Dall Italia e dal Mondo- Pagina 65

I pipistrelli di Staffarda

Incredibile ma vero. Migliaia di pipistrelli della valle Po hanno messo in fuga nientemeno che il celebre generale francese Nicolas Catinat che portò lutti e dolori nel nostro Piemonte alcuni secoli fa. La rievocazione della famosa battaglia di Staffarda, frazione di Revello in provincia di Cuneo, quest’anno salta a causa di una curiosa colonia di pipistrelli che ha invaso l’abbazia e il terreno di scontro tra gli opposti eserciti. Non si possono far sloggiare perchè si tratta di una delle più importanti colonie di pipistrelli presenti in Italia e pertanto protette da leggi europee. Il problema è che sono molto prolifici e il loro numero continua ad aumentare in modo impressionante. Per il prossimo anno sarà indispensabile individuare una nuova area dove rievocare con centinaia di personaggi a piedi e a cavallo quello che avvenne il 18 agosto 1690 quando intorno alla millenaria abbazia del saluzzese si combattè una delle battaglie più cruente svoltesi sul suolo piemontese. È la battaglia di Staffarda che ogni due anni viene rivissuta sul terreno dove fu combattuta. Quel giorno i francesi del generale Catinat si scontrarono contro l’esercito austro-piemontese del Duca di Savoia Vittorio Amedeo II appoggiato dagli spagnoli e dal cugino Eugenio di Savoia. La battaglia si svolse presso l’abbazia di Staffarda tra il Po e il torrente Ghiandone. Andò male e i piemontesi vennero sopraffatti dalle truppe transalpine. Per sei lunghe ore i soldati sabaudi combatterono con grande coraggio ma le forze francesi, meglio schierate sul campo dall’abile Catinat, costrinsero le truppe di Vittorio Amedeo II alla ritirata. Tra piemontesi, spagnoli e austriaci si contarono circa 4000 morti mentre i francesi persero

meno di 2000 uomini. Neppure i reggimenti di dragoni di Eugenio di Savoia riuscirono a capovolgere le sorti dello scontro. Impegnato a combattere i turchi a est e i francesi a ovest, il giovane Principe era reduce dalla vittoria a Vienna nel 1683 contro i turchi insieme al grande Re polacco Sobieski. Nel 1688 Eugenio partecipò alla conquista di Belgrado e nell’anno successivo combattè contro i francesi di Luigi XIV sul Reno. Trovò anche il tempo per spostarsi in Piemonte ma questa volta non fu fortunato. Nella primavera del 1690 venne inviato nell’Italia del nord per aiutare suo cugino Vittorio Amedeo II, duca di Savoia. Trovò il Piemonte invaso dai francesi comandati dal Catinat che giunto in Piemonte devastò e incendiò paesi e città. Dopo la vittoria di Staffarda il generale francese occupò Savigliano, Saluzzo e saccheggiò Barge vincendo l’accanita resistenza dei bargesi che con eroismo cercarono vanamente di opporsi ai soldati del Re di Francia. Visitare l’abbazia di Staffarda è indispensabile per chi arriva per la prima volta in Valle Po. Lo splendido complesso medievale è a pochi chilomeri da Saluzzo nella suggestiva cornice del Monviso. Fu fondato nel 1135 da Manfredo I del Vasto, Signore di Saluzzo, e divenne la sede dell’Ordine dei monaci cistercensi arrivati dalla Francia.

Filippo Re

“Il piccolo almanacco di Radetzky”

A galleggiare  su tutto, come un velo di nebbia,  l’assurdità assoluta e palpabile della guerra. Un “catalogo poetico” di straordinario fascino

radetzky austria

C’è un piccolo libro ( ma solo per le sue dimensioni)  che nel 1982 suscitò curiosità e interesse. Lo aveva pubblicato Adelphi e s’ intitolava “Il piccolo almanacco di Radetzky”. L’autore, Gilberto Forti, raccontava le cronache – in versi –  sui grandi scrittori e artisti dell’Impero asburgico, nell’ora del suo tramonto, e su sei vittime della seconda guerra mondiale. Un libro decisamente bello e originale che apriva uno sguardo sulla Grande Guerra attraverso gli occhi di grandi personaggi passati poi alla storia per altri motivi (Freud, Musil, Kraus e tanti altri) che si trovavano, in quelle pagine,  messi a confronto con eventi piccoli ,  quotidiani, a volte assurdi.

radetzky fortiEd a galleggiare  su tutto, come un velo di nebbia,  l’assurdità assoluta e palpabile della guerra. Un “catalogo poetico” di straordinario fascino,in cui si trova Hofmannsthal che presagisce la fine della “nostra vecchia Austria, assediata da ombre nere, da torbidi presagi”, il tenente Musil che vede in faccia la morte sul campo di battaglia, Kafka che in sogno immagina le future camice brune naziste, Edith Stein che si fa suora cattolica ma muore in un lager come martire ebrea, Freud che spiega ai suoi alunni la connessione tra coraggio soldatesco e viltà scientifica. “Non abbiate timore. A prima vista / può sembrare poesia, ma sono storie / di due guerre, raccolte da un cronista / che si è perduto fra vecchie memorie. / Il testo, anche se ha righe disuguali, / non differisce in nulla da una prosa, / con nomi, date e luoghi ben reali – / sia documento o cronaca o altra cosa”.

radetzky cecco beppeCon questa chiave di lettura, Forti apre il suo racconto per poi sfogliare, pagina dopo pagina,  gli “annali dispersi” dell’Impero asburgico, cogliendone le voci e riproducendole, trascritte in versi discorsivi su persone e vicende. Così s’incontrano la famiglia Canetti al concerto, l’ultima ora dell’Imperatore,  il Golem  che appare a Gustav Meyrink, il suo “biografo”. E ancora: Ettore Schmitz tra i naufraghi del Wien,  Wittgenstein in viaggio da Asiago a Cassino, Oskar Kokoschka  che è dato per disperso o  l’epidemia che uccide Egon Schiele.  “Esistono incantevoli libri segreti che raddoppiano, anche per questa loro qualità, il piacere della lettura. Il radetzky forti2piccolo almanacco di Radetzky appartiene a quel genere”, scrisse Corrado Augias. Aggiungendo come “in un periodo così affollato di cronache, romanzi, storie, Forti è stato capace di mettere insieme avvenimenti ed episodi che mai nessuno prima aveva accostato con tanta appassionata perizia e finezza d’evocazione. Così facendo ci dà di quegli anni di guerra un volto inaspettato e più d’una sorpresa”. Quelle narrate da Forti ( eccellente traduttore, morto nel 199 a 77 anni)  sono storie familiari e remote, trascritte come fogli di un “lunario” che racconta, dal 1914 al 1918, anno per anno, mese per mese, il tramonto dell’Impero e le vicende personali dei suoi scrittori e dei suoi artisti, fino alla sconfitta che distruggerà la vecchia compagine e libererà nuovi demoni. In pratica, la fine di un mondo e di un modo d’intendere la vita e i rapporti tra gli uomini che non avrebbe più avuto eguale.

Marco Travaglini

Nagasaki, 9 agosto 1945: il giorno in cui il sole cadde nuovamente sulla terra

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L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyushu, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese.  Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così  si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki

Nagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa  “lunga penisola”. Il 9 agosto del 1945 diventò il secondo obiettivo su cui sganciare una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress  dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento. In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal  maggiore Charles W. Sweeney.

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Era, come si usa dire, “la seconda scelta”. L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyushu, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese.  Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così  si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì  sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città. “Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sulla città e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy” , l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima. Ma, dato che Nagasaki era costruita su un terreno collinoso, il numero di morti fu inferiore a quelli prodotti dalla prima bomba. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le 66.000 e le 78.000 persone e una cifra simile rimase ferita. Per due volte, in tre giorni, il sole cadde sulla terra. Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi. Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle 80.000 persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti.

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La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto di settant’anni fa  vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di HiroshimaEntrambe città furono rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre del 1945, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Settant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Secondo fonti ufficiali della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa questi ospedali – nel 2014 – si sono presi cura di 4657 vittime dell’esplosione a Hiroshima e 6030 di quella di Nagasaki.

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Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure, nei prossimi anni, per le problematiche legate alle radiazioni. In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati 2,6 milioni di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, il 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni. Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentano, fino a marzo dell’anno scorso, il 56% del totale. Secondo la Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare. Settanta anni dopo, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità della guerra, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.

Marco Travaglini

Bmw richiama 300 mila veicoli

La BMW richiama in Europa 324.000 vetture diesel per il rischio di incendi legato a un modulo di ricircolo dei gas di scarico. Il difetto è nelle serie 3, 4, 5, 6 e 7, nella serie X3 e  X6 equipaggiate con i motori diesel a 4 cilindri, vetture  prodotte da aprile 2015 a settembre 2016 e quelle con motori diesel a 6 cilindri dal luglio 2012 al giugno 2015. Il componente potenzialmente difettoso deve essere controllato ed eventualmente sostituito per evitare il rischio che piccole quantità di liquido di raffreddamento possano miscelarsi a fuliggine e tracce di olio creando una miscela  che potrebbe incendiarsi a temperature elevate.

Camp des Milles : la memoria della deportazione ai tempi di Vichy

camp de milles2Il Memoriale è l’unico luogo di internamento, di transito e di deportazione ancora intatto e aperto al pubblico in Francia, dove la memoria e la storia della Shoah s’incrocia e sovrappone ai crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale dal governo collaborazionista e filonazista di Vichy

Al Chemin de la Badesse, distante pochi chilometri da Aix-en-Provence, si trova il Memoriale del Camp des Milles. Siamo nel sud della Francia, dipartimento delle Bocche del Rodano, nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Il Memoriale è l’unico campo di internamento, di transito e di deportazione ancora intatto e aperto al pubblico in Francia, dove la memoria e la storia della Shoah s’incrocia e sovrappone ai crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale dal governo collaborazionista e filonazista di Vichy e alle assurdità della prigionia degli “indesiderabili”.Il cielo è coperto ma l’autunno è ancora dolce attorno alla grande fornace di Les Milles dove, tra il ’39 e il ’42, vennero internati migliaia di antifascisti d’ogni nazionalità, e, in seguito, gli ebrei avviati allo sterminio. Le alte ciminiere, come sentinelle mute, stanno ancora lì, circondate dalla campagna provenzale. Dentro l’antico refettorio dei guardiani del campo, si vedono ancora le pitture murali, opera degli artisti antifascisti che vi furono imprigionati.Nell’edificio vennero prima reclusi, in condizioni sempre più dure, migliaia di persone che sicamp de milles1 erano rifugiate in Francia, la maggior parte in fuga dal totalitarismo, dal fanatismo e le dalla persecuzione di alcuni paesi dell’Europa. La sua storia si articola in diverse fasi corrispondenti alle diverse categorie di internati che vi soggiornarono: cittadini del Reich e legionari, stranieri che desideravano emigrare e gli ebrei prima di essere deportati. Dal settembre 1939 a giugno 1940 fu un campo per “stranieri nemici”.

Una vicenda tragica e vergognosa, iniziata sotto la Terza Repubblica, all’inizio della seconda guerra mondiale, quando il governo francese decise di internare cittadini teschi in fuga dal nazismo e rifugiatisi in Francia. Considerati alla stregua di “soggetti nemici”, gli internati furono vittime di una miscela di xenofobia, assurdità amministrative al punto di vivere,  in condizioni  sempre più precarie, come appesi ad un filo. La scelta, nel sud-est francese, cadde su questo complesso industriale, trasformato in campo di internamento sotto il comando militare francese. Poi, nel  giugno del 1940 si aprì la seconda “fase”,  con l’invasione tedesca della Francia, la capitolazione di Parigi e la firma dell’armistizio. La Francia venne divisa in una zona militare di occupazione a nord e lungo le coste dell’Atlantico, mentre a sud fu instaurato un governo camp de milles3collaborazionista, la Repubblica di Vichy, guidata dal generale Pétain. In breve, sotto il regime di Vichy, il campo raggiunse i 3500 internati. Durante quel periodo vennero trasferiti al Camp des Milles anche gli anziani delle Brigate internazionali in Spagna e gli ebrei espulsi dal Palatinato e dal Baden- Württemberg. A partire dal novembre 1940, il campo passò sotto l’autorità del Ministero degli Interni. Le condizioni di internamento si deteriorarono: parassiti, malattie, promiscuità, mancanza di cibo, privazioni di ogni genere.

E, tra l’agosto e il settembre del 1942, si giunse alla “terza fase”, la più drammatica. Il governo filonazista di Vichy , impegnatosi a consegnare gli ebrei alle forze d’occupazione tedesche, accettò che venissero deportati anche i loro figli sotto i sedici anni. La storia del Camp des Milles mostrò il volto peggiore, con le intolleranze, gli ingranaggi, l’ideologia xenofoba e antisemita che portò alla deportazione di più di duemila uomini, donne e bambini ebrei dal campo in Provenza  al lager di Auschwitz, attraverso Drancy e Rivesaltes. Con l’aiuto del pastore protestante Henri Manen e dell’ex guardiano Auguste Boyer (insigniti del titolo di “giusti” dello Stato di Israele) alcuni poterono fuggire. La maggioranza non fece più ritorno. Tra i bambini c’erano Jean Krauss, età: un anno; Danielcamp de milles4 Kaminsky, due anni; Jürgen Schild, due; Noëmie Kaminsky, sette; Maria Kleinkopf, quattro; Rachel Rosner, cinque; Willy Zwirn, sei; Isaac Strumer, nove. All’esterno del Memoriale, su un binario morto, c’è ancora un vagone ferroviario di quell’epoca, a ricordarli. Inaugurato a settembre 2012, il Camp des Milles ora è un memoriale dove il percorso di visita, distribuito su 15 mila metri quadri, si sviluppa attorno alle tematiche della storia, della memoria e della riflessione. In quello che viene soprannominato il “Ve’ l’ d’ Hiv” del sud ( nel Vélodrome d’Hiver di Parigi, vennero internati 12.884 ebrei , dopo la retata del 16 luglio del ‘42– tra i quali 5.802 donne e 4.051 bambini – tutti deportati nei lager nazisti,vittime della “soluzione finale“), oggi si fa didattica della memoria e ci vengono le scuole con i loro studenti e docenti. Per non dimenticare la storia e ciò che può insegnare, per sconfiggere ignoranza ,indifferenza e razzismo. Per tener ben desta la ragione ed evitare che il suo sonno generi ancora i mostri che fecero del Camp des Milles, nonostante la bellezza del paesaggio attorno, dipinto nei quadri di Paul Cézanne, un luogo che restituì a chi fu costretto a viverci tanto dolore e sofferenza .

Marco Travaglini

Palpeggia ragazza alla fermata metro e le sfila la camicetta

DALLA LOMBARDIA

Brutta avventura per una ragazza di 25 anni, nata all’estero ma residente a Milano, che  ieri sera, verso le 23,  in una stazione della metropolitana è stata aggredita da un romeno di 32 anni. L’uomo l’ha palpeggiata e con la forza le ha poi tolto la camicetta. E’ stato bloccato dai carabinieri del nucleo radiomobile e  denunciato a piede libero per violenza sessuale. La giovane stava per salire in metropolitana quando è stata avvicinata dallo sconosciuto che ha iniziato a metterle le mani addosso, a palpeggiarla in modo sempre più pesante, fino a sfilarle la camicia che indossava. La ragazza è però riuscita a fuggire e a chiamare i soccorsi.

Suoni e lampi di immagine dai Balcani

di Marco Travaglini

Un mondo che porta nel  cuore la storia straziata di uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia. La terra degli slavi del sud, paese fatto di tanti paesi, di persone e storie. Ai tempi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si raccontava come ci fossero  “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito

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I Balcani sono suoni e lampi di immagine. Sono, come sottolinea Paolo Rumiz “il periplo mediterraneo di una parola araba, sevdah, che significa negra bile, la grande madre dei salti umorali, della nostalgia e dell’innamoramento”, parola che con l’armata islamica raggiunge la penisola iberica e si ibrida col latino trasformandosi in “saudade”; quella “dolce malinconia” (di una terra perduta) che secoli dopo gli ebrei, esiliati dai re cattolici, porteranno con sé nella nuova terra, ancora una volta islamica, l’impero turco, per generare quegli struggenti capolavori di musicalità popolare che sono le “sevdalinke“, le canzoni d’amore della Bosnia. I Balcani sono il luogo dove ci si accorge che tutto inizia tutto finisce e tutto si capisce.  Un mondo che porta nel  cuore la storia straziata di uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia. La terra degli slavi del sud, paese fatto di tanti paesi, di persone e storie. Ai tempi della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia si raccontava come ci fossero  “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. Di tutto ciò, ad accomunare controvoglia i paesi nati dalla sua frammentazione, è rimasto in comunione solo il prefisso telefonico internazionale:  “0038”. Lo stesso per tutti e sei gli stati, che precede – si spera solo numericamente – il nostro, lo “0039” italiano.  Come per Rumiz, questi sono – anche per me –  i Balcani. Non solo guerre e secessioni, ma “note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo”. Tristezza della guerra e dignità della vita si mescolano ai profumi e ai sapori balcanici.Le immagini di luoghi, montagne, vento,birra, vino, di rackia, ( l’acquavite)  e di slivovica, che quando è buona ( nel suo distillato di prugne, talvolta albicocche, in certi casi pere e fichi ) è la fine del mondo e può addolcirti le serate. Il segreto, lo “spirito” di città come Sarajevo è racchiuso in tre parole: condivisione, disponibilità, accoglienza. E, se si vuole, se ne può aggiungere una quarta: tolleranza.  Si racconta una storia, un aneddoto, basato sulla realtà: in casa dei cristiani c’era molto spesso un pentolone di coccio che non aveva mai toccato la carne di maiale e che veniva conservato per invitare a cena i musulmani e gli ebrei, nel pieno rispetto delle altrui fedi. Sarajevo è stata bombardata per quattro anni ( con 11451 morti e una pioggia di 470 mila granate)  non perché stava diventando islamica, ma al contrario perché era troppo tollerante e complessa per essere accettata da un mondo che venera il pensiero unico, uguale, monolitico. Così bellezza e vitalità si celano dietro alla “piega obliqua e amara dei Balcani”, come la descrive Paolo Rumiz ne “La cotogna di Istanbul”.balcani22 L’incontro col diverso e l’abitudine al confronto con l’altro da sé hanno reso questa popolazione unica, come lo è la sua  geografia. Con alcuni amici, in una delle tante serate passaste nel caravanserraglio  della Baščaršija,  abbiamo fatto una scommessa. Goran e Edina  ridevano, conoscendone anticipatamente l’esito. Guardavamo le donne, le ragazze cercandone una non bella. Chi ne intravedeva una per primo, aveva diritto ad una frasca e schiumosa birra, appena uscita dalla Sarajevska picara,l’unica birreria europea che è riuscita a produrre con continuità sia ai tempi dell’Impero ottomano che nel periodo dell’impero asburgico. Ognuno pagò la sua parte perché nessuno vinse. Trovare una ragazza non bella era quasi un’impresa impossibile. E poi la musica, il ritmo dei suoni ma anche delle lingue che sono molte e che fanno inevitabilmente bene all’elasticità della mente e dei caratteri. I Balcani sono grandi, anche se il cuore – oltre a Sarajevo – lo si trova scendendo la stretta valle della Neretva, con la strada che costeggia le acque color smeraldo del fiume che le dona il nome.  E’ ancora Rumiz a ricordarci che Balcani sono anche quel villaggio macedone  che  – stando ai racconti dei suoi abitanti – pare sia stato risparmiato dalle armi grazie alla musica: Strumica, quasi al confine con la Bulgaria. Quando scende la sera  i contadini tornano dai campi con i loro attrezzi in spalla e, giunti in paese, mollano la zappa e prendono il clarino, la tromba o il tamburo e tutto il paese si riempie di suoni.Questo è il loro antidoto al disordine. Perché lì non è mai arrivato il kalashnikov? Perché avevano il sassofono e lo preferivano,  perché da generazioni suonano e sono stati allenati alla musica “ già prima di nascere, perché la sentivano dalle pance delle loro madri”.  Una musica che, come dice Goran Bregović, “ è una miscela, nasce da una terra misteriosa dove si incrociano tre culture: ortodossa, cattolica e musulmana“. Splendida e piena di voglia di vivere.

Il treno dei desideri che saliva sul Mottarone

MOTTARONE LAGODalla sommità del Mottarone  si può spaziare a 360° dalla catena dell’Appennino Ligure e delle Alpi Marittime al massiccio del Monte Rosa , fino alle imponenti cime elvetiche, passando attraverso la Pianura Padana 

Il Mottarone (1491 m. s.l.m.) è  sempre stato una montagna speciale, dolce nella fisionomia ( come un grande panettone) e maestosa nel posizionamento. Pur essendo tra le cime meno alte della catena alpina, dalla sua vetta lo sguardo si perde su di un panorama a dir poco unico, da molte parti indicato come pari, se non superiore in fascino, a quello della ben più alta vetta del Righi, la montagna svizzera resa famosa proprio dal suo straordinario scenario panoramico. Dalla sommità del Mottarone  si può spaziare a 360° dalla catena dell’Appennino Ligure e delle Alpi Marittime al massiccio del Monte Rosa , fino alle imponenti cime elvetiche, passando attraverso la Pianura Padana e la zona dei “sette laghi” (Orta, Maggiore, Mergozzo, Biandronno, Varese, Monate, Comabbio). Un tempo, in vetta, ci si poteva salire anche in treno. Infatti, la Società Ferrovia Stresa-Mottarone, svolse la sua funzione di pubblico collegamento tra il 12 luglio del 1911 – giorno della sua inaugurazione –  e la fine del 1962. Il tracciato della linea, lunga circa 10 km, partiva da Stresa con un doppio capolinea: dal piazzale dell’imbarcadero della navigazione  e dall’area antistante la stazione ferroviaria. I due rami si riunivano, appena fuori l’abitato, per continuare la loro salita sui fianchi della montagna, con un dislivello superiore ai mille metri. La ferrovia s’inarcava con un doppio sistema (da qui la denominazione della ferrovia, “ad aderenza mista”), ad aderenza naturale ed a cremagliera del tipo Strub.

L’alimentazione era a corrente continua a 750 Volt. Lungo la linea c’erano tre stazioni (Alpino – Gignese – Levo) e due fermate: cosicché l’interoMOTTARONE 2 percorso s’effettuava in 1 ora e 15 minuti. Il materiale rotabile veniva ricoverato a Stresa ed era composto da 5 elettromotrici e 3 rimorchiate “a giardiniera”; 4 carri di servizio completavano la flotta. Nel 1920 venne costruito un carro speciale porta sci che veniva agganciato in coda. Le motrici, in livrea gialla, erano di costruzione svizzera; i loro carrelli erano prodotti dalla SLM di Winthertur, azienda specializzata nella costruzione di materiale ferroviario ad aderenza artificiale. Le elettromotrici accoglievano fino a 110 persone cadauna, tra posti a sedere e posti in piedi. Il servizio si basava su tre coppie di treni in bassa stagione e sei coppie in alta. Era altresì prevista la possibilità di organizzare corse straordinarie su richiesta. La partenza della ferrovia fu un po’ rallentata a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale ma, successivamente a questa, l’esercizio riuscì a mantenersi positiva: quindi,una gestione accorta sia relativamente al traffico locale sia dal punto di vista turistico. Incredibilmente e paradossalmente le cose andarono meglio durante la Seconda Guerra Mondiale: infatti, non avendo subito danni rilevanti dagli eventi bellici, fornì un comodo collegamento per i milanesi sfollati e rifugiati sulle pendici del monte; si pensi che l’anno 1945 fu toccato il record di 100 mila biglietti staccati!Con l’arrivo degli anni ‘50 e ‘60 iniziarono a farsi sentire lamentele, provenienti da più parti, sul fatto che la ferrovia era antiquata, improduttiva e che un servizio automobilistico o funiviario avrebbero potuto sostituirla. Con un po’ di lungimiranza, magari guardando all’esempio della vicina Svizzera,  si sarebbe potuto investire  sul rilancio e su di una moderna gestione di quella ferrovia turistica. Purtroppo la storia andò diversamente e così, nel giugno 1963, fu posta la parola “fine” alla Ferrovia “Stresa – Mottarone”.

Le vetture furono rottamate o vendute. Fino a qualche mese fa il collegamento tra Stresa e il Mottarone è stato svolto da una funivia, la cuiMOTTARONE TRENINO stazione è peraltro piuttosto distante dal centro cittadino, in località Carciano. Fino a qualche mese fa perché ora anche la funivia ha chiuso i battenti. Alle 17,40 del 30 ottobre scorso , dalla vetta del  Mottarone è partita  l’ultima corsa di ritorno della funivia, che ha poi cessato l’attività  per la scadenza del termine dei 40 anni vita, entro il quale è necessario provvedere alla revisione generale dell’impianto. Ad oggi la situazione si presenta tutt’altro che rosea, dopo l’esito negativo della gara d’appalto, andata deserta. Troppi oneri, troppe difficoltà. Dopo la chiusura del trenino ( prima ferrovia col sistema a cremagliera in Italia),  straordinaria occasione mancata di cinquant’anni fa, ora anche la funivia rischia di essere un ricordo. Il Mottarone , straordinaria vetta panoramica, è un po’ più solo e più lontano da Stresa, la  perla del lago Maggiore che lo guarda da sotto in su  intristita.

 

Marco Travaglini

Caccia al ladro: spariti gioielli per 150 mila euro nell’hotel dei vip

DALLA SARDEGNA Un colpo da maestro, con bottino da circa 150 mila euro, all’hotel Pitrizza di Porto Cervo, uno degli alberghi più esclusivi della Costa Smeralda, appartenente alla catena Marriott International di proprietà del fondo sovrano del Qatar. Un ricco cliente ha denunciato il furto delle cassaforte della villetta dell’hotel dove sarebbero stati custoditi dei gioielli di grande valore. Le indagini sono affidate ai carabinieri.

 

La gialla cotogna di Istanbul

Ma voi che ne sapete dell’amore? […] della passione che il mondo consuma?” Con questo incipit il lettore è invitato al racconto di un amore struggente e tumultuoso, nato dall’altra parte dell’Adriatico, in Bosnia, “la terra dei lunghi amori e dei lunghi rancori; una storia di amore e di morte che, affidata alla potenza della narrazione orale, ha attraversato le città e le nazioni sino a giungere a Paolo Rumiz, che ha deciso di metterla per iscritto, scegliendo la forma dell’endecasillabo. “La cotogna di Istanbul. Ballata per tre uomini e una donna” è un bellissimo libro, scritto magistralmente da Rumiz, ottenendo un buon successo.

Il racconto si snoda come un lungo, magico e dolorante poema di paesaggi, donne, passioni, strade, città, morte. Protagonisti di questo romanzo in versi, sono Max – un ingegnere austriaco – e Maša Dizdarević, donna bosniaca  austera e bellissima, con un passato intriso dalla storia del suo Paese. In una notte invernale a Sarajevo, con al neve che turbina nel vento, Maša “viso da tartara, femori lunghi e occhi come grani di uva nera” canta a Max  una sevdalinka, un’antica canzone d’amore di quelle terre:“Žute dunje”, la gialla cotogna di Istanbul. Sulle note di questa malinconica melodia, che narra di due giovani amanti e di un destino a loro avverso, scaturisce un legame profondo e indissolubile. Scrive il giornalista-narratore triestino: “Cantò nella sua lingua la struggente / tristezza dei distacchi che i balcanici / adorano ogni tanto condividere / con chi accetta di bere assieme a loro. / C’era un lamento, spesso ripetuto, / nella canzone, ed era lo stesso / che lui aveva sentito anni prima / sotto le muraglie di Diyarbakir…”. Paolo Rumiz non solo incanta ma riesce a far innamorare il lettore di tutti quei luoghi che fanno da sfondo alla narrazione: i Balcani, terra devastata dagli orrori della guerra; l’austera e asburgica Vienna, il Danubio che scorre entro i confini di dieci paesi e ,infine, Sarajevo , la città che contiene tutte le altre, da Trieste fino a Istanbul. Il suo linguaggio, ricercato ed elegante, descrive sapientemente non solo i luoghi ma anche tradizioni, riti, gli odori e i profumi di quel pezzo di Europa nato dall’incontro tra Oriente e Occidente. Nella bella Dizdarević si racchiude il mistero di quei luoghi (“Disse Maša: ‘Ancora qui si celebra / la vittoria del luogo sulle stirpi.”); con lei arriva il racconto della forza di un amore inamovibile, ampio, tremendamente calato nella cruda realtà, ma allo stesso tempo puro e ancestrale. Tra i luoghi emerge potente l’immagine di Sarajevo, serraglio per carovane, “femmina inerme in mezzo a maschi assetati di stupro”. E’ lì lo zenit in cui si incontrano Masa e Max, alla fine del confitto. Max ne rimane stregato. Basterà una cena, un timballo di carne, l’aroma del caffè. Basterà quell’ “impasto balcanico fatto di sangue e miele” per accendere la fantasia dell’uomo, che con la mente  cominciò a scavalcare secoli e montagne. Il resto lo farà una bottiglia di vodka gelata e  Maša che canta per lui con cuore ardente la canzone della cotogna d’Istanbul, dei due amanti in lotta col destino e contro la malattia della donna, la cui cura viene affidata proprio a quel miracoloso frutto giallo (“nasconde in sé anche il fiore”), che però arriverà tardi, troppo tardi. La scrittura di Rumiz ha una potenza evocativa incredibile, in questo libro, quasi sprigionasse un’energia e una profondità sconosciute: non solo scrittura o lettera, ma soprattutto è voce, parola, narrazione e ascolto. Ed è una fortuna, perché altrimenti dovremmo associarci al rimpianto di Max: “..che povero mondo è questo che ha perso / il gusto delle storie da ascoltare”.

Marco Travaglini