CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 602

Alla scoperta dei tesori del Duomo

Uno spaccato sulla vita della Chiesa e poi la salita per godere di una delle più belle viste panoramiche su Torino

In una città come Torino, che vanta un Duomo contenente la preziosa reliquia della Santa Sindone, custodita all’interno della Cappella della Sacra Sindone, capolavoro indiscusso del Guarini, non poteva mancare un museo capace di illustrare la storia della Chiesa torinese.

A fianco della Cattedrale, in piazza San Giovanni, sorge, infatti, il Museo Diocesano, nato più di un decennio fa, nel 2008 per volontà del cardinale Severino Poletto, nella chiesa inferiore del Duomo, a sua volta costruito sui resti di tre preesistenti chiese paleocristiane. Dal Museo Diocesano si può accedere alla Torre campanaria, da cui si gode di uno splendido panorama sulla città.

Il museo è stato voluto e progettato dalla Diocesi torinese ed il suo allestimento vuole valorizzare le opere contenute al suo interno, mostrandone il loro significato e la loro origine. Le aree tematiche in cui si articola l’allestimento sono rappresentate da tre momenti distinti della vita cristiana, il Battesimo, la Comunione e la devozione mariana al culto dei Santi.

Merita una vita il Museo diocesano già solo per poter ammirare il fonte battesimale custodito al suo interno, risalente al Quattrocento, il trattato di architettura di Leon Battista Alberti, la Madonna con Sant’Anna di Antoine de Lonhy, San Nicola da Bari di Girolamo Giovenone ed altri dipinti. La sala principale del museo è quella riservata alla liturgia del Verbo e all’altare, che sono presentati secondo le indicazioni fornite dal Concilio di Trento (1545-1563) e dal Concilio Vaticano II (1962-65). Accanto agli oggetti sacri, che sono parte fondante nella celebrazione dell’Eucarestia, comprendenti anche paramenti e statue di epoca barocca, il visitatore potrà ammirare il complesso ligneo scultureo raffigurante la Crocifissione, risalente alla metà del Seicento, ed il frontale dell’altare in argento del Settecento. Altrettanto interessante risulta la sala dedicata al culto mariano, di cui sono testimonianza non soltanto le sculture e gli ex voto lignei, ma anche l’altare dedicato alla Vergine del Rosario.

Fa ora parte delle collezioni permanenti del Museo Diocesano anche il dipinto dal titolo “Trionfo della morte”, realizzato nel 1627 dall’allora giovane pittore Giovanni Battista Della Rovere. È anche noto come ” Specchio della vita umana”.

Meritano anche una particolare attenzione le sezioni architettoniche che sono state rinvenute durante gli scavi risalenti agli anni Novanta, comprendenti resti risalenti ad epoca romana, un sepolcro medievale e parti del battistero di San Giovanni Battista. Recentemente, infatti, sotto l’edificio dell’attuale Duomo, sono state rinvenute proprio le rovine dell’originario complesso episcopale torinese, comprendente tre chiese risalenti al 500-600 d.C., la prima dedicata al Salvatore, una seconda a San Giovanni Battista (che diede poi il nome al Duomo costruito da Domenico della Rovere) ed una terza a Santa Maria. Di particolare interesse archeologico e storico è stato il rinvenimento di un cimitero risalente all’antichita’, posto davanti alla chiesa del Salvatore. Altre sepolture sono poi state scoperte sotto il pavimento attuale della Cattedrale, accanto a tombe comprendenti resti di uomini e donne, risalenti a un periodo di tempo molto ampio, compreso tra la fine dell’epoca romana e quella del Medio Evo.

Il Museo Diocesano ospita periodicamente delle interessanti mostre, tra cui la più recente, aperta fino al 9 giugno prossimo, si intitola “L’ultima Cena”, e comprende tredici opere pittoriche di artisti di respiro internazionale, ispirate a questo tema universalmente noto. L’esposizione è frutto di una proficua collaborazione tra il Museo Diocesano di Torino ed Parco d’Arte Quarelli di Roccaverano, nell’Astigiano.

Mara Martellotta

 

Orario di visita. Mercoledì 14- 18, ven- sab- dom 10- 18.

Museo Diocesano di Torino

Piazza San Giovanni, Torino

Gli acciacchi di Bonaventura e i ricordi di Antonio Latella

Come ultimo spettacolo della stagione dello Stabile torinese, Antonio Latella recupera dal proprio bagaglio del tempo che fu L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi, un testo che Sergio Tofano portò sulle scene, con le musiche di un Nino Rota appena diciannovenne, nel 1936. Recupera perché quel testo – rimesso in scena per il cinquantenario, ancora per lo Stabile, da Franco Passatore, scomparso poco più di un mese fa – lo vedeva muovere i primi passi come attore, con due ruoli piccolissimi (era “il cliente che ha sonno” e “l’aiutante de re negro”); e reinventa, a suon di tradimenti, coadiuvato in questo dal pirotecnico adattamento di Linda Dalisi.Perché, innanzitutto, il suo (o il loro) Bonaventura non è qui quel buffo, allampanato ed elegante personaggio, presenza domenicale immancabile (e sempre attesa da chi viveva la propria infanzia nella metà degli anni Cinquanta) del “Corriere dei piccoli”, che al termine di ogni avventura stringeva felice tra le mani il suo bel milione: adesso è un signore non più certo di primo pelo, che viaggia in sedia a rotelle, affaticato, che accusa malanni e confida in quel Bassotto che lo segue ovunque, che preferisce ricordare, non essendo più in grado le avventure di viverle sul campo e in prima persona. Ecco che allora, con la sua bella bombetta rossa in testa, ciarliero, grande affabulatore, un po’ pedante come ogni vecchio, sull’onda dei ricordi (e senza che qualcuno si prenda il mal di pancia di sforbiciare qua e là), il Nostro si dilunga per circa una mezz’ora iniziale a dipanare fatti e rime baciate in un resoconto che non sempre è di facile comprensione giù in platea. Mentre il Bassotto si produce in ogni sorta di diversivo comico e fisico, finalmente Latella s’affida al movimento e ai colori e all’intreccio: e allora lo spettacolo sul palcoscenico del Carignano assume sapore, prende quota, diverte, s’affida senza se e senza ma ad una compagnia a tratti geniale, in autentico stato di grazia, multiforme, eccentrica, indiavolata. Attori che non “sono” lo spettacolo, ma certamente sì la spina dorsale, quello spettacolo lo vivono e lo fanno vivere e lo scaraventano felicemente tra gli spettatori come raramente si vede fare sui nostri palcoscenici. C’è una alta parete grigia nella scena firmata da Giuseppe Stellato, con un oblò da cui entrano ed escono i vari personaggi, ci sono quattro musicisti ai lati del palcoscenico (Federica Furlani, Andrea Gianessi, Alessandro Levrero e Giuseppe Rizzo), davvero bravi a far da commento ad ogni azione, c’è un tesoro ed un pappagallo rosso, c’è una spiaggia persino inquietante con quei suoi fitti manichini grigi pronti ad essere smantellati a vista, c’è l’apporto e la volontà di Latella e Dalisi a contaminare modernamente il testo, facendo spazio a canzoni sanremesi o delle estati di decenni fa (si va dalla Cinquetti di Non ho l’età al Vianello dei Watussi) per spingersi anche su un terreno più colto e abbordare Money Money del Joel Grey di Cabaret. È una comicità fuori delle regole, sconosciuta all’autore, di cui tuttavia conserva il fascino surreale e vitale allo stesso tempo, il linguaggio poetico, la banalità intelligente che già un tempo non voleva abbracciare soltanto il pubblico giovanile ma aspirava tra mille scommesse a qualcosa di più. C’è intatto lo spirito di Sto. C’è la negazione del milione, forse ad indicare la fine di un’epoca o il suo completo ripensamento, c’è Bonaventura che è pronto a lasciare la sedia a rotelle (un ritorno al personaggio di sempre?), a mettersi a lato della scena a far da spettatore e a prodursi poi in un tango con il fido Bassotto che nemmeno i maestri di Ballando saprebbero far meglio.

Uno spettacolo che è scrittura e autobiografia, costruzione e ripensamento, divertimento e pensieri in libertà. Dicevamo degli attori/cantanti, tutti da citare. Francesco Manetti che è Bonaventura, Alessio Maria Romano spericolato Bassotto, Michele Andrei e Caterina Carpio, i falsetti di Leonardo Lidi dal quale tutto ti aspetti meno che vedertelo nei pani del bel Cecè, il Capitano dell’aitante Isacco Venturini, Barbara Mattavelli che è Giuiuk dalla risata facile. Lascio per ultima Marta Pizzigallo, che mi è parsa la più brava del gruppo: abbandonata la tuta rossofuoco del primo tempo, s’è sprigionata in occhioni tondi tondi, in parole e frasi sbocconcellate, in ralenti e in sospiri divertentissimi che mi pareva la diretta erede del metodo Marchesini, pronta a dar vita corposamente ad ogni attimo del proprio lavoro. Da vedere, repliche sino al 16 giugno.

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Elio Rabbione

Le foto dello spettacolo sono di Brunella Giolivo

Da Mozart a Piazzolla: musica e solidarietà

La pianista Rita Cucè e il Quartetto del Teatro Regio di Torino, con la partecipazione straordinaria del violinista Alessandro Quarta, protagonisti di un concerto benefico per la ricostruzione dell’Istituto Nelio Biondi di Camerino distrutto dal sisma 2016

A Torino la grande musica diventa solidarietà: giovedì 6 giugno alle ore 20.30, il Piccolo Regio Puccini di Torino ospita “Da Mozart a Piazzolla”, un concerto benefico che vede protagonisti la pianista Rita Cucè e il Quartetto del Teatro Regio di Torino, con la partecipazione straordinaria del violinista Alessandro Quarta.Un viaggio pieno di note che partendo dal Concerto per pianoforte n. 14 in mi bemolle maggiore, K. 449 di Wolfgang Amadeus Mozart, maestro che trova in Rita Cucè una delle sue interpreti più sensibili, arriverà fino alle atmosfere del tango di Astor Piazzolla con Alessandro Quarta che proporrà brani del compositore argentino quali Chau Paris, Oblivion, La Muerte del Angel, Jeanne y Paul, Fracanapa, Libertango.

Questa di Torino è la quinta tappa del progetto “Da Kabul a Camerino – In viaggio con Rita Cucé” finalizzato alla raccolta di fondi per la ricostruzione dell’Istituto Nelio Biondi di Camerino, distrutto dal sisma del 2016.

Il progetto ideato e promosso dell’associazione UnAltroPremio-Festiv’Art2.0, in accordo con il Comune di Camerino, nasce dall’esperienza maturata dalla pianista Rita Cucè, nel programma “Afghanistan back to the music” voluto nel 2005 da Marco Braghero dell’Associazione Peacewaves International Network che ebbe tra i suoi sostenitori il Teatro Regio di Torino.

Naturale che in questa occasione, l’Associazione Peacewaves International Network abbia saputo coinvolgere partner come il Consiglio Regionale, la Fondazione CRT e il Teatro Regio di Torino.

Comune capofila del progetto “Da Kabul a Camerino” è Arezzo “Città della Musica” e sostenitori sono i comuni di Bolsena e Ascoli Piceno e la Fondazione Festival Puccini di Torre del Lago.

Dopo Torino il concerto “Da Mozart a Piazzolla”, verrà offerto alla città di Camerino in un appuntamento che avrà luogo il prossimo 10 giugno nell’aula magna del Polo Liceale della città marchigiana. Media partner è CLASSICA HD.

Informazioni: Biglietteria: tel 011 8815241; Teatro Regio – p.zza Castello 215

Ingresso 20 euro – Ridotto 15 euro

Online www.vivaticket.it

L’incasso sarà devoluto al progetto “Da Kabul a Camerino” per la ricostruzione dell’Istituto Musicale Nelio Biondi

Michele Lovisolo. Narrare con i colori

Il mondo pulito e colorato di Michele, in mostra all’Associazione Artistico-Culturale “TeArt” di Torino
 
In parete, fra i 24 lavori esposti, c’è un acchiappante – vorticoso ma assolutamente equilibrato – “Spruzzi di fiori rossi”, realizzato in ecoline nel 2016. Il dipinto è una piacevolissima esplosione di colori. Fiori esplosi, per l’appunto, che nell’aria hanno lasciato correre e librarsi in libertà cromie intense, bizzarre, improbabili, folletti divertiti e divertenti; una pagina di “scrittura automatica”, generata dall’improvvisazione, dalla casualità e dall’estro, assolutamente libera dall’urgenza del segno o di linee che, se ci sono, altro non sono che “punti – come diceva Paul Klee – andati a fare una passeggiata”. Del 2017 sono, invece, una ponderata, scolastica “Natura morta” e una “Rosa rosa in vaso”: tecniche miste dove il segno rivaleggia con il colore, essenziali, precise e accurate nella definizione della forma. Ecco, la mostra del giovane Michele Lovisolo, ospitata negli spazi dell’Associazione Artistico-Culturale “TeArt” di via Giotto a Torino, è un incessante alternarsi di “momenti” affidati alla pura voce e alla suggestiva magia del colore, attraverso cui Michele confida a noi (e a sé stesso) l’emozione di un attimo – o di una vita – capace di stupirti anzi che no, ad altri di impeccabile e composto rigore narrativo, in cui passano ritratti ( delizioso l’“Autoritratto” del 2014), paesaggi e perfino dotte “citazioni” con cui faticosamente cimentarsi e trarre poi inesorabilmente i conti: da Malevich al “Pagliaccio” di Picasso o al “Pino sul mare” di Carrà accanto alle “Donne e uccelli al chiaro di luna” di Mirò così come all’“Ombrellone bianco” di Aime. In quest’ottica va letta e gustata la rassegna dedicata dalla “TeArt” a Michele, che dal 2002 segue con grande interesse e profitto le premurose lezioni di Anna Borgna, da anni fra le protagoniste della scena artistica torinese e ottima maestra, capace di coinvolgere appieno in quel gioco dell’arte a lei perfettamente noto in tutti i suoi risvolti e segreti, mettendo insieme e passando in eredità, a quanti a lei s’affidano, rigore e fantasia, l’essenzialità dei passi base del mestiere, non meno che la libertà di muoversi in piena autonomia aprendo le ali ai moniti – anche ai più estrosi – della creatività e della fantasia. E in tal senso, passi da gigante li leggiamo senz’ombra di dubbio anche nelle più recenti opere di Michele, che già nel 2012 aveva esposto nell’Associazione di via Giotto con una personale che bene titolava “Scintille di emozioni”. Le stesse, in fondo, filtrate attraverso cifre stilistiche indubbiamente più mature e consapevoli, che oggi ritroviamo in quella strepitosa tempesta cromatica– brillante intuizione creativa – che è il “Cerchio di colori”, collage di pittura del 2017. Singolare nella sua totale anarchia compositiva. Altra cosa dal “Prugno a San Martino” o da altre pagine paesistiche, dove il racconto segue invece parametri pittorici ben precisi, pur senza rinunciare all’inconscia volontà di raccontare “mondi” attinti dal reale ma trasformati “in altro” dalla purezza e dalla sensibilità di un cuore grande grande. Sono i “mondi” di Michele. Mondi buoni, perfetti e gentili. Forse sogni. Sogni trasferiti in pittura. Ideali. Per lui. E per noi. Diceva Van Gogh: “Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno”. Ora, non so se Michele sia solito sognarsi con colori e pennelli in mano, ma certo i suoi dipinti portano ben impresse, al loro interno, le suggestioni di sogni belli. Lontani anni luce dalle tristezze e dalle brutture del vivere reale.

Gianni Milani

“Michele Lovisolo. Narrare con i colori”
Associazione Artistico-Culturale “TeArt”, via Giotto 14, Torino; tel. 011/6966422
Fino all’11 giugno
Orari: dal mart. al sab. 17/19
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Nelle foto

– “Spruzzi di fiori rossi”, ecoline a spruzzo, 2016
– “Rosa rosa in vaso”, tecnica mista, 2017
– “Cerchio di colori”, collage di pittura, 2017
– “Prugno a San Martino”, acrilico, 2016

 

Michele Pellegrino. Persone

Rocciosi ritratti e gente d’Alta Langa negli scatti esposti allo “Spazio Don Chisciotte” di Torino
 
A coprirgli il capo, un fazzoletto sbrigativamente annodato ai quattro angoli; sotto, un volto segnato dalla corsa del tempo, che parla la lingua di fatiche impietose, pesante eredità di antiche miserie. Una sigaretta, o ciò che di essa resta, fra le labbra, trattenuta da dita magre e nodose. Gli occhi bassi. Fermi in pensieri senza corpo. “Valle Pesio 1969”: è un miracolo di forte impatto emozionale e straordinaria poesia, l’immagine-guida (il contadino, l’uomo senz’età) della mostra dedicata dalla Fondazione Bottari Lattes (in collaborazione con la Fondazione CRC) nelle sale del suo torinese “Spazio Don Chisciotte”, a Michele Pellegrino, fotografo cuneese originario di Chiusa Pesio, dove nasce nel 1934 e da dove ha inizio, nel ’67 – dopo una vita fatta di mille mestieri, il primo a soli nove anni come pastore e servitore di cascina – la sua avventura artistica da libero e assoluto autodidatta nel campo della fotografia. “Quando iniziai a fotografare – annota, con una buona e rara dose di umiltà, lo stesso Pellegrino in uno dei tanti libri pubblicati – capii subito che l’apparecchio fotografico sarebbe stato per me uno strumento di apprendimento… D’altra parte si sa che gli innamoramenti tardivi stravolgono spesso la realtà ed io, in quel momento non sfuggivo alla regola…Mi rendevo conto che era relativamente facile sedurre lo spettatore con delle belle immagini sentimentali, mentre era molto più difficile realizzare nel tempo un progetto per raccontare una storia”. Difficile certo, ma non impossibile per un montanaro dalla testa dura qual era e qual è Michele Pellegrino, che proprio della sua montagna, di quel mondo d’Alta Langa che meglio conosceva e che più amava, fa il soggetto chiave, il motore di partenza, del suo nuovo mestiere di fotografo. Erano gli anni Settanta, gli anni dell’ “esodo” che vedevano spopolarsi le borgate e le vallate del Cuneese e la gente, i giovani soprattutto, migrare verso la pianura, attratti dalle ammalianti sirene della città e della fabbrica. E proprio quel mondo, quelle terre abbandonate, in cui il tempo sembrava di colpo essersi fermato per cristallizzarsi così com’era in inviolabili desolanti eternità, diventa il suo “profondo Nord”. Quello che ritroviamo negli oltre trenta scatti in bianco e nero in mostra allo “Spazio Don Chisciotte”, in quelle “Persone” (come recita il titolo della rassegna) per le quali sempre – lo scriveva un altro grande cantore di Langa – “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Ecco allora i ritratti dei mezzadri di pianura e quelli dei montanari delle alture, immagini di quasi tutte le Vallate del Cuneese, poveri interni di case rimaste miseramente immutate negli anni, la grande nevicata a Chiusa Pesio, il lavoro e gli attimi di riposo, i giorni di festa e delle cerimonie, così come momenti di intensa riflessione religiosa con i frati e le suore di clausura e la toccante figura della “Passionista” intenta a baciare i piedi al Cristo crocefisso. In parete troviamo dunque il vissuto della quotidianità, in tempi e luoghi ben definiti, mai tuttavia “provinciali” e basta. Poiché quei luoghi e quelle immagini rimandano sempre a un percorso interiore dell’anima e sempre riflettono – come scriveva Enzo Biffi Gentili, in occasione di una recente mostra di Pellegrino a Cuneo, organizzata dalla Fondazione CRC, cui il fotografo nell’ambito del progetto Donare ha devoluto l’intero Archivio – “la sua visione concettuale e complessiva del mondo”. In alcuni casi, in un mix ideale di realtà e fantasia. E in un’ottica di visionario simbolismo, cui possono ascriversi alcune curiose inaspettate immagini di sensuali nudi femminili chiamati ad accompagnarsi con spensierata ironia alla prorompente sensualità del mondo naturale. Inserita nel programma di “Fo.To – Fotografi a Torino”, la grande kermesse fotografica promossa dal MEF – Museo Ettore Fico in corso fino al prossimo 16 giugno (www.fotografi-a-torino.it), la mostra di Michele Pellegrino allo “Spazio Don Chisciotte” è accompagnata da “Storie”, una speciale monografia sull’intera opera dell’artista edita da “Skira” e arricchita da testi critici di Enzo Biffi Gentili e Walter Guadagnini.

Gianni Milani

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“Michele Pellegrino. Persone”
Spazio Don Chisciotte – Fondazione Bottari Lattes, via della Rocca 37/b, Torino; tel. 011/19771751 o www.fondazionebottarilattes.it
Fino al 15 giugno
Orari: dal mart. al sab. 10,30/12,30 – 15/19  
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Nelle foto:

– “Valle Pesio”, 1969
– “Chiusa di Pesio”, 1969
– “Valle Grande, Vernante”, 1973
– “Monastero di Ovada – Passionista”, 1973
– “Lurisia Terme”, primi anni ’70
– “Corsaglia”, 1970

Il Duomo, cuore pulsante della cristianità torinese

Intorno al Duomo di Torino vibra il cuore pulsante della religiosità torinese; al suo interno si trova, infatti, custodita una delle reliquie più preziose della Cristianità, la Sacra Sindone. È inoltre l’esempio più significativo dell’arte rinascimentale nel capoluogo sabaudo. Meriterebbe, certo, un’attenzione maggiore da parte della Città di Torino nella sua segnalazione nei confronti dei turisti, che spesso incontrano difficoltà nel riuscire a dirigersi verso la sua sede, piazza San Giovanni. Il Duomo si presenta in stile rinascimentale già a partire dalla sua facciata esterna, realizzata in marmo bianco e recante tre portali, di cui quello centrale sormontato da un timpano di pregio. Sulla sua sinistra si eleva la Torre campanaria, realizzata intorno al 1470. In realtà l’attuale edificio rinascimentale sorge sul sito in cui in epoca paleocristiana, verso la fine del IV secolo d.C., erano state edificate tre chiese, sotto l’episcopato di San Massimo. Erano state in origine concepite come tre basiliche contigue e comunicanti, dedicate a San Giovanni Battista, a Maria Vergine ed a Gesù Cristo Salvatore. Per volontà dell’allora vescovo di Torino, il cardinale Domenico della Rovere, all’epoca residente a Roma presso il Papato, si decise nel 1490 la demolizione delle tre chiese preesistenti e l’edificazione di una nuova cattedrale su progetto dell’architetto toscano Amedeo da Settignano, già attivo nei cantieri pontifici. La cattedrale divenne, così, il primo modello rinascimentale in Piemonte, ad imitazione delle fabbriche romane del tempo.
La sua prima pietra fu posta nel 1491 dall’allora reggente Bianca di Monferrato e fu consacrata il 21 settembre 1505. A rendere il Duomo di Torino un unicum è sicuramente la presenza, al suo interno, della cappella della Sacra Sindone, tornata di recente al suo antico splendore, dopo i gravi danneggiamenti dovuti ad un tremendo incendio, scoppiato tra l’ 11 ed il 12 aprile 1997.
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Il lenzuolo della Sacra Sindone si salvò miracolosamente in quanto era momentaneamente custodito all’esterno della Cappella, nel coro della Cattedrale. La cappella, realizzata dall’abate Guarino Guarini nel Seicento, non poteva essere luogo più adatto, proprio nel cuore del Duomo di Torino, per accogliere il Sacro lino che conserva la doppia immagine del corpo dell’uomo crocifisso che, per la Chiesa Cattolica, è Cristo. Nella cappella della Sindone si entrava, un tempo, calpestando stelle bronzee che contrassegnano il pavimento tra pareti scandite da statue e pilastri corinzi. Questo ingresso è momentaneamente impercorribile. Alla Cappella, dal momento della sua riapertura, si accede soltanto passando da Palazzo Reale, ma ci si augura che presto si possa ripercorrere questo cammino. Oggi i visitatori, infatti, per accedere alla Cappella della Sindone, percorrono la stessa galleria utilizzata un tempo dai sovrani sabaudi, essendo la Cappella della Sindone posta alla stessa altezza degli appartamenti del re. Guarini ed i suoi committenti probabilmente vollero usare la metamatica e la scienza per raccontare l’inspiegabile, attraverso figure geometriche perfette, il cerchio, i triangoli, con alla base misure tracciate sul numero 3 e sui suoi multipli. L’interno del Duomo merita sicuramente una visita accurata in quanto il suo impianto basilicale, a croce latina ed a tre navate, reca elementi gotici che vengono a completare l’impianto della facciata risultante, invece, rinascimentale, ma in marmo bianco (il che risulta un’anomalia rispetto agli edifici coevi realizzati in mattoni). Merita soffermarsi lungo le cappelle laterali che ospitano altari devozionali; in corrispondenza del secondo altare della navata destra si può ammirare il polittico della Compagnia dei Calzolai di Martino Spanzotti e Defendente Ferrari.
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Nella terza cappella laterale, dedicata a Sant’Antonio Abate ed a San Massimo, primo vescovo di Torino, sono conservate le spoglie del beato Pier Giorgio Frassati, esempio straordinario di virtù cristiane. Nel braccio sinistro del transetto i visitatori possono ammirare la Tribuna Reale, uno spazio rialzato riservato alla famiglia reale durante le funzioni religiose, fatta erigere nel 1583 dal sovrano Carlo Emanuele I ed ampliata nel 1777 da Ignazio Perucca, su disegno dell’architetto Francesco Martinez, nipote di Filippo Juvarra. Di interesse anche la cripta, che era in realtà una chiesa sottorreanea che funzionò   provvisoriamente al posto delle originarie tre chiese abbattute. Il campanile del Duomo, dedicato a Sant’Andrea, era in origine una torre campanaria che assunse poi il ruolo di campanile dopo l’interramento delle tre preesistenti chiese paleocristiane. Ora vi si può accedere tramite una galleria, a sua volta accessibile dal Museo diocesano. Un’altra bellezza racchiusa nel Duomo è rappresentata dal suo organo a trasmissione meccanica, la cui costruzione risale al 1874 ad opera di Giacomo Vegezzi-Bossi e successivamente ampliato, ai primi del Novecento, da Carlo Vegezzi -Bossi. Lo strumento ha due tastiere, 56 registri per un totale di 3498 canne, 4 manici e 5 somieri. Presso il Duomo di Torino ha sede l’Accademia della Cattedrale di San Giovanni, associazione che persegue quale obiettivo principale la diffusione della cultura nelle sue svariate espressioni, musicale, artistica e scientifica, sotto tutte le forme e con un’attenzione particolare alla valenza turistica. Presidente dell’Accademia è il Parroco del Duomo, don Carlo Franco. Direttore ospite principale dei Virtuosi della Cattedrale di San Giovanni è il Maestro Antonmario Semolini.
 

Mara Martellotta

L’amante siriano

Martedì 4 giugno alle  ore 18. Caffè Roberto  Via Garibaldi, 30  Torino  
 
Prendendo spunto dalla narrazione dell’incontro tra una giornalista francese e un intellettuale siriano il confronto tra civiltà e culture, tra Oriente e Occidente, fornisce l’occasione di analizzare le ricchezze e le difficoltà a cui vanno incontro i rapporti multiculturali. Rosita Ferrato dialoga con Roberto Tricarico e l’editore Silvia Maria Ramasso.  Letture di Elena Cascino. Il romanzo è edito da  Neos edizioni.

L'amante siriano

Martedì 4 giugno alle  ore 18. Caffè Roberto  Via Garibaldi, 30  Torino  
 
Prendendo spunto dalla narrazione dell’incontro tra una giornalista francese e un intellettuale siriano il confronto tra civiltà e culture, tra Oriente e Occidente, fornisce l’occasione di analizzare le ricchezze e le difficoltà a cui vanno incontro i rapporti multiculturali. Rosita Ferrato dialoga con Roberto Tricarico e l’editore Silvia Maria Ramasso.  Letture di Elena Cascino. Il romanzo è edito da  Neos edizioni.

Sfumature di donne di scienza al Giacosa di Ivrea

“Sfumature di donne di scienza” è il monologo teatrale che andrà in scena al Teatro Giocosa di Ivrea martedì 4 giugno alle 21. Lo spettacolo, a ingresso libero, vedrà sul palco Sara d’Amario, attrice di teatro diplomatasi al Teatro Stabile di Torino, volto noto del cinema italiano e degli sceneggiati televisivi. Un viaggio nel tempo, dal tono leggero e divertente, in compagnia di venti scienziate che hanno rivoluzionato il mondo della matematica, della fisica, della filosofia, della filosofia e tanti altri “mondi”. Dall’attrice e inventrice Hedy Lamarr, passando da Spazia, Sophie Germani, viaggiando dal tempo delle “streghe” a quello delle prime laureate, dal fascino dell’atomo a quello del DNA, fino ai giorni nostri e agli ultimi Nobel. In scena le vite di queste donne di scienza, le loro famiglie, gli studi e le difficoltà, la curiosità e la formidabile tenacia. Lo spettacolo diventa un mezzo per mettere sotto i riflettori la presenza e l’attività concreta delle donne nel mondo scientifico. La drammaturgia non segue un preciso ordine cronologico, proponendo collegamenti inaspettati e divertenti tra queste venti vite straordinarie. Il tono non è mai polemico o discriminatorio nei confronti degli uomini e non a caso, in tutta la pièce, vengono citati padri, mariti, colleghi che hanno saputo superare le abitudini mentali della loro epoca ed i pregiudizi, sostenendo e riconoscendo i talenti e di meriti di queste donne. Un modo per rappresentare, senza edulcorare la realtà o nascondere gli episodi negativi, come quella non è stata – e non è ancora – la “normalità” ma piuttosto un’eccezione. Il monologo “Sfumature di donne di scienza” serve a dimostrare come le donne siano capaci di farsi strada e ottenere successi importanti in campo scientifico e nelle materie “dure” come matematica, fisica, chimica. Una comunicazione che crea un intrattenimento in scena, traducendo in modo accattivante l’importanza della dimensione umana di donne che, spesso ancora oggi nell’ombra, fanno tanto per il progresso di tutta la società.

M.Tr.

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità in libreria

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Jonathan Dee “I provinciali”   – Fazi –   euro 20,00

 

E’ uno spaccato della provincia americana, sospesa tra la tragedia dell’11 settembre e la crisi economica del 2008, l’ultimo romanzo di Jonathan Dee. Scrittore nato a New York nel 1962, laureato a Yale ed uno dei protagonisti del “New journalism”, collaboratore di testate prestigiose come il “New York Times Magazine”, “Harper’s”, editor della “Paris Review”, docente di scrittura alla Columbia University e alla New School. Al suo attivo ha 7 romanzi, tra i quali “I privilegiati” che è stato finalista al Premio Pulitzer 2011. “I provinciali” è lo spietato affresco di miserie e virtù degli abitanti di una cittadina, Howland nel Massachussets. Un lucido racconto dell’egoismo che ben si ricollega anche all’attuale clima politico della società… non solo americana. Inizia con il giovane Mark Firth, imprenditore edile di belle speranze, ma scarso senso degli affari. Ingenuamente ha affidato tutti i suoi risparmi ad un oscuro consulente finanziario che ha aggirato anche altri sprovveduti, poi si è volatilizzato col cospicuo malloppo. Altro che investimento vincente a più zeri! Mark è stato praticamente mandato in rovina. Cerca di risollevarsi ristrutturando la casa di Philip Hadi, broker miliardario arricchitosi con gli hedge funds (fondi speculativi), che dopo l’11 settembre è convinto che New York non sia più sicura. Decide così di trasferirsi con la famiglia nella tranquilla cittadina di provincia, e rimette a nuovo la sua tenuta a poca distanza da quella di Mark. Hadi ha velleità politiche e si candida alla carica di sindaco. In campagna elettorale promette di proteggere i cittadini dall’aumento delle tasse e si professa incorruttibile perché già ricco di suo. Ma le cose non saranno così semplici: la cittadinanza resterà divisa tra i sostenitori che lo adorano e i detrattori che invece lo odiano. Una carrellata di personaggi alle prese con la confusione della vita. Dal fratello di Mark, Gerry, immobiliarista dal cuore arido, alla sorella insegnante che imbastisce una relazione amorosa col padre di una sua allieva…e poi altri abitanti sospettosi nei confronti dei turisti e di chi viene da fuori…  Jonathan Dee, cresciuto tra New York e una cittadina simile a quella del romanzo, sa di cosa parla e soprattutto ne scrive benissimo. Ci si appassiona alle vicende dei singoli personaggi, spesso di classi diverse e in rotta di collisione, con tensioni che rischiano di degenerare in modo incontrollabile. E’ un po’ anche il disincantato ritratto dell’odierna società, in cui il divario sociale ed economico tra ricchi, ceto medio e poveri si è allargato in modo preoccupante, generando sentimenti rancorosi pronti ad esplodere. Una lettura appassionante.

 

 

Rita dalla Chiesa “Mi salvo da sola”   – Mondadori – euro 18,00

 

Non ha bisogno di presentazioni Rita dalla Chiesa, giornalista, conduttrice e volto noto della Tv, figlia del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa trucidato dalla Mafia a Palermo nel 1982, ex moglie del conduttore più amato del piccolo schermo, Fabrizio Frizzi, scomparso l’anno scorso.

Però per capire più a fondo il suo carattere, imparare come ha affrontato i grandi dolori della sua vita, gestito gli affetti, la carriera ed il tempo che passa, vale la pena leggere il suo libro “Mi salvo da sola”. Una sorta di memoir di poco più di 200 pagine scritte magnificamente in cui condensa e ripercorre la sua storia: tra lutti, successo, affetti, popolarità, ma anche tradimenti pesanti da metabolizzare. Invece della solita dedica ha scritto: “Dedicato alle onde della mia vita, che mi hanno sempre aiutata a tornare a riva”. Un inizio bellissimo che apre il libro a una data ben precisa: quel maledetto 3 settembre 1982 a Palermo in cui la mafia tese un agguato a suo padre e lo crivellò di colpi insieme alla giovanissima 2° moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo. Momenti allucinanti che fanno parte della storia più buia del nostro paese, in cui emersero chiaramente ambiguità e connivenze della classe politica, ma anche la forza di un popolo fatto di persone per bene. Momenti in cui i tre fratelli dalla Chiesa (Rita, Nando e Simona) dimostrarono dignità, coraggio e coerenza nel non stringere le mani dei politici che avevano lasciato solo il Generale e sancito così la sua condanna a morte. Poi nel libro ci sono gli anni successivi e la resilienza dell’autrice nell’affrontare il divorzio, crescere sua figlia Giulia praticamente da sola, i primi successi televisivi, la corte serrata che le fece Fabrizio Frizzi più giovane di 10 anni, ma con una maturità che oltrepassava i dati anagrafici. Poi Rita dalla Chiesa racconta anche lo strappo dalla trasmissione Mediaset di grande successo “Forum”, la fine del suo matrimonio con Frizzi e il loro legame comunque inossidabile, anche quando il conduttore sposerà la giovane concorrente di Miss Italia, Carlotta Padovan. Frangente in cui l’autrice dimostra tutta la sua sensibilità e intelligenza nel fare un passo indietro e lasciare spazio alla nuova coppia. Poi ci sono altri capitoli di vita, altri dolori e momenti invece di serenità in riva al mare, e tanto altro ancora che lascio a voi scoprire….,

 

 

Susie Orman Schnell “Le ragazze di New York”   – Feltrinelli – euro 15,00

 

Scorre con leggerezza questo romanzo della scrittrice americana, cresciuta a Los Angeles, laureata alla University di Pennsylvania, collaboratrice di grandi testate (tra le quali “The New York Times” e “The Huffington Post”), che oggi vive con il marito e i tre figli vicino a New York. Nel libro racconta la storia di due donne che a 70 anni di distanza lottano per costruirsi una carriera e conquistare l’indipendenza, senza però dover necessariamente rinunciare agli affetti più cari. Ci si appassiona alle vicende che coinvolgono la giovane Charlotte Friedman che aspira a diventare pubblicitaria negli anni 40, quando al massimo le donne arrivavano alla scrivania di segretarie. E’ combattuta tra le aspettative del rigido padre che la vorrebbe nel negozio di famiglia (che tra l’altro sta soccombendo alla concorrenza), gli studi, e il concorso da Miss Subway che in quegli anni eleggeva mensilmente una giovane bellezza come testimonial pubblicitaria dell’azienda dei trasporti di New York. L’altra protagonista è invece dei giorni nostri, si chiama Olivia e anche lei cerca di farsi strada nel mondo estremamente competitivo della pubblicità, segretamente attratta dal suo capo. L’agenzia per cui lavora concorre ad una gara per aggiudicarsi come cliente nientemeno che la metropolitana della Big Apple. Olivia avrà la brillante idea di ripescare le bellezze di Miss Subway e, senza saperlo, finisce per intersecare con la sua traiettoria di vita quelle di alcune protagoniste del celebre concorso del 1949. Scoprirà che, in un certo senso, anche se in un contesto più moderno, la sua battaglia per il successo nel lavoro e la realizzazione nel privato, non è poi tanto diversa da quella delle ragazze dei tempi andati. E in mezzo, a capitoli alternati, la Schnell racconta tante pagine di vita di Charlotte e Olivia, tra delusioni e tradimenti, coraggio e determinazione, resilienza e capacità di superare ostacoli e disfatte… e tanto altro ancora. Due belle lezioni di autostima e tenacia.