Dall Italia e dal Mondo- Pagina 74

La canna da zucchero e l’insanabile dissenso con Fidel

C’è sempre, in ogni storia, un antefatto che motiva  i perché dei successivi accadimenti. E l’antefatto, in questo caso, per poco non finiva in tragedia. Sì, perché il direttore della ferriera, l’ingegner Scorbutici, se poteva ancora raccontare in giro per la città ciò che gli era accaduto, dopo essersela cavata al buon prezzo di un grande spavento, era perché Osvaldo aveva una pessima mira. E l’esasperazione per le angherie, i torti e le ingiustizie patiti sul lavoro avevano fatto tremare la mano all’operaio dell’altoforno, anticipandogli il colpo di pistola che passò due dita sopra la testa dell’incredulo Venanzio Scorbutici. Il proiettile si conficcò nel muro e il direttore crollo a terra, svenuto. I due impiegati che erano con lui si misero ad urlare. “Hanno ammazzato il direttore! Aiuto! Gli hanno sparato addosso!”. Osvaldo, di fronte a tutto quel trambusto, buttò la rivoltella giù dal ponte sul fiume e scappò via, insieme a Cecco e Nando che l’avevano accompagnato e, pistole in tasca, sarebbero stati lì per lì  pronti  a far fuoco se non fossero rimasti pietrificati da una fifa blu proprio sul più bello. Così, a perdifiato, fuggirono in montagna, cercando riparo nelle vecchie cascine abbandonate dopo la guerra. I loro compagni , in qualche modo, fecero avere cibo e notizie nei due giorni successivi ma poi, considerato che i carabinieri stavano intensificando le ricerche di quelli che, nella zona, venivano ormai indicati come “gli attentatori”, si pensò di organizzare l’espatrio dei tre. Senza tante chiacchiere si pensò di mandarli in Cecoslovacchia, via Svizzera e Austria. Il tempo strettamente necessario a preparare i documenti, ovviamente falsi, e predisporre i passaggi che avrebbero consentito a  Osvaldo, Cecco e Nando di oltrepassare la “cortina di ferro”, e i tre si trovarono a Praga. L’impatto con il socialismo reale fu tutt’altro che semplice. 

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Nel cuore dell’Europa divisa, nella Praga dei primi anni sessanta, si toccava con mano il clima difficile del tempo e anche i tre si trovarono alle prese con le situazioni, i problemi, le angosce, i drammi della gente comune di quel paese. Il Partito, dopo averli fatti espatriare, non li lasciò soli. Cecco e Nando lavorarono alla Škoda di Mladá Boleslav, in Boemia centrale, a circa cinquanta chilometri a nord-ovest di Praga, alla linea di montaggio della “Spartak”, che, per motivi legali legati al nome, venne poi ribattezzata “Octavia”: una berlina a tre volumi di schema classico (motore anteriore e trazione posteriore), di linea tradizionale ma elegante. Osvaldo, invece, fu dirottato alla fabbrica di birra “Staropramen”, una delle più antiche della città. Tutti e tre, comunque, oltre al lavoro, avevano un altro impegno: occuparsi di “Radio Oggi in Italia”, la radio clandestina che, dalla capitale cecoslovacca, trasmetteva dagli anni ’50,gestita da iscritti al PCI che erano emigrati lì, quasi tutti per sfuggire a processi. La speaker dell’emittente, Stella Amici, tanto per fare un esempio, era fuggita dall’Italia all’indomani degli scontri di Modena del 1950 davanti alle Fonderie Riunite, dove sei scioperanti erano rimasti uccisi dalla polizia. Tra gli altri che si  occupavano della Radio, sempre da Praga, c’era Francesco Moranino, l’ex comandante partigiano biellese “Gemisto”, parlamentare comunista riparato in Cecoslovacchia perché inseguito da una condanna per fatti avvenuti nel corso della guerra partigiana. “Radio Oggi in Italia” era praticamente unica nel suo genere a parte un solo precedente, molto più limitato, con un’emittente in lingua francese che visse soltanto un anno e mezzo , tra l’estate del ’54 e il dicembre del ’55. Anch’essa diffusa da Praga, faceva esplicito riferimento al PCF. Il primo ministro francese Pierre Mendès-France ne pretese la chiusura e la ottenne in cambio di accordi commerciali con la Cecoslovacchia.

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La radio del PCI ,invece, continuava la sua battaglia dell’etere al servizio del più grande partito comunista dell’Occidente, pur senza apparire come espressione diretta di Botteghe Oscure. I testi delle note e dei commenti arrivavano alla redazione dai giornalisti dell’Unità e di Paese Sera o, addirittura, da dirigenti del PCI. Uno dei collaboratori più assidui era Sandro Curzi. Da dove trasmettesse era un mistero e il governo italiano si dannava l’anima nel far la guerra a questa emittente, ascoltata dai comunisti e non solo, che arrecava un gran fastidio. Infatti,  una radio non conosceva ostacoli e  poteva arrivare senza problemi anche dove comprare l’Unità in edicola o riceverla in abbonamento non era cosa facile. Furono promosse, soprattutto da parte democristiana, azioni parlamentari e persino  diplomatiche da parte dell’Italia verso la Cecoslovacchia, ma senza alcun esito. Osvaldo si occupava di smistare le notizie, Nando – che era patito di musica classica – s’ingegnava con le colonne sonore e Cecco dei turni di vigilanza perché, diceva “siamo in un paese socialista, ma non si sa mai”. “Radio Oggi in Italia” era sempre “sul pezzo” tanto che nel luglio del 1960, durante il governo Tambroni, quando a Genova e poi a Reggio Emilia avvennero violenti scontri tra dimostranti e polizia per protesta contro l’indizione di un congresso nazionale del Movimento Sociale, quella che veniva definita la “radio fantasma del PCI” riuscì a seguire gli avvenimenti praticamente in diretta, con una tempestività sorprendente (mentre Radio Rai operò con la consueta ufficialità di ispirazione governativa e solo attraverso i comuni notiziari). Ma quel tran-tran non andava a genio allo sfortunato attentatore che seguiva con grande attenzione ed entusiasmo le notizie provenienti dall’isola caraibica di Cuba dove Fidel Castro e “Che” Guevara stavano costruendo, giorno dopo giorno, la rivoluzione sotto il naso degli americani.

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Già nell’aprile di quell’anno ( era il 1961) i  mercenari, armati e sostenuti dagli americani, erano sbarcati alla baia dei Porci, dirigendosi verso la Playa Larga e la Playa Girón. Ma il tentativo da parte di esuli cubani e mercenari addestrati dalla CIA di conquistare la parte sud-ovest di Cuba, fallì e i cubani – in tre giorni di combattimenti -sconfissero gli aggressori. Lo stesso  presidente degli Stati Uniti, J.F. Kennedy, ammise le responsabilità degli Usa e annunciò, come risposta,  l’embargo totale contro Cuba. Quell’isola ribelle,terra di musica e socialismo “caliente”, dello zucchero di canna e del rum, esercitava un’attrazione incredibile e Osvaldo pensò che era il caso di offrirsi volontario per andar là, al caldo dei tropici, “ ad edificare il socialismo”. Che ci fosse un gran lavoro da fare non vi era alcun dubbio. Negli anni ’50, secondo l’UNESCO, un cubano su tre era analfabeta e quel paese apparteneva a un gruppo di nazioni il cui reddito medio pro capite oscillava tra i 300 e i 499 dollari l’anno. L’eredità del latifondismo era pesante e si poteva toccar con mano l’entità della disuguaglianza sociale. Così, con il primo viaggio utile, Osvaldo partì per la terra di Fidel , animato delle migliori intenzioni e pronto ad esportare le sue esperienze di pedagogia socialista. L’entusiasmo rivoluzionario subì un rapido raffreddamento che, in breve, diventò delusione quando s’accorse che i cubani erano ben felici di ricevere un aiuto “internazionalista” ma che questo consisteva nel partecipare alla campagna agricola della raccolta della canna da zucchero. Tagliare la canna è un mestiere duro, che stanca all’inverosimile. Quando le canne misurano 4 o 5 metri d’altezza vanno tagliate con il machete per  essere poi raccolte e portate allo zuccherificio; se non vengono lavorate immediatamente diminuisce il loro contenuto zuccherino. Lì vengono schiacciate dalle macine per far uscire il succo, molto scuro e pieno di impurità che viene raccolto in vasche, dove – al caldo –  l’acqua evapora e il succo si trasforma in sciroppo o melassa, che viene gradualmente raffinato. A quel punto i cristalli di zucchero si formano da soli, allo stesso modo dei cristalli di sale in una pozza d’acqua marina che si asciuga sole. Tra quelle canne, Osvaldo si sentiva perso, come un elfo in una foresta di giganti. Lui a cuba voleva dare una mano a “tirar su il  socialismo e far capire ai cubani l’importanza di sentirsi compagni” ma non pensava che questo equivalesse a farsi venire i calli spessi e duri sulle mani e tagliuzzarsi dappertutto in un campo “de caña de azúcar”. Così fece richiesta di tornare a Praga, insistendo a tal punto che il suo desiderio venne esaudito. E dopo qualche mese nella capitale cecoslovacca, tra la birra da imbottigliare e i programmi della radio, ormai prescritto il reato per il quale era stato condannato in contumacia, lasciò il modesto alloggio  a Malá Strana e rientrò in Italia. Un viaggio lungo e complicato lo riportò sulle rive del lago dov’era nato, negli anni a venire, oltre a pronunciare in ogni occasione la sua frase rituale (“compagni, la situazione è grave”), a  chi l’interrogava sulla scelta di andare e poi tornare in fretta da Cuba, rispondeva con una certa gravità: “Ho avuto un insanabile dissenso politico con il compagno Fidel e, insieme, abbiamo concordato che era meglio lasciar stare e non insistere nel manifestare le nostre contrarietà”.

Marco Travaglini

Quel misterioso russo che nel 1907 fece il portiere di notte

stalin hotelIl giovane  cercava lavoro ed era disposto a fare il portiere di notte. Il suo nome era Joseph, Vissarionovich Djugashvili. Per gli amici, Koba. Quel georgiano dallo sguardo glaciale era Josif Stalin

Ci sono avvenimenti storici che sembrano così incredibili da essere considerati leggende. Una di queste mi è stata raccontata ad Ancona,  durante l’attesa per l’imbarco verso Spalato, dall’altra parte dell’Adriatico. Una storia che si svolse proprio lì, accanto al porto Vecchio. Una storia raccontata, molti anni dopo, da un anziano portiere dell’Hotel Roma e Pace, il signor Pallotta . Dalle finestre di quell’albergo, a due passi dai moli, si scorgeva il mare. La pubblicità che ne decanta l’ospitalità narra di proposte di “riscaldamento a termo-sifone senza aumento di prezzo, ottimo restaurant a tutte le ore, omnibus a tutte le ore”. E’ lì che, in una fredda giornata d’inverno del 1907, un giovane russo dagli abiti eccentrici e dallo sguardo glaciale entrò nella hall dell’austero “Roma e Pace”. Indossava una blusa russa di satin nero sotto lastalin1 giacca, grigia come il logoro soprabito; gli unici segni di eleganza erano la vistosa sciarpa rossa di seta ed un ampio cappello di feltro nero. Un amico italiano lo aveva accompagnato in via Leopardi, dopo un viaggio lungo e scomodo a bordo di una nave carica di grano proveniente da Odessa. Il giovane russo cercava lavoro ed era disposto a fare il portiere di notte. Il suo nome era Joseph, Vissarionovich Djugashvili. Per gli amici, Koba. Solo alcuni anni più tardi tutto il mondo lo conobbe con un altro nome. La storia dice che il giovane, sulla trentina, fosse già ricercato per estorsione e rapina in Georgia. Il portiere di giorno al “Roma e Pace”, Paolo Pallotta, non era molto convinto di assumere quel giovane dall’aspetto dimesso, la barba rada e i baffi neri. E forse non si sbagliava. Koba era un ragazzo troppo timido e poco intraprendente. Rimase poche settimane, prima di essere congedato e riprendere il suo viaggio in direzione Venezia, dove svolse la mansione – seppure per un breve periodo – di campanaro al convento di San Lazzaro degli Armeni, sull’omonimo isolotto della laguna. Un’esperienza fugace, durata poco perchè suonava le campane con decisione e forti rintocchi, stalin4secondo il rito ortodosso, e questo non andava a genio agli abati mechitaristi.Una storia intrigante di cui si trova traccia anche nelle tavole di Corto Maltese, il personaggio dei fumetti creato dal Hugo Pratt.  Ne “La casa dorata di Samarcanda”, lungo la mitica Via della Seta, il marinaio Corto – figlio di una prostituta di Gibilterra e di un marinaio della Cornovaglia – impegnato nella ricerca del tesoro di Alessandro il Grande, caduto in mano ai bolscevichi della città dalle cupole blu, si salva da un’esecuzione grazie ad una telefonata con quel “portiere di notte”, rammentandogli i tempi di Ancona. Corto, scavando nei ricordi di quel 1907, gli disse,tra l’altro: “evidentemente non eri tagliato per fare il portiere di notte”. Chi era il giovane russo con cui s’incontrò nel vecchio porto della città marchigiana? Il mistero si svela subito: quel georgiano dallo sguardo glaciale si chiamava Josif stalin cortoStalin. Il punto di congiunzione tra la storia e l’immaginazione lo offre un volume di Raffaele Salinari, “Stalin in Italia ovvero Bepi del giasso” ( che, tradotto, suona come  “Giuseppe dal freddo”)– pubblicato a Bologna qualche anno fa, ma rimasto tagliato fuori dai circuiti di distribuzione nazionali e forse per questo poco conosciuto. Medico e docente universitario, Salinari ha voluto ricostruire un pezzo di storia italiana (e russa) della quale si è sempre saputo ben poco. Secondo le informazioni che Salinari ha raccolto, Stalin si sarebbe imbarcato in seguito ad una rapina ad un portavalori zarista. Per finanziare l’ala bolscevica del partito socialdemocratico operaio russo, Josif/Koba si dedicò agli assalti alle diligenze malgrado la pratica fosse stata disapprovata dalla dirigenza interna. Così Stalin, in fuga,  passò da Ancona per raggiungere la Svizzera dove Lenin era in esilio e si mantenne come poteva. Del suo arrivo nel capoluogo marchigiano resterebbero due testimonianze: un articolo del Candido di Giovannino Guareschi del 1957 e una lapide commemorativa nell’albergo (il “Roma e Pace”,appunto) chiusostalin2 ormai da qualche anno, i cui arredi sono stati acquistati da un anonimo collezionista, lapide inclusa. Nelle stanze ormai vuote di quel vecchio albergo hanno soggiornato altri personaggi importanti per la storia del nostro Paese: Luchino Visconti, membri di Casa Savoia e addirittura una coppia di amanti da gossip, come  Benito Mussolini e l’ucraina Angelica Balabanoff. Dietro alle serrande abbassate e alle imposte chiuse pare proprio che il “Roma e Pace” conservi storie e misteri  che aleggiando sulle sponde del Mediterraneo orientale. Che siano vere o presunte poco importa, perché in tempi dove tutto è a portata di smartphone, leggende e suggestioni ci restituiscono il piacere dell’immaginazione. E poi, diciamolo, il pericolo è passato e nessuno trema più davanti al minaccioso motto “adda venì Baffone”.

Marco Travaglini

“La squadra spezzata” di Puskás e la rivoluzione ungherese del 1956

Se la guardi giocare e poi vai a vedere il museo delle belle arti, apprezzerai di più certi quadri”. E’ l’inizio degli anni cinquanta a Budapest quando l’operaio Lajos parla così al figlio Gábor, protagonista de “La squadra spezzata”, affascinante e amaro romanzo di Luigi Bolognini. Già il sottotitolo del libro svela di chi sta parlando (“L’Aranycsapat di Puskás e la rivoluzione ungherese del 1956”). La Honvéd, squadra dell’esercito magiaro (ai tempi dell’Impero austro-ungarico– “Honvéd /difensore della patria” –  era  la definizione che veniva data alle forze armate ungheresi) è stata una leg­genda. Negli anni ‘40 e ’50, nelle file dei bianco-rossi, giocarono alcuni tra i migliori calciatori ungheresi:

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Ferenc Puskás, József Bozsik, Zoltán Czibor e Sándor Kocsis, che formarono l’ossatura del mitico Aranycsapat ( la “squadra d’oro”), la nazionale ungherese che espresse il miglior calcio del mondo in quell’epoca. Macinando gol e spettacolo, acclamata ovunque, la “mitica” Ungheria regalò bellezza e orgoglio passando dai trionfi alle Olimpiadi del 1952 alle due storiche vittorie con l’Inghilterra dei “maestri” ( 6 a 3 a Wembley nel 1953 e 7 a 1 a Budapest l’anno dopo ). L’ Aranycsapat di Puskás era destinata a vincere, simbolo di un regime – quello comunista ungherese – che l’aveva eletta a simbolo. Fino alla sconfitta nella finale della Coppa Rimet del 1954, unica partita persa dai magiari  su cinquanta incontri disputati tra il 1950 e il 1956. Vale la pena ricordare la prima parte, la più esaltante, della “serie magica”: tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con 143 gol fatti e 33 subiti. Un gioco offensivo, spumeggiante, irresistibile.

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Anche l’Italia ne ungheria5fece le spese. Domenica 17 maggio 1953, a Roma, venne inaugurato lo Stadio Olimpico. Gli azzurri venivano da una tradizione favorevole: da 28 anni gli ungheresi non vincevano sul suolo italiano. Finì con un netto 0-3 per i magiari in maglia rossa ( gol di Hidekguti e “doppietta” di Puskás). Per la prima volta la radio ungherese trasmise un incontro di calcio in diretta e al termine si udirono distintamente gli applausi a scena aperta dell’Olimpico. La storia di questa compagine leggendaria è raccontata magistralmente da Bo­lognini ne “La squadra spezzata “, riportando il gioco del calcio alla sua essenza, prima che diventasse (purtroppo!!) solo business e denaro. “Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”, disse George Bernard Shaw. Ed è ciò che racconta questo ungheria6libro dove emerge anche la figura del sedicenne Gábor che, di fronte all’infrangersi del mito degli undici “eroi” dietro al pallone di cuoio,  vide andare in frantumi anche i sogni suoi e quelli di un intero Paese. Senza le speranze suscitate dall’Aranycsapat di Puskás e compagni, restò solo una realtà dura, amara. La delusione mise in dubbio tutto quello in cui credevano lui e gli altri ungheresi. E quando, il 23 ottobre 1956,  scoppiò la rivolta contro la dittatura comunista,il giovane Gábor ungheria1prese parte alla “rivoluzione”. Lottò per creare un socialismo nuovo, democratico, “dal volto umano”. Fino a quando i carri armati sovietici invasero Budapest , soffocando nel sangue il suo sogno, quello di Imre Nagy e di un intero popolo che si trovò a combattere nelle stesse strade descritte da Ferenc Molnár ne “I ragazzi della via Pál”. Nei giorni della rivolta contro l’oppressione sovietica , la Honvéd era all’estero in tournée con i migliori giocatori. Decisero di non tornare in patria, trovando fortuna e successo altrove, come Puskás nel  Real Madrid. Il mito della “squadra d’oro”, forse la più grande di tutti i tempi, era caduto in pezzi. E non sarebbe mai più  rinato.

Marco Travaglini

“Marsala”, la cavalla bianca di Garibaldi

L’isola di Caprera fa parte dell’arcipelago di La Maddalena, a nord-est della Sardegna, al largo della costa Smeralda. L’isola, abitata da poche decine di persone (la maggior parte degli abitanti risiede nel borgo di Stagnali) è raggiungibile grazie ad un ponte che la collega all’Isola Maddalena, e fa parte integrante – da più di vent’anni –  dell’area protetta dell’Arcipelago della Maddalena. Caprera fu il “buen retiro” di Giuseppe Garibaldi che giunse per la prima volta sull’isola il 25 settembre del 1849. Tra varie peripezie vi tornò spesso e vi visse a lungo fino alla morte. L’eroe dei “due mondi” si spense nel tardo pomeriggio del 2 giugno 1882 e nella sua casa l’orologio fu fermato e i fogli di un grande calendario non furono più staccati, segnando per sempre l’ora e il giorno della sua morte.Le spoglie di Giuseppe Garibaldi riposano da allora in un’area dell’isola che prende il nome di compendio Garibaldino. Lì, nel piccolo cimitero di famiglia, il sepolcro del comandante dei Mille si trova sotto un grande masso di granito con delle grosse maniglie sui lati. A poca distanza dalla sua sepoltura c’è anche un cippo abbandonato, coperto dai rovi, dove si può leggere a malapena l’incisione voluta dallo stesso eroe : “Qui giace la Marsala che portò Garibaldi in Palermo, nel 1860. Morta il 5 settembre del 1876 all’età di 30 anni”. Marsala era l’inseparabile cavalla bianca di Giuseppe Garibaldi. Aveva 14 anni quando gli venne regalata dal marchese Sebastiano Giacalone Angileri che, raggiunto Garibaldi e i suoi Mille sulla spiaggia di Marsala, tenendola per le briglie, disse: “Generale, questo è un dono per voi”. E così, in sella alla sua adorata cavalla, Garibaldi entrò a Palermo il 27 maggio 1860. E con lei affrontò l’intera campagna militare nel regno delle Due Sicilie, affezionandosi a tal punto da portarla con sé il 9 novembre 1860, quando salpò per Caprera. Sull’isola, la cavalla, rimase con Garibaldi fino alla sua morte, nel 1876, quando aveva ormai trent’anni, età avanzatissima per questi quadrupedi. Lo storico Giuseppe Marcenaro, nel suo libro “Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie”, citandone la storia, scrive che a Marsala – in via Cammareri Scurti -, una lapide collocata nel maggio del 2004 su iniziativa del Centro Internazionale di studi Risorgimentali Garibaldini, ricorda il giorno del “regalo”. Recita, l’epigrafe: “ Sebastiano Giacalone a Giuseppe Garibaldi donò l’anonima bianca giumenta che ribattezzata “Marsala” uscì da questo portone e corse le vie della gloria a Calatafimi, a Teano, a Caprera con l’invitto Generale unificatore della patria italiana”. Così, come “Bucefalo”, il cavallo di Alessandro Magno, “Asturcone”, il destriero di Giulio Cesare o “Marengo”, il piccolo stallone arabo di Napoleone, anche “Marsala” è giusto che abbia il suo posto nella storia.

Marco Travaglini

Per un malore imprenditrice muore schiantandosi con l’auto

DAL VENETO

Un malore è la causa probabile dell’ incidente mortale avvenuto  a Este (Padova). Aveva 46 anni  la donna di Ospedaletto Euganeo, Selena Veronese, l’ imprenditrice che ha perso improvvisamente il controllo della sua auto e si è schiantata contro un muro, morendo sul colpo. Sono intervenuti gli uomini dei vigili del fuoco e i carabinieri.

Bombe sulla Siria

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Le bombe continuano ad uccidere in Siria nonostante la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu per una tregua immediata. Prova a far tacere le armi anche il presidente russo Putin che ha chiesto al suo alleato Assad di aprire “varchi umanitari” per evacuare civili, feriti e malati da Ghouta est, enclave ribelle alle porte di Damasco, colpita duramente dai raid aerei dell’aviazione siriana, forse con l’uso di bombe al cloro. Sono già centinaia i civili uccisi finora, compresi quelli investiti dai razzi lanciati dai miliziani jihadisti nei quartieri centrali della capitale. Papa Francesco ha chiesto la fine immediata delle violenze nell’ “amata e martoriata” Siria ma il mese di febbraio è stato terribile per questa nazione in guerra da sette anni con centinaia di migliaia di vittime, ospedali distrutti e mancanza di cibo. Nell’area contesa, controllata dai gruppi islamici estremisti Jaysh al-Islam e Hayat Tahrir al-Sham, vivono oltre 400.000 civili in condizioni disperate. Ghouta est, circondata e attaccata dalle truppe del regime siriano, non è ancora sotto il completo controllo degli uomini del presidente Bashar al-Assad. Non molla neanche la Turchia che a nord continua la sua offensiva nel cantone di Afrin contro i curdi. A peggiorare la situazione sono giunte le notizie, ancora da verificare, relative all’uso di armi chimiche sugli insorti da parte dell’esercito siriano. Al di là della tragedia levantina, la lotta contro il terrorismo jihadista è destinata a continuare come guerra su scala globale, dall’Africa al Medio Oriente, dal Caucaso all’Estremo Oriente. Sconfitti nel Levante, i jihadisti cercano riscatto in terre più lontane da dove proseguire la lotta all’Occidente e ai governi locali. Come in Afghanistan, dove la situazione precipita di giorno in giorno e Kabul è sempre più assediata dagli estremisti islamici. Tra i capi della nuova generazione di combattenti c’è Hamza, il figlio più giovane di Osama Bin Laden che nelle foto d’archivio si vede seduto su un tappeto accanto al padre con il kalashnikov sulle ginocchia. Il suo compito è quello di portare avanti il progetto di espansione del terrorismo islamico nel mondo e, per questo motivo, è già stato inserito dagli americani nella lista dei terroristi più ricercati.

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L’ultimogenito di Osama, ucciso da un commando di Navy Seals il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, figura come l’erede designato al vertice di al-Qaeda, l’organizzazione terroristica che, pur messa in secondo piano dall’Isis di Al Baghdadi, continua a pianificare attentati sanguinosi in ogni parte del mondo. Cristiani, ebrei, americani, russi e sciiti sono i nemici da combattere ed eliminare. In un recente messaggio diffuso sul web Hamza Bin Laden ha lanciato un appello a tutti i musulmani affinchè si uniscano per fronteggiare il complotto internazionale in atto in Siria che mette insieme “crociati, russi e sciiti”. Non ha mai censurato i piani dell’Isis e mira forse a creare un legame forte tra al-Qaeda e i tentacoli della piovra dell’ex “Stato islamico” che, dopo la sconfitta in Mesopotamia, ricrescono in altre parti del pianeta. Hamza ha quasi 30 anni, non conosciamo il suo volto attuale ma l’ex leader di al-Qaeda l’ha sempre considerato il rampollo prediletto e suo erede naturale per portare avanti la missione di terrore e ferocia del gruppo terroristico. Non sappiamo se sarà Hamza il nuovo leader di al -Qaeda, che risulta piuttosto divisa al suo interno, e se sarà lui a guidare la futura galassia jihadista ma nelle aree tribali al confine tra Pakistan e Afghanistan lavora per riunire i guerriglieri islamisti radicali. Nel 1997 Bin Laden spiegò con poche parole il suo folle progetto al giornalista e anchorman della Cnn Peter Arnett: “noi amiamo la morte, voi amate la vita”. L’anno successivo il terrorista saudita annunciò dalle grotte dell’Afghanistan la nascita del “Fronte islamico per il jihad contro i crociati e gli ebrei” per diffondere il terrore in tutto il mondo. Nonostante la forte concorrenza dei combattenti di Al Baghdadi e di altri gruppi jihadisti la strategia del conflitto globale di al-Qaeda prosegue il suo cammino come dimostra anche la rete terroristica creata da Bin Laden durante la guerra nella Bosnia musulmana ancora oggi attiva per colpire l’Occidente dai Balcani. Malgrado tutti gli sforzi fatti sul piano militare e finanziario il terrorismo continua a tenere sotto assedio l’Afghanistan dove è in corso un’offensiva islamista senza precedenti con Kabul colpita ripetutamente dai Talebani e dai miliziani del Wilaya Khorasan, il ramo centro-asiatico del Califfato. Secondo il Pentagono, i Talebani, che governarono il Paese dal 1996 al 2001, controllano quasi la metà dell’Afghanistan e l’Isis ha messo radici sul territorio reclutando ceceni, uzbeki e uiguri cinesi. Anche se entrambi i movimenti tentano di presentarsi come il gruppo più forte, gli studenti coranici sono molto più diffusi nel Paese e ben armati a tal punto da non temere neppure l’esercito afghano mentre i seguaci del Califfo, dopo aver perduto le roccaforti in Medio Oriente, concentrano le forze, almeno 6.000 miliziani provenienti da Siria e Iraq, nella parte orientale del Paese e attaccano Kabul per togliere la guida del jihad agli stessi qaedisti.

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Alcuni analisti sostengono che la partita decisiva non si giocherà nei deserti mediorientali ma tra l’Afghanistan e il Caucaso, un’area dove i potenziali kamikaze sono decine di migliaia, pronti a immolarsi per la fede. È di pochi giorni fa l’attentato, rivendicato dall’Isis, contro una chiesa ortodossa nella Repubblica caucasica del Daghestan confinante con la Cecenia. Una regione dove da tempo è attivo l’ “Emirato del Caucaso”, un’organizzazione jihadista che vuole cacciare i russi dal Caucaso e instaurare un Califfato. Sconfiggere il fenomeno jihadista è molto più complesso di quanto possa sembrare. Ne è la prova ciò che accade non solo in Asia ma anche nella regione del Sahel, come nel Mali, nel Niger e nel Burkina Faso dove i militari francesi (5000 soldati) non riescono ad aver ragione dei ribelli islamisti. Oppure in Nigeria in cui sembra impossibile prevalere sulla ferocia dei terroristi islamici di Boko Haram a caccia di cristiani e donne, rapite, ridotte in schiavitù, costrette a convertirsi all’islam se sono cristiane e obbligate a sposare i miliziani. È allarme per un nuovo sequestro di massa di studentesse nigeriane compiuto il 19 febbraio dai jihadisti di Boko Haram in un collegio femminile nello Stato di Yobe. La fotocopia di quello che avvenne nella città di Chibok nel 2014 dove quasi 300 ragazze furono sequestrate in una scuola. Molte di queste donne non sono ancora tornate a casa mentre adesso sono 110 le studentesse prigioniere dei fanatici islamisti. Boko Haram, affiliato all’Isis dal 2015, è ritenuto responsabile della morte di 20.000 persone e di 2,5 milioni di sfollati nel nordest della Nigeria, in Camerun, Ciad e Niger. Non accennano a diminuire neanche gli attentati dei kamikaze islamisti di Al-Shabaab in Somalia. L’ultimo attacco avvenuto nei giorni scorsi presso il palazzo presidenziale a Mogadiscio ha causato una cinquantina di morti e ha posto fine alla pausa negli assalti terroristici che durava da dicembre.

 

(dal settimanale “La Voce e il Tempo”)

 

 

 

Muore anziana spinta sulle scale dalla figlia che tenta il suicidio

DALLA CAMPANIA

Durante una lite avvenuta tra madre e figlia, quest’ultima una donna di 37 anni con problemi psichici, la mamma anziana di 77 anni,  è stata spinta sulle scale dalle quali è caduta morendo poco dopo. La figlia, resasi conto dell’accaduto, si è lanciata dal balcone, ed è rimasta ferita in modo grave. La tragedia a Mugnano, nel Napoletano.

È tornato sereno il cielo di Gerusalemme

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

È tornato sereno il cielo di Gerusalemme dopo la tempesta che si è abbattuta sulla basilica del Santo Sepolcro. All’alba si sono riaperte le porte dopo tre giorni di chiusura che hanno impedito a migliaia di pellegrini di visitare i luoghi santi cristiani. La protesta dei capi delle Chiese è stata sospesa dopo la retromarcia del premier israeliano Netanyahu che ha sospeso i provvedimenti contestati dai leader religiosi. Cosa era successo? Il Custode francescano di Terra Santa, il patriarca armeno e il patriarca greco-ortodosso (amministrano insieme il Tempio) avevano preso tre giorni fa la drastica decisione di sbarrare il santuario in segno di protesta contro un provvedimento di legge all’esame del Parlamento che prevede l’esproprio di terreni appartenuti alle Chiese e contro la richiesta del sindaco di Gerusalemme di versare anni di tasse comunali, contravvenendo in questo modo ad accordi precedenti che esentano le comunità religiose dal pagamento delle imposte. Grande delusione tra i pellegrini che in questi giorni non hanno potuto vedere la Tomba di Gesù, alcuni dei quali arrivati da molto lontano, dagli Stati Uniti e dall’Asia. La basilica fu fondata nel IV secolo nel luogo dove, secondo la tradizione cristiana, Sant’Elena, madre di Costantino, ha individuato i luoghi sacri della cristianità, la collina del Calvario, la Croce e la grotta del Sepolcro. La basilica è rimasta in piedi fino al 614, per essere poi distrutta dall’invasione dei persiani. Restaurata nel 630, non fu danneggiata dagli arabi che nel 638, comandati dal califfo Omar, conquistarono Gerusalemme, strappandola ai bizantini, ma fu rasa al suolo nel 1009 dal califfo fatimide d’Egitto al-Hakim. Fu ricostruita dai califfi abbasidi di Baghdad e nel 1099 divenne proprietà dei cristiani d’Occidente che occuparono la Città Santa nella Prima crociata e decisero di edificare un’unica grande chiesa che riunisse i luoghi della passione, della morte e della resurrezione di Gesù. È grosso modo il Tempio che ammiriamo oggi. Alla fine del regno crociato nel 1187, Gerusalemme passò nelle mani della dinastia ayyubide del Cairo, in quelle dei Mamelucchi d’Egitto e infine degli Ottomani di Costantinopoli fino alla Prima guerra mondiale. Dalla metà del Settecento uno “Statu Quo”, decreto reale emanato dalla Sublime Porta, regola i rapporti, sovente molto tesi, tra le comunità cristiane che gestiscono il Santo Sepolcro, diviso in tre settori, assegnati ai francescani, ai greci e agli armeni. Nel 1808 la copertura dell’Anàstasis, l’edicola che racchiude la tomba di Cristo, fu distrutta da un incendio e sostituita da una nuova cupola. Le relazioni tra i cristiani di Gerusalemme erano spesso burrascose e anche violente. Si litigava anche per il possesso di cappelle, altari e oggetti sacri e le autorità faticavano a imporre l’ordine tra le varie comunità. Alla fine del Cinquecento, per riportare calma e serenità in città, il sultano ottomano Murad III decise di affidare le chiavi del portone della basilica agli esponenti di due famiglie musulmane, i Nusseibeh e gli Yudeh, che vediamo ancora oggi al lavoro, con l’incarico di evitare zuffe e colluttazioni.

Il presidente di Liberland esplora i Caraibi

Che cosa ci fa nel mar dei Caraibi Vit Jedlicka, l’euroscettico ceco autonominatosi presidente dello stato di Liberland, area di sette chilometri quadrati al confine tra la Croazia e la Serbia? Pare che l’intraprendente presidente, già candidato (ma non eletto) con il partito Free Citizens alla elezioni per il Parlamento europeo, in questi giorni stia volando in elicottero sui cieli dei cayos caraibici, alcuni dei quali ospitano il reality “L’isola dei famosi”, alla ricerca di terreni e isolotti. La domanda sorge spontanea: per farne cosa?

Donna di 30 anni muore nello scontro con un camion

CRONACHE ITALIANE DAL VENETO

E’ morta all’ospedale la donna rimasta coinvolta nel tamponamento avvenuto questa mattina, probabilmente a causa della neve,  sulla Strada statale 309 “Romea”, tra Campagna Lupia e Lughetto (Venezia). La  trentenne, alla guida di un’auto era residente a Chioggia.  Si è scontrata con un camion con targa ungherese. I veicoli sono finiti fuori carreggiata, riportando pesanti danni. La vittima è stata estratta dalle lamiere dai vigili del fuoco ed è morta durante il trasporto in ospedale.