La nuova vita di un padre, tra il lavoro e i fragili rapporti della famiglia

Una regione e una città imprecisate della Francia, una casa assai semplice, un padre, Olivier, che riempie le giornate del proprio lavoro di capo reparto e di sindacalista in una fabbrica di stoccaggio, i problemi da affrontare di fronte ad un’inflessibile responsabile del personale, la necessità di “obbedire” ai piccoli riti familiari, i minuti rubati alle coccole verso i due figli piccoli

La moglie, Laura, affronta ogni giorno la vita da sola: e un giorno, inspiegabilmente, inaspettatamente, sparisce. Adesso tocca a Olivier occuparsi dei due ragazzini che male s’abituano a quella scomparsa, la più piccola si chiude in un serrato mutismo, a poco servono le presenze di una psicologa o di un amico poliziotto per le indagini, della nonna o della giovane zia che può essere una più facile sostituzione, arrivano ad andarsene di casa per andarla a cercare. Mentre Olivier deve continuare a combattere in fabbrica, dove chi per l’età non è ritenuto più in grado di mantenere i ritmi viene licenziato e si taglia i polsi, dove chi resta incinta non si vede rinnovato il contratto. E non si mandano via soltanto gli operai, anche in alto chi non segue appieno il corso dell’azienda deve scegliere altre strade. È un ritratto ben calato nell’oggi quello che Guillaume Senez (già al TFF nel 2015, vincitore con Keeper del Premio della Giuria) propone con Nos batailles, sua opera seconda. Il mondo del lavoro (nella Francia odierna dei fratelli Dardenne) ma soprattutto la lenta distruzione, di cui non ci si accorge, che i ritmi frenetici possono portare all’interno di un nucleo familiare (anche Wildlife di Paul Dano, visto nei giorni scorsi, analizza la tematica), il rubare spazio agli altri. Senez descrive con esattezza la vita di fabbrica, anche nella composizione delle immagini, ma soprattutto mette in campo con straordinaria naturalezza i fragili rapporti della famiglia e le ripercussioni di un abbandono, ricavando dal protagonista Romain Duris come dai bambini una verità quotidiana di azioni, di sentimenti, di parole. Tutto è credibile nella naturalezza di ogni scena. Raccontava, presentando il film, che all’origine delle sue storie vi è un preciso lavoro di scrittura ma che quella sceneggiatura così limata in ogni particolare venga scavalcata, lui non abbia l’abitudine di darla agli attori, prima si prova, ci si confronta, si costruiscono i dialoghi sul set, giorno per giorno; come raccontava quanto questa storia sia legata alla sua vita, al momento in cui la madre dei suoi figli abbia deciso di lasciarlo e lui sia stato costretto a inventarsi una nuova vita. Nos batailles uscirà sugli schermi italiani nell’aprile del prossimo anno, non perdetelo. Con The White Crow Ralph Fiennes (candidato all’Oscar nel ’94 per il suo Amon Goeth in Schindler’s list) passa ancora una volta dietro la macchina da presa. Con la sceneggiatura di David Hare, basata sulla biografia di Julie Kavanagh, in un lungo elenco di flashback perfettamente ad incastro (dovuti alla maestria del montatore Barney Pilling e sottolineati dal colore per gli anni Sessanta e da un gioco monocromatico ogniqualvolta la vicenda s’avvicina all’infanzia del protagonista), allinea fin dalla nascita – su un vagone della Transiberiana, nei pressi di Irkutsk, nel ’38, tra contadini e giocatori e ubriachi – la vita di Rudolf Nureyev, forse il più grande ballerino del Novecento, il suo desiderio di conoscenza (la musica, La zattera di Géricault al Louvre), il suo desiderio di affermazione, la sua arte, i suoi successi, gli eccessi e gli amori, la sessualità, focalizzando la tournée a Parigi nel 1961 quando, con l’aiuto di alcuni amici del mondo occidentale, riuscì a sfuggire alle autorità sovietiche e ad ottenere lo stato di rifugiato politico. Fiennes sa raccontare con estrema fluidità, tra passi di danza e serate al Crazy Horse, tra piccoli sentimenti ed erotismo, approfondisce l’uomo e l’artista, ne scava il carattere, ne mostra la grandezza e del tutto le asprezze: affidando il ruolo al ballerino Oleg Ivenko, nuovo per lo schermo. Che è il punto di debolezza del film, forse troppo lontano da quell’artista che le cronache ci avevano descritto, timidamente sprezzante, privo di quella sensualità che caratterizzava “il corvo bianco”, un viso piuttosto da ragazzo semplice della porta accanto (per noi insopportabile la somiglianza con il Gianni Morandi nazionale, cinematograficamente fuorviante) che volteggia da dio ma che nei tratti ha poco a che fare con la stella della danza.

 

Elio Rabbione

 

Due immagini di “Nos batailes” di Guillaume Senez, protagonista Romain Duris; Oleg Ivenko come Nureyev in “The white crow” di Ralph Fiennes.

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