Giovani attori dietro la macchina da presa, tra la tragedia della guerra e le disillusioni della vita

Sotto lo sguardo sorridente di Rita Heyworth, nella gran visibilità delle ciocche verdeblu da quest’anno sulla capigliatura rossoarancio della Emanuela Martini, con la benedizione della madrina Lucia Mascino, s’è inaugurata allora la 36ma edizione del Torino Film Festival

Le prime immagini sono quelle di The Front Runner di Jason Reitman, fluidamente ma altresì corposamente tratto dal libro All the Truth is out: the Week Politics Went Tabloid di Matt Bai, qui anche in veste di sceneggiatore, coadiuvato da Jay Carson. Non è soltanto il resoconto della parabola tutta in discesa di Gary Hart, senatore democratico dalle molte chances nella corsa alla Casa Bianca, alle Presidenziali dell’’88, ma pizzicato tra un discorso e l’altro in una relazione nata sul campo, fuori da un matrimonio costruito e lasciato intendere sui migliori principi, che gli avrebbe fatto perdere consensi e voti, riponendolo in un misero cono d’ombra da cui per anni non sarebbe riemerso: è soprattutto il ritratto, al di là della colpevolezza della scappatella, di certa carta stampata – per l’occasione, del Miami Herald che accese le micce -, di una informazione che dimentica tesi e propositi e volontà elettorali per scavare sempre più a fondo nella polvere del gossip, per farsi spettacolarizzazione, per assumere i contorni della più spoglia competizione sportiva. La storia si costruisce con dialoghi serrati, con le scene concitate che tendono alla distruzione dell’avversario, con le riunioni in redazione, con le tante piccole figure delineate con intelligenza e spirito, soprattutto il ritratto dolente e combattivo allo stesso tempo della signora Hart, interpretata da Vera Farmiga. In questo grande baraccone che sta dalla parte opposta del lavoro metodico di Tutti gli uomini del Presidente, notevole è la figura del candidato vista attraverso gli occhi di Hugh Jackman, estremamente solido, combattivo, consapevole.

Di tono minore, con una realizzazione e un tecnicismo che denunciano i difetti delle opere prime, il primo film passato in concorso, 53 Wars della polacca Ewa Bukowska, attrice di successo nel proprio paese per film e serie televisive, passata oggi dietro la macchina da presa. Basandosi su una storia vera, analizza la vicenda di una coppia, lei scrittrice a seguire dalle brevi, interrotte telefonate o dai reportage televisivi la vita di lui, cronista dai terreni di guerra, si chiamino Afganistan o Cecenia. Al centro una donna obbligata a morire giorno dopo giorno, nell’attesa di un ritorno o di quello squillo di telefono a comunicargli un decesso. È una morte temuta, forse a tratti immaginata, alla fine desiderata, sempre in un’attesa che giorno dopo giorno procura il vuoto intorno e quel vuoto inizia a inserirsi nel corpo, nei ricordi, nel cervello. In una pericolosa indecisione tra immaginazione e realtà. Nell’agguato continuo di quella sindrome post traumatica da stress che riempie le giornate di chi è tornato ma tortura altresì chi è rimasto a casa in attesa. Pur nella brevità della storia, la giovane regista fa compiere un percorso di dolore ad un intenso personaggio che ha i tratti sempre più sofferti e allucinati di Magdalena Poplawska, ma lo tratteggia al tempo stesso senza approfondire, per schegge e immagini a volte confuse, per inquadrature sghembe che reclamano l’affermazione dell’autrice ma che si risolvono soltanto per infastidire e creare anche il vuoto nell’ispirazione. I dialoghi centellinati, i visi e gli insiemi non a fuoco, il passato e il presente mescolati, il richiamo ad un’esplosione che coinvolge tutto e tutti, non aiutano affatto la linearità del racconto.

Al contrario, convince appieno Paul Dano, attore trentaquattrenne – lo abbiamo visto in Little Miss Sunshine, come figlio di Daniel Day-Lewis nel Petroliere, come attore deluso dalla professione e dal mondo hollywoodiano in Youth del nostro Sorrentino – con Wildlife, sua opera prima scritta con la collaborazione della compagna Zoe Kazan, nipote del mitico Elia. Il Montana dei primissimi anni Novanta, un piccolo paese tra mandrie e paesaggi sconfinati, una famiglia del più tranquillo ordinario, un padre (Jake Gyllenhaal) che lavora nel vicino circolo del golf, una madre casalinga (un’eccezionale Carey Mulligan) ed un ragazzo di quattordici anni, scuola pallone e partite con papà, i suoi occhi grandi a guardare il mondo che gli gira intorno. Una perfezione destinata a guastarsi. Lasciato a casa dal lavoro e troppo orgoglioso per riaccettarlo quando i responsabili ammettono l’errore di valutazione, il padre se ne va in montagna a spegnere i fuochi che sono divampati (Incendi è il titolo del romanzo di Richard Ford: e si capirà ben presto che quel fuoco che lambisce le foreste non è il solo a esplodere, quegli incendi colpiscono anche le persone e la vita), accettando anche la paga di un dollaro l’ora, mentre il ragazzo comincia a impegnarsi in uno studio fotografico e mamma a far da istruttrice in una piscina, entrambi a cercare di arrotondare con qualche quattrino in più. Mamma sogna una vita più felice e un vecchio signore con attività in proprio e casa quasi da sogno potrebbe fare al caso suo: ma il pompiere torna e prima o poi bisognerà fare i conti anche lui. È la summa delle disillusioni, la necessità di guardare al domani con occhio diverso, umanamente in via di distruzione: e quella fotografia entro cui il ragazzo tenta di ricompattare la propria famiglia, non lascia certo benevoli spiragli aperti, gli sguardi ormai spenti lasciano intendere quanto il disfacimento sia ormai totale. Lo stile di Dano affonda con piena maturità nel tranquillo andamento di un racconto che nasconde tragedie, lo sguardo che sorvola l’America rurale, affronta le ribellioni e il coraggio e distrugge il sogno americano. Ben raccontando, nell’interno del nido ormai definitivamente a pezzi come all’esterno, i suoi personaggi e le loro azioni, seguendoli da vicino, con la macchina da presa incollata addosso, a cominciare da Joe, il timido ragazzino, impersonato da Ed Oxenbould, muto testimone, un nome sui cui ci sarà da tenere gli occhi ben aperti.

Se vogliamo, in questo finale del primo sabato di festival, fare un salto nella sezione “Festa mobile”, diciamo di Pretenders di James Franco, che certo non può essere presente perché, ci avverte Emanuela Martini, “lavora molto”. E siamo felici per lui. Resta peraltro il fatto che tutto il divertimento, intelligente, causticamente ricostruttivo di un’operazione e di un’epoca, che ci aveva procurato lo scorso anno The disaster artist, ovvero la lavorazione del film che mai sia stato affatto ad opera di due amici e collaboratori (sullo schermo la coppia di fratelli Franco), con il film presentato quest’anno qui in prima mondiale se ne è andato un po’ in pappa. Lui lei e l’altro, un triangolo amoroso, da amour fou, tra uno scrittore/regista, un’attrice e un regista, un incontro all’insegna del cinema che dopo aver promesso citazioni per i cinefili si perde tra le lenzuola di questo o di quello, con un erotismo che per un attimo scombussola ma che poi rimette le cose a posto. Un incontro che si porta appresso amicizia e passioni, scambi repentini e scritture, fughe e inseguimenti, sentimenti e l’Aids che ti porta via (siamo a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta), un incontro che batte le strade americane e vola in Europa per parlarci di Nouvelle Vague con Godard e Anna Karina, di Truffaut e di Jules et Jim, con lei che corre sul ponte abbigliata come Jeanne Moreau, di Dreamers e dell’Ultimo tango e della Schneider che non parlò più con Bertolucci. Poi la storia sceglie di “chiacchierare” dell’ambiente del cinema e lo fa in maniera confusa, con psicologie stagnanti e personaggi alla fine non ben scolpiti, ripetitivi.

 

Elio Rabbione

 

 

 

Nelle foto: “The Front Runner” di Jason Reitman che ha inaugurato il TFF; “53 Wars” di Ewa Bukowska (polonia); Carey Mulligan e Jake Gyllanhaal in “Wildlife” di Paul Dano; gli interpreti di “Pretenders” con la regia di James Franco.

 

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