Dall Italia e dal Mondo- Pagina 28

L’Italia delle regioni a Slow Fish

Dalla Regione Liguria alla Calabria, che debutta alla manifestazione, e poi Puglia, Toscana, Campania e Sicilia
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Un dialogo tra terra e mare sempre più intenso in cui le ricadute, siano esse positive o negative, delle azioni dell’uomo sulla prima incidono sul secondo, che ce ne restituisce tutti i frutti, dolci e amari. Ed è con questa consapevolezza che le regioni italiane vengono a raccontare i loro progetti di tutela e promozione, i loro borghi marinari, le loro tradizioni e i loro prodotti a Slow Fish, nei chioschi di Piazza Caricamento, al Porto Antico di Genova dal 9 al 12 maggio. Dal Nord al Sud Italia, dai padroni di casa, la Liguria, alla Regione Calabria,che debutta alla manifestazione della Chiocciola, per finire con le presenze ormai consolidate, la Puglia, la Toscana, la Campania e la Sicilia. E quindi, pinne, forchette e occhiali… tutti pronti per un viaggio virtuale nelle regioni d’Italia a Slow Fish!

Scorci liguri di vita quotidiana

Partiamo dai padroni di casa, la Regione Liguria, che come organizzatore della manifestazione insieme a Slow Food, allestisce nel Porto Antico una piazza ligure ideale, dove si incontrano profumi e sapori delle diverse anime di tutta la regione, da Levante a Ponente: workshop, presentazioni e attività per le scuole, dimostrazioni di pesto al mortaio e degustazioni guidate di olio e vini in collaborazione con i consorzi liguri, i Gac locali e Liguria Gourmet per le proposte dell’area ristorazione. Per saperne di più vai su:https://slowfish.slowfood.it/piazzetta-la-mia-liguria/

Costa Toscana – Isole Toscane: tesori di mare, tesori di terra

Presenta al pubblico di Genova la propria idea di offerta turistica a misura di ambiente la Toscana, con i suoi 300 chilometri di costa interpretati come ponte tra mare ed entroterra, tra centri storici incastonati lungo le dolci colline e tratti di mare spesso ancora incontaminati, da promuovere con percorsi sostenibili lontani dai numeri e dall’approccio del turismo di massa. Raccontati da Toscana Promozione Turistica, i borghi della pesca – da Massa all’Argentario, per finire in mezzo al Tirreno, con l’Elba e le Isole dell’Arcipelago toscano – sono protagonisti a Genova. Toscana presente nel programma della Cucina del Mercato con l’appuntamento dedicato a una specialità del territorio livornese, domenica 12 alle 12: il cacciucco preparato dalla cuoca Olimpia Nocera del ristorante Porto di Mare.

Campania all’insegna della legalità e della contaminazione

Quattro giorni di programma incentrati sulla legalità (taglie minime e contrasto all’estrazione dei datteri di mare), sulla lotta al caporalato, anche in mare, e sul mare come ponte per ricostruire i legami millenari tra le sponde del Mediterraneo che hanno portato alla contaminazione di culture, anche gastronomiche, di cui godiamo oggi. Un esempio su tutti è il cuscus che dal Maghreb alla Liguria, dalla Sicilia alla Sardegna unisce il Mediterraneo intorno al cereale più importante. Il tutto, come sempre a partire dal piacere di scoprire nuovi gusti, di condividere assaggi e parole, spaziando dalla politica alla filosofia, dall’archeologia a… ovviamente il buon cibo! È lo spazio della Regione Campania a Slow Fish, gestito in collaborazione con Slow Food Campania nell’ambito del Feamp 2014-2020. Completamente plastic free, lo spazio della Campania racconta l’economia del territorio a partire dalla promozione dei Presìdi Slow Food e delle comunità della pesca grazie a chef che li sostengono acquistandone i prodotti, come Giuliano Donatantonio, Gena Iodice, Maurizio De Riggi, Luigi Russo e i panificatori Giovanni Civitillo e Aldo Pagliuca. E poi il tema delle microplastiche con un confronto tra le aree marine protette liguri e quelle campane. E ancora il tema del caporalato in mare, con Francesco Pascale, assessore all’ambiente e alla pesca di Castel Volturno, che con il Sindaco Dimitri Russo e con un gruppo di pescatori, ha avviato un progetto di ripristino della legalità e di promozione dell’attività di pesca costiera con la creazione di banchine volte alla vendita del pesce appena sbarcato.

Puglia: una terra tra due mari di sostenibilità

Il suo mare e la sua gente, la biodiversità, la cultura e le tradizioni. Ecco la proposta che la Regione Puglia presenta a Slow Fish 2019 insieme a Unioncamere Puglia e Slow Food Puglia in un itinerario esperienziale lungo il tacco d’Italia alla scoperta di Presìdi, Aree marine protette e Parchi terrestri. La Puglia si racconta attraverso le parole di pescatori, agricoltori, giovani ricercatori accomunati tutti dall’amore verso la propria terra. Slow Fish 2019 è il palcoscenico per presentare i risultati del progetto Cap Salento con i suoi tre Presìdi del mare di Torre Guaceto, Porto Cesareo e Litorale di Ugento. Tra le novità l’Ecomuseo del Mar Piccolo e della Palude la Vela (Ecopamar) che racchiude a Taranto e nel suo Mar Piccolo un autentico scrigno di biodiversità e di storie antiche e moderne, tra cui anche cozza nera tarantina. Il programma prevede anche excursus verso i laghi di Varano e Lesina e nelle Isole Tremiti e un focus sui molluschi e il pesce crudo, per rivivere sapori, profumi e suoni del porto dei pescatori di Bari. Da non dimenticare i numerosi appuntamenti gastronomici all’insegna della buona biodiversità pugliese come il focus sul crudo e sulle specialità apprezzate al porto di Bari, le cozze tarantine e le specie lacustri del Gargano.

Biodiversità, cambiamento climatico, opportunità: la Regione Calabria a Genova

Al debutto a Slow Fish la Regione Calabria che si presenta con tavoli tematici, guidati da un esperto, nei quali il pubblico può approfondire i temi principali della manifestazione: la biodiversità e le nostre abitudini alimentari, il mare bene comune e cambiamento climatico, l’economia dei mari della regione e le opportunità frutto di una buona gestione delle risorse. In programma anche degustazioni e laboratori con chef e pescatori sulle ricette calabresi di mare e di terra.

Isole di Sicilia: i pescatori a tutela dell’ambiente

Punta tutto sul ruolo dei pescatori a tutela dell’ambiente la Sicilia, presente a Slow Fish in Piazza Caricamento e nella Cucina del Mercato con il progetto Sicilia Seafood, del Dipartimento della Pesca Mediterranea della Regione Siciliana, che ha l’obiettivo di promuovere e valorizzare i prodotti ittici che esprimono qualità, cultura e territorio, ottenuti con sistemi produttivi sostenibili sotto l’aspetto ecologico, ambientale e socioeconomico. Uno dei progetti più importanti da un punto di vista ambientale del GAC Isole di Sicilia riguarda infatti quasi la totalità dei pescatori artigianali delle isole (130 imbarcazioni dalle Eolie a Ustica, dalle Egadi a Pantelleria). Coinvolti direttamente in attività di monitoraggio, non solo di specie protette ma soprattutto di marine litter, i membri degli equipaggi hanno “pescato” oltre mille sacchi da 115 litri di materiale plastico, poi consegnato nei porti e correttamente smaltito. Nella Cucina del Mercato sono pescatori e artigiani a trasformare il pescato più fresco per il pubblico genovese. Pronti ad assaggiarlo? Segnatevi venerdì 10 alle 11 e sabato 11 alle 15,30, l’ingresso è libero!

La Casa Libera del Burro e il Salotto di Slow Food Liguria

Slow Food Liguria con i suoi appuntamenti contamina più aree della manifestazione raccontando protagonisti, prodotti e progetti di questa stupenda lingua di terra contesa tra mare e montagna, contaminazioni saline e aromi inconfondibili. Ed è nella Casa Libera del Burro, il grande spazio di sperimentazione gastronomica con cui Inalpi si presenta a Slow Fish 2019, che la Chiocciola ligure, una delle più antiche associazioni regionali di Slow Food in Italia, organizza un ricco programma dedicato ai Presìdi Slow Food e alle osterie del territorio con presentazioni di libri e incontri a tema, accompagnati da libere degustazioni. Nove portate, create dalla sapienza culinaria di cinque locali della guida alle Osterie di Slow Food Editore del capoluogo che si mettono in gioco con il gustoso condimento, per esaltare pescato del Mar Ligure e vegetali degli orti genovesi, per un menù da leccarsi i baffi! Qualche esempio? Rosmarino si presenta con il suo panino al burro di acciughe con borragine, palamita in scabecciu e giardiniera; l’agriturismo Il Castagneto prepara una vellutata di ortiche e patate con totanetti alla santoreggia e crostini di pane alle olive; l’osteria Da O Colla serve lo scucuzzu ai frutti di mare e il bisque di crostacei mantecato con burro al timo limone; il Mangiabuono fa della semplicità la sua bandiera con gli gnocchi di patate al pesto; mentre la Forchetta Curiosa chiude con uno sformatino di acciughe alla camoglina. Protagonisti di tutti i piatti sono il burro piemontese e il burro chiarificato ottenuti da panna di centrifuga da latte 100% piemontese della filiera corta e certificata Inalpi. Tra gli appuntamenti del salotto di Slow Food Liguria, il laboratorio di Gyotaku, una tecnica di stampa naturale, e oggi un’apprezzata forma d’arte, con cui i pescatori giapponesi fin dall’Ottocento registravano le loro catture, gli incontri con gli autori di libri dedicati alla cultura gastronomica ligure, come quello con Sergio Rossi che presenta l’edizione originale del volume di Emanuele Rossi, datato 1865, tra i più antichi ricettari della cucina ligure e il libro che la biologa Nadia Repetto dedica alle acciughe, il pesce più pescato al mondo e anche il più versatile per la conservazione, di cui poco ancora si sa. Infine, Slow Food Liguria anima l’aula didattica di Eataly Genova organizzando cinque appuntamenti tra degustazioni, con abbinamenti tra vini e prodotti ittici da Levante a Ponente, prove di manualità per i più piccoli, dimostrazioni sulla salagione delle acciughe, e vere e proprie lezioni per gli studenti su come costruire un menù di pesce che faccia bene all’ambiente e alla nostra salute.

Ecco il focus su Slow Food Liguria a Slow Fish: https://slowfish.slowfood.it/la-casa-libera-del-burro-slow-food-liguria/

Ma non finisce qui. Oltre ai chioschi regionali di Piazza Caricamento, tutta la manifestazione racconta i sapori e le tradizioni delle regioni italiane, dagli espositori del Mercato ai cuochi dell’Alleanza nelle Scuole di Cucina e agli chef degli Appuntamenti a Tavola, dai pescatori e produttori dei Laboratori del Gusto ai panettieri e pizzaioli della Fucina Pizza e Pane. E poi ancora le birre, i vini e persino i cocktail rispecchiamo la stupenda diversità che attraversa l’intero Stivale.

Buon viaggio!

Riappare il Califfo: una nuova fase di terrore?

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Può essere l’inizio di una nuova fase del terrore quella annunciata al mondo dal Califfo del deserto, Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’Isis, riapparso in un video dopo cinque anni di silenzio


 

 Esalta i suoi miliziani, minaccia vendetta per i suoi numerosi combattenti uccisi in Siria, lancia appelli a intensificare la guerra santa, gli attacchi contro i “crociati”, attentati e guerriglia, si compiace per le stragi nello Sri Lanka, per le operazioni a sud del Sahara e in Libia dove i suoi miliziani hanno attaccato la base aerea di Seba, nel sud-ovest, uccidendo nove soldati del generale Haftar. Tornato tra i vivi dalle macerie del Califfato levantino, non solo il Califfo è vivo nonostante sia stato dato più volte per morto ma rimane saldamente il capo indiscusso del gruppo jihadista. Nei covi dello Sri Lanka le bandiere nere dell’Isis, le uniformi militari, detonatori e bombe, come quelle delle stragi di Pasqua (253 morti) esplose nelle chiese e negli hotel di Colombo spuntano fuori un po’ ovunque con il sigillo di sangue dell’ex Stato islamico, che sconfitto militarmente nel teatro siro-iracheno, risorge come ideologia di morte nel nome di un islam violento e sanguinario. Si ramifica velocemente in altre aree asiatiche, dal Caucaso al Pakistan, dall’Afghanistan all’estremo oriente. Nessun Paese, islamico o occidentale che sia, può sentirsi sicuro e al riparo dalle minacce dei terroristi in grado di scatenare il panico nel cuore di qualsiasi città. Come è accaduto nella vecchia Ceylon dove una cellula dell’Isis, ben armata e ben addestrata, formata, secondo i servizi segreti, da almeno 130 jihadisti legati al califfo al-Baghdadi ha colpito in modo devastante l’isola dell’Oceano indiano. Sarebbero una trentina i cingalesi che hanno combattuto insieme ai miliziani dell’Isis in Siria e in Iraq. Kamikaze tornati in patria per continuare a colpire, uccidere e creare nuove cellule di terroristi seguendo gli ordini del Califfo. E neanche in Siria l’Isis è scomparso del tutto. Proprio alla vigilia di Pasqua 35 soldati siriani sono stati uccisi in una serie di scontri con i jihadisti di al Baghdadi nella provincia di Homs. Ma dopo i massacri di Pasqua altri kamikaze si sono immolati in Sri Lanka in nome del fanatismo religioso e decine di terroristi in fuga sono ricercati per una delle stragi di cristiani più sanguinose degli ultimi anni. Eccidi spaventosi per terrorizzare il mondo e cristiani scelti come bersaglio per la loro religione e anche perchè considerati colonialisti e oppressori per natura in quanto occidentali. Vittime di un odio arcaico, uccisi come i primi martiri dell’era cristiana. Lo Sri Lanka diventa terra di jihadisti da un giorno all’altro facendo risorgere l’estremismo islamico anche sulle sponde meridionali dell’Asia con una violenza ben superiore alle bombe che distrussero alla fine di gennaio la cattedrale cattolica di Jolo, nel sud-est delle Filippine, durante una funzione religiosa, in un attentato rivendicato dall’Isis (27 morti). La carneficina di Colombo è anche più sanguinosa dell’attacco avvenuto alla vigilia del Venerdì santo del 2015 in una scuola salesiana del Kenya quando un commando armato fece irruzione in un campus uccidendo 150 persone, in gran parte studenti cristiani che stavano dormendo. Poi i massacri a Lahore, in Pakistan, 72 morti il 28 marzo 2016, preceduti da quelli di Kaduna, in Nigeria, 50 morti nel 2012 ad opera dei terroristi di Boko Haram, e seguiti da quelli di Tanta e Alessandria in Egitto nella Domenica delle Palme del 2017 con 45 morti. Sono i più gravi massacri avvenuti negli anni recenti durante le funzioni religiose e nei giorni in cui i cristiani si riuniscono per celebrare la Settimana Santa. Le stragi di turisti negli alberghi di Colombo ricordano l’assalto armato a Mumbai nel 2008 con una serie sconvolgente di attacchi terroristici islamici (195 morti) avvenuti contemporaneamente nella città indiana e l’attacco terroristico in un ristorante di Dacca, capitale del Bangladesh, nell’estate 2016, quando furono uccise 23 persone tra cui nove italiani. L’Isis aveva armato e appoggiato il gruppo jihadista locale Jamaat-ul-Mujahideen e, anche in quel caso, alcuni dei terroristi appartenevano a famiglie agiate e benestanti come i kamikaze di Colombo. Per le autorità cingalesi gli autori dei massacri appartengono a un gruppo islamista isolano che voleva vendicarsi degli attacchi alle moschee in Nuova Zelanda, il National Tawheed Jamath (Ntj) che avrebbe agito col sostegno dell’Isis. In base ai dati raccolti dai rapporti sulla persecuzione anti-cristiana nel mondo pubblicati dalla Ong Open Doors (Porte Aperte) e dall’Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre) sono molte migliaia i cristiani uccisi per ragioni legate alla loro fede ogni anno. Oltre 4.300 nel 2018, in crescita rispetto ai 3.066 del 2017, di cui il maggior numero è stato registrato in Nigeria. Nel 2018 sono saliti a 245 milioni i cristiani perseguitati nel mondo e, sui 150 Paesi monitorati, 73 hanno mostrato un livello di persecuzione definibile alta, molto alta o estrema, mentre l’anno scorso erano 58. Tra i Paesi che rivelano una persecuzione definibile estrema, lo Sri Lanka è in 46° posizione, l’Afghanistan al secondo posto, la Somalia al terzo, la Libia al quarto, tutti Paesi dove la vita per i cristiani è sempre più difficile, come anche nel Burkina Faso dove si moltiplicano gli attacchi contro le comunità cristiane. Sei persone sono morte nei giorni scorsi in un attacco ad una chiesa mentre era in corso la Messa. Hocine Drouiche, imam di Nimes e vicepresidente della Conferenza degli imam di Francia chiede ai musulmani di ribellarsi alla cristianofobia e commenta con queste parole gli attentati in Sri Lanka: “ i cristiani continuano a subire persecuzioni e pagano il conto di guerre che non hanno mai chiesto. Il massacro terrorista in Sri Lanka è molto significativo. Nel mondo l’odio contro i cristiani continua ad aumentare nonostante essi difendano la pace, sostengano i poveri, si prendano cura dei malati. Ogni anno i cattolici spendono miliardi per salvare vite e costruire scuole per bambini bisognosi. É tempo che il mondo musulmano ponga domande sull’aumento della cristianofobia all’interno del discorso islamista contemporaneo. Il massacro di Colombo non è il primo e sfortunatamente non sarà l’ultimo perché le autorità musulmane non vogliono affrontare il pensiero terrorista estremista in modo coraggioso e fermo. I musulmani devono agire, se vogliono proteggere l’islam da questa minoranza estremista che uccide in nome dell’odio e infanga gli islamici. La maggioranza silenziosa non avrà scuse perché sarà accusata di complicità se non dichiara una guerra santa contro l’estremismo e l’odio che quasi domina il discorso degli imam e dei predicatori musulmani”.

dal settimanale “La Voce e il Tempo”

Mantova, aperte le iscrizioni alla Scuola di Palazzo Te

Sono aperte fino al 15 maggio 2019 le iscrizioni alla Scuola di Palazzo Te, il percorso di ricerca residenziale della Fondazione Palazzo Te dedicato alle arti e alla progettualità culturale, in programma nel periodo estivo a Palazzo Te
I programmi didattici 2019, articolati nei due moduli “Studiare Arte” e “Fare Arte”, sono aperti a studenti, professionisti e mediatori della cultura italiani ed internazionali. La mission della Scuola di Palazzo Te è di accrescere le capacità di azione, di pensiero e di sviluppo nel campo della produzione culturale contemporanea. L’intervento si concentra in particolare sulla relazione tra patrimonio, tradizione, linguaggi ereditati, cultura contemporanea e capacità di progetto, con l’intento di ispirare visione, nuove prospettive di ricerca, nuovi progetti culturali e formare alle capacità necessarie alla loro attuazione.
Studiare Arte
È un percorso residenziale di 5 giorni dal 17 al 21 giugno 2019. Organizzato in collaborazione con il Courtauld Institute of Art di Londra, il corso è dedicato agli studenti interessati a sviluppare le proprie competenze visive e analitiche attraverso il contatto diretto con un monumento complesso come Palazzo Te di Giulio Romano (1525-1535). Insieme al Prof. Guido Rebecchini, gli studenti spenderanno cinque giorni esplorando il Palazzo, con pieno accesso ai suoi spazi. Durante la residenza del gruppo a Mantova, gli studenti esamineranno in modo innovativo questa straordinaria villa cinquecentesca in cui architettura, pittura e scultura convivono e si relazionano in maniera profonda.  La classe sarà formata da circa 15 studenti, dottorandi di ricerca e studiosi.
Fare Arte
È un percorso residenziale di 9 giorni dal 25 giugno al 3 luglio 2019, quest’anno alla seconda edizione. Si terrà a Palazzo Te sotto la guida di tre esperti di arte contemporanea e produzioni culturali: Stefano ArientiMariangela Gualtieri e Stefano Baia Curioni. Il corso prevede 2 seminari monografici condotti dai due artisti, e una sessione comune pomeridiana sull’implementazione e lo sviluppo progettuale guidata dal Direttore della Fondazione Baia Curioni.
Il corso si rivolge a un gruppo di 35 artisti, operatori e mediatori culturali.

Stefanik, il ministro-astronomo-aviatore slovacco

Il 4 maggio del 1919, esattamente cento anni fa, un aereo italiano, Caproni 450, decollato poco dopo le 8 della stessa mattina dall’aeroporto friulano di Campoformido, nella fase di atterraggio aviosuperficie di Vainorj, vicino a Bratislava, in vista del castello e del campanili della città slovacca (diventata dal 1 gennaio 1993 capitale della Repubblica di Slovacchia, Stato aderente all’Unione Europea), dopo aver sorvolato il Danubio e compiuto un ampio giro sulla città si schiantava al suolo

I soccorritori non potevano fare altro che costatare il decesso immediato delle quattro persone a bordo: il tenente pilota Gioiotto Mancinelli Scotti, il sergente Umberto Merlin, il motorista Umberto Aggiusti, tutti in forza alla Regia Aviazione Italiana e Milan Ratislav Stefanik, ministro della Guerra della prima repubblica Cecoslovacca, oltre che astronomo ed aviatore provetto, naturalizzato francese e per il Paese d’Oltralpe aveva raggiunto il grado di generale proprio durante il conflitto mondiale. La sua figura in Italia, nonostante il legame che ebbe con il nostro Paese durante la ‘Grande Guerra’ non è abbastanza nota, anzi è caduta quasi nell’obblio, eppure fu lui l’animatore del progetto che prese corpo con la costituzione della Legione Czeco-Slovacca (come si diceva allora) che fu il primo vero embrione del futuro stato cecoslovacco nato sulle ceneri della dissoluzione dell’Impero Asburgico. Fu lui che il 6 marzo 1918, ricevuto da Vittorio Emanuele Orlando, il docente di diritto che divenne il ‘Presidente della Vittoria’ (poi buttata alle ortiche a Versailles) disse “Io non voglio nulla. Vi sciolgo da qualsiasi vincolo morale. Non vi domando altro, se non che la mia gente muoia per il suo ideale”. E Orlando ricordo che “In quel momento io ero il presidente del consiglio d’un grande stato di 36 milioni di liberi cittadini e davanti a me c’era un esule, un uomo ramingo senza casa, senza patria, ma in quel momento sentìì l’animo mio inchinarsi per riverenza di fronte a quell’uomo di tanta grandezza morale, da rappresentare la forza più potente che v’era al mondo: la forza dell’idea”. Stefanik era legato anche sentimentalmente ad un’italiana, la marchesina Giuliana Benzoni, nipote prediletta di Ferdinando Martini, il ‘letterato prestato alla politica’, già governatore dell’Eritrea e ministro regio delle Colonie. Di questo legame ne parla pure, sia pure sommariamente, Giovani Amendola in un suo libro di memorie, nel quale ricorda come l’amica Giuliana avesse perso il suo compagno per quel tragico indicente. La sua morte, nonostante i rapporti ufficiali, anche italiani, lo escludessero, generò da subito sospetti e teorie di complotti, complice il fatto che il neonato governo cecoslovacco di Tomas Masaryk impose il segreto di Stato. Negli anni vi è stato chi ha visto come una delle possibili teorie complottiste il fatto che Stefanik, slovacco di nascita ed etnia, avrebbe chiesto, in sintonia con il protocollo firmato da Masaryk il 30 maggio 1918, una maggiore autonomia per gli slovacchi. Ma è altrettanto vero che con Masaryk ebbe sempre vicinanza. Al di là di teorie che possono essere più o meno fondate, potrebbe essere interessante vedere cosa disse il Re d’Italia, Vttiorio Emanuele III all’ambasciatore dello Stato slovacco costituito nel 1939 al momento della presentazione delle credenziali. Si dice che il sovrano avrebbe pronunciato una frase del tipo ‘Eh, il vostro Stefanik, le cose non sarebbero andate come è stato scritto’. Ma anche questo è un indizio troppo labile, da verificare nei verbali del protocollo diplomatico. Il generale-ministro venne seppellito nel memoriale nazionale a lui dedicato (come oggi gli è dedicato l’aeroporto di Bratislava) sulla collina di Bradlo che ammirava nella casa paterna da ragazzo, nella regione di Trencin. Con lui sono sepolti Merlin ed Aggiusti mentre le spoglie di Mancinelli Soctti vennero riportate in Italia dalla famiglia. Tra le opere che parlano di lui in italiano ci sono ‘La vita ribelle. Le memorie di un’aristocratica italiana tra belle epoque e repubblica’, di Giuliana Benzoni, raccolte da Viva Tedesco (il Mulino, 1985), il bel libro ‘Banditi o eroi ? Milan Ratislav Stefanik e la Legione Ceco-Slovacca’ di Sergio Tazzer (Kellerman, 2013) e ‘Milan Ratislav Stefanik, un breve profilo biografico’ (Associazione Tre Venezie-Slovacchia, 1995) di Milan Durica. Ed è proprio a quest’ultimo autore che voglio dedicare due parole. Teologo e docente all’Università di Padova, rientrato nel 1998 a vivere nel Paese natio, sul quale vorrei soffermarmi. Fu un colloquio avuto con lui in un pomeriggio di fine agosto del 2003, nella sua casa di Bratislava, ad aprirmi gli occhi sulla grandezza del ministro-astronomo-aviatore slovacco e a lui devo l’interesse, dopo aver letto proprio il profilo che ne aveva tracciato nel suo libro e l’interesse nell’approfondirne la figura.

Massimo Iaretti

 
 

James Joyce, l’Ulisse e Trieste

 
 
La prima edizione venne stampata nella capitale francese da Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria “Shakespeare and Company”, uno dei principali centri della vita culturale parigina degli anni Venti, frequentato da artisti e romanzieri come Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald
 

Il 2 febbraio del 1922 cadeva di giovedì e a Parigi veniva pubblicato l’Ulisse, uno dei romanzi più importanti del Novecento e capolavoro del modernismo, scritto dall’irlandese James Joyce tra il 1914 e il 1921. Ad onore del vero, dal marzo 1919 al dicembre 1920, l’Ulisse uscì a puntate sulla rivista letteraria americana The Little Review, dedicata all’arte e alla letteratura sperimentale internazionale. Non senza suscitare clamori. Infatti, alcuni episodi vennero accusati di oscenità e indecenza, tanto che il romanzo fu bandito nel Regno Unito fino agli anni Trenta e lo stesso accadde anche negli Stati Uniti, finché nel 1933 un tribunale stabilì che il libro non era pornografico né osceno. La prima edizione venne stampata nella capitale francese da Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria “Shakespeare and Company”, uno dei principali centri della vita culturale parigina degli anni Venti, frequentato da artisti e romanzieri come Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Per risalire ad una edizione italiana bisogna invece arrivare al 1960 quando, per la prima volta, venne pubblicato da Mondadori nella collana della Medusa, diretta da Elio Vittorini. Il libro, piuttosto complesso e non esattamente di facile lettura, ambientato a Dublino, in Irlanda, racconta le vicende e il girovagare nella città di Leopold Bloom – una sorta di eroe moderno – in un’unica giornata, il 16 giugno del 1904. Giornata importante per l’autore che in  quella data conobbe la donna della sua vita, Nora Barnacle (divenuta ufficialmente sua moglie ventisette anni dopo,nel 1931).

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Insofferente al provincialismo bigotto di Dublino, Joyce lasciò la città nell’ottobre del 1904 con Nora. La città in cui James Joyce visse fino al 1919 (seppur con diverse interruzioni per soggiorni a Pola, Roma e in Irlanda)fu l’austera, elegante e mitteleuropea Trieste. Città di carattere del tutto particolare ( come la descrisse Umberto Saba: “Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace. Con gli occhi azzurri e le mani troppo grandi per regalare un fiore;come un amore, con gelosia”), affascinò l’irlandese Joyce. Durante il suo lungo  soggiorno triestino, oltre ad insegnare inglese alla Berlitz School, lo scrittore della “terra del trifoglio” completò la raccolta di racconti Gente di Dublino, pubblicando una seconda stesura della raccolta di poesie Musica da camera, scrisse il poema in prosa autobiografico Giacomo Joyce, ed iniziò, oltre al dramma Esuli, i primi tre capitoli del lavoro che gli diede fama internazionale: l’Ulisse, appunto. Dopo Trieste, Joyce visse per vent’anni a Parigi e morì in Svizzera, a Zurigo, a metà gennaio del 1941. A Trieste, oltre al museo a lui dedicato, si può ammirare la sua statua che si trova in uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano. Il monumento in bronzo, raffigura lo scrittore mentre cammina sul ponte, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “…la mia anima è a Trieste”. Alcune curiosità, tra le tante. Il 16 giugno è celebrato nelle maggiori città del mondo occidentale come “Bloomsday”. In occasione del centenario della giornata narrata nell’ Ulisse (il 16 giugno del 2004), a Dublino venne organizzato un pranzo per diecimila persone nella via principale. In Italia, a Genova, dal 2006 si celebra il “giorno di Bloom” con la lettura quasi integrale in italiano e brani in inglese dell’opera, dalle nove del mattino alla mezzanotte e in luoghi analoghi a quelli del romanzo. Chissà cosa ne penserebbe Joyce?!

Marco Travaglini

 

Con una mazza chiodata ferisce un transessuale

DALLA CAMPANIA
Un uomo è stato arrestato dai Carabinieri a Varcaturo (Napoli) con l’ accusa di atti persecutori e lesioni aggravate nei confronti di un transessuale e della sua compagna, una donna di 58 anni. L’aggressore trentenne  con un bastone di legno, che recava conficcati chiodi arrugginiti e’ riuscito a colpire il transessuale. Da un paio di mesi l’aggressore e la moglie avrebbero rivolto al transessuale ed alla sua convivente insulti e minacce verbali ed attraverso i “social”.

Orange-County. Paradiso di surfisti e skater

California dreaming… se sognate uno spicchio di paradiso soleggiato tutto l’anno, in cui sfidare le onde, skateare ed attivare la modalità divertimento assicurato, la meta è l’Orange County, (per popolazione seconda contea Californiana e quinta degli Stati Uniti d’America)

E’ al centro della Tech Coast, tra Los Angeles e San Diego (il confine col Messico è palpabile) e vanta alcune delle spiagge più cool d’America.
Chilometri e chilometri di sabbia frustati dalle onde dell’oceano Pacifico. Magari non c’è la famosa onda Hawayana Pipeline, ma anche qui i surfisti arrivano a frotte, si salutano col classico “Haloa” e poi via alla maniera di “Point Break” (film cult degli anni 90), cercando il punto di takeoff (l’attimo giusto in cui prendere il cavallone). Le spiagge dell’Orange County, oltre ad essere mete di veri e propri surf trip, di fatto, incarnano uno stile di vita. Il fitness impera: si corre, si cammina, si gioca a beach volley. E volendo più relax, si portano ombrelloni e sdraio da casa (concept agli antipodi di quello dei nostri litorali brulicanti di chioschi, stabilimenti balneari e masse di bagnanti). La scoperta delle spiagge più belle e gettonate dell’Orange County può partire dalla confinante Los Angeles che non è solo la mecca del cinema. La scalinata della Hollywood Highschool è infatti lo spot più ambito degli skater e sul suo corrimano hanno compiuto prodezze tutti i campioni della disciplina. Uno sport che in California sta appassionando anche le ragazzine, sempre più numerose nei contest, con spericolati trick (manovre). La spiaggia per eccellenza è quella di Santa Monica. Lunga circa 3miglia e mezzo, non ha bisogno di presentazione perché è l’esempio icona dei lidi californiani. Punto di riferimento il suo molo, animato da negozi, parco divertimenti e ristoranti. Al Pier, costruito nel 1909, si accede grazie ad una serie di ponti, passerelle e scale che lo collegano alla città; e dietro al molo c’è un’altra rampa di scale leggendaria per gli skater, il Santa Monica Triple Set. Invece, per mangiare tra mito cinematografico e american life style, la meta è il Bubba Gump Shrimps Co. (fa parte di una catena di ristoranti sparsi in più città USA). Qui tutto parla di Forrest Gump, con tantissimi cimeli del film ed ottimi gamberi declinati in tutte le portate possibili.
 
Huntintong Beach: soprannominata “Surf City” perché nei 14 chilometri della sua spiaggia si vola sulle onde con kite surf e surf, di cui ogni anno qui si disputa il campionato mondiale. Il petrolio racchiuso nelle falde marine è la principale risorsa, ma subito dopo nel bilancio c’è la voce turismo legato a questo sport. E intorno a tanta passione, shopping di alto livello, Resort di lusso, l’International Surfing Museum e il porto, con all’ancora parte della Flotta Militare Statunitense. Anche qui c’è un importante skatepark, punto di ritrovo per gli skater di tutto il mondo.
 
Laguna Beach: è stata il set della serie tv “O.C.” (The Real Orange County) un mix tra reality show e fiction che documentava la vita dei teenager del luogo (trasmessa da Mtv Italia dal 2004 al 2008). E’ soprattutto un centro ad alto tasso di creatività, con numerose gallerie ed il Festival of Art che ogni anno richiama il meglio di artisti e collezionisti. I residenti di Laguna Beach sono tra i più ricchi d’America e, tra i tanti Paperoni, qui ha casa anche la mamma di Leonardo di Caprio. Le ville sul mare -prezzo di partenza intorno ai 10 milioni di dollari- si sprecano, per lo più protette in comprensori con tanto di spiaggia privata.

Dana Point: è una delle 34 cittadine incorporate nella contea di Orange (area scoperta dagli spagnoli che nel 1776 vi eressero il primo insediamento europeo, la Missione di San Juan Capistrano). Ha uno dei pochi porti lungo la costa dell’Orange County, punto di partenza di mini crociere per ammirare balene e delfini. E’ un porto turistico, con negozi e ristoranti: consigliato l’ottimo menù a base di pesce dell’Harbour Grill Restaurant.Tra le sue spiagge la più bella è Strands Beach, una lunga lingua di sabbia sulla quale si affacciano ville miliardarie con piscine a sfioro… e costante sorveglianza di lifeguard.

E se surfisti e skater si infortunano?…Ecco dove sanare le ferite. Al South Coast Spine Center del Dr. David Sales, a Capistrano Beach. Clinica di eccellenza, prima al mondo specializzata in riabilitazione avanzata per surfisti, skater e snowbordisti che, tra una prodezza e l’altra, impattano con acqua, terra o neve. Tra chiropratica e biofisica, tecnologia e strumentazione all’avanguardia, integrazione con la pratica clinica e trattamenti estremamente specialistici, è qui che i campioni mondiali di questi sport estremi vengono rimessi in piedi e ricatapultati nell’agone sportivo. Ed imparano non solo a prevenire infortuni, ma anche a fare la giusta manutenzione del loro corpo sottoposto a stress decisamente fuori dal comune. Se poi volete immergervi ad oltranza nello spirito più profondo del surf …il libro da leggere è: William Finnegan “Giorni selvaggi: una vita sulle onde” (66Thand2Nd.) 25,00 Euro. L’autore -giornalista, scrittore e soprattutto appassionato di surf- con questo “memoir” ha vinto il Premio Pulitzer 2016. E nel libro c’è tutta la sua vita alla ricerca degli spot più famosi del mondo, spiagge dell’Orange County incluse.
 

Laura Goria


 
 

MIGRAZIONE: ACTIONAID, VIOLENZA DI GENERE SPINGE DONNE NIGERIANE NELLA RETE DELLA TRATTA

È la violenza di genere il fattore principale che spinge le donne nigeriane a lasciare il proprio Paese per raggiungere l’Italia, diventando vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un vero e proprio “fattore di espulsione” che relega la donna ai margini della società nigeriana fino a costringerla alla partenza. È quanto emerge dal rapporto “Mondi connessi. La migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e la sorte delle donne rimpatriate”, realizzato da ActionAid insieme a BeFree, cooperativa contro tratta, violenze e discriminazioni, analizzando 60 verbali di audizioni di donne nigeriane segnalate come presunte vittime di tratta presso la Commissione territoriale di Roma, tra il 2016 e il 2017, per il riconoscimento della protezione internazionale.

 

Nel 61% dei casi analizzati la ragione principale dell’espatrio è proprio la violenza di genere (tra cui violenza dentro e fuori le mura domestiche e tentativi di matrimonio forzato). Il 33,3% delle donne fugge da situazioni di estrema povertà. Nel 66% dei casi sono donne con un’età compresa tra i 19 e i 24 anni e il loro arrivo in Italia è molto recente (l’86,7%), tra il 2015 e il 2017. Nella quasi totalità provengono dallo Stato di Edo, dove la tratta è un fenomeno strutturale ed endemico dovuto alle condizioni economiche, politiche e socio-culturali.

 

Le differenze di genere divengono, spesso indipendentemente dai contesti, disuguaglianza di genere: essere donne significa avere meno potere, risorse più scarse, maggiori ostacoli nell’accesso all’istruzione, all’occupazione; all’essere donna è attribuito uno status di inferiorità, di mancanza, di disvalore – dichiara Livia Zoli, Responsabile dell’Unità Global Inequality & Migration di ActionAid – Per questi motivi, parlare di migrazione non è un fatto neutro. L’approccio di genere è indispensabile per comprendere le diverse forme di espulsione dalla società, sia nel contesto d’origine che in quello d’approdo. Questo è uno degli aspetti cruciali del rapporto: la tratta si configura come uno degli strumenti in mano al potere maschile nell’esercitare violenza, quale parte di un sistema di dominio basato sul genere, che rende la violenza contro donne e ragazze estremamente redditizia e contribuisce a sancire l’abuso strutturale dei diritti delle donne”.

 

La ricerca evidenzia dunque un complesso dispositivo di subordinazione di genere che si alimenta di violenza e di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale. Un sistema in cui l’emigrazione appare come una delle poche possibilità, se non la sola, di mobilità sociale per la componente femminile normalmente relegata ai margini o vittima di violenza di genere.

 

La tratta e lo sfruttamento sessuale delle giovani donne nigeriane sono drammaticamente aumentati negli ultimi anni in Italia. Secondo il rapporto dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nel 2016 le donne di nazionalità nigeriana sbarcate sulle nostre coste sono state 11.009 rispetto alle circa 5.000 del 2015 e le 1.500 del 2014. L’OIM stima che circa l’80% di queste ragazze sono potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, nel 2016 il 59,4% delle donne sopravvissute alla tratta inserite nei programmi di protezione sociale era nigeriano.

 

Il rapporto “Mondi connessi” si concentra anche sulla sorte delle donne rimpatriate in Nigeria dall’Italia e dall’Europa, con interviste a donne inserite nei due progetti condotti dal Committee for the Support of the Dignity of Woman (COSUDOW), sia a Lagos che a Benin City. Alcune, nonostante le difficoltà del contesto, sono parse soddisfatte dal rientro perché sono tornate a casa e perché si sono trovate in condizioni talmente difficili in Europa che il ritorno nel Paese di origine è vissuto come una decisione obbligata e non una scelta. Altre hanno dichiarato invece che vorrebbero tornare in Italia. In realtà, non esistono dati ufficiali sulle condizioni delle donne rimpatriate non intercettate dalle Ong attive nel Paese e, se si pensa che nel 2016 sono state deportate 198 persone nigeriane e 246 nel primo semestre 2017, si può affermare che la grande maggioranza non viene raggiunta da percorsi di reinserimento, è generalmente stigmatizzata e rischia di ricadere nella rete della tratta. La ricerca evidenzia che le donne rimpatriate, anche in caso dei cosiddetti rimpatri volontari e assistiti, vivono una doppia espulsione (in Italia e in Nigeria), che aggrava ulteriormente le condizioni di vulnerabilità che le aveva spinte a lasciare il proprio Paese. Subiscono quindi un’espulsione, innanzitutto di ordine burocratico e amministrativo, dalla nostra società, che mostra il fallimento del sistema italiano di accoglienza e protezione e che si somma all’allontanamento dalla comunità d’appartenenza in Nigeria per ragioni economiche, sociali, culturali ed individuali.

 

Inadeguatezza delle normative, insufficienza di posti nelle strutture protette, ricorso sistematico al rimpatrio, svilimento del “binario sociale” per l’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ai sensi dell’articolo 18 del Testo Unico sull’immigrazione a causa dell’esclusivo uso del binario giudiziario da parte delle Questure, concorrono a far sì che il sistema italiano non sia in grado di garantire la necessaria protezione e il rispetto dei diritti umani delle donne trafficate. E il quadro è evidentemente peggiorato con l’introduzione del Decreto Sicurezza. L’abrogazione della protezione umanitaria, il riassetto del sistema di accoglienza, il trattenimento legalizzato negli hotspot, le nuove procedure di frontiera e le norme ostative relative alle richieste di protezione reiterate sono alcuni degli aspetti del decreto che colpiscono anche le donne vittime o potenziali vittime di tratta.

 

Alla luce dei risultati emersi, ActionAid chiede a Governo e Parlamento italiani di applicare pienamente l’articolo 18, prevedendo inoltre una maggiore durata del permesso di soggiorno e rafforzando il sistema di protezione anti-tratta sostenuto dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio; aumentare la disponibilità alloggiativa per le  donne trafficate, aggiungendo la possibilità di accoglienza nel SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, ex-SPRAR) per le richiedenti asilo presunte o potenziali vittime di tratta; migliorare le procedure di identificazione, evitando rimpatri forzati. Secondo ActionAid è necessario in generale un cambio radicale del Decreto Sicurezza, per garantire alle donne migranti irregolari di rivolgersi agli enti giudiziari e alle forze dell’ordine senza il timore di essere detenute o rimpatriate; disporre la chiusura delle strutture di detenzione amministrativa e trattenimento dei migranti perché violano gravemente la Costituzione, le norme internazionali e la Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio degli stranieri in condizione di soggiorno irregolare; eliminare il criterio e la lista dei cosiddetti paesi sicuri; istituire un osservatorio che verifichi le condizioni di accoglienza riservate alle donne richiedenti asilo e titolari di protezione nelle diverse strutture, comprese quelle detentive.

A questo link https://drive.google.com/file/d/1xC2leh9Ju0TlcMhtg3iRqM92IDI-Okzh/view?usp=sharing il report completo.

Polveriera Nord Africa

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Sembra seduto su un vulcano in eruzione il nord Africa, dalla Libia all’Algeria. Sulla sponda sud del Mediterraneo solo l’Egitto sembra reggere l’urto dell’attacco terroristico e del vasto malcontento popolare. Con il pugno di ferro e con una repressione spietata

 La Libia è in guerra, l’Algeria senza presidente teme il contagio del caos libico mentre il Marocco osserva le crisi nordafricane preoccupato dalle vicende che scuotono Algeri. E tutto ciò a poche miglia di distanza dalle coste italiane ed europee. Centinaia di migliaia di persone continuano a manifestare nelle città algerine con alla testa i giovani che rappresentano il 60% della popolazione, assoluti protagonisti dei movimenti di protesta che hanno portato alle dimissioni del presidente Bouteflika. Le proteste sono continuate anche dopo le dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, al potere da vent’anni, e l’annuncio di nuove elezioni presidenziali previste per il 4 luglio. Si chiedono riforme radicali, democrazia, pluralismo politico e fine della corruzione dilagante. Non solo ma si pretendono anche le dimissioni del presidente ad interim Abdelkader Bensalah e del premier Noureddine Bedoui, ritenuti troppo vicini a Bouteflika. C’è di più perchè una parte delle opposizioni non vuole andare alle urne con l’attuale sistema politico per cui gli islamisti del Partito della Giustizia e dello sviluppo e al-Nahda hanno deciso di boicottare le elezioni presidenziali. Le proteste, per ora, sono pacifiche e controllate dall’esercito ma il timore generale è che le manifestazioni possano degenerare in violenza da un momento all’altro, come già accaduto nei Paesi limitrofi. Gli algerini conoscono bene gli orrori della guerra civile vissuta sulla propria pelle negli anni Novanta. Lo scontro tra lo Stato e i terroristi islamisti provocò quasi 150.000 morti e molti ricordano che nel 2001 il malcontento popolare esploso nella Cabilia berbera contro il caro vita fu duramente represso dai militari con un centinaio di morti e migliaia di feriti. Con la guerra libica a est e la tensione sempre viva con il Marocco sul versante occidentale l’Algeria del dopo Bouteflika si scopre più debole e più vulnerabile. Algeri guarda con preoccupazione al caos libico e al pericolo di infiltrazioni terroristiche nel suo territorio. Alle tensioni sul lato orientale si aggiungono quelle al confine ovest con il regno di Maometto VI. Da quasi mezzo secolo l’Algeria rivendica il Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, il cui territorio è stato occupato dal Marocco che deve fronteggiare la ribellione armata del Fronte Polisario creato e armato da Algeri. Si intrecciano così in modo drammatico le vicende delle due entità statali nordafricane, entrambe alla ricerca di riforme economiche e riconciliazione nazionale. Ma i veri pericoli si annidano proprio nella mancanza di stabilità e nel vuoto di potere. Sullo sfondo di un contesto regionale assai precario il grande incubo si chiama fondamentalismo religioso. Nel conflitto libico gli estremisti salafiti prevalgono nettamente nel fronte di al Sarraj ma sono presenti, pur in misura minore, anche in alcune brigate che appoggiano Haftar nell’assalto a Tripoli. In Algeria la Fratellanza musulmana cavalca sempre di più la protesta popolare contro il regime. Ciò significa che l’estremismo religioso e politico potrebbe un giorno andare al potere nelle due nazioni maghrebine. Siamo alla vigilia di una primavera islamista ad Algeri? La guerra libica contagia pericolosamente il Paese nord africano dove il nuovo stenta a decollare. Mentre il sistema politico resta saldamente nelle mani del regime e dell’esercito che controlla l’intero Paese dall’indipendenza nel 1962, l’opposizione è molto divisa lasciando così spazio ai movimenti estremisti e fondamentalisti. L’uscita di scena dell’ultraottantenne Bouteflika non ha placato la piazza che continua a chiedere la fine dell’attuale sistema di potere. Ma l’alternativa potrebbe essere peggiore e il caso dell’Egitto insegna. Mohammed Morsi, del partito islamista vicino ai Fratelli Musulmani vinse le elezioni presidenziali nel 2012, rimase in carica quasi un anno e poi fu deposto da colpo di Stato militare con il plauso dell’Occidente che non poteva consentire a un estremista islamico di trasformare il grande Paese del Nilo in un Stato confessionale retto dalla rigida applicazione della sharia, la legge coranica. Secondo analisti e osservatori del mondo arabo-maghrebino l’Algeria è a rischio infiltrazione di terroristi islamici provenienti dalla Libia e dal Mali come i seguaci di “al Qaeda nel Maghreb” (Aqim) e dell’Isis oltre ad altri gruppi radicali che combattono contro i governi locali nel Mali e in Ciad. La preoccupazione è diffusa anche tra i pochi cristiani presenti nel Paese (appena lo 0,2% , tra cui solo 8.000 cattolici, su 40 milioni di musulmani) per la presenza dell’Isis e di altri gruppi islamisti nella vicina Libia. L’Algeria è stata classificata dal Rapporto di “Open Doors” al 42° posto nella lista dei Paesi del mondo in cui è più difficile essere cristiani. Per evitare che la situazione in Algeria precipiti verso la destabilizzazione con un eventuale ritorno dei fondamentalisti islamici e del terrorismo diventa urgente lavorare per una transizione democratica con l’appoggio diplomatico della comunità internazionale e dell’Italia in particolare che deve essere pronta a svolgere un ruolo attivo nell’area. Dal gas alle migrazioni per noi italiani ci sono in ballo interessi vitali e nel caso di una crisi migratoria provocata da un possibile caos politico o per l’insorgere della minaccia terroristica ci troveremmo particolamente esposti per la vicinanza geografica. Le forniture di gas e petrolio dall’Algeria giungono regolarmente e non sono a rischio anche se la concitata Primavera algerina rischia di rallentare il rinnovo dei contratti energetici. Il tacito compromesso tra il governo nazionalista e laico di Bouteflika e i Fratelli Musulmani ha reso possibili vent’anni di stabilità dopo la lunga stagione del terrorismo. Ma la Fratellanza musulmana non ha mai rinunciato al potere e oggi alimenta la protesta popolare con l’obiettivo di conquistare il potere e insediare un regime fondamentalista sulla sponda meridionale del Mediterraneo sostenuto da Qatar e Turchia (gli stessi Paesi che appoggiano il governo di al Sarraj a Tripoli) e, dall’Algeria, destabilizzare l’intera regione nord africana.

dal settimanale “La Voce e il Tempo”

Tra i campi di grano di Auvers sur Oise…

Il 29 luglio 1890 Vincent Van Gogh si spegneva nella piccola camera dell’Auberge Ravoux che aveva raffigurato più volte nei suoi quadri durante i mesi trascorsi ad Auvers sur Oise, comune francese situato nel dipartimento della Val d’Oise, nella regione dell’Ile de France.
Oggi, a distanza di 128 anni dal suicidio del grande artista olandese, tutto ad Auvers sur Oise continua a parlare degli ultimi mesi della vita tragica e intensa di Vincent, il genio visionario che stravolse l’arte e che riuscì, in pochi anni, a passare dalle cupe atmosfere fiamminghe dei “Mangiatori di patate” ai gialli intensi dell’abbacinante Provenza, dai paesaggi di chiara influenza impressionista ai rami di mandorlo in fiore che richiamano le stampe giapponesi, dono per un altro Vincent, il piccolo figlio dell’amato fratello Theo, fino all’ultimo quadro, il lascito testamentario, “Campo di grano con volo di corvi” dipinto poco prima di spararsi.

Fu Paul Gachet, medico, pittore dilettante e appassionato collezionista, a far conoscere all’artista di Zundert Groot, Auvers sur Oise, località dove possedeva una casa e dove avrebbe potuto aiutarlo a riprendere una vita normale dopo il periodo di internamento nel manicomio di Saint Remy a seguito del taglio dell’orecchio.
Van Gogh rimase colpito dalla bellezza bucolica della cittadina sull’Oise e andò ad alloggiare dai Ravoux, una famiglia che gestiva un albergo di fronte al municipio, con la quale si accordò per occupare una piccola stanza e consumare i pasti nella sala al piano terreno.
Il suo soggiorno durò dal mese di maggio fino al 29 luglio del 1890, giorno della sua morte.

***

In questi mesi, Van Gogh dipinse in un modo frenetico e disperato che può essere perfettamente descritto da una frase contenuta nell’ultima lettera al fratello Theo che non potè mai spedire e che gli venne trovata in una tasca della giacca che indossava il giorno del suicidio: “…Per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e la ragione vi è naufragata a metà”. Del resto l’arte era stata la sua unica ragione di vita e Vincent sembrava sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo rivolto lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi, come se il Pigmalione Vincent vi avesse trasfuso la sua stessa essenza e la sua stessa ragione, dove le sedie vuote diventano persone e le persone simboli di qualcosa di più alto, della disperazione, della malinconia, del dolore, un mondo che soltanto lui poteva vedere, che soltanto le sue tele potevano rappresentare con una forza devastante.

L’arte, dopo aver preteso metà della ragione arrivava a chiedere a Van Gogh l’estremo sacrificio e il perdere la vita non era più soltanto un rischio, ma una necessità ineluttabile. Perché l’arte potesse sopravvivere, l’uomo, l’artista doveva scomparire.

***

Nel 1889 Van Gogh si chiedeva “Perché i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.
Il viaggiatore che si reca ad Auvers sur Oise si trova, in modo naturale e spontaneo, a percorrere la via dolorosa dell’artista: esce dall’auberge Ravoux, si immerge nei boschi, costeggia la vecchia chiesa, resa immortale dall’“immagine in cui la costruzione sembra viola contro un cielo blu scuro, cobalto puro” e in cui “le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato”, e i campi ancora coltivati a grano, raggiunge le tre strade raffigurate in “Campo di grano con volo di corvi”, poi, lentamente, entra nel piccolo camposanto di campagna.

In questo luogo di pace, in un angolo, contro il muro grigio, ci sono due tombe unite dall’edera, due lapidi di pietra grezza. Su una è inciso: “Ici repose Vincent Van Gogh, 1854-1890”, sull’altra “Ici repose Theodore Van Gogh, 1857 – 1891”. I due fratelli che si sono adorati in vita e che la morte ha potuto separare soltanto per pochi mesi, riposano qui, tra i campi di grano di quest’angolo remoto di Francia dove forse hanno raggiunto la pace ricercata e mai trovata nelle loro brevi esistenze.

Barbara Castellaro