CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 602

Santa Liberata tra storia e fede

Sul territorio del Comune di Villamiroglio, nella località Case Alemanno (nome che forse ricorda l’antica presenza dei Longobardi in Valcerrina), in una valletta isolata e a diretto contatto con la natura, si trova la chiesa di Santa Liberata

Proprietà dell’ente ecclesiastico Parrocchia dei Santi Filippo e Michele di Villamiroglio, la sua edificazione viene fatta risalire al XVII secolo. Della sua esistenza se ne parla negli atti di una visita pastorale effettuata nel 1619, in cui si riferisce della chiesa e dell’adiacente romitorio, piccolo convento in cui i monaci si ritiravano in preghiera a contatto con la natura. Notizie sul luogo di culto della Santa, alla quale si rivolgevano le partorienti, risalgono anche al 1685 con l’accenno all’altare laterale dedicato a San Luigi Gonzaga, sovrastato da una tela che raffigura il Beato con l’angelo dell’Apocalisse ed alla base lo scritto “Vero ritratto del Beato Luigi Gonzaga della Compagnia del Gesù”, del 1710 e del 1725 redatto in occasione della visita del Vescovo di Casale Monferrato, Radicati. Tra il 1658 ed il 1685 venne costruito presso la chiesa un romitorio, piccolo convento in cui i monaci si ritiravano in preghiera a contatto con la natura. L’edificio si presenta come una chiesa campestre (una delle più antiche della Valcerrina) di discreta grandezza, con sagrato recintato da un muretto ed una facciata ottocentesca con quattro lesene in doppio ordine, culminante con un timpano in cui si prolungano le due lesene mediali. Sul lato sinistro è conservato il porticato seicentesco, molto suggestivo, mentre nella zona posteriore c’è il piccolo romitorio di cui si scriveva poc’anzi. All’interno le pareti del presbiterio presentano affreschi murali che risalgono ad un’epoca a cavallo tra il tardo Cinquecento e l’inizio del Seicento, recuperati alla memoria collettiva in occasione di lavori effettuati al suo interno. In particolare sulla parete di fondo si vede, interrotta dal successivo inserimento di una nicchia, una processione di sacerdoti e di personaggi abbigliati con una foggia che ricorda la seconda metà del XVI secolo, con sullo sfondo quel che rimane di un castello. Su quale fosse il maniero (quello dei signori Miroglio che hanno dato il nome a comune o altro) e su un motivo tanto inconsueto, quale quello della processione dei sacerdoti, l’interrogativo è aperto. Sulle pareti laterali sono raffigurati, a sinistra, 9 Santi, per alcuni dei quali non si è raggiunta l’identificazione, mentre a destra riaffiora un precedente affresco con gli stessi Santi ed un curioso effetto di sdoppiamento delle immagini. Il luogo di culto, che era stato danneggiato dal terremoto dell’agosto del 2000, è stato sottoposto ad intervento di consolidamento, mentre il restauro dell’interno è stato completato sette anni orsono, nel 2011. Da notare il particolare impegno del parroco don Davide Mussone, che alternando i suoi impegni parrocchiali a quelli di giudice rotale e di cancelliere della Diocesi di Casale, ha seguito i lavori ed effettuato, anche manualmente, alcuni interventi, contribuendo al consolidamento, al restauro ed all’abbellimento della chiesa che era ad inizio anni Duemila pericolante. Nel 2016 è stato depositato alla Sovrintendenza, e da questa autorizzato un intervento per la facciata, l’aggancio e la sistemazione dei coppi del tetto, ed altre opere di sistemazione, ma che necessità di fondi. Nel luogo di culto, il più antico di quelli che si trovano nel territorio comunale di Villamiroglio, viene celebrata la Messa, come è avvenuto in occasione del recente raduno annuale della sezione Avis della frazione Vallegioliti, alla presenza di numerosi amministratori dei comuni della Valcerrina, a partire dal sindaco di Villamiroglio, Paolo Monchietto, dell’Unione dei Comuni della Valcerrina e dell’assessore regionale Gianna Pentenero.

Massimo Iaretti

 

 

Castellamonte, ceramica in mostra sotto il segno dell’amore

Il manifesto ufficiale della Mostra, già di per se’, la dice lunga. Creato da Guglielmo Marthyn, artista poliedrico e geniale fantasioso ceramista (di origini valdostane ma canavesano di adozione), presenta un’immagine di raffinato erotismo sospesa fra sogno e realtà – che è consueta cifra stilistica della ceramica d’arte di Marthyn – tratta da una delle opere più celebri del “Louvre” di Parigi, l’“Amore e Psiche” di Antonio Canova. Nientemeno. Nasce infatti sotto il segno dell’ “Amore” l’edizione 2018, la cinquantottesima, della “Mostra della Ceramica” di Castellamonte che, da sabato 18 agosto a domenica 2 settembre, tornerà a fare della cittadina canavesana la capitale italiana di un’arte antica quanto il mondo e che quest’anno si presenta con la grande novità di un concorso internazionale promosso dal Comune e dal curatore della rassegna, Giuseppe Bertero, che ha come tema e titolo, per l’appunto, “Ceramics in love…”. Amore declinato in ogni forma di ceramica artistica. Dalla più ligia ai canoni della tradizione artigianale ad altre totalmente immerse nella creativa estrosità di un connubio terra e fuoco e colore, più al passo coi tempi e interamente giocato su schemi di totale libertà compositiva e creativa. “L’obiettivo – sottolineano gli organizzatori – è proprio quello di allargare gli orizzonti sulla contemporaneità dell’arte ceramica, tanto antica quanto moderna e sempre attraente per la qualità delle sue forme, dei colori, delle dimensioni e delle tecnologie innovative”. Enorme e inaspettato il successo del concorso: 130 sono state infatti le adesioni di artisti provenienti da tutta Italia e dall’estero (da Francia, Russia, Croazia e Grecia) e 150 le opere presentate, che saranno esposte a Palazzo Botton – dove si potranno anche ammirare le Collezioni Storiche con firme di altissimo prestigio insieme alle celebri “stufe” di Castellamonte – e al Centro Congressi “Piero Martinetti”. Ma la Mostra permetterà anche agli artisti locali e alle numerose botteghe d’arte aperte sul territorio di presentare le loro più recenti creazioni. Da segnalare inoltre le stranianti e seducenti “ceramiche da indossare” portate a Castellamonte da CNA (la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole e Medie Imprese). Anche per l’edizione di quest’anno sono confermati i punti espositivi pubblici e privati che da sempre accompagnano il percorso ufficiale della Mostra. Fra i siti pubblici, oltre ai già segnalati Palazzo Botton e Centro Congressi “Piero Martinetti”, tappa d’obbligo sarà come sempre il Liceo Artistico Statale “Felice Faccio” (partner ufficiale della manifestazione) che presenterà le opere realizzate – anche attraverso il linguaggio 3D- dagli studenti dei corsi di Architettura e Ambiente, Grafica, Design Moda e Design Ceramica. Fra i punti espositivi privati – luogo di confronto e di dialogo fra artisti e appassionati dell’arte ceramica – il “Cantiere delle Arti”, la ditta “La Castellamonte”, la “Casa Museo Allaria”, le “Fornaci Museo Pagliero”, le “Ceramiche di Castellamonte” di Elisa Giampietro, le “Ceramiche Camerlo”, le “Ceramiche Grandinetti” e la Bottega d’Arte di Teresa Rosa Maria. Da non perdere la visita ai “castelletti”, da dove si ricava la famosa argilla rossa di Castellamonte e raggiungibili con apposita navetta gratuita (partenza di fronte al Centro “Martinetti”) nei giorni prefestivi e festivi dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19. Numerose sono anche le iniziative collaterali in programma, dalle conferenze a tema agli spettacoli musicali e teatrali alla presentazione di libri fino alla “Festa della birra” e al concerto serale per pianoforte di Alessandro Rosso che, domenica 2 settembre alle 21, concluderà la manifestazione alla “Rotonda Antonelliana”.

Gianni Milani

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“Ceramics in love…” – Cinquantottesima edizione dellaMostra della Ceramica di Castellamonte (Torino) Per info: tel. 0124/5187216, ingresso libero- Dal 18 agosto al 2 settembre- Orari: lun. – ven. 17/21, sab. e dom. 10/21

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Nelle foto

– Guglielmo Marthyn: Manifesto della mostra
– Interni di Palazzo Botton

 

Summer of Love. Ubi maior…

Si scrive Black Hills ma si legge “Memorial”. In South Dakota, presso le montagne sacre ai Lakota, si trovano i volti scolpiti di Washington, Jefferson, Th. Roosevelt e Lincoln sul Monte Rushmore (Mount Rushmore National Memorial) ma anche l’attualmente incompiuto Crazy Horse Memorial, nel ricordo di Tashunka Witko (“Cavallo Pazzo”), formidabile capo militare Oglala Lakota, le cui gesta con “Toro Seduto” (Tatanka Yotanka) e “Fiele” (Piji) ancora vivono nella storia della resistenza dei Sioux. Le Black Hills sono ad ovest, verso Wyoming e Montana; molte miglia mancano per raggiungere il fiume Missouri, che divide in due il South Dakota. Ad est invece, quasi al confine con Minnesota e Iowa, sorge Sioux Falls; più a nord “Huron”, eppure qualcosa non torna, poiché gli Uroni (Wyandot) erano nell’area canadese dell’Ontario, già nel XVII secolo decimati dalla forza d’urto degli Irochesi (Haudenosaunee). Fatto sta che Huron è nome di almeno altre sei città degli USA. Era solo un nome suggestivo? Probabilmente lo era anche quello di una band sorta proprio ad Huron nel 1963: The Torres, che da allora sarà sempre caratterizzata dal numero corposo dei componenti, finanche nelle più recenti reunions. Tutto ebbe inizio da Steve Manolis e Fritz Leigh (V, chit), cui si aggiunsero Rod Ramsell (batt) e Sherwood Moore (b); poi Mike Strub (org), Gary Myers (b) e, a distanza di un paio d’anni, Rick Gillis (batt), Mark Baumgardner (fiati) e Mark Huisinger (org). Le influenze musicali andavano dai Beatles, ai Byrds, ai Rascals, agli Association, senza tralasciare la componente Motown da Detroit. Il versante manageriale dei The Torres in tema di esibizioni e concerti fu gestito prevalentemente “in proprio” dagli stessi Huisinger e Gillis; tuttavia fu fruttuoso e frequenti furono le occasioni di esibizioni (anche in formazione variabile a rotazione) dapprima in feste di liceo e teen clubs, poi tra 1965 e 1966 nel giro di dance halls su un territorio più ampio, tra Iowa, Minnesota, North Dakota e Nebraska (dove per breve tempo furono assistiti dalla Eddie Haddad Agency). La rampa di lancio, come sempre, fu l’affermazione in una “Battle of the Bands” che si tenne a Sioux Falls nel 1964, che preparò il terreno ad una partecipazione a “Rock the Roof” presso il Roof Garden (lago Okoboji) in Iowa e anche all’esordio discografico dell’anno successivo. Nel 1965 uscì il primo 45 giri: “I’ve Had It” [Bonura – Ceroni] (Soma 1438; side B: “Ride On” [Leigh]), inciso presso i Kay-Bank Studios di Minneapolis (Minnesota) con etichetta Soma record co. Poi nel maggio 1966 il secondo 45 giri: “Play Your Games” [Manolis – Leigh] (IGL 45-114; side B: “Don’t You Know”), inciso a Milford (Iowa) con etichetta IGL (Iowa Great Lakes recording co.). Nel 1967 l’ultimo singolo, che tornò all’etichetta Soma: “Ride On” (Soma 1463; side B: “Tommy Tommy” [Leigh – Manolis]). In particolar modo nel 45 giri IGL del 1966 e nel brano “Play Your Games” emerge la componente armonica vocale di Leigh e Manolis, che diede buon successo al singolo specialmente nelle classifiche delle radio locali di South Dakota, Iowa e Nebraska. Nonostante tutto nell’estate 1967 (alla luce di eventi quali il Monterey Pop Festival e la Summer of Love di San Francisco) The Torres si sciolsero, avvertendo l’ormai mutato clima musicale generale, con la spinta incalzante e travolgente della “psychedelia” e con l’avvento di tecniche vocali, soluzioni acustiche e suoni innovativi e rivoluzionari. Tuttavia dal 2004 in poi i membri della band si sono più volte riuniti in forze (senza sostanziali defezioni dopo oltre 40 anni) in fasi successive nel 2007, 2009, 2011 e ad intervalli piuttosto regolari fino a tempi recentissimi, alle prese con nuovi e stimolanti gigs.

 

 

Gian Marchisio

 

 

 

 

Oulx, la torre delfinale tra storia e leggenda

Svetta imponente sul paese di Oulx in alta Valle di Susa e domina l’abitato da molti secoli ma pochi se ne accorgono al di là di una veloce occhiata transitando in auto o a piedi. Non vederla è impossibile ma sono davvero pochi coloro che la raggiungono per visitarla. E pensare che ad agosto decine di migliaia di persone, tra italiani e turisti stranieri, passano per Oulx e molti si fermano per le vacanze estive. È la Torre Delfinale di Oulx che dalla collina del paese, sulla strada che sale a Sauze, fa bella mostra di sé. Dovrebbe esserci la fila di gente ma non c’è. Da centinaia di anni il monumento simbolo di Oulx racconta storia e leggende di una valle ricchissima di Storia, da Annibale (forse, chissà, non si saprà mai con certezza se è passato da qui) all’imperatore Augusto, che, tra l’altro, ringraziamo tutti per aver concesso, nel 18 a.C. , le vacanze ferragostane, le “Feriae Augusti” di duemila anni fa appunto, dai longobardi di Desiderio e Adelchi a Carlo Magno, dai terribili Saraceni a Carlo VIII e Francesco I di Francia che in qualche modo hanno avuto a che fare con questo paese e a tanti altri personaggi storici. La torre delfinale o torre saracena come viene erroneamente chiamata, di proprietà del Delfino di Francia, fu eretta su uno sperone roccioso nella seconda metà del Trecento. È stata anche definita “torre saracena” ma in realtà è di molto posteriore alle scorrerie dei mori e faceva parte del castello delfinale del Quattrocento. Dopo decenni di totale abbandono è stata riportata, alcuni anni fa, al suo antico splendore dal Comune di Oulx, Regione Piemonte e Compagnia di San Paolo con un complesso e costoso intervento di restauro. Anticamente la rocca serviva da magazzino per conservare il grano e in seguito fu trasformata in una torre merlata a scopo difensivo. Dal tetto si gode una bellissima vista sul borgo e la torre è ancora più suggestiva con l’illuminazione notturna. Un sistema multimediale racconta ai visitatori la storia della valle e il territorio di Oulx. Questo piccolo ma importante tesoro d’arte sorge nei pressi della chiesa di Santa Maria Assunta ed e’ gestito dalla Pro Loco di Oulx. Al suo interno si possono vedere mostre di pittori e artisti della valle.

Filippo Re

Al forte di Bard l’estate “calda” dell’arte

Per prima, una mostra assolutamente particolare e focalizzata su un periodo di altissima creatività nella vita artistica di Henri Matisse; a seguire gli scatti fra il metafisico e il surreale (“frazione di secondo di realtà”) del grande Henri Cartier-Bresson, autentico pioniere del foto-giornalismo e figura mitica nella storia della Fotografia del Novecento; per concludere, i pannelli scolpiti su legno che raccontano la storia della Vallée realizzati da Giovanni Thoux, oggi fra i più originali interpreti della scultura di tradizione valdostana. Il programma espositivo per l’estate 2018 riconferma per il Forte di Bard una collocazione di primo piano fra i poli artistico-culturali di maggior prestigio a livello nazionale e internazionale. Andiamo per ordine.

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“Henri Matisse. Sulla scena dell’arte” – Fino al 14 ottobre.

Mostra inedita. Incentrata sul rapporto che Henri Matisse (1869-1954) ebbe con il teatro e la produzione di opere legate alla drammaturgia, raccoglie oltre 90 opere realizzate dal 1919 fino alla morte dell’artista francese, avvenuta nel 1954. Siamo nel cosiddetto pèriode Nicoise, seguito al trasferimento (1917) di Matisse a Cimiez, sobborgo di Nizza sulla Costa Azzurra. Sono gli anni in cui il pittore lascia parzialmente alle spalle i primitivi istinti fauve per dedicarsi alle sue “odalische” e a quel dipingere in chiave esotica (retaggio dei precedenti e lunghi soggiorni in Algeria e in Marocco) la bellezza delle sue modelle. Semplificazione delle forme, fin quasi all’astrattismo, campiture omogenee di colore, sempre più Matisse rifiuta la tradizione occidentale e si inventa figure danzanti nell’aria, improbabili ed essenziali, di forte cifra decorativa. Questo troviamo nel percorso espositivo al Forte, curato da Markus Muller (direttore del “Kunstmuseum Pablo Picasso” di Munster, da cui proviene buona parte delle tele, disegni e opere grafiche esposte) e articolato in quattro grandi sezioni: dai “Costumi di scena” a “Matisse e le sue modelle” fino a “Le odalische” e a “Jazz”. Una selezione di opere illustra il rapporto fortemente interattivo fra l’artista e le sue modelle, per lui “attrici” della sua arte, mentre l’esposizione di tappeti, abiti, oggetti d’arte orafa, collezionati dall’artista e concessi in prestito dalla famiglia, documentano con evidenza il grande interesse dell’artista per certo decorativismo orientaleggiante. Gli anni Quaranta sono anche quelli in cui il pittore sviluppa la tecnica dei “papiers découpés” (o “pittura con le forbici”, carte ritagliate, sintesi perfetta per Matisse fra colore e precisione della linea) di cui le opere, dai colori dissonanti, della serie “Jazz” – che non poco ispirarono la “pop art” americana e lo stesso Andy Warhol – sono la testimonianza più importante.

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“Henri Cartier-Bresson. Landscapes/Paysages” – Fino al 21 ottobre

Realizzata dal Forte di Bard in collaborazione con Magnum Photos International e Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, la mostra presenta 105 immagini rigorosamente in bianco e nero, scattate da Henri Cartier-Bresson (1908-2004) fra gli anni Trenta e Novanta, in un curioso e attento girovagare, con l’inseparabile “Leica” al collo, fra Europa, Asia e America. Ogni scatto è rappresentazione di quell’“istante decisivo” che per l’artista – non a caso denominato l’“occhio del secolo” – è il “riconoscimento immediato, nella frazione di un secondo, del significato di un fatto e, contemporaneamente, della rigorosa organizzazione della forma che esprime quel fatto”. Raggruppate per soggetto – alberi, neve, nebbia, sabbia, tetti, scale, ombra, pendenze e corsi

d’acqua – le immagini documentano soprattutto la forte attenzione di Cartier-Bresson, co-fondatore nel 1947 della celebre agenzia “Magnum”, per l’ambiente; l’appassionata attrazione (con esiti non di rado surrealisti, ispirati all’arte fotografica di quell’altro grande che fu Eugène Atget) per il Paesaggio della Natura cui, tuttavia, si affianca a tratti un Paesaggio dell’uomo assolutamente integrato nella perfetta armonia di linee e geometrie formali che caratterizzano quel “mondo immenso del paesaggio” che l’artista “è riuscito a fare entrare nello spazio ristretto dell’immagine fotografica – come scrive Gérard Macérispettando i tre principi fondamentali che contengono la sua personale geometria: la molteplicità dei piani, l’armonia delle proporzioni e la ricerca di equilibrio”.

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“Racines. Eventi e protagonisti della storia valdostana” – Fino al 16 settembre

Ci sono tutti i passaggi chiave della storia locale, dall’insediamento di Saint-Martin-de-Corléans alla conquista romana e all’epoca medievale, fino ad arrivare ai tempi moderni, alla lotta di liberazione dai nazifascisti e alla conquista, il primo gennaio del ’46, dell’autonomia ( che ha permesso alla comunità di riappropriarsi della propria identità ) nei 25 stupendi pannelli scolpiti su legno di cirmolo firmati dall’artista valdostano Giovanni Thoux e ospitati fino al 16 settembre nelle sale dell’“Opera Mortai” del Forte. Nato a Verrès, nel ’35, Giovanni Thoux è figlio d’arte; eredita infatti dal padre falegname la passione per la lavorazione del legno. Dopo un lungo soggiorno in Giappone, a inizi anni Settanta rientra in Valle e affianca i fratelli nell’atelier di ebanisteria fondato dai nonni. Numerosi i premi e i riconoscimenti collezionati in un’ormai lunga attività che lo vede oggi fra i più originali interpreti di una scultura profondamente radicata (“Racines”, radici per l’appunto) alla storia e alla tradizione valdostana. In mostra troviamo bassorilievi in legno policromi, realizzati utilizzando colori ad acqua che l’artista fissa con vernici speciali trasparenti così da lasciare intravedere le venature del legno. A commento delle opere, testi a cura di Omar Borettaz, scrittore e bibliotecario della Biblioteca Regionale di Aosta.

Gianni Milani

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Forte di Bard (Aosta); tel. 0125/833811 – www.fortedibard.it

Orari: dal mart. al ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19; lunedì chiuso. Aperto tutti i giorni dal 23 luglio al 2 settembre 10/19,30

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Foto

– Henri Matisse: “Il cowboy” da Jazz, stampa su stencil incollato su carta, Tériade Editore, Parigi 1947 – Kunstmuseum Pablo Picasso Munster/Succession H.Matisse/ S.I.A.E. 2018
– Henri Matisse: “L’incubo dell’elefante bianco” da Jazz, stampa su stencil incollato su carta, Tériade Editore, Parigi 1947 – Kunstmuseum Pablo Picasso Munster/Succession H.Matisse/S.I.A.E. 2018
– ph. Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos: “Brie, France”, 1968
– ph. Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos: “A transatlantic arriving in the harbour”, New York City, USA, 1959
– Giovanni Thoux:”Saint Ours”, bassorilievo su legno di cirmolo

 

 

  

 

Mattia Feltri (e non solo) per il Pannunzio ad Alassio

Sabato 25 agosto alle ore 21,15 ad Alassio in piazza della Libertà, nei giardini antistanti al Comune, si terrà l’evento “Sera d’estate 2018” nel corso della quale verranno consegnati i seguenti premi: Premio “Pannunzio Alassio” al giornalista MATTIA FELTRI,autore del “Buongiorno”su “La Stampa” e il “Secolo XIX”, il Premio” Flaiano cultura” al linguista VITTORIO COLETTI e il Premio” Mario Soldati” ad ALESSANDRA ZUNINO SEGRE , imprenditrice dell’accoglienza ligure di eccellenza. In apertura Anna Ricotti presenterà il libro di Pier Franco Quaglieni “Grand’Italia”, Golem Editore. Coordinerà Marco Servetto , presidente del comitato del Ponente Ligure del Centro “Pannunzio”. La manifestazione è organizzata dal Centro “Pannunzio”. In caso di maltempo  si terrà alla Biblioteca civica di Alassio in piazza Airaldi e Durante. Mattia Feltri, giornalista e scrittore, nel 2005 viene  assunto da “La Stampa” e diventa caporedattore della redazione romana del giornale.Dal 2010 firma la rubrica quotidiana “Paesi e buoi”, dove commenta sarcasticamente il fatto politico del giorno. Dal 2017 scrive la rubrica di prima pagina

“Buongiorno”. Il linguista Vittorio Coletti, accademico della Crusca, è stato docente ordinario di storia della lingua italiana a Genova, a Parigi e in altre università italiane e straniere. Con Francesco Sabatini è autore di un celebre Dizionario della lingua italiana. Da anni scrive sul quotidiano “Repubblica”. E’ autore di saggi di fondamentale importanza e valore scientifico . Alessandra Segre Zunino è contitolare con il marito del Relais- Chateaux, Resort & Golf “La Meridiana” di Garlenda, un albergo di charme fondato 1978-40 anni fa – che fa dell’accoglienza raffinata la sua cifra distintiva. Alessandra Segre Zunino è animatrice e sostenitrice di tante iniziative culturali e artistiche. E’ sua l’idea del celebre presepe luminoso di Garlenda. Dichiara il prof. Pier Franco Quaglieni direttore generale del Centro “Pannunzio”, che consegnerà i premi: “Essi intendono premiare e riconoscere personalità molto diverse tra loro nello spirito di pluralismo che da sempre caratterizza il Centro “Pannunzio”. E’ un appuntamento che si ripete ogni anno ad Alassio anche nel ricordo di Roberto Baldassarre mitico organizzatore culturale alassino.”

“Anni luce” a Borgate dal vivo

Galleria d’arte Gagliardi e Domke, via Cervino 16, Torino


Venerdì 24 agosto alle ore 16 il festival Borgate dal Vivo ospiterà Andrea Pomella che, in dialogo conHamilton Santià, presenterà il suo ultimo libro “Anni Luce” (add editore, 2018). Ad accompagnarli con la chitarra, Adriano Viterbini dell’ormai storica band romana Bud Spencer Blues Explosion. L’incontro, organizzato in collaborazione con TOdays festival, è gratuito e si terrà nella Galleria d’arte Gagliardi e Domke a Torino.

“Anni Luce”, inserito tra i dodici libri finalisti del Premio Strega 2018, è una storia grunge: è la storia di un’amicizia, dove al centro ci sono i Pearl Jam, la loro musica e “Q.”, il compagno di sbronze, amico, viaggiatore e chitarrista che fece conoscere la nota band statunitense ad Andrea Pomella.

“Ten, il primo disco dei Pearl Jam, uscito nel 1991 fu un treno che travolse la mia giovinezza. – dice Andrea Pomella – Venticinque anni dopo, decisi di scriverci un pezzo, la ricorrenza lo meritava. Il treno passò di nuovo sopra le mie rovine trascinandosi dietro tutto ciò che si metteva in moto quando dalle casse dello stereo fluiva una loro canzone, il vortice di angosce, divertimenti, memorie, furori, gioie, inquietudini che si incanalava attraverso la loro musica”.

Andrea Pomella è nato a Roma e ha pubblicato monografie su Caravaggio e Van Gogh, il saggio sulla povertà “10 modi per imparare a essere poveri ma felici” (Laurana, 2012) e il romanzo “La misura del danno”” (Fernandel, 2013). I suoi racconti sono stati pubblicati su “minima&moralia”, “doppiozero” e “Rivista Studio”.

Hamilton Santià è nato a Torino. Interessato principalmente ai rapporti tra cultura, politica e società, scrive da anni su siti e riviste, principalmente di musica, cinema, cultura pop e comunicazione politica (tra le testate con cui collabora e ha collaborato: “Mucchio Selvaggio”, “l’Unità”, “Pagina99”, “Artribune”, “Rolling Stone”, “Losing Today”).

Adriano Viterbini è nato a Marino (RM) e vive a Roma. Chitarrista appassionato di delta blues, rock-funk e musica alternativa. Nel 2000 comincia a suonare nel circuito musicale romano e nel giro di pochi anni si impone come uno dei chitarristi più completi e personali della scena italiana ispirato dal blues del delta Mississippi, da Ry Cooder, dal rock più stoner e dal pop più nobile. Nel 2007 fonda, insieme a Cesare Petulicchio, i Bud Spencer Blues Explosion. Nel 2010 è artefice del progetto blues Black Friday. Nel 2013 torna alle origini. e pubblica il suo primo disco solista, “Goldfoil”. A fine 2014 partecipa alle registrazioni del disco di Niccolò Fabi, Daniele Silvestri e Max Gazzè “Il padrone della festa”. “Film o Sound”, del 2015, è il suo secondo disco solista. Tra le tante collaborazioni: Bombino, Nic Cester, Davide Toffolo

 

Borgate dal Vivo è stato definito il festival più grande d’Europa dedicato ai territori più piccoli: i borghi e le borgate alpine. Per la III edizione Borgate dal Vivo è diventato Performing Alps: oltre alla letteratura, comprende anche altre forme artistiche, dal teatro, alla musica, al cinema, alla danza. L’ obbiettivo del Festival è di contribuire alla rinascita dei borghi e delle borgate alpine e alla lotta contro il loro spopolamento. Gli eventi, tutti in forte relazione con i luoghi che li ospitano, sono rivolti sia agli abitanti di queste aree periferiche, che vengono sempre più rivalutate da un punto di vista ambientale e architettonico, sia al grande pubblico che può riscoprire piccoli luoghi di grande bellezza.

Mombello e le sue borgate

Come diversi altri paesi della Valcerrina, Mombello Monferrato è un comune ricco di frazioni e borgate che nei secoli scorsi ebbero anche una loro vita propria rispetto a quello che è il capoluogo

Ilengo, piccolo borgo arroccato sulla collina, è dominato dalla chiesa di Sant’Anna e completato da insediamenti sparsi. Avvolto da una vegetazione prevalentemente a bosco offre la visuale ad un panorama in direzione di borgata Luvara e la collina del sito scomparso di Monte Sion. L’attuale costruzione della chiesa di Sant’Anna risale al 1745. Fu parrocchia sino al 1986. Al suo interno, l’altare laterale di sinistra, dedicato alla Madonna del Rosario, sarebbe proveniente dall’ex convento di Monte Sion, e presenta un paliotto monolitico datato 1677. La tela soprastante rappresenta la Madonna con San Domenico e Santa Caterina e così come la tela con le figure di Sant’Antonio e San Bartolomeo sono attribuite a Guglielmo Caccia. Non si conosce, invece, la data di costruzione della chiesetta di borgo anch’essa dedicata a Sant’Anna. Si presume sia stata eretta nel XVI secolo.

 

Il già citato complesso di Monte Sion sorse nella prima metà del XVI secolo sull’omonimo colle per iniziativa di padre Bonaventura Quarelli, francescano minore, di ritorno da un pellegrinaggio dalla Terra Santa. La notizia più antica del convento risale al 1561, la chiesa venne consacrata nel 1619. Convento e chiesa vennero soppressi dalla legislazione napoleonica nel 1802e l’acquirente, un francese, che l’acquistò all’asta fece abbattere il tutto, vendendo i mattoni che servirono per edificare un palazzo nella vicina Solonghello. Oggi rimangono i resti di una facciata settecentesca in mattoni, affiancata da edifici rustici.

 

Zenevreto, piccolo borgo, prende il nome dal bosco di ginepri che lo ricopriva. Nel nucleo abitativo si colloca la chiesa di San Grato, di cui si conoscono interventi abitativi che risalgono al 1870. Si desume che la parte più antica sia quella absidale aderenti alla quale alcuni locali sembrano sottolineare la presenza di un cappellano. Accorpato al corpo della chiesa si trova, sul fianco sinistro, il campanile.

A Morsingo il borgo è raccolto attorno alla chiesa che offre il fronte della piazza che appare come una terrazza. La chiesa è quella di San Michele Arcangelo, edificio in origine intitolato a San Bernardino da Siena. Nel 1586 essendo l’oratorio di San Bernardino in restauro  vi fu trasferita la funzione parrocchiale, poi soppressa nel 1986. La chiesa ebbe l’attuale intitolazione agli inizi del Settecento. Sul fianco sinistro si erge il campanile. L’interno è ricco di arredi liturgici. Nei pressi del borgo più altro si trova il piccolo sacello di San Luigi, tempio settecentesco.

 

Casalino, adagiato sul pendio di  un’altura su sede del quartier generale della X Divisione partigtiana “Garibaldi” durante la guerra civile. Nella frazione si trova la chiesa dedicata allo Spirito Santo, posta nella parte più elevata dell’abitato. Dalle notizie assunte la prima volta che venne nominata su nel 1611. Nel 1723 venne costruita l’attuale chiesa, poi consacrata nel 1725. Al suo interno una  lapide ricorda che nel 1970 l’allora vescovo di Casale Monferrato, monsignor Giuseppe Angrisani, consacrava il nuovo altare ed il nuovo presbiterio. Nel 2010 il ripristino degli intonaci ha donato all’opera gli originari valori. Nel Palazzo Tetina dell’Aglio, che si presume risalga al XVIII secolo, il Conte di Cavour amava soggiornare. A Gaminella, nella parte più pianeggiante del Comune, il 10 ottobre 1976, è stato eretto il monumento ai Caduti partigiani della Valcerrina, con progetto dell’architetto Attilio Castelli ed intervento artistico dello scultore Luigi Bagna.

Infine, Pozzengo, luogo dal toponimo chiaramente longobardo, fu molto abitato nell’antichità. Nel secolo XVII faceva parte del Ducato di Mantova e di Monferrato con il nome di Peongo, Poi divenne Possengo viste le numerose sorgenti d’acqua. Nella parte più alta del paese sorge la chiesa di San Bononio, Una chiesa di Santa Maria di Palcengo o Plocengo venne già censita nel 1299 negli estimi della Diocesi di Vercelli, ma lla costruzione dell’attuale edificio viene fatta risalire all’inizio del 1700. Venne consacrata nel 1724 dal vescovo di Casale, monsignor Pietro Secondo Radicati e l’anno successivo dedicata alla Vergine Maria ed a San Bononio, intitolazione che prevalse. Presenta un’imponente prospetto frontale, con un bel pportale ligneo e pregevoli interni con un organo di scuola napoletana, datato 1791, di piccole dimensioni e recente restauro.

 

Poco distante dall’abitato di Pozzengo sorge poi il piccolo santuario dedicato a San Gottardo. Il primo impianto risale a prima del 1600 e nel tempo si è modificato, sino all’intervento del 1930 – 1931 che ha dato all’opera la sua veste attuale. Al suo interno sono custoditi numerosi ex voto che attestano la devosione della popolazione per il Santo, e non soltanto della Valcerrina. Sempre sul territorio di Pozzengo si trovano altre 3 chiese: San Rocco, San Bernardo da Mentone e della Beata Vergine del Carmine.

 

MASSIMO IARETTI

 

I tre volti di Primo Levi

IN MOSTRA A CHATILLON TRE SINGOLARI RITRATTI DELLO SCRITTORE TORINESE

FINO AL 23 SETTEMBRE

Si intitolano “Survivor”, “Periodic Table” e “Witness”. Sono oli su tela di grande formato, tutti e tre datati 1987, e portano la firma di Larry Rivers (1923 – 2002), “artista fondamentale nello sviluppo della Pop Art americana”, come ebbe a dire di lui Andy Warhol, che di Pop certo se ne intendeva e che mai nascose di aver guardato con forte attenzione ed empatia proprio all’opera di Rivers per la sua formazione artistica. Parliamo dei tre ritratti dedicati dal grande pittore americano (ma Rivers fu anche musicista jazz, poeta, attore, regista e autore di documentari televisivi) a Primo Levi, custoditi a Torino negli uffici della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli e oggi esposti al pubblico nella prestigiosa sede del valdostano Castello Gamba di Chatillon – in cui è raccolta, con oltre 1200 opere, l’imponente collezione di Arte moderna e contemporanea della Vallée – su progetto di Marcella Pralormo, direttrice della Pinacoteca del Lingotto, e allestimento di Marco Palmieri. Provenienti da un nucleo di dodici opere che Rivers realizzò sulla base di ritratti fotografici ottenuti dalla famiglia Levi, i “magnifici tre” furono acquistati nell’’87, subito dopo la tragica scomparsa di Levi, presso le “Marlborough Galleries” di New York dallo stesso Giovanni Agnelli, che aveva studiato fra l’altro nel medesimo liceo torinese (il mitico D’Azeglio) frequentato dallo scrittore del quale era di due anni più giovane. Portati a Torino, vennero esposti per decisione dell’Avvocato nella sede de “La Stampa” – allora al civico 32 di via Marenco – giornale per il quale Primo Levi aveva scritto a partire dal 1959 e, in forma più continua dal 1968, saggi racconti ed elzeviri della Terza Pagina. “Mio nonno – racconta Ginevra Elkann, presidente della Pinacoteca Agnelli – decise di collocare i quadri di Rivers in una grande sala al piano terreno della sede del giornale che venne comunemente chiamata da allora ‘Sala Primo Levi’. Non era aperta al pubblico, ma era usata solo per le riunioni più importanti e per accogliere i visitatori e gli ospiti illustri”. In via Marenco le tele restarono fino al 2002, allorché furono trasferite negli uffici della Pinacoteca progettata da Renzo Piano sul tetto del Lingotto e inaugurata proprio nel settembre di quell’anno. Ma quando e come avvenne l’interesse di Larry Rivers (nato nel Bronx da genitori russi ebrei e il cui vero nome era Yitzhok Loiza Grossberg) per Primo Levi? A metà degli anni Ottanta, Rivers aveva da poco iniziato a fare i conti con le sue origini ebraiche, fino ad allora trascurate, e con le vicende della Shoah. Nell’ ’84 realizza “La storia della Matzah” (Storia del popolo ebraico) oggi alla “Yale University” e nell’ ’86 la copertina “Erasing the Past” per il Magazine del “New York Times”. La ricerca sull’Olocausto lo porta alla lettura di molti autori e molte opere legate al tema. E proprio su questa strada incontra Levi e il suo “Se questo è un uomo”, suggeritogli dall’amico Furio Colombo, in quegli anni presidente di Fiat USA, che gli regala una copia del libro. Rivers ne è profondamente turbato e decide di leggere tutte le opere dello scrittore, le cui diverse identità (chimico, deportato come partigiano e identificato come ebreo, sopravvissuto allo sterminio e diventato poi narratore delle disumane infamie del lager ma non solo) lo appassionano a tal punto da indurlo a “teatralizzare” i suoi romanzi più celebri nei tre “Ritratti” ancora oggi di proprietà della famiglia Agnelli: dipinti singolarissimi e di forte suggestione in cui la figura, graficamente perfetta, di Primo Levi si sovrappone e si fonde con altre immagini-icone della Shoah, in un costante dialogo e intreccio fra la storia personale dello scrittore e le tante storie di chi, come lui, ebbe a vivere la terribile esperienza della deportazione e dell’odio razziale. “Per esprimere al meglio – si è scritto – la sua visione della Memoria e della Morte l’artista utilizza la tecnica della cancellazione, con figure non pienamente presenti sulla scena. Una perfetta metafora per la difficoltà di trasmettere la memoria dello sterminio da parte dei sopravvissuti: le immagini del passato non si possono dimenticare, eppure, allo stesso tempo, è impossibile riuscire a comunicare fino in fondo la tragedia a chi non l’ha vissuta”. E i frammenti di vita che restano, dopo il lager, e che diventano inferno di memorie che ti bruciano dentro. Giorno dopo giorno. Impietosamente. Come, forse, fu per Primo Levi.

Gianni Milani

“Larry Rivers dalla Pinacoteca Agnelli. I tre volti di Primo Levi”

Castello Gamba, Chatillon Località Cret-de-Breil (Aosta); tel. 0166/563252 – www.castellogamba.vda.it Fino al 23 settembre – Orari: tutti i giorni 13/19

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Nelle foto

– “Survivor”, olio su tela, 1987
– “Periodic Table”, olio su tela, 1987
– “Witness”, olio su tela, 1987
– Castello Gamba di Chatillon

Corto Maltese, marinaio e gentiluomo di fortuna

CORTO MALTESE 2

Nel luglio del 1967 usciva il capolavoro di Hugo Pratt, “Una ballata del mare salato”, primo episodio in cui compare Corto Maltese. Uno degli eventi più importanti della storia del fumetto d’autore moderno, non solo italiano 

«Sono l’Oceano Pacifico e sono il più grande di tutti. Mi chiamano così da tanto tempo, ma non è vero che sono sempre calmo». Inizia così Una ballata del mare salato, la storia a fumetti che segna l’esordio del celebre personaggio ideato dallo scrittore e disegnatore riminese Hugo Pratt. Il primo episodio apparve nel luglio del 1967 sul n° 1 della rivista Sgt. Kirk, frutto di una collaborazione tra l’editore Florenzo Vivaldi e lo stesso Pratt. L’albo si apre su uno scenario al largo delle acque melanesiane del Pacifico del Sud, dove un catamarano salva dalle onde un uomo legato a una zattera. Il singolare «samaritano» è nientemeno che l’avventuriero Rasputin, mentre il naufrago è Corto Maltese (così chiamato perché originario di Malta), ridotto in quello stato dall’ammutinamento del suo equipaggio. E’ il 1° novembre 1913, il giorno di Ognissanti, ma anche “Tarowean”, il giorno delle sorprese. Comincia così una delle più indimenticabili storie a fumetti, fatta di cannoniere tedesche, incursioni in mare, isole misteriose. “Una Ballata del Mare Salato” è un vero gioiello artistico; ci troviamo di fronte ad una storia corale, un insieme di storie e personaggi diversi tra loro che però hanno qualcosa in comune, qualcosa che, solo ad uno sguardo finale e completo, risulterà chiaro agli occhi del lettore. Questo fumetto, raffinato e colto, contribuirà a sdoganare il genere nei confronti di un pubblico più maturo, che non teme di “impegnarsi” a leggere un fumetto. Con la sua opera prima, Hugo Pratt, diede vita ad un personaggio che rappresenta tutt’oggi l’archetipo dell’antieroe per eccellenza, dedito alla pirateria, all’apparenza cinico nei rapporti umani, pronto all’avventura. Una caratterizzazione curata, a partire dalla “biografia”. Infatti, Corto Maltese nasce il 10 Luglio 1887 a La Valletta, nell’isola di Malta. Suo padre è un marinaio inglese della Cornovaglia, nipote di una strega dell’isola di Man, mentre la madre è una gitana di Siviglia, modella del pittore Ingres, chiamata la Niña di Gibraltar. Corto Maltese passa la sua infanzia spostandosi da un luogo all’altro, vivendo inizialmente a Gibraltar, poi a Cordova e infine a La Valletta, dove la madre lo manda per studiare alla scuola ebraica di Ezra Toledano. In questo luogo viene iniziato ai testi dello Zohar e della Cabbala. Il suo nome, Corto, deriva dallo spagnolo e significa “svelto“. Così, tra un avventura e l’altra, navigando nel mare d’inchiostro a china di Pratt, Corto Maltese diventa negli anni uno dei personaggi dei fumetti più amati in assoluto, acquistando pienamente la dignità di opera letteraria, al punto che in esso s’intravede il primo esempio italiano di graphic novel. Riproposta dal Corriere dei piccoli nell’estate del 1971, Una ballata del mare salato venne pubblicata per la prima volta in un unico albo da Mondadori, nel 1972.

 

Marco Travaglini