’esca ritenuta più idonea e, sul piano teorico, siete a posto. Perché solo in teoria? Perché la chiave del successo nella pesca a tirlindana dipende dalla mano di chi la manovra. A prima vista parrebbe tutto semplice e facile come bere un bicchier d’acqua  ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: occorre un certo tirocinio per impadronirsi al meglio di questa tecnica, in grado di riservare delle gran belle soddisfazioni. Intanto, occorre una buona conoscenza del fondale da battere e saper valutare con esattezza la profondità di pescaggio dell’attrezzo. Mai lasciare le cose al caso, quando si pesca con la tirlindana: sarebbe un errore imperdonabile. Ho conosciuto un “lupo di lago”, il vecchio Giuanin, in grado di valutare fondali e correnti, neanche avesse una carta nautica ficcata dentro la sua testa pelata. Per non parlare poi dei movimenti: sia lui che il suo “socio” Faustino erano dei maghi nell’accompagnare la lenza , imprimendole i movimenti giusti, manovrando la barca con misura e mestiere. Di norma i “professionisti” della pesca su lago fanno tutto da soli, usando piccole barche leggere, dei veri gusci di noce che manovrano con un solo remo, essendo l’altro braccio impegnato con la lenza.

 

Taluni ricorrono al motore di potenza fra 2 e 3,5 HP, ma è ovvio che, per quanto condotto al minimo, quest’ultimo provoca un fastidioso rumore specialmente nei fondali bassi. Un’alternativa ci sarebbe, a dire il vero: un motore elettrico, silenzioso, facile da gestire e con una velocità giusta. La tradizione però conta; e la tradizione suggerisce  che l’ideale consiste nell’ agire in due, uno in gamba nel manovrare i remi, l’altro con il tocco giusto per far andare la tirlindana. La lenza tradizionale è in rame, quella moderna – come si è detto – in nàilon. Il tipo classico, in rame cotto,  e si trova in due diametri: lo 0,30 per la pesca leggera a mezz’acqua, lo 0,50 per andare più a fondo, puntando al luccio. Un materiale flessibile ed elastico, preferibile a quello attorcigliato a treccia che risulta meno malleabile. Il nàilon, occorre ammetterlo, offre maggiori vantaggi, con un però: richiede una piombatura distribuita o raggruppata, per consentirne il corretto e rapido affondamento. Cosa che, con il filo di rame, avviene spontaneamente grazie al suo peso specifico. Il nailon non richiede una particolare manutenzione, ha un carico di rottura e di resistenza decisamente elevato, le lenze sono vendute già zavorrate e, cosa non secondaria,  costano meno. “La zavorra è il cuore di tutto!”, dice Giuanin, quando all’osteria, tra un mezzino e l’altro, molla il freno e sale in cattedra. “ Una volta si lavorava con il rame piombato alla fine, facendoci i muscoli nell’accompagnare il peso in acqua. Adesso, cari miei, si va avanti a filo di nailon  e allora non resta che applicare delle olivette di piombo lunghe di un paio di centimetri e di peso attorno  ai a due o tre grammi, distribuendole in modo regolare fino a raggiungere un peso di quasi mezzo chilo. Così, se zavorri bene, la lenza va giù che è un piacere e non corri il rischio che ti resti troppo in superficie,trascinandotela a pelo d’acqua, o di farla affondare fino a raschiare i sassi del fondo”.

 

Il “prof” Giuanin accompagna le parole con gesti decisi, caparbi quel tanto da sconsigliare il contraddittorio. La sua esperienza non ammette repliche. “ E’ molto importante anche la velocità con cui avanza la barca. Se si è in due la cosa migliore è procedere a remi, come abbiamo sempre fatto io e Faustino”, confida il vecchio pescatore.  “ Uno tiene in mano la tirlindana e l’altro rema facendo ogni tanto delle piccole pause. Occhio, però:  chi tiene la tirlindana non deve star lì come un cucù ma imprimere al filo dei piccoli, leggeri strappi per simulare una veloce fuga del pesciolino finto”. Questo genere di movimento, visto dalle parte dei predatori, equivale allo squillo di tromba della carica, scatenandone l’istinto di predatori.“Qui viene il bello. Avvertita la mangiata non perder tempo: uno strappo per ferrare il pesce e avvia lentamente il recupero. La barca non deve arrestare il suo movimento, capito? Se lo fai, se ti fermi, la preda ti frega, soprattutto se è di una certa dimensione. I pesci non sono fessi, e non ti saltano a bordo di spontanea volontà. La preda, se riesce ad avvicinarsi troppo, tenterà come ultima fuga di inabissarsi sotto la barca. Quando accade, sono cavoli amari: il rischio di perderla è alto perché, puoi esserne certo,  il filo andrà sicuramente ad impigliarsi in qualche sporgenza con tutte le conseguenze del caso”. Mai dimenticarsi il guadino: se non lo si trova a portata di mano, al momento giusto, tirare in secco la preda è un problema. Questa è la lezione di Giuanin. Applicandola per filo e per segno porterà alla tirlindana un tributo certo di prede, dai persici ai lucci, dai cavedani alle trote.

Marco Travaglini

 

(Foto: molagnacavedanera.it)

 

Per palati raffinati l’insalata di pollo e avocado

Un abbinamento consolidato quello tra il pollo e l’avocado, semplice ma non banale, una ricetta decisamente light dal tocco esotico e sfizioso. L’insalata di pollo e’ una ricetta gustosa, una soluzione veloce e pratica, perfetta in qualsiasi occasione.

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Ingredienti

 

½ petto di pollo

1 avocado

1 lime

1 limone

Prezzemolo

Olio evo

Pepe, sale q.b.

Mandorle a lamelle

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Lessare il petto di pollo con una carota, un gambo di sedano, una foglia di alloro e poco sale. Lasciar raffreddare poi, tagliare a tocchetti. Pelare l’avocado, tagliarlo a dadi e spruzzarlo con il limone per evitare che annerisca. In una scodella emulsionare il succo del lime con 4 cucchiai di olio evo, il sale e il pepe. In una terrina, mettere il pollo, unire la polpa dell’avocado, condire con  l’emulsione di olio, mescolare bene e servire cosparso con mandorle a lamelle.

 

Paperita Patty