CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 584

I Francescani da otto secoli in Medio Oriente

FOCUS  di Filippo Re

“Come Francescani, leggiamo questi otto secoli di vita come una manifestazione della Provvidenza, della fedeltà e della bontà di Dio nei nostri confronti, perché ha scelto uno strumento ecclesiale semplice e povero e talvolta anche un po’ disordinato quale siamo noi, per portare avanti, non la nostra, ma la Sua storia, che è sempre storia di salvezza”. C’è aria di festa nel santuario torinese di Sant’Antonio da Padova dove anche i frati francescani locali celebrano gli 800 anni di presenza dell’Ordine religioso in Terra Santa in cui si recano più volte durante l’anno. Una festa particolarmente sentita e vissuta in questi giorni soprattutto a Gerusalemme con seminari e conferenze. Le celebrazioni sono iniziate a giugno quando i frati si sono recati in uno speciale pellegrinaggio commemorativo a San Giovanni di Acri, sulla costa settentrionale di Israele (oggi Akko), dove i primi religiosi francescani sbarcarono nel 1217 guidati da frate Elia da Cortona. Due anni più tardi, nel 1219, li avrebbe raggiunti Francesco d’Assisi. Da allora il saio francescano è presente in Terra Santa dove i frati si dedicano alla custodia dei luoghi della cristianità e aiutano la popolazione più povera. Scortati da frate Elia, un primo gruppo di frati arrivò nel porto crociato di Acri dove ancora oggi turisti e pellegrini possono visitare le rovine del porto dell’antica città dal quartiere medievale “pisano”. Qui, frate Elia ha accolto Francesco, partito da Ancona, secondo una tradizione storicamente accertata. Ad Acri si trovano due chiese francescane ma la più importante è quella che si trova davanti alle mura antiche della città sferzate dalle onde del Mediterraneo. É una piccola chiesa bianca intitolata a San Giovanni Battista, di cui si scorge il semplice e basso campanile, che nasconde sottoterra una splendita cripta d’epoca crociata, al livello del mare. I francescani padre Raffaele, padre Simon e suor Giuseppina svolgono qui le loro attività da parecchi anni fino al giorno in cui torneranno in Italia per lasciare il posto ad altri Frati Minori. La cripta è stata appena restaurata dopo anni di lavoro e ospita mostre e incontri tra studiosi. Le chiese medioevali erano talmente belle che venivano apprezzate anche dai musulmani che ogni tanto ne portavano a casa qualche pezzo, come accadde per la chiesa crociata acritana di Sant’Andrea, il cui portale fu staccato da un sultano mamelucco e portato al Cairo per abbellire la sua tomba. Dopo un breve soggiorno ad Acri Francesco avrebbe proseguito il suo viaggio per mare lungo la costa palestinese verso Damietta, sul delta del Nilo in Egitto dove sarebbe arrivato nell’estate del 1219 mentre infuriava la Quinta Crociata. Dalla tragedia della battaglia di Hattin il 4 luglio 1187 e della caduta di Gerusalemme il 2 ottobre 1187 il Regno Latino di Gerusalemme contava solo più su alcune città ancora ben fortificate e su qualche fortezza sulla costa della Palestina e del Libano. Frate Egidio di Assisi fu in realtà il primo frate a mettere piede in Terra Santa nel 1215 e a visitare il Santo Sepolcro a Gerusalemme in un periodo in cui, per i cristiani, era assai difficile arrivarci e i religiosi cristiani vivevano trincerati nelle fortezze crociate. Anche tra i Francescani non mancano esempi di martiri in Terra Santa, uccisi dai musulmani, come frate Filippo di Le Puy, martirizzato ad Ashdod (località sulla costa meridionale di Israele) nel 1288. I festeggiamenti dei francescani non si fermano qui perchè il vero obiettivo della Custodia di Terra Santa è quello di realizzare una serie di iniziative anche nei prossimi due anni, per arrivare a commemorare l’incontro tra San Francesco e il sultano Malek-El-Kamel a Damietta in Egitto nel 1219. E’ dalla visita di Francesco nel Vicino Oriente che inizia quel legame speciale e intenso tra i Francescani e la Terrasanta che continua ancora oggi con profondi valori sia umani che culturali.

 

Torino Factory per la creatività dei giovani filmaker

I cittadini, le associazioni e le imprese di quartiere, la città stessa diventano tutti soggetti attivi in modo inclusivo e partecipato, di questa iniziativa che prende il via con un CONTEST per lo scouting di talenti del videomaking

È stato presentato TORINO FACTORYun nuovo progetto cinematografico che vuole accogliere e sviluppare la creatività dei giovani filmmaker under 30 mettendoli in rapporto con il tessuto urbano torinese, promosso da Città di Torino – Direzione Servizi Culturali e Amministrativi nell’ambito di Tutta mia la città con il sostegno di Fondazione per la Cultura Torino, realizzato da Associazione Piemonte Movie in collaborazione con Film Commission Torino Piemonte, Torino Film Festival e Moving TFF – Associazione Altera. I cittadini, le associazioni e le imprese di quartiere, la città stessa diventano tutti soggetti attivi in modo inclusivo e partecipato, di questa iniziativa che prende il via con un CONTEST per lo scouting di talenti del videomaking, con scadenza 31 dicembre 2017. I lavori iscritti saranno proiettati nella rassegna di cortometraggi Too Short to Wait (7-11 febbraio 2018), che anticipa la 17^ edizione del gLocal Film Festival (7-11 marzo 2018). Tra i partecipanti, 8 video saranno selezionati dal regista e direttore artistico del progetto Daniele Gaglianone, entrando prima a far parte del programma del gLocal Film Festival, e poi messi alla prova sul campo, in una fase produttiva che prenderà forma parallelamente alla raccolta fondi in atto con enti pubblici e privati. I LABORATORI DI QUARTIERE, da aprile a settembre 2018, vedranno la produzione di cortometraggi girati nei quartieri torinesi, realizzati dalle troupe selezionate da Daniele Gaglianone, affiancate da registi professionisti che li accompagneranno fino alla proiezione in ANTEPRIMA in una nuova sezione del Torino Film Festival 2018. L’obiettivo di Torino Factory è sostenere il fermento che anima Torino e dare ulteriore slancio a questa fucina di professionisti del cinema, proponendo alle troupe selezionate un grande set cinematografico in ogni circoscrizione, in cui ambientare il proprio cortometraggio, avvicinare i giovani talenti alle diverse fasi dell’industria cinematografica e creare un dialogo tra addetti ai lavori e spettatori, per riportare il cittadino al centro del circuito culturale.

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INFORMAZIONI www.piemontemovie.com – torinofactory@piemontemovie.com

Musica elettronica prima di decollare

L’evento, riservato ai passeggeri in partenza dall’Aeroporto di Torino si terrà Venerdì 20 ottobre 2017 dalle 16.30 alle 18.30

MOVEMENT TORINO MUSIC FESTIVAL in collaborazione con LA STAMPA e con SAGAT-Torino Airport presenta venerdì 20 ottobre all’AEROPORTO di Torino dalle 16,30 alle 18,30 “LA STAMPA SOUND JOURNEY“: per la prima volta una performance live di musica elettronica coinvolgerà il pubblico in attesa del decollo.  In attesa della dodicesima edizione di Movement, che quest’anno raddoppia gli eventi principali il 28 e il 31 ottobre al Lingotto (qui la line up completa LINK), La Stampa Sound Journey è una preview del festival, un’esperienza sonora originale e insolita, dove i campioni registrati dei migliori musicisti jazz torinesi insieme alle sezioni suonate dal vivo nel corso dello show da Ivan Bert alla tromba, Andrea Bozzetto al piano elettrico e sintetizzatori analogici, Paolo Porta al sax tenore, saranno mixati dal dj FiloQ e miscelati insieme ai suoni dell’aeroporto per un risultato che sorprenderà i viaggiatori. Il compositore Ivan Bert e il produttore e Dj FiloQ disegnano le architetture sonore di un viaggio tra le varie anime della città. Il jazz si fonde con la musica elettronica, la musica del mondo, la musica colta, la musica concreta, il sound design e i campionamenti live per un ritratto sonoro da lasciare nelle orecchie di chi sta partendo. La sfida colta da Ivan Bert è quella di fare musica “con” l’aeroporto e non “per” l’aeroporto. Tra musica colta e groove il progetto contiene omaggi ai grandi compositori e sound designer Brian Eno, Vangelis, Philip Glass ma anche a Miles Davis, Ahmad Jamal, Jon Hassels, Ibrahim Maalouf, John Coltrane e Bill Evans.  I suoni dei passeggeri e della routine delle partenze si mescolano con una colonna sonora suonata dal vivo in un loop acustico nel quale il pubblico di passaggio e gli artisti sono mescolati in una “installazione” sonora tra ambient music e ambiente reale. Il suono di Torino, identificato sempre di più con i beat della musica elettronica, sarà dunque la colonna sonora di uno dei luoghi più significativi della città, e così Movement con La Stampa Sound Journey accompagnerà il pubblico in partenza con un live unico.

Brachetti direttore del nuovo teatro di varietà

Nel cuore di Torino apre “Il Musical”: ed è una favola!

Arturo Brachetti, “il ciuffo più famoso d’Italia”, venerdì della scorsa settimana ha messo sessanta candeline sulla torta di compleanno e s’è voluto fare un regalo, quello che per lui credo sia il più bel regalo del mondo: s’è regalato un teatro. E ne è diventato il direttore artistico. Tanto per far rimanere un pezzo di cuore a Torino, lui che è abituato a girare il mondo. Un teatro poi che è una chicca e a chi l’abbia frequentato nei decenni passati una leggera palpitazione all’inaugurazione non è mancata. Il vecchio teatro degli Artigianelli, in via Juvarra, quello dove sono passati Fo e Rame, poi le Suburbe e Paolo Conte e il repertorio piemontese di Armando Rossi, per lunghe stagioni con la curatela dell’infaticabile Sergio Martin: signori, oggi è nato Le Musichall (“che avremmo voluto intitolare “Opéra Spatüss”, ma poi abbiamo pensato che siamo torinese e dobbiamo tenere le ali più basse…”, sottolinea divertito il Brachetti). Che sarà “il teatro delle varietà”, capace di contribuire alle nostre serate con un inverosimile ventaglio di proposte, “trasversale per proposte e per discipline, internazionale nell’approccio, capace di accogliere anche le realtà ibride tra più ambiti artistici che normalmente faticano a trovare un luogo perché sono ‘altro’ rispetto alle tradizionali etichette e che non rientrano negli schemi classici”. Che sarà pure, al di là del palcoscenico, il luogo dove i ragazzi di oggi, nella formazione di un futuro lavorativo chissà quanto stabilmente prossimo, potranno ritrovare un mestiere, dal momento che dietro le quinte un tecnico delle luci, oppure del suono, o un macchinista di scena li puoi giorno per giorno costruire.

Questo anche per dire quanto del messaggio del Murialdo si possa attuare e attualizzare ancora oggi. E allora ecco che l’Opera Torinese di uno dei grandi santi sociali della città e la società di produzione di spettacolo Arte Brachetti srl, in una perfetta coniugazione di profit e no profit, attraverso l’impresa sociale ArtNOVE – che ha il compito non soltanto di gestire il teatro ma l’intero progetto Rinascimenti Culturali (che già abbiamo presentato “su queste colonne” nei mesi scorsi), composto di varie arti e culture, da quella del cibo con EtikØ diversamente bistrot, estremamente elegante nella sua vivacità minimale, a quella artistica, affacciatasi di recente con MEF Outside, sede espositiva in continuità progettuale con il MEF Museo Ettore Fico -, con l’appoggio delle istituzioni cittadine e regionali e con il sostegno della Compagnia di San Paolo, dopo tre lunghi anni di ristrutturazioni, hanno dato un volto nuovo e contemporaneo a questo angolo liberty, nel cuore di Torino.

Acrobati, illusionisti, mimi, clown e tanto cabaret in questo primo scorcio di stagione, un luogo variopinto dove riportare quel genere fatto di teatro e di musica fiorito nel secolo scorso in ogni sua declinazione, dal café-chantant al vaudeville, dal varietà al teatro di rivista. In questa scatola magica dove vai a cercare quel che è rimasto dell’antico e quanto vi sia di sovrapposizione. “Non sono contro i supermercati, ma quando un teatro torna a essere un teatro, è una gioia che non ha eguali”, è stato detto all’inaugurazione: sta di fatto che quando dal buio del palcoscenico se ne è uscito Brachetti, protetto dal mare di paillettes del sipario di un bel blu cupo, e si sono accese le 300 lampadine che corrono alla base della balconata illuminando non solo le parole cardine del Murialdo – “virtus ars labor” – ma anche i trompe l’oeil nascosti in un continuo rincorrersi di tinte che vanno dall’azzurro al violaceo al blu intenso, l’applauso è balzato fuori fragoroso e convinto, quanto più il pubblico presente ha potuto farlo sentire. La prima stagione sarà un test per mettere punto la formula, per instaurare un dialogo con il pubblico, per adattarlo alle nuove proposte. L’inaugurazione ufficiale avverrà nel dicembre prossimo, in cartellone per l’intero periodo natalizio, nell’attesa del vero e proprio cartellone che Brachetti sta mettendo a punto con la collaborazione di Cristiano Falcomer . Nel frattempo, a partire da venerdì 20 e per sette settimane consecutive, per un avvio di gusto internazionale, si avvicenderanno in palcoscenico esempi di clownerie, di teatro musicalcomico, di mimo e di teatrodanza, di danza hip hop; senza dimenticare le occasioni di tango (19 novembre, 3 e 17 dicembre) con Marcela Guevara e Stefano Giudice, ormai una delle realtà storiche del panorama cittadino. Prima che in finale partano le note di La La Land, una confessione. Per Brachetti, riattraversare la porta del teatro è un ritorno. Era già salito su quel palcoscenico quindicenne, allievo salesiano, quando nell’annunciare se stesso faceva l’imitazione della Nicoletta Orsomando radiotelevisiva. E i compagni a sfotterlo. Ora ha sessant’anni. E fa il direttore artistico.

 

Elio Rabbione

 

Con Fazio e senza Giletti questa è la Rai Tv

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Il cambiamento non sempre riesce a premiare. Neppure in Tv dove le rendite di posizione sono molto frequenti e il pubblico in parte e’ fidelizzato.  Il  passaggio dalla rete  3 alla 1 di Fabio Fazio che scherzosamente a Savona chiamano il Fazioso ,si sta rivelando un flop,malgrado Fabio costi tantissimo alla Rai. Fabio e’ il tipico personaggio adatto a Rai 3 e al pubblico di quella che fu Telekabul. Sono ex comunisti che nell’intimo sono rimasti tali e sono caratterizzati da un antiberlusconismo epilettico ( uso l’aggettivo di Emilio Lussu adoperato per gli anticomunisti ) e in precedenza da un rifiuto  viscerale di Craxi considerato un social – fascista .Fazio e la sua degnissima compagna di scena Luciana  Littizzetto, reginetta torinese  delle volgarità e delle banalità più stupide, hanno il loro pubblico che li ama e li segue. Sono lo zoccolo duro di cui parlava Occhetto. Oltre non vanno. Il pubblico di Rai 1 che può avere mille altri difetti ,non accetta l’untuosa faziosita ‘ del Savonese e le chiacchierate scurrili e piene di bile della  ineffabile Lucianina piemontarda nell’accento e poco urbana nei modi. Non ci voleva molto a capirlo. Forse adesso sia Fazio che la Littizzetto e la loro compagnia “selvaggia e matta”, anche se molto conformista e legata al cachet come massimo valore, sono diventati renziani e forse non piacciono neppure più  al loro zoccolo duro. Un altro errore di Rai1 e’ aver allontanato Massimo Giletti,un professionista serio,capace,libero,una sorta di antiFazio . Io lo apprezzo dal tempo in cui era studente al liceo d’Azeglio di Torino e  non si fece intruppare nella contestazione . La sua “Arena “era un ‘arena di dibattito libero in cui si ponevano domande coraggiose e per molti ardue .Ne usciva fuori la pochezza della classe politica odierna . A Giletti si doveva imporre la mordacchia . Le due sorelle Parodi sono piacevoli ma sono visibilmente fragili e si comportano come pesci fuor d’acqua. Anche il pomeriggio domenicale di Rai1 e’ un insuccesso. Giletti e’ un uomo coraggioso,un giornalista incredibilmente  bistrattato dall’Ordine dei Giornalisti ,malgrado sia ,come si dice oggi, uno con le palle , cioè con  una sua autonomia di giudizio.La tv di Stato non ha saputo tenerselo, ma il pubblico continuerà a seguirlo come merita. E’ uno dei pochi torinesi che tenga alto con orgoglio il nome di Torino senza scadere nel provincialismo. Anche solo per questo motivo una rarità .

 

quaglieni@gmail.com

Se l’avvocato di successo entra in conflitto con le proprie radici

La cena è una cena. Di solito tra amici. Di solito tranquilla, allegra, un’occasione per lasciare a casa ufficio, problemi, mugugni e affondare una serata nelle risate. Ma non sempre è così. Il teatro e il cinema sembra che di recente facciano a gara nello spremere proprio quelle occasioni per tirarne fuori i succhi più amari. Magari cominciando ad accendere gli ingranaggi con un espediente quasi (o senza quasi) stupido e banale, come la scelta del nome da affibbiare al nascituro (Le prénom, rivoltato poi sotto i cieli di mezzo mondo) o quella di mettere in tavola con le differenti portate anche il proprio cell per vedere davanti a tutti l’effetto che fa (Perfetti sconosciuti). Oppure, partendo da un solo bicchiere di vino, accapigliarsi nella ricerca di mettere una toppa al bisticcio feroce dei due figli delle coppie in questione (Carnage). Magri espedienti che tuttavia negli esempi citati possono dare il via a confessioni e a distruzioni. Ha senza dubbio motivazioni più forti, serie e attualissime la cena che a poco a poco si profila all’orizzonte di Disgraced/Dis-crimini con cui lo Stabile torinese ha aperto la propria stagione al Carignano nei giorni scorsi. Il testo (tradotto da Monica Capuani) appartiene alla penna di Ayad Akhtar, di radici pakistane ma da sempre negli Stati Uniti, vincitore del Pulitzer nel 2013 e di altri premi per questa vicenda a quattro (più il giovane nipote del protagonista colpevole d’accendere la miccia) che vede un avvocato di successo in lotta con le proprie radici e gli insegnamenti che fino a quel punto l’hanno segnato; sua moglie, “bianca, flessuosa e incantevole”, artista newyorkese di quelle che cominciano ad annusare l’aria del successo e innamorata della cultura islamica, un agente/critico/affarista ebreo, che ragiona con rabbia di rapporti israelo/palestiniani e si tranquillizza con le doti artistiche e con il corpo dell’artista, la di lui moglie, afroamericana, che non troverà di meglio che far le scarpe al collega avvocato e sistemarsi come meglio non potrebbe nella buona società. La regia del tedesco Martin Kušej entra perfettamente nelle psicologie dei personaggi, ne scava gli intimi rapporti, divide la vicenda per capitoli intervallati da lunghe zone buie, come tutto il resto inondate da un commento musicale ossessivo, setaccia le parole e i movimenti, tende all’astratto asciugando la scena (di Annette Murschetz, un’immagine certo non uno sviluppo) di ogni elemento per ridurla ad una angolare parete bianca, sporcata di tanto in tanto dalla padrona di casa con insignificanti scarabocchi, e ad uno scricchiolante – per le camminate e gli assaggi sessuali dei protagonisti – pavimento nerastro di carbone. Inevitabilmente ogni cosa muta, come in uno specchio ormai deformato, niente sarà più come prima, gli assurdi convenevoli sulla porta di casa e l’elenco delle portate sanno di estrema assurdità. Ogni cosa inevitabilmente si sporca, nella realtà come nel luogo mentale che si è costruito attorno ai dialoghi, gli attori soprattutto, chiamati a una fatica non da poco, che alla fine si libera con gli applausi, visi e mani e gambe impiastricciati, in questo sconcerto di cambiamenti che nasce dalla lotta, dalle belle maniere in via di distruzione, dalle regole che non possono più essere le stesse. Forse tutto appare volto all’eccesso, ma si può anche essere d’accordo con una simile lettura che raccoglie nell’intimo di ciascuno le parole dell’autore, che universalizza, spingendoci a farle più nostre, a rimodellarle, a ripensarle.  Al centro della scena e della serata si pone un’altra convincente prova di Paolo Pierobon, con lui egualmente provati Fausto Russo Alesi, Anna Della Rosa, Astrid Meloni e il giovane Elia Tapognani.

 

Elio Rabbione

 

Daniel Trifonov apre la stagione dell’Unione Musicale

Alle ore 21, l’Unione Musicale di Torino inaugura la Stagione concertistica 2017-2018 con il recital del pianista russo

È una bella storia quella di Trifonov e dell’Unione Musicale: nel 2011, a soli vent’anni, appena distintosi con un terzo premio al Concorso Chopin di Varsavia, Trifonov viene invitato a Torino per un concerto della serie Fuori i secondi! che l’Unione Musicale dedica ai non-vincitori di concorsi internazionali. Nell’arco di tempo tra il contratto di scrittura e la data del concerto, però, Trifonov si aggiudica il primo premio sia al Čajkovskij di Mosca sia al Rubinstein di Tel Aviv, due fra i più importanti concorsi pianistici al mondo, trovandosi così improvvisamente proiettato sulla scena internazionale. Da allora il giovane pianista originario di Nižnij Novgorod, nel cuore della Russia europea, non si è più fermato, stregando con la sua arte le platee di tutto il mondo. Di lui Martha Argerich ha detto: «Non ho mai sentito nulla di simile: la sua tecnica è scintillante e il suo tocco riesce a essere dolce e demoniaco allo stesso tempo» mentre il “Financial Times” ha osservato che «Non c’è da stupirsi se ogni capitale europea è alla sua mercé: ciò che lo rende un tal fenomeno è la qualità estatica che dà alle sue esibizioni». Un talento, una sensibilità musicale fuori dal comune, che rapisce l’ascoltatore per l’impressionante virtuosismo tecnico e per il totale controllo della tastiera, così come per l’estrema varietà del suono, ricco di infinite sfumature. Il programma del recital di ottobre è un omaggio al genio romantico di Chopin e segue l’uscita del doppio album di Trifonov intitolato Chopin Evocations (Deutsche Grammophon, ottobre 2017): una vera e propria immersione nella musica del compositore polacco e nelle suggestioni che essa ha generato in altri autori. La prima parte si apre e si chiude con brani che nascono da temi chopiniani tratti dai Preludi n. 7 e n. 20 op. 28: dapprima le Variazioni su un tema di Chopin, che rivelano l’universo sonoro del compositore catalano Federico Mompou e per finire le monumentali Variazioni op. 22 di Rachmaninov che, come afferma lo stesso Trifonov, «rappresentano una sintesi del Romanticismo: l’incontro tra l’eleganza di Chopin e la passionalità di Rachmaninov». Tra queste due opere, alcuni brevi brani dedicati a Chopin tratti da alcune raccolte di Schumann, Grieg, Barber e Čajkovskij. Nella seconda parte il tributo a Chopin prosegue con uno dei brani emblematici dello stesso compositore polacco: la Sonata in si bemolle minore op. 35. È una sorta di «poema della morte», composta intorno al 1839, a seguito di un’idea musicale che Chopin aveva concepito ben due anni prima, all’epoca del soggiorno a Nohant nel castello della compagna George Sand e al culmine di un periodo terribile per il compositore, sopraffatto dal timore per il peggiorare delle sue condizioni di salute. Questa idea tematica originaria è la celebre Marcia funebre che precede quindi gli altri tempi in senso cronologico e funziona da punto di equilibrio nell’organizzazione e nello sviluppo di tutta la Sonata.

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Poltrone numerate, euro 30

in vendita online su www.unionemusicale.it e presso la biglietteria dell’Unione Musicale

ingressi, euro 20 e riduzioni per i giovani fino a 21 anni in vendita il giorno del concerto presso il Conservatorio dalle ore 20.30

Giansone, sculture da indossare

FINO AL 29 GENNAIO 2018

Si dice fosse uomo e artista “schivo e indipendente”. Lontano anni luce dai codificati parametri delle mode (“le vere opere d’arte – scriveva – restano sempre contemporanee”) e dei linguaggi stilistici più in voga del tempo, Mario Giansone (Torino 1915 – 1997) fu pittore e scultore di singolarissima personalità

Sordo ai richiami e alle lusinghe delle “sirene” che non fossero carne della sua carne e voce del suo istinto, rifiutò perfino di prendere parte alla Biennale di Venezia del ’66 e disse “no” (si racconta) all’invito di Peggy Guggenheim – invito che avrebbe fatto fare tripli salti mortali ad altri suoi colleghi – che gli chiedeva un’opera per la sua collezione lagunare. Certamente fu uno dei più grandi scultori italiani del ‘900. Molto apprezzato in vita – fu anche docente all’Accademia Libera di Belle Arti e all’Istituto Statale d’Arte di Torino, oggi Liceo artistico “Aldo Passoni” – ebbe pure una significativa fortuna collezionistica in particolare nella Torino degli Anni ’60: alcune sue opere fanno oggi parte delle collezioni della GAM (la subalpina Galleria Civica d’Arte Moderna), della sede Rai di Torino (sua la scultura di “Santa Cecilia” realizzata per l’Auditorium) e di alcune prestigiose collezioni private torinesi. Eppure, dopo la morte, inspiegabilmente il filo della notorietà che in vita lo aveva legato ben stretto agli ambienti artistici della sua città sembrò quasi spezzarsi. O quanto meno allentarsi. E anche in questo senso fu artista di stampo assolutamente singolare, Giansone. Celebre in vita, quasi dimenticato dopo la scomparsa. La bellissima mostra che in Sala Atelier, Palazzo Madama dedica oggi ai suoi gioielli in oro è dunque un tributo doveroso e intelligente alla memoria di un artista che, in tutta la sua vita, ha scolpito, disegnato e dipinto seguendo emozioni e percorsi spirituali tradotti in forme sospese fra “sintetica figuratività” e “astrazione pura”. Curata da Marco Basso e dall’amico-collezionista Giuseppe Floridia, la rassegna – inserita nell’ambito di “Torino Design of the City”– mette insieme una quarantina di opere (in gran parte di proprietà dell’“Associazione Archivio Storico Mario Giansone”, più alcuni pezzi prestati da collezioni private) datate fra il 1935 e il 1997 in cui spiccano i suoi “gioielli”, veri e propri “gioielli da indossare”: microsculture fuse in oro che, accanto a disegni e sculture in metallo e pietra, mettono spesso in evidenza un altro grande amore di Giansone, quello per il jazz. Che fu tema ispirativo di opere imponenti (mirabili nel rapporto fra “vuoti” e “pieni” e nella definizione di effetti luminosi di magica suggestione), come l’ “Orchestra jazz” in porfido del ’67 o l’incantevole bronzo su pietre di fiume “Ideogramma del jazz” del ’58, stesso anno della tempera su cartone “Pianista e orchestra jazz”. Motivi che troviamo anche incisi o riportati in rilievo in molti dei suoi preziosi monili (collane, anelli, girocolli, bracciali), in cui l’artista si sforza sempre di porre in risalto la componente plastica, più che vezzi e cifre stilistiche dell’arte orafa del tempo. A dirlo sono anche i contenitori lignei degli stessi gioielli – “scatole” intagliate in legni durissimi come il mogano, il palissandro, la radica e soprattutto l’ebano – che diventano a loro volta piccole sculture e capolavori artistici. A tentare Giansone e a metterlo a faticosa prova, armato di scalpello e sgorbia, è infatti soprattutto la “materia dura”, il marmo o la pietra o il ferro o i legni più tenaci, in cui scavare e sottrarre per arrivare a quella che lui definiva “scultura diretta”, capace di “dare forma e vita alle sue emozioni, alla sua visione dell’umanità, dell’universo e dell’ultraterreno”. E perfino alla sonorità e alle improvvisazioni tipiche della musica jazz. Sensazioni. Emozioni forti che sarà possibile sperimentare, in misura ancor più intensa, visitando lo studio di Mario Giansone ( in via Messina 38 a Torino), che, in occasione della mostra a Palazzo Madama, resterà eccezionalmente aperto per visite guidate a prenotazione obbligatoria fino al 20 gennaio del prossimo anno, tutti venerdì e sabato alle 17,30 e alle 18,30 (ad esclusione dei giorni 8, 9, 22, 23, 29 e 30 dicembre); inoltre, in occasione di “Artissima”, lo studio sarà visitabile dal 3 al 5 novembre con orario prolungato, dalle 10 alle 19,30. Info e prenotazione obbligatoria: tel. 011/4436999 oppure didattica@fondazionetorinomusei. It.

Gianni Milani

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“Giansone. Sculture da indossare”

Palazzo Madama – Sala Atelier, piazza Castello, Torino, tel. 011/4433501; www.palazzomadamatorino.it Fino al 29 gennaio 2018

Orari: lun. – dom. 10/18; chiuso il martedì

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Nelle immagini

– Mario Giansone: “Orchestra jazz, 5 tempi di sviluppo”, porfido, 1967 

– Mario Giansone: “Bracciale, placca fissa con ideogramma del jazz”, oro, fusione a cera persa, contenitore in ebano intagliato

– Mario Giansone: “Pianista e orchestra jazz”, tempera su carbone, 1958

– Mario Giansone: “Ideogramma del jazz”, bronzo su pietra di fiume, fusione a cera persa, 1958

– Mario Giansone:”Bracciale con ideogramma del jazz”, oro, fusione a cera

 

 

 

 

Il pittore della borghesia e delle bellezze femminili (con un pizzico di scandalo)

Si spense la sera del 14 gennaio 1938 Giacomo Grosso, acclamatissimo cantore della buona borghesia torinese, e non soltanto, il ritrattista per antonomasia delle signore bene, degli industriali come Vittorio Tedeschi, degli scultori come Calandra e dei pittori come Delleani e dei grandi musicisti come Verdi, delle nudità femminili che negli anni addietro avevano fatto scandalo. Aveva lasciato sul cavalletto un nuovo ritratto del generale Badoglio, a cavallo, il bozzetto di una delle eminenze italiane, lui che avrebbe pittoricamente tramandato i visi seri e di circostanza dell’assassinato Umberto, multimedagliato, del regnante e giovanile Vittorio Emanuele e della regina Elena, incoronata, un po’ troppo impettiti, un po’ freddi, seppur scenograficamente perfetti, seppur, lei, invidiabile in quel tripudio di specchi e consolle nella pelliccia e nel suo raso azzurro, vaporizzato a riempire la base della tela. Era nato a Cambiano, nel torinese, quasi settantotto anni prima, in una famiglia di undici figli, da un padre, Guglielmo, falegname e da una madre, Gioanna Vidotti, “setaiola, che però non lavora dovendo badare a una famiglia numerosa”, come ci informa Gian Giorgio Massara nel suo intervento all’interno del bel volume edito da Silvana Editoriale e da Albertina Press che accompagna nel cuore della mostra Giacomo Grosso, una stagione tra pittura e Accademia, curata con caparbia passione da Angelo Mistrangelo e inaugurata nei giorni scorsi in quattro diverse sedi (fino al prossimo 7 gennaio).

Un’esistenza che potrebbe prendere le mosse, anche se per interposta persona, da quel Giacomo adolescente sorpreso dodicenne da Cosola in veste di chierichetto, che attraversa stagioni di assoluta povertà, di “disperante miseria” – come anche ricordava De Amici in una breve biografia del 1906: “Il genio del celebre pittore piemontese germinò e fiorì nella miseria… campavano di stenti e pativano spesso la fame” -, che è accettato in differenti seminari, con tanto di punizioni e di sottrazione di una scatola di colori che gli era utile per i primi esercizi, che entra, grazie all’intercessione di Andrea Gastaldi, nelle sale dell’Accademia Albertina, a sostenerlo la somma di trecentosessanta lire annue che sotto il titolo di pensione gli fa pervenire il sindaco di Cambiano, Michele Rocco, che arrotonda ripassando con il colore ingrandimenti fotografici dovuti a Giuseppe Vanetti, che ha lo studio in piazza Vittorio, compenso cinque lire ciascuno. Poi i primi premi, il primo mecenate che lo ospita addirittura a Roma con tanto di atelier nel palazzo del Quirinale, i primi viaggi all’estero, l’insegnamento (mantenne la cattedra di Pittura per 46 anni) e lo studio presso l’Albertina, Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, senatore del Regno, a due anni dalla scomparsa una personale presso il salone de “La Stampa” che in quindici giorni raccoglie oltre 120.000 visitatori.

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Quale secondo appuntamento di quell’itinerario che è “I Maestri dell’Accademia Albertina”, inaugurato l’anno scorso con Gastaldi e destinato a proseguire, oggi Torino dedica a Grosso questa mostra in cui sono raccolte cento opere. Dicevamo in quattro differenti sedi. Con gli inizi di una attività posti nella sala del Consiglio del Palazzo Comunale di Cambiano, dove s’ammira l’impressionistico Favorito, sguardo ravvicinato tra una elegante ragazza e il suo azzurrognolo pavone o gli autoritratti giovanili, la vivacità di quella vetrina realissima di peperoni carnosi nei loro colori rosso e giallo e d’uva piena di riflessi o quel Pater Noster che pecca già oltre misura di finzione, subito riscattato dai ritratti della madre e del padre, umanamente immediato dentro la semplicità dell’abito e della poltrona che lo accoglie, le dite intrecciate di quelle mani che per l’intera vita hanno lavorato il legno, omaggio autentico di un figlio. Nelle sale dell’Albertina, inserendosi quasi a fatica tra le abituali collezioni, inquadrando per se stesse spazi color crema nell’azzurrino che siamo soliti visitare, ritroviamo la concretezza di certi ritratti di amici pittori, certi angoli romani o di Venezia, le nature morte che allineano ciliegie o un tripudio di ostriche e anguille e un grosso pesce ammirato e “fotografato” su un banco di qualche antico mercato. O quei funghi che sono un fornitissimo pantone di tinte marrone, raccolti soltanto ieri in val di Susa. O la naturalezza di una verza, polposissima, gigantesca. O la tranquillità della Sera che avanza in quel borgo che sale su per la montagna, dove dentro stanno tanti nomi di colleghi piemontesi. O quel capolavoro che da solo meriterebbe la visita, quella Figura di monaca, di verghiana memoria o forse manzoniana, senza ricciolo in bella mostra ma con quegli occhi che lasciano intravedere un’ombra di sottile perfidia e di complicità. Ritroviamo – con un bell’avamposto fotografico che sono le immagini delle modelle nella loro completa nudità ad opera di Ferdinando Fino, una vetrina di fotografie autocrome stereoscopiche, ovvero il 3D odierno, che ci riportano all’interno dello studio dell’artista, stanza preziosa curata da Fabio Amerio – La nuda, esempio perfetto di procace bellezza muliebre, immersa a guardare lo spettatore nel bianco immenso di una pelliccia d’orso, capace già di scandalizzare e di scombussolare gli ingessati signori del tempo (mai quanto Il supremo convegno alla Biennale veneziana del 1895, momento altamente funebre ed erotico di cinque donne attorno alla bara dell’antico amante, occasione degli strali di Papa Sarto, vendicato di quel peccato da un incendio che a New York, con la sua stima di 150.000 dollari, lo ridusse in cenere.

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Furoreggiano nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto non soltanto i ritratti di anonime ragazze intente a leggere le ultime indiscrezioni nel giornale arrivato da Parigi (Amusant, vivace, l’allegria di un momento rubato) ma pure quelli delle signore della buona borghesia, delle celebrità dell’epoca, espressioni ormai incastonate, che a volte peccano di una fissità che le rende vittime del déjà vu, del ripetuto esercizio di stile, pronte tuttavia a reclamare maggiore attenzione in quegli abiti di sfrontata eleganza, accurati, risplendenti nella soavità delle stoffe, negli abbinamenti dei colori, nel tatto soffice delle pellicce, nei ricami, nei veli, immediatamente comparabili con due esempi della Sartoria Devalle messi in mostra. È la rappresentazione di un microcosmo, il ritratto di un’epoca, il sospetto di un certo decadentismo, di una perfezione che da qualche parte nasconde un più o meno piccolo tarlo, di un volume di bellezze che ci prepariamo a sfogliare, esempio perfetto di un mondo scomparso (già non pochi contemporanei rimproveravano a Grosso di non voler ricercare nuove strade nella pittura). Freddezza ed esercizio talora, forse: tuttavia non possono escludere una totale ammirazione il Ritratto di signora del ’18 o quello che ci tramanda il viso di Eleonora Guglieminetti Vigliardi Paravia o La pensierosa, quello impertinente di Luisa Chessa (1903) o in ultimo il Ritratto della signora Carriè che ci fa apparire Giacomo Grosso assai “moderno” nel suo modo di interpretare la figura. In ultimo, a conclusione dell’intero percorso della mostra, fate un salto nella Corte medievale di Palazzo Madama (fino al 23 ottobre) e lasciatevi trasportare dalla bellezza della sensuale Ninfea (1907), incastonata in quella barocca Cornice d’alcova che arredava all’Albertina lo studio del Maestro e che possiamo ritrovare come scenografia a parecchie sue opere.

 

Elio Rabbione

 

 

Le immagini:

 

Mio padre, olio su tela, 1887, Accademia Albertina

La nuda, olio su tela, 1896, GAM, Torino

Ritratto di Eleonora Guglielminetti Vigliardi Paravia, olio su tela, 1919. coll. privata

Amusant, olio su tela. 1881, coll. privata

Colombo e Fo tra giganti storici e guitti da palcoscenico

IL COMMENTO 

di Pier Franco Quaglieni

La festa torinese per Dario Fo meritava di essere ignorata: un’apologia acritica condita in salsa grillina, anche se Grillo ha dato forfait . La vera Torino non c’entra nulla con Fo che semmai simpatizzò con le frange estreme della contestazione e del terrorismo a cui predispose un “Soccorso rosso” insieme a Franca Rame che invece venne eletta senatrice a Torino nella lista di Di Pietro. La Messa cantata celebrata al “Carignano” dal figlio Jacopo e da Carlin Petrini e’ uno sperpero di soldi pubblici, se si considera il taglio di 80 milioni ai bilanci comunali. E’ prezzo pagato al grillino Fo che, dopo esser stato fascista repubblichino e comunista sovversivo, diventò seguace di Grillo. Ovviamente della sua militanza repubblichina ne’ Jacopo ne’ Carlin hanno parlato perché ,malgrado una sentenza dica il contrario, Dario Fo sarebbe stato un infiltrato antifascista tra i militi della Rsi, come sostenne falsamente il diretto interessato. Ovviamente il fatto che gli venne, senza meriti sufficienti e adeguati , conferito il Premio Nobel ha posto la sordina sul vero Fo che magari fu anche un guitto divertente, ma non ebbe mai la statura minima per poter aspirare al Nobel. A un anno dalla sua morte, Torino non aveva comunque motivo e giustificazione per celebrarlo , mentre ignora grandi torinesi vivi come Piero Angela e Guido Ceronetti che hanno compiuto 90 anni. Fo , Jacopo e Carlin meritavano il silenzio stampa, mentre gli articoli si sono sprecati.

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Ma il processo a cui ha partecipato Jacopo Fo che ha comminato la damnatio memoriae – cioè l’ergastolo della storia – a Cristoforo Colombo ,obbliga a scriverne. Dario Fo nel 1963 scrisse una commedia dal titolo “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe” in cui Colombo venne accusato di crimini infami : assassinio, schiavismo, sfruttamento, rapine ecc. Fo padre era un giullare e poteva essere preso non sul serio il figlio invece pretende di sostenere l’accusa in un processo a Colombo con argomentazioni storiche. Avevano già iniziato gli americani, nell’opera di demolizione, accanendosi contro il monumento dello scopritore del loro Continente. Adesso si aggiunge Fo che dimostra di non capire che quando si tenta di fare storia non la si deve leggere con gli occhi di oggi. La storia di fine 1400 va contestualizzata nella sua epoca che certo non fu un’età mitica dell’oro ,ma un periodo storico di ferro ,di sangue e di fuoco, come , in verità , quasi tutte le epoche storiche ,in primis, il ‘900 rivoluzionario comunista così amato dai due Fo e da Petrini. Jacopo Fo ha paragonato Colombo a Totò Riina. Un parallelo demenziale che abbisogna di confutazioni. Insieme a Lutero, Colombo e’ il padre dell’età moderna; egli è andato oltre le Colonne d’Ercole ed ha cambiato la storia del mondo. Ha fatto una rivoluzione decisiva come Galileo. E’ sicuramente comprensibile che Jacopo Fo non riesca a districarsi in un labirinto fatto di giganti e non di guitti. E scriva di Colombo definendolo “cane rognoso”. Una versione che piace ai grillini, soprattutto ai colti Di Maio e Di Battista, che hanno lasciato gli studi, con la scusa di applicarsi alla politica .

quaglieni@gmail.com