CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 707

The donor, vincitore all’ombra del Neorealismo italiano

Consegnati i premi del 34° Torino Film Festival

Sipario sul 34° Torino Film Festival, grande contenitore di storie, con i suoi 15 film in concorso come pure con le altre sezioni, “Festa mobile” in prima fila, per non dimenticare in questa edizione la gran scelta di Gabriele Salvatores tra i “suoi” film, dove lo spettatore, il cinefilo, l’appassionato s’affannano a riempire gli spazi vuoti della giornata. E anche se quest’anno la selezione ufficiale non ha eccelso per particolarissimi esempi, pur con l’offerta di otto/nove esempi (su 15) su cui soffermarsi 34tff_manifesto_orizz_lrcon maggior attenzione, i nove giorni di vetrina cinematografica sono stati l’occasione per piccole scoperte, per discussioni, per frasi del tipo “mi raccomando, non perderti il tale perché in fondo merita davvero”, di code quasi sempre ordinate, di spauracchi a vederti negata una visione per le eccessiva affluenza, con le maschere in maglietta blu che fanno la conta per arrivare con esattezza alla capienza della sala. Un contenitore dove esistono linearità classica e fattori sperimentali, racconti e approfondimenti che fanno a pugni con vuote insulsaggini, l’Est e l’Ovest, le cinematografia con cui da sempre ci confrontiamo come l’Europa e un mondo lontano e appartato che non conosciamo, passato e presente, anticipazioni e golosità imperdibili e suggestioni che ritornano da un lontano passato (Antonioni o Costa-Gavras), drammi eTFF LOGO 2 commedie, amori e guerre che ti rendono appieno il mondo in cui viviamo o abbiamo vissuto. E, soprattutto, il TFF è un festival che pensa al cinema, al suo prodotto primo, all’immagine concreta e no, che lascia il red carpet in un profilo basso, che s’è inventato con grazia la figura del guest director a supportare in un angolo di tutto rispetto Emanuela Martini (la domanda imperiosa degli ultimi giorni è stata ma Sorrentino verrà l’anno prossimo, glielo avete chiesto?), che non dovrebbe poi tanto temere un taglio di quattrini da parte delle autorità locali o dagli sponsor se quel taglio dovesse unicamente essere il peso per avere qualche nome scintillante in più, naturalmente da oltreoceano.

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Quindici pellicole quindi da cui la giuria guidata dal direttore della fotografia Ed Lachman (ieri l’avevamo erroneamente affidata a Christopher Doyle, ancora un direttore della fotografia, già compagno di maestri cinesi come di Gus Van Sant o Neil Jordan o Barry Levinson, al quale quest’anno è stato consegnato il Gran Premio Torino) ha tratto i suoi premi. Miglior film come pure premio per la miglior sceneggiatura al cinese The donor di Qiwu Zang, “film così meravigliosamente penetrante e così poetico nella narrazione, nella performance, nella comprensione del mondo in cui proviamo a vivere”, vicenda senzale-derniers-film melodramma, umanamente lucida, disadorna, specchio di una povertà e di una ricchezza nel paese dell’eguaglianza, che, come sottolinea ancora la giuria, “mostra come la tradizione del Neorealismo italiano sia ancora viva in angoli remoti del globo”. Motivazione che, se nella sua ultima parte ci fa un po’ sorridere, non può far altro che inorgoglirci pensando al peso che una parte non indifferente del nostro (antico) cinema mantiene ancora oggi, all’inizio di un nuovo millennio. christine-film

Rebecca Hall aveva davvero poche rivali e giustamente a lei per Christine è andato il premio quale miglior attrice, per il “personaggio commovente che è in conflitto emotivo con se stesso”, mentre era ancora un po’ presto affidare il premio maschile al “talento così giovane e promettente” di Nicolas Duran interprete del cileno Jesus, tralasciando l’interprete irrequieto di Avant les rues o il preciso François Cluzet di La mécanique de l’ombre o ancora il fratello scapestrato del francese Les derniers parisiens, film che forse meritava qualche riconoscimento al di là di una spregiudicata visione della realtà parigina, come andava egualmente preso in jesus-filmconsiderazione l’eccellente Lady Macbeth. Quello che non convince è lo sguardo benevolo su Los decentes firmato dall’austriaco Lukas Valenta Rinner, Premio Speciale della Giuria poiché “esplora con grande sensibilità e penetrante spirito di osservazione”, sfilacciato, presuntuoso nel voler filosofeggiare intorno alla scoperta di un mondo migliore (?) da parte di una domestica che lavora in una casa bene di un privilegiato quartiere alla periferia di Buenos Aires, scoperta che ha il sapore e la fattura della barzelletta, con un finale di rumorose pistolettate che non concludono e non dimostrano nulla.

Elio Rabbione

“The Donor” vince il Torino Film Festival

donor-filmE’ il film cinese ‘Juan Zeng Zhe/The donor’ di Qiwu Zang il vincitore del 34/o Torino Film Festival. Racconta la storia di un povero che per trovare il denaro per la sua famiglia decide di vendere un rene ad un uomo ricco. Il trapianto però non va a buon fine e il ricco pretende il rene del figlio del donatore. E’ una commedia di grande umanità che si trasforma in un noir. “Spero trovi un distributore come è spesso è accaduto ai vincitori del Tff”, auspica il direttore del Festival, Emanuela Martini.

Anche se con errori, il successo di Andrea De Sica alla sua opera prima

Ultime proiezioni del TFF e poi le premiazioni

Ultime battute per il Torino Film Festival, poi il verdetto della giuria capitanata dal direttore della fotografia Christopher Doyle. Ultime battute nel bene e nel male, nel mediocre e nell’insulso, in un’edizione che per nessun titolo ci ha fatto sussultare sulla sedia, come era successo in anni precedenti. Per carità, ben lontani dal fare tabula rasa, ma a chi scrive non pare proprio che tra opere prime e seconde, dagli States alla Cambogia, dall’Italia all’Argentina alla Serbia e oltre, la commissione selezionatrice abbia saputo scovare il capolavoro. Magari non per un lavoro inconcluso o poco approfondito, ma perché soltanto quel capolavoro non esisteva. Se volete, le cinque palline o gli altrettanti asterischi che i paludati quotidiani cartacei di casa nostra affibbiano alle pellicole eccelse qui, quest’anno, non li troverete.

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E’ davvero difficile legittimare con un qualunque significato del termine “cinema” Las Lindas che, firmato dalla giovanissima Melisa Liebenthal, porta dall’Argentina un coretto di ragazzotte che, ritornando ad un loro recente passato e guardando al presente, ritagliando dall’ammasso dei ricordi le foto, i filmini, le suggestioni, il fascino di questa o quell’amica, chiacchierano davanti la macchina presa e suddividono il mondo in belle e bruttine. Trucchi, abiti nuovi e vecchi, le scarpe della mamma con il tacco un po’ più alto, finché si può si resiste, poi si scappa via davanti all’insignificante riempito soltanto di un vuoto chiacchiericcio lungo 77’. Da cancellare. Di poco più in alto, il cambogiano Turn left turn right diretto dal trentatreenne Douglas Seok, nato a Chicago e stabilitosi a Seul, un susseguirsi di un quotidiano più o meno suggestivo in dodici tracce tra immagini e variopinti brani musicali. Come se ascoltaste un CD. Una ragazzina dai lunghi capelli, i suoi giri in motorino negli ingorghi della città, la visita alle rovine di un tempio, la perdita di lavori che le darebbero una piccola tranquillità, tra un albergo e un ristorante, gli spezzoni televisivi che immaginerebbero un successo personale, la madre che la spinge al matrimonio e che ogni mattina deve accompagnare nel triste quanto angusto laboratorio di sartoria, i ricordi dell’infanzia, il rapporto ultimo con un padre che sta morendo: immagini sovrapposte, brani e brani nella testa della ragazza, il tutto a costruire una storia che stenta a prendere concretezza.

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Forse solidamente più vicino alle nostre corde, s’apprezzano i meccanismi da thriller politico che nella Mécanique de l’ombre del belga Thomas Kruithof, alla sua opera prima, invischiano un contabile, un uomo come tanti a lungo disoccupato ed ex alcolista che ha i tratti e la tragicità inattesa di François Cluzet (“Quasi amici”), meccanismi forse già visti altre volte – siamo dalle parti della Conversazione di Coppola – ma certo qui ottimamente sceneggiati, un uomo che accetta di lavorare per una misteriosa organizzazione che gli chiede di trascrivere delle intercettazioni telefoniche. Diverrà vittima di un pericoloso intrigo politico dalle varie facce, tra doppio gioco e menzogne, in giravolte che segnano la forza del film e soprattutto di un regista che forse per gli anni a venire dovremo tenere d’occhio.

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Come pure convince, pur se ci si trova del tutto contrari ad un mondo che vomita facce della peggior specie, il francese Les derniers parisiens dell’esordiente coppia Hamè Bourokba/Ekouè Labitey, membri del gruppo rap La Rumeur, attivo dal 1997 e già incorso in patria in un processo per diffamazione della polizia. La vicenda di due fratelli che nel cuore di Pigalle cercano di strapparsi un piccolo bar, l’uno secondo le regole della legge e l’altro circondandosi di tipi poco raccomandabili e pronto a spiccare il volo con serate con tanto di sponsor e di grande seppur discutibilissima immagine. Un quadro da rinnegare ma vero, reso estremamente vitale, teso nei tanti spostamenti della macchina da presa che tallona vicinissima i personaggi, senza un attimo di tregua, immediato a fotografare tutto il marciume che sta dentro e intorno a quelle quattro mura.

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I figli della notte del giovane Andrea De Sica, il figlio di Manuel (cui il film è dedicato) e nipote del grande Vittorio, era l’unico rappresentante italiano in concorso. Una bella scommessa con quei nomi alle spalle. Ma poi, è vero che ciascuno deve volare con le proprie ali. Pur con degli errori, all’inizio. Girato nei pressi di Dobbiaco, con una sceneggiatura che avrebbe ancora avuto il bisogno di qualche sguardo di padre amoroso, propone un gruppo di giovani, mettendone a fuoco un paio, imprigionati tra corridoi e stanze silenziosi di un grande collegio, di quelli che il domani vorrà preparare alla guida della classe dirigente del nostro paese, di quelli che i genitori abbandonano, tralasciano, con cui accampano falsi motivi, affidandoli alle sole loro forze. Il risultato sarà il cinismo, la rinuncia frettolosa a qualche ideale appena coltivato. Altri li hanno preceduti, soffocando lo sforzo personale, chi cerca la rivoluzione e la rinuncia alle imposizioni, rimarrà sconfitto. L’attacco di De Sica è ottimo, s’impone quella zona nera dentro cui è costruito l’intero film, i personaggi di Giulio e di Edoardo hanno una loro forza di convinzione, l’amicizia e la ribellione e il pericolo tutto quanto è ben raccontato: ma mentre ci avviciniamo al finale, pare che qualcosa non abbia più spessore e hai l’impressione che il giovane regista di tanto nome abbia improvvisamente e senza ragione imboccato un’altra strada. Pur confermandosi un’opera che ci fa ben sperare per il prossimo futuro.

Elio Rabbione

Premio Adriana Prolo a Costa Gavras

tff-34-seraOggi, sabato 26 novembre al Cinema Massimo sala 1 , viene consegnato al regista Costa Gavras il Premio alla carriera Maria Adriana Prolo, promosso dal Museo del Cinema. Un omaggio personale al Maestro da parte di Riccardo Scamarcio , protagonista nel film del regista “Verso l’Eden”, attraverso una “laudatio” sotto forma di video che introdurrà la proiezione della copia restaurata di “Z – L’orgia del potere”, Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1969 e Premio Oscar per il miglior film straniero nel 1970 con Jean Louis Trintignant e Yves Montand. Uno degli appuntamenti più attesi del TFF. La pellicola, drammatica ricostruzione di uno degli episodi che apriranno la strada alla dittatura dei colonnelli nella Grecia degli Anni Sessanta, è considerata uno dei capisaldi del cinema di impegno e di denuncia politica. Una dittatura senza nome, un deputato che chiede giustizia, le violenze della polizia, un omicidio politico da insabbiare. ” Ogni somiglianza con avvenimenti reali, persone morte o vive non è casuale. E’ volontaria”.Così è scritto nei titoli di testa di questo capolavoro.

Mauro Reverberi

Tra sentimenti e calcoli, pur di arrivare al matrimonio

“L’argomento di questa commedia non è che un fatto vero, verissimo, accaduto, non ha molto tempo, in una città di Olanda. Mi fu raccontato da persone degne di fede e le persone medesime mi hanno eccitato a formarne una comica rappresentazione”. Con queste parole Carlo Goldoni motivava la scrittura di Un curioso accidente, commedia scritta nel 1760 e non troppo celebrata ma ricca di temi e situazioni validi ancora per il pubblico di oggi, un racconto di vita che racchiude sentimenti giovanili contrastati ed i rapporti tra i vecchi e i giovani, tra padri che – sempre legati alla filosofia del lavoro e del patrimonio da accrescere e difendere – ostacolano, pur nella loro saggia onestà, le nozze dei figli.

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Nella cornice dell’Aja che prospera per i suoi commerci mercantili, la volontà di Giannina di sposare Monsieur de la Cotterie, giovane cavaliere un po’ a corto di quattrini, è inconsapevolmente negata dal padre Filiberto, ricco mercante, che spinge al contrario alle nozze con il militare Costanza, figlia di Riccardo, arcigno quanto superbo possidente. Nella perfezione della sua lingua, Goldoni tratteggia e caratterizza con esattezza i vari personaggi, non chiudendoli negli stereotipi, nelle maschere di un tempo, ma costruendoli umanamente, con eccellente spessore, tra sentimenti e ragione, tra calcoli e solitudini, tra raggiri e piccole astuzie. Sino alla fine, quando la scaltra Giannina, sorella di stretti legami con altre eroine goldoniane, legata ad un’obbedienza che non conosce limite ma che rivendica altresì la propria libera personalità, arriverà al proprio scopo. Enrico Fasella, mettendo in scena per Torino Spettacoli la commedia che lui stesso definisce giustamente “degli errori” (in scena all’Erba sino a lunedì 28), senza attualizzare forzatamente o stravolgere banalmente nulla, imprime un ritmo eccellente, nei dialoghi e nell’azione, con divertimento, nella girandola della situazione teatrale. Avendo con sé un attore, grande, come Piero Nuti, perfetto nell’essere ingannato e nel credere di reggere ad ogni momento il gioco, come nella disperazione della sconfitta; con lui Miriam Mesturino, che sfodera la malizia e il sottile fascino della donna che ha in sé ogni mezzo per condurre il gioco. Inoltre Franco Vaccaro, Luciano Caratto e Barbara Cinquatti, tutti in bella evidenza.

Elio Rabbione

Un’amicizia crudele, un affetto negato, il desiderio di essere amata: la storia di Deborah

Una donna che ha conosciuto la sofferenza da piccola e da cui non è mai riuscita a scappare

Quando l’affetto diventa possesso, spesso, si trasforma in omicidio. Questa è la storia di una ragazza di appena vent’anni, Deborah. Una storia struggente e straziante, brutale e crudele. È la storia di tanti bambini, più di quanti, purtroppo, se ne immagini: trascurati, maltrattati, lasciati alla deriva. Il corpo di Deborah fu ritrovato senza vita un giorno di settembre, in una casa umile, in un quartiere periferico di Torino. Era l’anno 2006, di lì a pochi giorni, la ragazza avrebbe compiuto gli anni. Affianco al corpo quella che fu ritenuta immediatamente l’arma del delitto: un ferro da stiro. La gola tagliata.

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E insieme a quella giovane vita, l’omicida si portò via anche quella di un bambino che la vita ancora doveva viverla. Deborah era incinta ed era al quinto mese di gravidanza. Pochi istanti d’ira e due anime innocenti svanite. Le mani sporche di sangue, sono le stesse mani che da anni accarezzavano il volto della vittima e che spesso sentivano il bambino calciare; sono le mani di Giulia: la migliore amica di Deborah. Ma cos’è successo la sera del 16 settembre in quell’appartamento tanto da indurre ad un gesto così immorale? La risposta a questa domanda è ancora cupa e nebbiosa nelle menti di chi ha seguito le indagini ed il processo; di sicuro, però, il passato di queste due giovani donne ci fornisce indizi non poco irrilevanti per poterci avvicinare il più possibile ad averla. Nello speciale proposto nel 2010 da “Amore Criminale”, trasmissione di Rai Tre, la ricostruzione dei fatti di quella tragica sera e delle storie di vita dei deborah-rossiprotagonisti, è davvero coinvolgente.

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Una madre/futura nonna distrutta per la perdita di una figlia il cui legame è da sempre stato in bilico, messo a dura prova dalla precarietà della vita e dalle scelte sbagliate, ma sempre forte e tenace. Una madre che racconta sua figlia. E questo racconto squarcerebbe l’animo anche di chi non conosce sensibilità. Chi era Deborah? Deborah è figlia di genitori separati e come spesso succede in questi casi contesa e sballottata. Deborah è una donna che ha conosciuto la sofferenza da piccola e da cui non è mai riuscita a scappare. All’età di quasi sei anni fu affidata al padre e allontanata dall’amore della madre. In questi anni imparerà cos’è la violenza, maltrattata e picchiata ripetutamente dalla compagna del padre fin quando, finalmente la madre riuscirà a riaverla con sé, salvandola da questo primo carnefice. Ma la nuvola grigia le seguirà ancora. In quel periodo la madre aveva cominciato una nuova relazione, dalla quale aveva avuto altre due bambine. Tutta la famiglia, compresa Deborah, decise di trasferirsi a Venaria in una casa fatiscente, ma potenzialmente bellissima, immersa in un giardino enorme in cui le bambine avrebbero potuto crescere a contatto con la natura. L’idea era di ristrutturarla, ma i soldi fin da subito mancavano.

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La casa splendida, era in realtà fredda perché senza riscaldamento, decadente. L’incubo ricominciò. Il compagno della madre trattava Deborah come una schiava; le faceva fare cose umilianti e degradanti, come ad esempio, svuotare la vasca delle anatre con la bocca. Questi soprusi divennero di giorno in giorno più accesi e sadici, tanto da indurre la ragazzina (all’epoca di più o meno 10 anni) a tentare il suicidio. Una bambina che aveva un futuro davanti a sé che non riconosceva, una bambina che a quell’età avrebbe dovuto guardare il mondo con gli occhi sognanti che solo l’infanzia ha, quella bambina decise di svuotare la boccetta di antidepressivi. Per cercare di tutelare la figlia, la madre decise di portarla in una comunità. Con la presenza di educatori esperti e lontana da quelle mura domestiche che le avevano portato solo vittorio piazzadistruzione, sua figlia poteva salvarsi. Ma non fu così. In quella comunità gli abusi diventarono più profondi e lesero ancora di più quell’animo fragile. Quattro ragazze la violentarono, ma Deborah reagì, raccontò tutto. Già allora era chiara la personalità di quella ragazza: una piccola “adulta” fragile, ma con una tenacia interiore che le permetteva di superare ogni ostacolo. Seguirono anni più felici, Deborah andò a vivere dai nonni all’Isola d’Elba, dove trascorse parte della sua adolescenza in tranquillità e serenità. Complice una vacanza estiva con la sua amata madre, a circa 17 anni decise di ritornare in quella casa a Venaria. Voleva essere forte, voleva aiutare la mamma ad emanciparsi da quell’uomo che la teneva stretta a sé in una morsa soffocante. La madre non aveva né un lavoro né tantomeno i soldi per sentirsi libera di scappare con le sue figlie e la sua primogenita decise di darle il suo aiuto. Cercarono entrambe un lavoro. Nel frattempo Deborah cominciò anche la scuola per diventare cuoca ed è proprio tra quei fornelli che conobbe la sua assassina. Giulia, personaggio controverso, manipolatrice, anaffettiva, sadica. Giulia è forte, una ragazza autonoma, proveniente da una famiglia medio borghese, da cui fugge spesso POLIZIA CROCETTAe in cui poi si rintana. Giulia non sa amare, Giulia possiede. È bramosa di emozioni, le cerca negli altri , nelle situazioni, nelle cose perché da sola è incapace di provarne. Deborah, da subito, fu del tutto dipendente da questa personalità così prorompente che l’ammaliava, manipolava la sua mente a suo piacimento. Cominciarono ad avere una vita al limite, si drogavano, frequentavano brutta gente, scomparivano per giorni e giorni. Giulia fu capace di farsi ospitare dall’amica e cominciare una relazione con il compagno della madre della ragazza sotto gli occhi di tutta la famiglia. Giulia usava le persone per sentirsi viva, ma teneva lei le redini di tutti i rapporti e nessuno era in grado di sottrarsi al suo volere.

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Deborah si sentiva però amata da questa donna così energica, così decisa nel prendersi ciò che desiderava. Si sentiva protetta, ma era completamente in balia di una mente perversa. Questa è la storia di due ragazze che a modo loro si volevano davvero bene. Questa è la storia che racconta come un bambino maltrattato continuerà ad esserlo tutta la vita se non si interrompe il ciclo. Questa è la storia di come il degrado della società chiude gli occhi di fronte a ciò che non può cambiare, o che ha paura di cambiare. È un caso di cronaca nera, sì. Abbiamo un corpo senza vita e tante persone che lo piangono, una donna in galera per vent’anni. Ma prima di tutto è “l’ennesimo caso che si ripete”. La storia di chi ha avuto solo calci dalla vita che cercherà conforto solo in chi sarà in grado di darle nuovi calci. Una coazione a ripetere inarrestabile. Perché si sceglie sempre ciò che si conosce. Una madre succube, una figlia bisognosa d’affetto, un carnefice mascherato da messia. Le vite delle due ragazze, nel periodo antecedente il triste giorno del delitto, si stavano pian piano separando. Deborah si era innamorata di un uomo, di cui sapeva ben poco, ma le bastava vedere la tenerezza con cui la trattava. Quell’uomo ben presto diventò suo marito e padre di quel bambino mai nato. Quell’uomo, però, gentile e amorevole, di notte spacciava stupefacenti e in un blitz della polizia venne arrestato, lasciando la giovane moglie incinta a dover badare a se stessa. Ma Deborah era forte e innamorata. Cominciò a lavorare tanto. In quella famiglia vedeva il suo riscatto. Suo figlio sarebbe cresciuto amato, con un padre che presto mole giardini2sarebbe tornato da loro. Giulia, nel frattempo, “possedeva” un ragazzo. Un certo Tony. Ingenuo e completamente inebriato da quella donna che “sa il fatto suo”. Una donna che lo “costringe”, manipolando la sua mente, a picchiare e derubare un fattorino delle pizze. Una coppia strana che si scambia regali d’amore ancora più strani: Tony regalerà a Giulia un coltellino a serramanico e lei regalerà a lui una mazza da baseball con un’incisione che inneggia alla violenza. E fu proprio la presenza di Tony a scatenare quell’ira impetuosa che portò all’uccisione di Deborah. Dai racconti a posteriori di quella sera, Tony dirà che Deborah provò a baciarlo e che probabilmente la vista di quella scena fece infuriare Giulia. Oppure la furia di Giulia nasceva dal fatto che l’amica stava prendendo la sua strada, e questa volta guidava da sola?

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Non si sa ancora cosa sia successo in quelle ore tragiche; i tre ragazzi avrebbero dovuto raggiungere degli amici ad una festa, era una sera tranquilla come tante altre. Giulia e Tony furono incastrati dalla “furbizia” della prima che, dopo aver ucciso con le proprie mani la sua migliore amica, ebbe la lucidità di spegnere e portare via con sé dalla scena del crimine il cellulare della vittima. Lo riaccenderà, poco dopo, nel tentativo di crearsi un alibi, ovvero mandare a quegli amici, che ormai li stavano aspettando da ore, un messaggio dal cellulare di Deborah in cui diceva che non sarebbe andata all’appuntamento, come avrebbe fatto una persona ancora viva. Ma fu proprio quella psicopatica lucidità ad incastrarla in quanto il cellulare della vittima, di nuovo acceso, risultava essere PO VITTORIO LUCIA GRANDEnello stesso luogo del cellulare di Giulia. Per quanto riguarda Tony, dopo una prima condanna di 19 anni e sei mesi, in Cassazione è stato definitivamente scagionato. Ho scelto di voler raccontare questa storia, più che per la lettura criminologica del caso, per la semplice e, allo stesso tempo, dura realtà che si porta dietro. I vissuti abbandonici, di abuso e di maltrattamento lasciano una scia inarrestabile di sofferenza. La vera sfida del nostro secolo deve essere l’interruzione di questa catena di terrore. Se la madre di Deborah avesse avuto più aiuti economici da parte dei Servizi addetti, se ci fosse attiva sul territorio una rete di supporto alle donne in difficoltà, donne fragili e bisognose di affetto , se ci fossero scuole preparate a fronteggiare il drop out scolastico, se ci fosse più informazione, se ci fosse più comprensione, se ci fosse una visione d’insieme…Fortunatamente qualcosa si sta muovendo e giorno dopo giorno questa dura lotta ha sempre più voce. Una voce sempre più acuta, sempre più alta. È la voce di Deborah e di tutte le donne come lei.

Teresa De Magistris

 

Festa punk con il Tff

Oggi, 26 novembre, ricorre il quarantesimo anniversario della nascita del movimento Punk. Era infatti il 26 novembre 1976 quando uscì il primo singolo dei Six Pistols, Anarchy in the UK. Ed è proprio a Londra che il punk diventa, oltre che una tendenza musicale, un vero e proprio stile di vita, una moda, una cultura che si prolunga nei decenni successivi.

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Il TFF ha inteso offrire una ricognizione sul cinema punk delle origini, nelle sue diverse coniugazioni attraverso la rassegna: I DID MY WAY , una delle più famose canzoni interpretate da Frank Sinatra, divenuta molto popolare nella cultura punk, soprattutto grazie alla revisione di Sid Vicious e al suo video, che appare anche nel film di Julien Temple “La grande truffa del rock’n’roll”; ed inoltre con la “Serata punk”di venerdì 25 novembre alle 22,30 presso le Lavanderie Ramone di via Berthollet 25 con dj set di Luca De Gennaro, Andrea Pomini e Alfredo cappello aka Kappa. Un’altra festa tutta musicale, organizzata sempre in collaborazione con il TFF, è prevista, a Festival concluso,l’8 dicembre alle 21,30 al Blah Blah di via Po 21, evento che vedrà esibirsi musicisti della scena musicale sperimentale internazionale, introdotti da Ernesto Tomasini, che riproporranno i brani della colonna sonora del film Jubilee di Derek Jarman. L’omaggio ai 40 anni del movimento prevede la proiezione di alcuni film particolarmente significativi venerdì 25 alle 19,30 e sabato 26 alle 12 e alle punk322,15 al Reposi con ” The blank generation” di Ivan Kral, il chitarrista di Patti Smith. Il film ripercorre la nascita della musica punk e New Wave, a metà anni 70 al CBGB, piccolo club sulla Bowery di New York. Sul palco Patti Smith, Iggy Pop, Blondie, i Ramones, i Talking Heads, gli Heartbreakers e molti altri in un documento eccezionale. Sempre venerdì 25 era in programma “Jubilee” di Derek Darman, film del 1977 e primo film punk britannico, che celebra il Giubileo per i 25 anni del regno di Elisabetta II. Sempre venerdì 25 alle ore 22 era in programma al Reposi ” Rock’n’roll high school” di Allan Arkushpunk2 (USA 1979) , che ci mostra un gruppo di insegnanti sull’orlo di una crisi di nervi, perchè gli studenti, invece che allo studio, si dedicano al culto del rock. Un inno alla forza ribelle e incendiaria della musica. Penelope Spheeris firma due film,”The decline of western civilisation” e “Suburbia”; il primo si potrà vedere sabato 26 alle 17,15 al Reposi ; il secondo era in programma venerdì 25 al Cinema Massimo. Sempre sabato 26 novembre alle 22,15 al Massimo 3 un vero e proprio cult: “The return of the living dead” di Dan O’Bannon (USA,1985) , lo sceneggiatore di Alien e Atto di forza esordisce come regista con questo omaggio cinefilo a “La notte dei morti viventi” di Romero, stravolgendone però toni e riflessioni : l’adeguamento agli anni 80 è totale, in un’orgia punk di gore e comicità irriverente.

Helen Alterio

 

“Curcio? Non ci berrei un caffè. Presenza discutibile ma legittima”

Ospitiamo l’intervento di Pier Franco Quaglieni, direttore del Centro Pannunzio: “Il fondatore delle BR Renato Curcio sarà ospite sabato, a Torino, di un centro sociale che intende festeggiare così il suo ventennale di attività. Una scelta discutibilissima, ma legittima”

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Il  nuovo Presidente dell’associazione italiana vittime del terrorismo-associazione con cui ho avuto una lunga collaborazione durante la presidenza di Maurizio  Puddu e di  Dante Notaristefano- Roberto Della Rocca ha utilizzato un convegno al liceo d’Azeglio di Torino  su Carlo Casalegno nel centenario della nascita , per  fare dichiarazioni clamorose, valutazioni discutibili e richieste profondamente illiberali.  Per un liberale come me  non è  condivisibile  l’affermazione secondo cui a Torino non ci debba essere” nessuna tribuna per Curcio” e che il sindaco Appendino  debba intervenire, non si sa bene a far cosa. Appendino potrebbe, semmai, sgombrare il centro sociale dove si terrà l’incontro con Curcio, ma ben altri sarebbero gli argomenti da usare per lo sgombero di locali comunali abusivamente occupati da anni. Non certo l’invito a Curcio che tratterà temi che nulla hanno a che vedere con il suo passato di terrorista. Certo nulla va dimenticato, come dice giustamente Piero Fassino, ma il rancore è un’ altra cosa rispetto al ricordo storico e politico.
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L’oblio nei confronti  del terrorismo ha avuto i suoi sostenitori e umanamente capisco anche Della Rocca ,ma sul piano intellettuale non posso non rifiutare le sue posizioni con assoluta fermezza. L’avvocato Dante Notaristefano, uomo mite e colto, mai si sarebbe azzardato a procedere sulla strada un po’  incauta  e in fondo ingenua di chiedere interdizioni di quel tipo.  Il capo delle BR è stato ed è un pessimo maestro, anzi non è affatto un maestro, ma la libertà di opinione, difesa proprio  da Casalegno con il suo sacrificio, deve prevalere su ogni altra valutazione. E ciascuno deve assumersi le sue responsabilità ,nel momento in cui invita Curcio; tuttavia   il diritto di organizzare pacificamente delle iniziative non può essere mai leso. Lo dice la Costituzione della Repubblica.  Ben diverso fu il caso di alcuni  ex  terroristi , la Balzarani in testa,  che vennero invitati in sedi universitarie. In quel caso alzai alta la mia durissima protesta.
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La mia lunga e affettuosa  amicizia con il figlio del Procuratore Generale di Genova Coco selvaggiamente ammazzato dai terroristi sta a testimoniare che io non sono mai stato per il perdono facile  o per  gli sconti di pena ai terroristi. Soprattutto sono stato in prima fila contro il terrorismo durante gli anni di piombo  come professore e come direttore del Centro Pannunzio : il generale Dalla Chiesa mi disse una volta di stare ben attento a quello che facevo.  Lo stesso Aldo Viglione ,presidente della Regione,che combattè duramente quella battaglia contro i terroristi ,mi disse affettuosamente  più volte che molte  mie dichiarazioni ed alcuni miei articoli mi rendevano un bersaglio. Andai avanti fermo per la mia strada,pur insegnando in un luogo in cui circolavano volantini brigatisti. Evitavo di rincasare tardi la sera:era l’unico accorgimento che adottavo,ma era una ingenuità perché i terroristi colpivano di giorno.  Ricordo che, dopo l’omicidio di Casalegno, gente come Luigi Firpo che scriveva articoli per la rubrica “Cattivi pensieri” scelsero vie  assai meno cattive e decisamente più prudenti. E lo posso comprendere, anche se non l’ho mai condiviso.
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La sera del giorno in cui Casalegno venne assalito dai brigatisti ,egli avrebbe dovuto coordinare un incontro su Benedetto Croce a Palazzo Lascaris ,per iniziativa del Centro Pannunzio di cui  Carlo era stato uno dei primissimi associati. Ci eravamo sentiti il giorno prima per gli ultimi accordi. le mie parole quella sera,quando coordinai io l’incontro, furono durissime.  Ripeto, a scanso di equivoci, che può essere un fatto molto triste che si festeggi il ventennale di un centro torinese, come ha giustamente detto al convegno  su Casalegno la Preside del Liceo d’Azeglio Chiara Alpestre, invitando il padre delle Brigate rosse, ma chiedere momenti repressivi è sbagliato ed è fuori tempo . Il valore della democrazia liberale , di cui  Casalegno fu strenuo difensore, lo impedisce. Curcio che ha messo in piedi una macchina omicida non ha ammazzato personalmente nessuno e la nostra Costituzione non prevede il bando  a vita neppure per gli assassini più sanguinari. L’utopia assassina di Curcio è stata sconfitta da tanti anni con la fermezza e il coraggio di pochi , che ha consentito allo Stato repubblicano di difendere sé stesso e la comunità nazionale. Con Curcio non condividerei neppure un caffè, ma ritengo che egli debba essere  libero di parlare, purché non voglia fare, come altri ex terroristi , il” professore”. Ernesto Rossi scriveva tanti anni fa sul “Mondo” che noi non possiamo agire con i comunisti come loro agiscono contro di  noi.Erano gli anni della guerra fredda e degli scontri frontali senza esclusione di colpi.I laici liberali,i democratici senza  illusioni giacobine ,magari inconscio, devono credere  nella libertà di pensiero e  praticarla senza eccezioni per nessuno.

  Pier Franco Quaglieni 

“Leggermente” spiega le parole del papa con Barbero

le-parole-del-papa-copertinaLeggere insieme, per capire. 2 Dicembre 2016, ore 18.00

Leggere è un piacere, un viaggio, un incontro con mondi infiniti. Leggere insieme significa volare con gli altri, anziché da soli. È un modo per conoscere e conoscersi, per vivere attivamente il territorio, per costruire nuovi dialoghi, per comprendere i cambiamenti del mondo che ci circonda. Dopo il successo dell’inaugurazione, lo scorso 9 novembre con Maurizio De Giovanni che ha aperto LEGGERMENTE circondato dalla suggestione del Mausoleo della Bela Rosin, la prossima tappa è affidata a un saggio che parla a sua volta di parole. Parla di parole autorevoli. Sul percorso di Leggermente, che si snoda da ottobre ad aprilebarbero attraverso le scelte dei 10 gruppi di Lettura e dei dialoghi con gli autori, il secondo incontro si svolgerà il prossimo 2 dicembre alle ore 18.00 con Alessandro Barbero e il suo ultimo lavoro: “Le Parole del Papa” (Laterza ed.) Lo scrittore, storico e docente universitario nel suo ultimo libro esplora come l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della società e della storia sia cambiato e si sia evoluto, utilizzando come cartina di tornasole il linguaggio dei Papi che si sono succeduti sul Soglio di Pietro negli ultimi mille anni.

Un libro per decifrare, conoscere e capire in profondità le parole della Chiesa e la loro evoluzione. Un viaggio affascinante che parte da Gregorio VII, Papa dal 1073 al 1085, fino ad arrivare al lessico rivoluzionario di Papa Francesco. Nato nel quartiere di Mirafiori, storico emblema della periferia industriale e operaia di Torino, e arrivato alla sua settima edizione, LEGGERMENTE negli anni ha fatto incontrare migliaia di persone con centinaia di autori che hanno parlato delle loro opere insieme a platee consapevoli e appassionate. 10 gruppi di lettura, più di 1200 ragazzi delle scuole medie e superiori del territorio coinvolti, nonni e genitori che impareranno a leggere le favole ai bambini, biblioteche di condominio: con LEGGERMENTE la lettura, da momento personale e raccolto, si trasforma in occasione di condivisione, dialogo e confronto. Come in passato, anche a questa edizione di LEGGERMENTE partecipano grandi nomi della letteratura: Valeria Parrella, Paolo Giordano, Alessandro Barbero, Antonio Scurati, Francesco Carofiglio, Carlo Cottarelli, e molti altri. Una finestra spalancata sul panorama letterario italiano con i suoi diversi generi e stili, a testimoniare quanto questo progetto coinvolga con entusiasmo gli autori e non soltanto i lettori.

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LE PAROLE DEL PAPA – Alessandro Barbero (Ed. Laterza, 2016)

Le parole usate dai papi – da Gregorio VII a Francesco – sono una traccia preziosa per capire quanto profondi siano stati i cambiamenti della Chiesa nel corso dei secoli. «Le parole usate dai papi sono importanti; tanto più in quanto il loro modo di parlare non è sempre lo stesso. Il linguaggio con cui il pastore della Chiesa di Roma si rivolge all’umanità nei momenti difficili è sempre stato espressione non solo della sua personalità individuale, ma del posto che la parola della Chiesa occupava nel mondo in quella data epoca; ed è un indizio estremamente rivelatore delle diverse modalità, e della diversa autorevolezza con cui di volta in volta i papi si sono proposti come leader mondiali. In queste pagine faremo un viaggio attraverso le parole usate dai papi nei secoli. Ovviamente la Chiesa esiste da duemila anni e nel corso di questi due millenni ha prodotto innumerevoli parole; non si tratta di renderne conto in modo esaustivo o anche solo sistematico, ma piuttosto di proporre uno dei tanti viaggi possibili, cominciando dal Medioevo per arrivare fino alla soglia della nostra epoca.»

Le contraddizioni cinesi, i fantasmi tedeschi e un ricordo – bellissimo – di Gipo

Il mondo dei poveri in contrapposizione al mondo dei ricchi. Nella Pechino di oggi, piena di contraddizioni, un timido e solitario meccanico si barcamena tirando avanti come può con moglie e figlio. Il lavoro è scarso e le spese battono ogni giorno alla porta. Quando arriva un ricco cugino per chiedere all’uomo l’offerta di un rene per la sorella da tempo in dialisi, il poveretto con un buon mucchio di soldi in pagamento accetta, all’insaputa della famiglia.

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Ma ci sono complicazioni, il trapianto non riesce. Per un secondo intervento, ed è una pretesa ora del ricco, compatibile sarebbe il figlio dell’uomo, diciottenne e libero di decidere, che con quell’offerta allettante è pronto a lasciare il paese e contro la volontà del padre accetta. Sarà questi tuttavia infine a decidere del destino di entrambi. The donor (ovvero “il donatore”) del regista Qiwu Zang, qui alla sua opera prima, è un film che, dimenticando con fatica da parte nostra i tempi delle scene e del racconto intero, ci spinge a immergerci in due opposte psicologie, nei comportamenti che arrivano da strade lontanissime. Ma è soprattutto, ampliando lo sguardo, il ritratto degli scompensi di una società che reclamerebbe eguaglianza a sconcertare, il toccare con mano i contrasti di una intera società; e il regista registra freddamente ma allo stesso tempo con grande umanità la faccia di una patria cui lui e gli attori appartengono. Di tutt’altro tono Wir sind die Flut (ovvero “Noi siamo la marea”) del tedesco Sebastian Hilger, alla sua opera seconda. Le coste di Windholm, tra la nebbia e il freddo della costa della Germania del nord, una marea che 15 anni prima si è ritirata portando con sé tutti i bambini del villaggio e non è più ritornata. Da quel giorno la vita non è più stata la stessa, il vecchio maestro intravede facce e ombre, le madri attendono con speranza un cambiamento che non verrà mai, gli uomini sono chiusi in un dolore che difendono contro ogni domanda, contro ogni intruso.

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Ma le domande ci sono e sono necessarie, due giovani dottorandi vengono inviati dall’università, Micha che già da qualche anno si occupa di quanto è accaduto, e Jana, reduce da una Lisbona dove s’è rifugiata nella speranza di dimenticare l’amore per il ragazzo. Calcoli, teorie, studi, oggetti che tornano alla luce, corpi e orme degli scomparsi che sembrano materializzarsi, come Matti, bimbo di nove anni, chiuso nella sua intelligenza e in una malattia che lo avrebbe condotto alla morte, che già aveva intravisto quella tesi che Micha avrebbe fatto sua. La ricerca di un altro mondo, nell’immobilità del tempo, un futuro pienamente compiuto, più reale del reale, che cancella l’instabilità dei rapporti, la tristezza degli adulti, la solitudine di quell’unica ragazzina sfuggita alla marea di un tempo. Non sempre i conti tornano nel film che s’avvolge dentro la realtà e il sogno, il passato e un possibile futuro: tuttavia proprio questa atmosfera imprecisa, impalpabile, azzardata a ogni immagine convincono e coinvolgono lo spettatore non troppo abituato ai toni neri del Nord.

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Invece, tornando pienamente a casa, applaudiamo senza riserve, nella sezione “Festa Mobile”, Gipo, lo zingaro di barriera scritto e diretto da Alessandro Castelletto, con la produzione di Valentina Farassino, omaggio ad un personaggio e a una voce non certamente dimenticati. Un ritratto costruito con rispetto da Luca Morino che, immaginando di ritrovare un giorno davanti al proprio negozio di strumenti musicali uno scatolone pieno di ricordi e oggetti dello chansonnier, articoli, foto, dischi, un tirapugni, inizia a battere la Barriera, a incrociare i vecchi amici di un tempo, quelli che hanno cantato e riso con lui, il cortile di via Cuneo, le sue canzoni, le sue emozioni, la sua umanità, le contraddizioni, la politica e l’impegno, gli ultimi spettacoli, Massimo Scaglione e Gian Mesturino che ce lo rendono nei suoi dolori, i racconti di Giovanni Tesio e Carlo Ellena, la tragedia paterna in una Torino che usciva dalla guerra e ancora con ferocia non sapeva ricucire le ferite. Non è soltanto un ritratto, è una gran fetta di Storia, accresciuta dal materiale anche in bianco e nero che le teche Rai hanno messo a disposizione, è il percorso di un uomo che ha incantato noi tutti, che ha creduto nelle tradizioni, negli affetti, nella cultura, quella autentica, del territorio.

Elio Rabbione