Dall Italia e dal Mondo- Pagina 74

“Marsala”, la cavalla bianca di Garibaldi

L’isola di Caprera fa parte dell’arcipelago di La Maddalena, a nord-est della Sardegna, al largo della costa Smeralda. L’isola, abitata da poche decine di persone (la maggior parte degli abitanti risiede nel borgo di Stagnali) è raggiungibile grazie ad un ponte che la collega all’Isola Maddalena, e fa parte integrante – da più di vent’anni –  dell’area protetta dell’Arcipelago della Maddalena. Caprera fu il “buen retiro” di Giuseppe Garibaldi che giunse per la prima volta sull’isola il 25 settembre del 1849. Tra varie peripezie vi tornò spesso e vi visse a lungo fino alla morte. L’eroe dei “due mondi” si spense nel tardo pomeriggio del 2 giugno 1882 e nella sua casa l’orologio fu fermato e i fogli di un grande calendario non furono più staccati, segnando per sempre l’ora e il giorno della sua morte.Le spoglie di Giuseppe Garibaldi riposano da allora in un’area dell’isola che prende il nome di compendio Garibaldino. Lì, nel piccolo cimitero di famiglia, il sepolcro del comandante dei Mille si trova sotto un grande masso di granito con delle grosse maniglie sui lati. A poca distanza dalla sua sepoltura c’è anche un cippo abbandonato, coperto dai rovi, dove si può leggere a malapena l’incisione voluta dallo stesso eroe : “Qui giace la Marsala che portò Garibaldi in Palermo, nel 1860. Morta il 5 settembre del 1876 all’età di 30 anni”. Marsala era l’inseparabile cavalla bianca di Giuseppe Garibaldi. Aveva 14 anni quando gli venne regalata dal marchese Sebastiano Giacalone Angileri che, raggiunto Garibaldi e i suoi Mille sulla spiaggia di Marsala, tenendola per le briglie, disse: “Generale, questo è un dono per voi”. E così, in sella alla sua adorata cavalla, Garibaldi entrò a Palermo il 27 maggio 1860. E con lei affrontò l’intera campagna militare nel regno delle Due Sicilie, affezionandosi a tal punto da portarla con sé il 9 novembre 1860, quando salpò per Caprera. Sull’isola, la cavalla, rimase con Garibaldi fino alla sua morte, nel 1876, quando aveva ormai trent’anni, età avanzatissima per questi quadrupedi. Lo storico Giuseppe Marcenaro, nel suo libro “Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie”, citandone la storia, scrive che a Marsala – in via Cammareri Scurti -, una lapide collocata nel maggio del 2004 su iniziativa del Centro Internazionale di studi Risorgimentali Garibaldini, ricorda il giorno del “regalo”. Recita, l’epigrafe: “ Sebastiano Giacalone a Giuseppe Garibaldi donò l’anonima bianca giumenta che ribattezzata “Marsala” uscì da questo portone e corse le vie della gloria a Calatafimi, a Teano, a Caprera con l’invitto Generale unificatore della patria italiana”. Così, come “Bucefalo”, il cavallo di Alessandro Magno, “Asturcone”, il destriero di Giulio Cesare o “Marengo”, il piccolo stallone arabo di Napoleone, anche “Marsala” è giusto che abbia il suo posto nella storia.

Marco Travaglini

Per un malore imprenditrice muore schiantandosi con l’auto

DAL VENETO

Un malore è la causa probabile dell’ incidente mortale avvenuto  a Este (Padova). Aveva 46 anni  la donna di Ospedaletto Euganeo, Selena Veronese, l’ imprenditrice che ha perso improvvisamente il controllo della sua auto e si è schiantata contro un muro, morendo sul colpo. Sono intervenuti gli uomini dei vigili del fuoco e i carabinieri.

Bombe sulla Siria

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Le bombe continuano ad uccidere in Siria nonostante la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per una tregua immediata. Prova a far tacere le armi anche il presidente russo Putin che ha chiesto al suo alleato Assad di aprire “varchi umanitari” per evacuare civili, feriti e malati da Ghouta est, enclave ribelle alle porte di Damasco, colpita duramente dai raid aerei dell’aviazione siriana, forse con l’uso di bombe al cloro. Sono già centinaia i civili uccisi finora, compresi quelli investiti dai razzi lanciati dai miliziani jihadisti nei quartieri centrali della capitale. Papa Francesco ha chiesto la fine immediata delle violenze nell’ “amata e martoriata” Siria ma il mese di febbraio è stato terribile per questa nazione in guerra da sette anni con centinaia di migliaia di vittime, ospedali distrutti e mancanza di cibo. Nell’area contesa, controllata dai gruppi islamici estremisti Jaysh al-Islam e Hayat Tahrir al-Sham, vivono oltre 400.000 civili in condizioni disperate. Ghouta est, circondata e attaccata dalle truppe del regime siriano, non è ancora sotto il completo controllo degli uomini del presidente Bashar al-Assad. Non molla neanche la Turchia che a nord continua la sua offensiva nel cantone di Afrin contro i curdi. A peggiorare la situazione sono giunte le notizie, ancora da verificare, relative all’uso di armi chimiche sugli insorti da parte dell’esercito siriano. Al di là della tragedia levantina, la lotta contro il terrorismo jihadista è destinata a continuare come guerra su scala globale, dall’Africa al Medio Oriente, dal Caucaso all’Estremo Oriente. Sconfitti nel Levante, i jihadisti cercano riscatto in terre più lontane da dove proseguire la lotta all’Occidente e ai governi locali. Come in Afghanistan, dove la situazione precipita di giorno in giorno e Kabul è sempre più assediata dagli estremisti islamici. Tra i capi della nuova generazione di combattenti c’è Hamza, il figlio più giovane di Osama Bin Laden che nelle foto d’archivio si vede seduto su un tappeto accanto al padre con il kalashnikov sulle ginocchia. Il suo compito è quello di portare avanti il progetto di espansione del terrorismo islamico nel mondo e, per questo motivo, è già stato inserito dagli americani nella lista dei terroristi più ricercati.

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L’ultimogenito di Osama, ucciso da un commando di Navy Seals il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, figura come l’erede designato al vertice di al-Qaeda, l’organizzazione terroristica che, pur messa in secondo piano dall’Isis di Al Baghdadi, continua a pianificare attentati sanguinosi in ogni parte del mondo. Cristiani, ebrei, americani, russi e sciiti sono i nemici da combattere ed eliminare. In un recente messaggio diffuso sul web Hamza Bin Laden ha lanciato un appello a tutti i musulmani affinchè si uniscano per fronteggiare il complotto internazionale in atto in Siria che mette insieme “crociati, russi e sciiti”. Non ha mai censurato i piani dell’Isis e mira forse a creare un legame forte tra al-Qaeda e i tentacoli della piovra dell’ex “Stato islamico” che, dopo la sconfitta in Mesopotamia, ricrescono in altre parti del pianeta. Hamza ha quasi 30 anni, non conosciamo il suo volto attuale ma l’ex leader di al-Qaeda l’ha sempre considerato il rampollo prediletto e suo erede naturale per portare avanti la missione di terrore e ferocia del gruppo terroristico. Non sappiamo se sarà Hamza il nuovo leader di al -Qaeda, che risulta piuttosto divisa al suo interno, e se sarà lui a guidare la futura galassia jihadista ma nelle aree tribali al confine tra Pakistan e Afghanistan lavora per riunire i guerriglieri islamisti radicali. Nel 1997 Bin Laden spiegò con poche parole il suo folle progetto al giornalista e anchorman della Cnn Peter Arnett: “noi amiamo la morte, voi amate la vita”. L’anno successivo il terrorista saudita annunciò dalle grotte dell’Afghanistan la nascita del “Fronte islamico per il jihad contro i crociati e gli ebrei” per diffondere il terrore in tutto il mondo. Nonostante la forte concorrenza dei combattenti di Al Baghdadi e di altri gruppi jihadisti la strategia del conflitto globale di al-Qaeda prosegue il suo cammino come dimostra anche la rete terroristica creata da Bin Laden durante la guerra nella Bosnia musulmana ancora oggi attiva per colpire l’Occidente dai Balcani. Malgrado tutti gli sforzi fatti sul piano militare e finanziario il terrorismo continua a tenere sotto assedio l’Afghanistan dove è in corso un’offensiva islamista senza precedenti con Kabul colpita ripetutamente dai Talebani e dai miliziani del Wilaya Khorasan, il ramo centro-asiatico del Califfato. Secondo il Pentagono, i Talebani, che governarono il Paese dal 1996 al 2001, controllano quasi la metà dell’Afghanistan e l’Isis ha messo radici sul territorio reclutando ceceni, uzbeki e uiguri cinesi. Anche se entrambi i movimenti tentano di presentarsi come il gruppo più forte, gli studenti coranici sono molto più diffusi nel Paese e ben armati a tal punto da non temere neppure l’esercito afghano mentre i seguaci del Califfo, dopo aver perduto le roccaforti in Medio Oriente, concentrano le forze, almeno 6.000 miliziani provenienti da Siria e Iraq, nella parte orientale del Paese e attaccano Kabul per togliere la guida del jihad agli stessi qaedisti.

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Alcuni analisti sostengono che la partita decisiva non si giocherà nei deserti mediorientali ma tra l’Afghanistan e il Caucaso, un’area dove i potenziali kamikaze sono decine di migliaia, pronti a immolarsi per la fede. È di pochi giorni fa l’attentato, rivendicato dall’Isis, contro una chiesa ortodossa nella Repubblica caucasica del Daghestan confinante con la Cecenia. Una regione dove da tempo è attivo l’ “Emirato del Caucaso”, un’organizzazione jihadista che vuole cacciare i russi dal Caucaso e instaurare un Califfato. Sconfiggere il fenomeno jihadista è molto più complesso di quanto possa sembrare. Ne è la prova ciò che accade non solo in Asia ma anche nella regione del Sahel, come nel Mali, nel Niger e nel Burkina Faso dove i militari francesi (5000 soldati) non riescono ad aver ragione dei ribelli islamisti. Oppure in Nigeria in cui sembra impossibile prevalere sulla ferocia dei terroristi islamici di Boko Haram a caccia di cristiani e donne, rapite, ridotte in schiavitù, costrette a convertirsi all’islam se sono cristiane e obbligate a sposare i miliziani. È allarme per un nuovo sequestro di massa di studentesse nigeriane compiuto il 19 febbraio dai jihadisti di Boko Haram in un collegio femminile nello Stato di Yobe. La fotocopia di quello che avvenne nella città di Chibok nel 2014 dove quasi 300 ragazze furono sequestrate in una scuola. Molte di queste donne non sono ancora tornate a casa mentre adesso sono 110 le studentesse prigioniere dei fanatici islamisti. Boko Haram, affiliato all’Isis dal 2015, è ritenuto responsabile della morte di 20.000 persone e di 2,5 milioni di sfollati nel nordest della Nigeria, in Camerun, Ciad e Niger. Non accennano a diminuire neanche gli attentati dei kamikaze islamisti di Al-Shabaab in Somalia. L’ultimo attacco avvenuto nei giorni scorsi presso il palazzo presidenziale a Mogadiscio ha causato una cinquantina di morti e ha posto fine alla pausa negli assalti terroristici che durava da dicembre.

 

(dal settimanale “La Voce e il Tempo”)

 

 

 

Muore anziana spinta sulle scale dalla figlia che tenta il suicidio

DALLA CAMPANIA

Durante una lite avvenuta tra madre e figlia, quest’ultima una donna di 37 anni con problemi psichici, la mamma anziana di 77 anni,  è stata spinta sulle scale dalle quali è caduta morendo poco dopo. La figlia, resasi conto dell’accaduto, si è lanciata dal balcone, ed è rimasta ferita in modo grave. La tragedia a Mugnano, nel Napoletano.

È tornato sereno il cielo di Gerusalemme

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

È tornato sereno il cielo di Gerusalemme dopo la tempesta che si è abbattuta sulla basilica del Santo Sepolcro. All’alba si sono riaperte le porte dopo tre giorni di chiusura che hanno impedito a migliaia di pellegrini di visitare i luoghi santi cristiani. La protesta dei capi delle Chiese è stata sospesa dopo la retromarcia del premier israeliano Netanyahu che ha sospeso i provvedimenti contestati dai leader religiosi. Cosa era successo? Il Custode francescano di Terra Santa, il patriarca armeno e il patriarca greco-ortodosso (amministrano insieme il Tempio) avevano preso tre giorni fa la drastica decisione di sbarrare il santuario in segno di protesta contro un provvedimento di legge all’esame del Parlamento che prevede l’esproprio di terreni appartenuti alle Chiese e contro la richiesta del sindaco di Gerusalemme di versare anni di tasse comunali, contravvenendo in questo modo ad accordi precedenti che esentano le comunità religiose dal pagamento delle imposte. Grande delusione tra i pellegrini che in questi giorni non hanno potuto vedere la Tomba di Gesù, alcuni dei quali arrivati da molto lontano, dagli Stati Uniti e dall’Asia. La basilica fu fondata nel IV secolo nel luogo dove, secondo la tradizione cristiana, Sant’Elena, madre di Costantino, ha individuato i luoghi sacri della cristianità, la collina del Calvario, la Croce e la grotta del Sepolcro. La basilica è rimasta in piedi fino al 614, per essere poi distrutta dall’invasione dei persiani. Restaurata nel 630, non fu danneggiata dagli arabi che nel 638, comandati dal califfo Omar, conquistarono Gerusalemme, strappandola ai bizantini, ma fu rasa al suolo nel 1009 dal califfo fatimide d’Egitto al-Hakim. Fu ricostruita dai califfi abbasidi di Baghdad e nel 1099 divenne proprietà dei cristiani d’Occidente che occuparono la Città Santa nella Prima crociata e decisero di edificare un’unica grande chiesa che riunisse i luoghi della passione, della morte e della resurrezione di Gesù. È grosso modo il Tempio che ammiriamo oggi. Alla fine del regno crociato nel 1187, Gerusalemme passò nelle mani della dinastia ayyubide del Cairo, in quelle dei Mamelucchi d’Egitto e infine degli Ottomani di Costantinopoli fino alla Prima guerra mondiale. Dalla metà del Settecento uno “Statu Quo”, decreto reale emanato dalla Sublime Porta, regola i rapporti, sovente molto tesi, tra le comunità cristiane che gestiscono il Santo Sepolcro, diviso in tre settori, assegnati ai francescani, ai greci e agli armeni. Nel 1808 la copertura dell’Anàstasis, l’edicola che racchiude la tomba di Cristo, fu distrutta da un incendio e sostituita da una nuova cupola. Le relazioni tra i cristiani di Gerusalemme erano spesso burrascose e anche violente. Si litigava anche per il possesso di cappelle, altari e oggetti sacri e le autorità faticavano a imporre l’ordine tra le varie comunità. Alla fine del Cinquecento, per riportare calma e serenità in città, il sultano ottomano Murad III decise di affidare le chiavi del portone della basilica agli esponenti di due famiglie musulmane, i Nusseibeh e gli Yudeh, che vediamo ancora oggi al lavoro, con l’incarico di evitare zuffe e colluttazioni.

Il presidente di Liberland esplora i Caraibi

Che cosa ci fa nel mar dei Caraibi Vit Jedlicka, l’euroscettico ceco autonominatosi presidente dello stato di Liberland, area di sette chilometri quadrati al confine tra la Croazia e la Serbia? Pare che l’intraprendente presidente, già candidato (ma non eletto) con il partito Free Citizens alla elezioni per il Parlamento europeo, in questi giorni stia volando in elicottero sui cieli dei cayos caraibici, alcuni dei quali ospitano il reality “L’isola dei famosi”, alla ricerca di terreni e isolotti. La domanda sorge spontanea: per farne cosa?

Donna di 30 anni muore nello scontro con un camion

CRONACHE ITALIANE DAL VENETO

E’ morta all’ospedale la donna rimasta coinvolta nel tamponamento avvenuto questa mattina, probabilmente a causa della neve,  sulla Strada statale 309 “Romea”, tra Campagna Lupia e Lughetto (Venezia). La  trentenne, alla guida di un’auto era residente a Chioggia.  Si è scontrata con un camion con targa ungherese. I veicoli sono finiti fuori carreggiata, riportando pesanti danni. La vittima è stata estratta dalle lamiere dai vigili del fuoco ed è morta durante il trasporto in ospedale.

Erdogan e il Mediterraneo

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Non soddisfatto di aver riacceso la guerra nel Levante inviando i carri armati nel nord della Siria trasforma ora il Mediterraneo orientale e il mar Egeo in nuovi fronti di tensione con l’Europa. È un sultano sempre più aggressivo Erdogan che sogna un Mediterraneo controllato dalle sue navi, come ai tempi dell’Impero turco, e che invia le cannoniere a Cipro per tutelare i suoi interessi energetici nell’area alzando il tiro contro Israele, la Grecia e l’Italia per non perdere del tutto le preziose risorse nascoste nei fondali marini. L’intesa israelo-egiziana di febbraio in base alla quale gli israeliani venderanno al Cairo idrocarburi per 15 miliardi di dollari conferma che il gas resta fortemente al centro delle strategie economiche e diplomatiche di diversi Paesi mediorientali. Nell’area costiera compresa tra Cipro, Turchia, Siria, Libano, Israele, Gaza ed Egitto si nascondono enormi giacimenti di idrocarburi stimati in oltre 11.000 miliardi di metri cubi di gas naturale e quasi 2 miliardi di barili di petrolio. La Turchia dispone di poche risorse ma è un grande terminal energetico attraverso il quale transitano oleodotti e gasdotti che collegano il Medio Oriente all’Europa. Importando oltre il 70% dell’energia, in gran parte dalla Russia, i turchi non hanno alcuna intenzione di restare indietro nella corsa alle risorse naturali, anche a costo di usare la forza, come sta avvenendo a est di Cipro. Tutti gli altri Stati interessati alle ricchezze sottomarine stanno però facendo di tutto per escludere la Turchia dalla partita in corso. Ankara, che da tempo preferisce mostrare i muscoli al posto delle vie diplomatiche, non ci sta e ha subito risposto inviando navi militari al largo di Cipro per bloccare la piattaforma dell’Eni-Saipem mentre stava navigando verso una zona di trivellazione su concessione del governo cipriota. Cipro non fa certo paura alla Turchia che deve però stare in guardia poiché il governo di Nicosia collabora strettamente con gli israeliani, non solo nelle esplorazioni sottomarine, ma anche nel campo della difesa e dell’intelligence. La vicenda ha fatto salire gli attriti tra l’Unione Europea e la Turchia le cui relazioni sono già burrascose per tanti altri motivi. La nave è rimasta ferma per dieci giorni a una cinquantina di chilometri dal luogo delle esplorazioni di idrocarburi, a sud-est dell’isola di Cipro che è divisa tra la parte sud greca e la parte nord turca, non riconosciuta dalla comunità internazionale. Il nord dell’isola fu invaso dai turchi nel luglio 1974 dopo il golpe a Nicosia del regime dei colonnelli di Atene per unire Cipro alla Grecia. Per difendere la propria minoranza etnica la Turchia occupò militarmente l’isola. Ankara si oppone a trivellazioni unilaterali perchè minaccerebbero i diritti dei turco-ciprioti sulle risorse naturali e quindi, secondo Erdogan, il governo cipriota si sta comportando come se fosse “l’unico proprietario dell’isola”. In realtà, il nuovo giacimento scoperto si trova nelle acque cipriote, come peraltro stabilito dalla comunità internazionale, ma quel braccio di mare è invece rivendicato dal governo turco. Nel cosiddetto “Bacino del Levante” l’Europa e Israele sono da tempo al lavoro senza badare troppo alle pretese di Ankara. La corsa al gas è cominciata otto anni fa quando la compagnia di Houston, Noble Energy, scoprì un grande giacimento di gas, il “Leviathan” con 450 miliardi di metri cubi di gas a un centinaio di chilometri dalla costa nord di Israele, seguito dal più piccolo “Aphrodite” nelle acque cipriote. La notizia provocò l’immediata reazione del Libano secondo cui il giacimento rientra anche nei suoi confini marittimi e oggi il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, minaccia perfino di colpire con i missili le piattaforme petrolifere di Tel Aviv.

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Poi gli israeliani hanno individuato il giacimento “Tamar” al largo delle sue coste mentre i tecnici dell’Eni, davanti all’Egitto, hanno scoperto Zohr, il più grande giacimento di gas del Mediterraneo con 850 miliardi di metri cubi. L’attenzione maggiore è concentrata in queste settimane sull’Eni che sta operando al largo di Cipro. Il rovesciamento delle alleanze sono una costante della politica mediorientale. Di recente turchi e israeliani andavano d’accordo e lavoravano insieme a un progetto che avrebbe portato il gas dei giacimenti dello Stato ebraico in Turchia. Ma dopo la crisi esplosa attorno alla questione di Gerusalemme capitale il progetto è stato messo da parte. Fare a meno della Turchia non sarà facile come dimostra la reazione militare contro la nave dell’Eni. Gas e petrolio non sono l’unico motivo di contrasto tra gli europei e il Paese della Mezzaluna. Forse il più pericoloso è quello che oppone Grecia e Turchia per una questione di isole e isolotti nel mar Egeo che periodicamente viene rispolverata per infiammare il nazionalismo turco anti-greco. Una diatriba che si trascina da decenni e a volta sfiora lo scontro armato tra i due Paesi come accadde nel 1996. La tensione tra i due Stati è infatti salita nuovamente alle stelle dopoché una pattuglia della guardia costiera di Ankara ha speronato violentemente delle corvette greche vicino ad alcune isole contese. La collisione è avvenuta davanti agli isolotti greci di Imia (Kardak in turco), rivendicati dalla Turchia che pretende di sorvegliare l’Egeo e tenere lontani i greci. Per fare un po’ di chiarezza su quanto accade nel Mar Egeo bisogna andare indietro di cent’anni. La Turchia chiede la revisione del Trattato di Losanna del 24 luglio 1923 che, alla fine dell’Impero Ottomano, assegnò alla Grecia molte isole oggi reclamate da Erdogan.

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Con la firma di quell’accordo, la Turchia annunciò di astenersi da qualsiasi rivendicazione sui territori perduti durante la Prima guerra mondiale. Ottenne Imbro e Tenedo nell’Egeo ma fu costretta ad abbandonare tutte le altre isole occupate dai greci. Ankara rivendica anche parti delle province nord di Idlib, Aleppo, Raqqa e Hasakah, e vuole creare zone cuscinetto protette da truppe turche e quindi chiede la revisione di Losanna ’23. Aggressiva ed espansionista all’estero, repressiva e antidemocratica all’interno. E’ questa la Turchia che i ventotto Stati membri dell’Unione europea incontreranno al vertice del 26 marzo in Bulgaria, che detiene la presidenza di turno dell’Ue. Ventotto Paesi contro uno solo. A Varna, sul Mar Nero, il vecchio continente cristiano sfiderà una potenza “sultaniale” che la deriva autoritaria in atto nel Paese sembra allontanare ancora di più da Bruxelles. Il confronto si annuncia duro e aspro. Da più parti si chiede di rompere definitivamente i negoziati di adesione all’Unione Europea, un ricordo ormai lontanissimo, e di riflettere sulla sua presenza nell’Alleanza Atlantica. Erdogan parte con un piccolo “vantaggio”. Nostalgico di glorie ottomane, il presidente turco arriverà nella località sul Mar Nero con la forza della storia dalla sua parte. La scelta di Varna come sede del summit, e non della capitale Sofia, è, a suo modo, emblematica. A Varna, nel 1444, il sultano trionfò sulla Cristianità. Apparso all’improvviso sul campo di battaglia, spazzò via l’esercito cristiano di 30.000 crociati che cercava in un estremo tentativo di allontanare la minaccia ottomana da Costantinopoli che stava per cadere nelle mani dei turchi. Fu il trionfo dei giannizzeri e per l’esercito cristiano fu una disfatta totale e una terribile carneficina. Sei secoli dopo vincerà di nuovo il sultano o dovrà piegarsi ai diktat europei?

Dal setttimanale “La Voce e il Tempo”
(L’immagine è tratta da Limes)

Per 100 euro scoppia la lite: dipendente uccide il datore di lavoro

DALLA CAMPANIA

Dalla ricostruzione sembra che a causa di 100 euro, acconto sulla cifra pattuita, sia scaturita la violenta lite che ha portato all’uccisione di un imprenditore dei trasporti, di 55 anni, Nicola Sabatino. E’ stato  ucciso a colpi di pistola a Frignano, nel Casertano, da un suo dipendente, Vito Recchimurzi, 51enne. La vittima è stata assassinata nell’appartamento dell’operaio che abita nel suo stesso edificio, dove il titolare dell’impresa si era recato per pagarlo, ma gli avrebbe dato solo 100 euro come acconto. Il corpo senza vita dell’imprenditore è stato trovato sul pianerottolo dalla polizia. Il dipendente ha sparato a Sabatino mentre quest’ultimo stava uscendo dall’alloggio.