Dall Italia e dal Mondo- Pagina 25

Con una mazza chiodata ferisce un transessuale

DALLA CAMPANIA
Un uomo è stato arrestato dai Carabinieri a Varcaturo (Napoli) con l’ accusa di atti persecutori e lesioni aggravate nei confronti di un transessuale e della sua compagna, una donna di 58 anni. L’aggressore trentenne  con un bastone di legno, che recava conficcati chiodi arrugginiti e’ riuscito a colpire il transessuale. Da un paio di mesi l’aggressore e la moglie avrebbero rivolto al transessuale ed alla sua convivente insulti e minacce verbali ed attraverso i “social”.

Orange-County. Paradiso di surfisti e skater

California dreaming… se sognate uno spicchio di paradiso soleggiato tutto l’anno, in cui sfidare le onde, skateare ed attivare la modalità divertimento assicurato, la meta è l’Orange County, (per popolazione seconda contea Californiana e quinta degli Stati Uniti d’America)

E’ al centro della Tech Coast, tra Los Angeles e San Diego (il confine col Messico è palpabile) e vanta alcune delle spiagge più cool d’America.
Chilometri e chilometri di sabbia frustati dalle onde dell’oceano Pacifico. Magari non c’è la famosa onda Hawayana Pipeline, ma anche qui i surfisti arrivano a frotte, si salutano col classico “Haloa” e poi via alla maniera di “Point Break” (film cult degli anni 90), cercando il punto di takeoff (l’attimo giusto in cui prendere il cavallone). Le spiagge dell’Orange County, oltre ad essere mete di veri e propri surf trip, di fatto, incarnano uno stile di vita. Il fitness impera: si corre, si cammina, si gioca a beach volley. E volendo più relax, si portano ombrelloni e sdraio da casa (concept agli antipodi di quello dei nostri litorali brulicanti di chioschi, stabilimenti balneari e masse di bagnanti). La scoperta delle spiagge più belle e gettonate dell’Orange County può partire dalla confinante Los Angeles che non è solo la mecca del cinema. La scalinata della Hollywood Highschool è infatti lo spot più ambito degli skater e sul suo corrimano hanno compiuto prodezze tutti i campioni della disciplina. Uno sport che in California sta appassionando anche le ragazzine, sempre più numerose nei contest, con spericolati trick (manovre). La spiaggia per eccellenza è quella di Santa Monica. Lunga circa 3miglia e mezzo, non ha bisogno di presentazione perché è l’esempio icona dei lidi californiani. Punto di riferimento il suo molo, animato da negozi, parco divertimenti e ristoranti. Al Pier, costruito nel 1909, si accede grazie ad una serie di ponti, passerelle e scale che lo collegano alla città; e dietro al molo c’è un’altra rampa di scale leggendaria per gli skater, il Santa Monica Triple Set. Invece, per mangiare tra mito cinematografico e american life style, la meta è il Bubba Gump Shrimps Co. (fa parte di una catena di ristoranti sparsi in più città USA). Qui tutto parla di Forrest Gump, con tantissimi cimeli del film ed ottimi gamberi declinati in tutte le portate possibili.
 
Huntintong Beach: soprannominata “Surf City” perché nei 14 chilometri della sua spiaggia si vola sulle onde con kite surf e surf, di cui ogni anno qui si disputa il campionato mondiale. Il petrolio racchiuso nelle falde marine è la principale risorsa, ma subito dopo nel bilancio c’è la voce turismo legato a questo sport. E intorno a tanta passione, shopping di alto livello, Resort di lusso, l’International Surfing Museum e il porto, con all’ancora parte della Flotta Militare Statunitense. Anche qui c’è un importante skatepark, punto di ritrovo per gli skater di tutto il mondo.
 
Laguna Beach: è stata il set della serie tv “O.C.” (The Real Orange County) un mix tra reality show e fiction che documentava la vita dei teenager del luogo (trasmessa da Mtv Italia dal 2004 al 2008). E’ soprattutto un centro ad alto tasso di creatività, con numerose gallerie ed il Festival of Art che ogni anno richiama il meglio di artisti e collezionisti. I residenti di Laguna Beach sono tra i più ricchi d’America e, tra i tanti Paperoni, qui ha casa anche la mamma di Leonardo di Caprio. Le ville sul mare -prezzo di partenza intorno ai 10 milioni di dollari- si sprecano, per lo più protette in comprensori con tanto di spiaggia privata.

Dana Point: è una delle 34 cittadine incorporate nella contea di Orange (area scoperta dagli spagnoli che nel 1776 vi eressero il primo insediamento europeo, la Missione di San Juan Capistrano). Ha uno dei pochi porti lungo la costa dell’Orange County, punto di partenza di mini crociere per ammirare balene e delfini. E’ un porto turistico, con negozi e ristoranti: consigliato l’ottimo menù a base di pesce dell’Harbour Grill Restaurant.Tra le sue spiagge la più bella è Strands Beach, una lunga lingua di sabbia sulla quale si affacciano ville miliardarie con piscine a sfioro… e costante sorveglianza di lifeguard.

E se surfisti e skater si infortunano?…Ecco dove sanare le ferite. Al South Coast Spine Center del Dr. David Sales, a Capistrano Beach. Clinica di eccellenza, prima al mondo specializzata in riabilitazione avanzata per surfisti, skater e snowbordisti che, tra una prodezza e l’altra, impattano con acqua, terra o neve. Tra chiropratica e biofisica, tecnologia e strumentazione all’avanguardia, integrazione con la pratica clinica e trattamenti estremamente specialistici, è qui che i campioni mondiali di questi sport estremi vengono rimessi in piedi e ricatapultati nell’agone sportivo. Ed imparano non solo a prevenire infortuni, ma anche a fare la giusta manutenzione del loro corpo sottoposto a stress decisamente fuori dal comune. Se poi volete immergervi ad oltranza nello spirito più profondo del surf …il libro da leggere è: William Finnegan “Giorni selvaggi: una vita sulle onde” (66Thand2Nd.) 25,00 Euro. L’autore -giornalista, scrittore e soprattutto appassionato di surf- con questo “memoir” ha vinto il Premio Pulitzer 2016. E nel libro c’è tutta la sua vita alla ricerca degli spot più famosi del mondo, spiagge dell’Orange County incluse.
 

Laura Goria


 
 

MIGRAZIONE: ACTIONAID, VIOLENZA DI GENERE SPINGE DONNE NIGERIANE NELLA RETE DELLA TRATTA

È la violenza di genere il fattore principale che spinge le donne nigeriane a lasciare il proprio Paese per raggiungere l’Italia, diventando vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un vero e proprio “fattore di espulsione” che relega la donna ai margini della società nigeriana fino a costringerla alla partenza. È quanto emerge dal rapporto “Mondi connessi. La migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e la sorte delle donne rimpatriate”, realizzato da ActionAid insieme a BeFree, cooperativa contro tratta, violenze e discriminazioni, analizzando 60 verbali di audizioni di donne nigeriane segnalate come presunte vittime di tratta presso la Commissione territoriale di Roma, tra il 2016 e il 2017, per il riconoscimento della protezione internazionale.

 

Nel 61% dei casi analizzati la ragione principale dell’espatrio è proprio la violenza di genere (tra cui violenza dentro e fuori le mura domestiche e tentativi di matrimonio forzato). Il 33,3% delle donne fugge da situazioni di estrema povertà. Nel 66% dei casi sono donne con un’età compresa tra i 19 e i 24 anni e il loro arrivo in Italia è molto recente (l’86,7%), tra il 2015 e il 2017. Nella quasi totalità provengono dallo Stato di Edo, dove la tratta è un fenomeno strutturale ed endemico dovuto alle condizioni economiche, politiche e socio-culturali.

 

Le differenze di genere divengono, spesso indipendentemente dai contesti, disuguaglianza di genere: essere donne significa avere meno potere, risorse più scarse, maggiori ostacoli nell’accesso all’istruzione, all’occupazione; all’essere donna è attribuito uno status di inferiorità, di mancanza, di disvalore – dichiara Livia Zoli, Responsabile dell’Unità Global Inequality & Migration di ActionAid – Per questi motivi, parlare di migrazione non è un fatto neutro. L’approccio di genere è indispensabile per comprendere le diverse forme di espulsione dalla società, sia nel contesto d’origine che in quello d’approdo. Questo è uno degli aspetti cruciali del rapporto: la tratta si configura come uno degli strumenti in mano al potere maschile nell’esercitare violenza, quale parte di un sistema di dominio basato sul genere, che rende la violenza contro donne e ragazze estremamente redditizia e contribuisce a sancire l’abuso strutturale dei diritti delle donne”.

 

La ricerca evidenzia dunque un complesso dispositivo di subordinazione di genere che si alimenta di violenza e di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale. Un sistema in cui l’emigrazione appare come una delle poche possibilità, se non la sola, di mobilità sociale per la componente femminile normalmente relegata ai margini o vittima di violenza di genere.

 

La tratta e lo sfruttamento sessuale delle giovani donne nigeriane sono drammaticamente aumentati negli ultimi anni in Italia. Secondo il rapporto dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nel 2016 le donne di nazionalità nigeriana sbarcate sulle nostre coste sono state 11.009 rispetto alle circa 5.000 del 2015 e le 1.500 del 2014. L’OIM stima che circa l’80% di queste ragazze sono potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, nel 2016 il 59,4% delle donne sopravvissute alla tratta inserite nei programmi di protezione sociale era nigeriano.

 

Il rapporto “Mondi connessi” si concentra anche sulla sorte delle donne rimpatriate in Nigeria dall’Italia e dall’Europa, con interviste a donne inserite nei due progetti condotti dal Committee for the Support of the Dignity of Woman (COSUDOW), sia a Lagos che a Benin City. Alcune, nonostante le difficoltà del contesto, sono parse soddisfatte dal rientro perché sono tornate a casa e perché si sono trovate in condizioni talmente difficili in Europa che il ritorno nel Paese di origine è vissuto come una decisione obbligata e non una scelta. Altre hanno dichiarato invece che vorrebbero tornare in Italia. In realtà, non esistono dati ufficiali sulle condizioni delle donne rimpatriate non intercettate dalle Ong attive nel Paese e, se si pensa che nel 2016 sono state deportate 198 persone nigeriane e 246 nel primo semestre 2017, si può affermare che la grande maggioranza non viene raggiunta da percorsi di reinserimento, è generalmente stigmatizzata e rischia di ricadere nella rete della tratta. La ricerca evidenzia che le donne rimpatriate, anche in caso dei cosiddetti rimpatri volontari e assistiti, vivono una doppia espulsione (in Italia e in Nigeria), che aggrava ulteriormente le condizioni di vulnerabilità che le aveva spinte a lasciare il proprio Paese. Subiscono quindi un’espulsione, innanzitutto di ordine burocratico e amministrativo, dalla nostra società, che mostra il fallimento del sistema italiano di accoglienza e protezione e che si somma all’allontanamento dalla comunità d’appartenenza in Nigeria per ragioni economiche, sociali, culturali ed individuali.

 

Inadeguatezza delle normative, insufficienza di posti nelle strutture protette, ricorso sistematico al rimpatrio, svilimento del “binario sociale” per l’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ai sensi dell’articolo 18 del Testo Unico sull’immigrazione a causa dell’esclusivo uso del binario giudiziario da parte delle Questure, concorrono a far sì che il sistema italiano non sia in grado di garantire la necessaria protezione e il rispetto dei diritti umani delle donne trafficate. E il quadro è evidentemente peggiorato con l’introduzione del Decreto Sicurezza. L’abrogazione della protezione umanitaria, il riassetto del sistema di accoglienza, il trattenimento legalizzato negli hotspot, le nuove procedure di frontiera e le norme ostative relative alle richieste di protezione reiterate sono alcuni degli aspetti del decreto che colpiscono anche le donne vittime o potenziali vittime di tratta.

 

Alla luce dei risultati emersi, ActionAid chiede a Governo e Parlamento italiani di applicare pienamente l’articolo 18, prevedendo inoltre una maggiore durata del permesso di soggiorno e rafforzando il sistema di protezione anti-tratta sostenuto dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio; aumentare la disponibilità alloggiativa per le  donne trafficate, aggiungendo la possibilità di accoglienza nel SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, ex-SPRAR) per le richiedenti asilo presunte o potenziali vittime di tratta; migliorare le procedure di identificazione, evitando rimpatri forzati. Secondo ActionAid è necessario in generale un cambio radicale del Decreto Sicurezza, per garantire alle donne migranti irregolari di rivolgersi agli enti giudiziari e alle forze dell’ordine senza il timore di essere detenute o rimpatriate; disporre la chiusura delle strutture di detenzione amministrativa e trattenimento dei migranti perché violano gravemente la Costituzione, le norme internazionali e la Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio degli stranieri in condizione di soggiorno irregolare; eliminare il criterio e la lista dei cosiddetti paesi sicuri; istituire un osservatorio che verifichi le condizioni di accoglienza riservate alle donne richiedenti asilo e titolari di protezione nelle diverse strutture, comprese quelle detentive.

A questo link https://drive.google.com/file/d/1xC2leh9Ju0TlcMhtg3iRqM92IDI-Okzh/view?usp=sharing il report completo.

Polveriera Nord Africa

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Sembra seduto su un vulcano in eruzione il nord Africa, dalla Libia all’Algeria. Sulla sponda sud del Mediterraneo solo l’Egitto sembra reggere l’urto dell’attacco terroristico e del vasto malcontento popolare. Con il pugno di ferro e con una repressione spietata

 La Libia è in guerra, l’Algeria senza presidente teme il contagio del caos libico mentre il Marocco osserva le crisi nordafricane preoccupato dalle vicende che scuotono Algeri. E tutto ciò a poche miglia di distanza dalle coste italiane ed europee. Centinaia di migliaia di persone continuano a manifestare nelle città algerine con alla testa i giovani che rappresentano il 60% della popolazione, assoluti protagonisti dei movimenti di protesta che hanno portato alle dimissioni del presidente Bouteflika. Le proteste sono continuate anche dopo le dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, al potere da vent’anni, e l’annuncio di nuove elezioni presidenziali previste per il 4 luglio. Si chiedono riforme radicali, democrazia, pluralismo politico e fine della corruzione dilagante. Non solo ma si pretendono anche le dimissioni del presidente ad interim Abdelkader Bensalah e del premier Noureddine Bedoui, ritenuti troppo vicini a Bouteflika. C’è di più perchè una parte delle opposizioni non vuole andare alle urne con l’attuale sistema politico per cui gli islamisti del Partito della Giustizia e dello sviluppo e al-Nahda hanno deciso di boicottare le elezioni presidenziali. Le proteste, per ora, sono pacifiche e controllate dall’esercito ma il timore generale è che le manifestazioni possano degenerare in violenza da un momento all’altro, come già accaduto nei Paesi limitrofi. Gli algerini conoscono bene gli orrori della guerra civile vissuta sulla propria pelle negli anni Novanta. Lo scontro tra lo Stato e i terroristi islamisti provocò quasi 150.000 morti e molti ricordano che nel 2001 il malcontento popolare esploso nella Cabilia berbera contro il caro vita fu duramente represso dai militari con un centinaio di morti e migliaia di feriti. Con la guerra libica a est e la tensione sempre viva con il Marocco sul versante occidentale l’Algeria del dopo Bouteflika si scopre più debole e più vulnerabile. Algeri guarda con preoccupazione al caos libico e al pericolo di infiltrazioni terroristiche nel suo territorio. Alle tensioni sul lato orientale si aggiungono quelle al confine ovest con il regno di Maometto VI. Da quasi mezzo secolo l’Algeria rivendica il Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, il cui territorio è stato occupato dal Marocco che deve fronteggiare la ribellione armata del Fronte Polisario creato e armato da Algeri. Si intrecciano così in modo drammatico le vicende delle due entità statali nordafricane, entrambe alla ricerca di riforme economiche e riconciliazione nazionale. Ma i veri pericoli si annidano proprio nella mancanza di stabilità e nel vuoto di potere. Sullo sfondo di un contesto regionale assai precario il grande incubo si chiama fondamentalismo religioso. Nel conflitto libico gli estremisti salafiti prevalgono nettamente nel fronte di al Sarraj ma sono presenti, pur in misura minore, anche in alcune brigate che appoggiano Haftar nell’assalto a Tripoli. In Algeria la Fratellanza musulmana cavalca sempre di più la protesta popolare contro il regime. Ciò significa che l’estremismo religioso e politico potrebbe un giorno andare al potere nelle due nazioni maghrebine. Siamo alla vigilia di una primavera islamista ad Algeri? La guerra libica contagia pericolosamente il Paese nord africano dove il nuovo stenta a decollare. Mentre il sistema politico resta saldamente nelle mani del regime e dell’esercito che controlla l’intero Paese dall’indipendenza nel 1962, l’opposizione è molto divisa lasciando così spazio ai movimenti estremisti e fondamentalisti. L’uscita di scena dell’ultraottantenne Bouteflika non ha placato la piazza che continua a chiedere la fine dell’attuale sistema di potere. Ma l’alternativa potrebbe essere peggiore e il caso dell’Egitto insegna. Mohammed Morsi, del partito islamista vicino ai Fratelli Musulmani vinse le elezioni presidenziali nel 2012, rimase in carica quasi un anno e poi fu deposto da colpo di Stato militare con il plauso dell’Occidente che non poteva consentire a un estremista islamico di trasformare il grande Paese del Nilo in un Stato confessionale retto dalla rigida applicazione della sharia, la legge coranica. Secondo analisti e osservatori del mondo arabo-maghrebino l’Algeria è a rischio infiltrazione di terroristi islamici provenienti dalla Libia e dal Mali come i seguaci di “al Qaeda nel Maghreb” (Aqim) e dell’Isis oltre ad altri gruppi radicali che combattono contro i governi locali nel Mali e in Ciad. La preoccupazione è diffusa anche tra i pochi cristiani presenti nel Paese (appena lo 0,2% , tra cui solo 8.000 cattolici, su 40 milioni di musulmani) per la presenza dell’Isis e di altri gruppi islamisti nella vicina Libia. L’Algeria è stata classificata dal Rapporto di “Open Doors” al 42° posto nella lista dei Paesi del mondo in cui è più difficile essere cristiani. Per evitare che la situazione in Algeria precipiti verso la destabilizzazione con un eventuale ritorno dei fondamentalisti islamici e del terrorismo diventa urgente lavorare per una transizione democratica con l’appoggio diplomatico della comunità internazionale e dell’Italia in particolare che deve essere pronta a svolgere un ruolo attivo nell’area. Dal gas alle migrazioni per noi italiani ci sono in ballo interessi vitali e nel caso di una crisi migratoria provocata da un possibile caos politico o per l’insorgere della minaccia terroristica ci troveremmo particolamente esposti per la vicinanza geografica. Le forniture di gas e petrolio dall’Algeria giungono regolarmente e non sono a rischio anche se la concitata Primavera algerina rischia di rallentare il rinnovo dei contratti energetici. Il tacito compromesso tra il governo nazionalista e laico di Bouteflika e i Fratelli Musulmani ha reso possibili vent’anni di stabilità dopo la lunga stagione del terrorismo. Ma la Fratellanza musulmana non ha mai rinunciato al potere e oggi alimenta la protesta popolare con l’obiettivo di conquistare il potere e insediare un regime fondamentalista sulla sponda meridionale del Mediterraneo sostenuto da Qatar e Turchia (gli stessi Paesi che appoggiano il governo di al Sarraj a Tripoli) e, dall’Algeria, destabilizzare l’intera regione nord africana.

dal settimanale “La Voce e il Tempo”

Tra i campi di grano di Auvers sur Oise…

Il 29 luglio 1890 Vincent Van Gogh si spegneva nella piccola camera dell’Auberge Ravoux che aveva raffigurato più volte nei suoi quadri durante i mesi trascorsi ad Auvers sur Oise, comune francese situato nel dipartimento della Val d’Oise, nella regione dell’Ile de France.
Oggi, a distanza di 128 anni dal suicidio del grande artista olandese, tutto ad Auvers sur Oise continua a parlare degli ultimi mesi della vita tragica e intensa di Vincent, il genio visionario che stravolse l’arte e che riuscì, in pochi anni, a passare dalle cupe atmosfere fiamminghe dei “Mangiatori di patate” ai gialli intensi dell’abbacinante Provenza, dai paesaggi di chiara influenza impressionista ai rami di mandorlo in fiore che richiamano le stampe giapponesi, dono per un altro Vincent, il piccolo figlio dell’amato fratello Theo, fino all’ultimo quadro, il lascito testamentario, “Campo di grano con volo di corvi” dipinto poco prima di spararsi.

Fu Paul Gachet, medico, pittore dilettante e appassionato collezionista, a far conoscere all’artista di Zundert Groot, Auvers sur Oise, località dove possedeva una casa e dove avrebbe potuto aiutarlo a riprendere una vita normale dopo il periodo di internamento nel manicomio di Saint Remy a seguito del taglio dell’orecchio.
Van Gogh rimase colpito dalla bellezza bucolica della cittadina sull’Oise e andò ad alloggiare dai Ravoux, una famiglia che gestiva un albergo di fronte al municipio, con la quale si accordò per occupare una piccola stanza e consumare i pasti nella sala al piano terreno.
Il suo soggiorno durò dal mese di maggio fino al 29 luglio del 1890, giorno della sua morte.

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In questi mesi, Van Gogh dipinse in un modo frenetico e disperato che può essere perfettamente descritto da una frase contenuta nell’ultima lettera al fratello Theo che non potè mai spedire e che gli venne trovata in una tasca della giacca che indossava il giorno del suicidio: “…Per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e la ragione vi è naufragata a metà”. Del resto l’arte era stata la sua unica ragione di vita e Vincent sembrava sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo rivolto lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi, come se il Pigmalione Vincent vi avesse trasfuso la sua stessa essenza e la sua stessa ragione, dove le sedie vuote diventano persone e le persone simboli di qualcosa di più alto, della disperazione, della malinconia, del dolore, un mondo che soltanto lui poteva vedere, che soltanto le sue tele potevano rappresentare con una forza devastante.

L’arte, dopo aver preteso metà della ragione arrivava a chiedere a Van Gogh l’estremo sacrificio e il perdere la vita non era più soltanto un rischio, ma una necessità ineluttabile. Perché l’arte potesse sopravvivere, l’uomo, l’artista doveva scomparire.

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Nel 1889 Van Gogh si chiedeva “Perché i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.
Il viaggiatore che si reca ad Auvers sur Oise si trova, in modo naturale e spontaneo, a percorrere la via dolorosa dell’artista: esce dall’auberge Ravoux, si immerge nei boschi, costeggia la vecchia chiesa, resa immortale dall’“immagine in cui la costruzione sembra viola contro un cielo blu scuro, cobalto puro” e in cui “le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato”, e i campi ancora coltivati a grano, raggiunge le tre strade raffigurate in “Campo di grano con volo di corvi”, poi, lentamente, entra nel piccolo camposanto di campagna.

In questo luogo di pace, in un angolo, contro il muro grigio, ci sono due tombe unite dall’edera, due lapidi di pietra grezza. Su una è inciso: “Ici repose Vincent Van Gogh, 1854-1890”, sull’altra “Ici repose Theodore Van Gogh, 1857 – 1891”. I due fratelli che si sono adorati in vita e che la morte ha potuto separare soltanto per pochi mesi, riposano qui, tra i campi di grano di quest’angolo remoto di Francia dove forse hanno raggiunto la pace ricercata e mai trovata nelle loro brevi esistenze.

Barbara Castellaro

 

A Montparnasse dove riposano poeti, scrittori e artisti

Visitare i cimiteri dove sono sepolti grandi poeti, scrittori e artisti suscita ricordi ed emozioni. Uno dei più importanti è senz’altro il  “cimetìere du Sud” di Parigi,  il grande camposanto di Montparnasse, secondo per grandezza e importanza solo al Père-Lachaise. Situato nel XIV arrondissement della capitale francese, sulla rive gauche della Senna, un tempo era un terreno agricolo occupato da tre fattorie appartenenti a istituzioni caritatevoli come l’Hotel Dieu e Les Frères de la Charité. Già ai tempi della Rivoluzione francese gli appezzamenti vennero confiscati e a Montparnasse cominciarono ad essere seppelliti i poveri morti negli ospedali dei quali nessuno reclamava le spoglie. Successivamente, all’inizio del 1800, il prefetto del dipartimento della Senna, Nicolas Frochot, acquisì questi terreni per destinarli al cimitero e la prima inumazione ebbe luogo il 25 luglio 1824. Sul finire del “secolo del cambiamento”, nel 1890, venne aperta una strada ( la rueEmile-Richard) che divise i 19 ettari tra il piccolo e il grande camposanto. In questo museo a cielo aperto nel 14° arrondissement parigino, a lato dei viali tra cappelle e lapidi riposano le spoglie di anonimi cittadini a fianco di personaggi che hanno fatto la storia delle arti e della cultura. Per raccontare le biografie di chi s’incontra, vagando tra le tombe, non ci si può affidare ai 140 caratteri di un tweet. Nessun cinguettio elettronico può trasmettere la densità del pensiero, la profondità della poesia, l’emozione di opere d’arte che evocano incontri con pittori, poeti, drammaturghi, scrittori che dormono nel sonno eterno all’ombra di frondosi alberi di ogni specie. Nella porzione più piccola del cimitero s’incontrano subito le ultime dimore di André Citroén, fondatore dell’omonima e celebre casa automobilistica, di Charles Pigeon – inventore della lampada antiesplosione usata nelle miniere – che è sepolto con la moglie ed entrambi sono raffigurati nelle statue di bronzo coricate su un letto di marmo. Più avanti il pittore bulgaro JulesPascin e Auguste Bartholdi, lo scultore che realizzo la Statua della Libertà situata all’ingresso del porto di New York. In una tomba di pietra con altri famigliari riposa invece Alfred Dreyfus, protagonista suo malgrado – perché innocente – dell’ affare Dreyfus , il più clamoroso caso politico scoppiato in Francia sul finire dell’800, ai tempi della Terza Repubblica, con l’ufficiale alsaziano di origine ebraica accusato di tradimento e complotto con il nemico tedesco. Dreyfus venne condannato alla prigionia sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il suo caso giudiziario divise l’opinione pubblica della Francia intera  nel Paese e gran parte degli intellettuali, di fronte a quell’assurda campagna d’odio razzista e antisemita si schierò dalla sua parte (  sul giornale L’AuroreÉmile Zolapubblicò il suo celebre J’accuse) fino alla sua piena, seppur tardiva,riabilitazione.Nella 26° divisione si trova il sepolcro di Guy de Maupassant, uno dei padri del racconto moderno, autore diBel Ami, mentre nella 30° è sepolto Léon Schwarzenberg, importante oncologo e protagonista dei più avanzati dibattiti sull’etica medica e scientifica, autore di “Changer la mort”, cambiare la morte. Nell’altra parte del cimitero di Montparnasse, la più grande, si possono fare incontri straordinari iniziando da Maurice Leblanc, creatore del ladro gentiluomo Arsène Lupin, la controparte francese dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Tra le varie “avenue” (Boulevart, du Nord, de l’Est e l’Ouest) e l’intrico di passaggi tra cappelle e lapidi è quasi impossibile non imbattersi in due grandi maestri del teatro dell’assurdo come Eugène Ionesco e Samuel Beckett. Sulla tomba di quest’ultimo un anonimo ammiratore ha posato una carota, omaggio orticolo-letterario che richiama il suo capolavoro,“Aspettando Godot”( “Lui non saprà niente. Parlerà dei calci che si è preso e io gli darò una carota”). Da lì in avanti il visitatore curioso incrocerà i sepolcri di Susan Sontag, grande scrittrice e intellettuale statunitense, dei registi Joris Ivens – uno dei più grandidocumentaristi del XX° secolo – e Alain Resnais, ispiratore della “nouvelle vague”e autore di pellicole importanti come L’anno scorso a Marienbad e Mon oncle d’Amérique, oppure amati attori come Philippe Noiret (con la scultura del piccolo cane a vegliarne il riposo) e Serge Reggiani, uno degli amici più stretti di Jacques Prévert. Anche Serge Gainsbourg è lì con loro, dopo averci turbato con i suoi sussurri, accompagnati dai sospiri di Jane Birkin quando in coppia – era il 1969 e non s’erano ancora spenti gli echi del maggio francese – cantarono “Je t’aime..moi non plus”. Questo geniale e sulfureo protagonista dello spettacolo francese, non era certamente di una bellezza classica ma era dotato di un fascino in grado di sedurre donne straordinariamente avvenenti. In un angolo di seconda fila  giace Chaïm Soutine, ebreo russo perseguitato, genio tormentato della pittura e compagno di Amedeo Modigliani e degli altribohémien e artisti maledetti  degli “années folles” di Montparnasse. La sua piccola lapide squadrata, con il nome quasi illeggibile, provoca una stretta al cuore per l’incuria e l’indifferenza a cui è stato condannato. Poco distante da lui anche l’ultima dimora di Charles Baudelaire va rintracciata scorrendo i nomi incisi sulla tomba di famiglia, quasi nascosto sotto l’iscrizione ingombrante del padre adottivo, Jacques Aupick, e senza alcun particolare epitaffio. Troppo poco per l’autore dei Fleurs du Mal, opera collocata fra le più alte espressioni della poesia di tutti i tempi e paesi. Ma almeno per lui non manca mai la consolazione di un fiore, un biglietto, un pensiero a tenergli compagnia. Lungo il muro che delimita il cimitero, da una parte e dall’altra dell’entrata principale su Boulevard Edgar Quinet, si trovano i sepolcri di Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre – che nella vita e nella morte sono ancora insieme – e Marguerite Duras, con l’omaggio delle decine di penne di ogni tipo e colore infilate nel vaso dei fiori. Con lo scrittore Julio Cortázar formano un formidabile quartetto letterario, unendo le pagine delle “Memorie di una ragazza perbene” con quelle dell’esistenzialista che scrisse “La nausea” e “Il muro” e la ribelle che, grazie a “L’amante”,  vinse il premio Goncourt. Certamente ci saranno tanti altri prot
agonisti della storia e della cultura che giacciono a Montparnasse, nei luoghi che – insieme alla butte di Montmartre – rappresentavano il cuore della vita culturale parigina tra gli anni ’20 e gli anni ’30, dove si incontravano pittori e intellettuali. Un buon motivo per tornarci ancora per porgere un saluto e magari lasciare un segno, un omaggio a dei grandi che hanno lasciato un segno nella nostra vita con le loro opere.

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Marco Travaglini

(le foto sono di Barbara Castellaro)

La lezione dei Walser

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Da questa straordinaria storia si possono trarre ancora oggi utili insegnamenti per la tutela del territorio, il rispetto dei delicati equilibri della montagna, la promozione di uno sviluppo turistico ordinato, rispettoso della natura e del paesaggio, l’attenzione a non sfruttare oltre misura le risorse di un’area limitata

Inospitali, misteriose, ricettacolo di luoghi paurosi da evitare. In passato le montagne non furono ritenute abitabili oltre certi limiti. Lo storico romano Tacito le definì “Infames frigoribus Alpes”, considerando le Alpi un ostacolo al commercio ed al passaggio degli eserciti. Ne passò del tempo fino ad arrivare a poco prima dell’anno Mille quando, nell’Alto Vallese, nell’attuale Svizzera, iniziò la colonizzazione delle alte quote, la conquista della montagna da parte del contadino medioevale nel periodo in cui tutti aspettavano la fine del mondo. Protagonisti principali furono i Walser (il nome deriva da una contrazione di Walliser, vallesano) discendenti di un popolo “alemanno”, penetrato nell’alto medioevo a ridosso delle Alpi centrali. Acclimatati alle grandi altitudini dell’alto Vallese, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, i Walser colonizzarono le zone più elevate delle Alpi ed in particolare le valli intorno al Monte Rosa, dando vita alle comunità d’Alagna, Gressoney, Issime, Rimella, Rima, Macugnaga e Ornavasso. Un’altra spinta migratoria portò, attraverso il Passo del Gries, alla conquista della Val Formazza (Pomattal), da dove fu poi raggiunto Bosco Gurin, nell’elvetico Canton Ticino. Questi coloni, arroccati e isolati nell’aspro ambiente dell’alta montagna, programmarono e realizzarono la vasta opera di bonifica di zone a quei tempi perlopiù disabitate, creando villaggi autosufficienti in grado di sopravvivere ai rigori di lunghi inverni. I prodotti del loro lavoro erano soprattutto di tipo caseario: il latte, il burro e il formaggio, provenienti dagli allevamenti bovini degli alpeggi. Poi fu realizzata la “Alpwirtschaft”, un’economia che consisté nell’unire agricoltura e allevamento. Da questa straordinaria storia si possono trarre ancora oggi utili insegnamenti per la tutela del territorio, il rispetto dei delicati equilibri della montagna, la promozione di uno sviluppo turistico ordinato, rispettoso della natura e del paesaggio, l’attenzione a non sfruttare oltre misura le risorse di un’area limitata. Averne cura non solo è un dovere ma è anche un fattore strategico per lo sviluppo economico e turistico delle “terre alte”. L’abate valdostano Aimé Gorret, nella seconda metà dell’Ottocento scriveva: “Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi trovasse la città che ha appena lasciato”. Parole sagge delle quali tener conto.

Marco Travaglini

"Ho una bomba": paura sull'autobus di linea

DAL VENETO
Paura a Verona per i passeggeri di  un autobus della linea urbana, quando un cittadino dello Sri Lanka è salito a bordo ed ha cominciato a minacciare le persone, mostrando un borsa a tracolla. Pronunciando frasi sconnesse in varie lingue ha fatto capire che all’interno c’era una bomba, così ha bloccato la marcia del mezzo. L’autista è riuscito a chiamare il 112 consentendo l’intervento delle pattuglie del Nucleo  Radiomobile di Verona. Dai controlli effettuati non è stato rinvenuto materiale esplosivo. Lo srilankese è stato arrestato.

Ricola esalta la primavera al Perugia Flower Show 2019

Ricola anche quest’anno rinnova la partnership con Perugia Flower Show 2019, una mostra mercato di piante rare e inconsuete, che si svolgerà il 3, 4 e 5 maggio 2019 presso i Giardini del Frontone a Perugia. La manifestazione è una vera e propria mostra mercato, che vuole promuovere la conoscenza della botanica e del giardinaggio di qualità. Al Perugia Flower Show il pubblico avrà la possibilità di osservare fiori e piante uniche al mondo, grazie alla presenza dei migliori espositori, produttori e collezionisti botanici del territorio nazionale.

I visitatori avranno la possibilità di osservare e scoprire le 13 erbe che sono alla base della ricetta tradizionale dei prodotti Ricola in uno stand dedicato all’azienda svizzera: uno spazio speciale, che ricrea l’atmosfera di un vero e proprio giardino alpino. Chiunque avrà modo di passare da questo angolo di montagna svizzera non solo potrà rimanere incantato dalla meraviglia della natura, ma avrà anche la possibilità di degustare tisane e caramelle oltre che di acquistare una selezione di prodotti Ricola.

Per l’occasione, inoltre lo spazio Ricola ospiterà alcuni incontri tematici gratuiti sulle erbe aromatiche, che verranno tenuti dal professore Augusto De Bellis:

venerdì 3 maggio alle ore 17.00 il professore farà una panoramica sulle erbe aromatiche e officinali, soffermandosi in particolar modo sulle 13 erbe alla base dei prodotti Ricola.

Sabato 4 maggio 2019 alle ore 16.30 e domenica 5 maggio 2019 alle ore 11.30 il professor De Bellis farà fare ai partecipanti un vero e proprio viaggio sensoriale nel mondo delle erbe aromatiche: chi vorrà infatti non solo potrà provare a riconoscere il maggior numero di erbe utilizzando solo l’olfatto, ma avrà anche modo di scoprire i segreti per utilizzarle in cucina!

 

Per maggiori informazioni sull’evento, consultare il sito: http://www.perugiaflowershow.com/

Ragazza operata di tumore al cervello mentre suona il violino

DALLA PUGLIA
Una violinista di 23 anni, affetta da un tumore al cervello, è stata operata mentre suonava il  suo violino, nell’ospedale SS.Annunziata di Taranto. Si tratta del primo intervento del genere nel Sud Italia. L’operazione è durata  oltre 5 ore, ed è stata  effettuata dal direttore dell’Unità Operativa Complessa, dottor Giovanni Battista Costella, e dal dottor Nicola Zelletta, con la  collaborazione dell’anestesista, dottor Angelo Ciccarese”, e dei dottori Gounaris e Cantone. Durante l’intervento i medici fanno conversazione con il paziente spiegando cosa si sta facendo.  La metodica chirurgica adottata dall’equipe, ha permesso di rimuovere il tumore evitando danni neurologici, in particolare disturbi della parola e cognitivi ed evitare difficoltà nella coordinazione dei gesti.