CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 571

“Elvira”, l’apologia del mestiere dell’attore

Più di trent’anni dopo la direzione di Giorgio Strehler, nel 1986/87, la piece teatrale “Elvira” viene riproposta nella regia ed interpretazione di Toni Servillo, che lo sta portando in scena al teatro Carignano per la stagione del Teatro Stabile di Torino. Le riflessioni di Jouvet sul teatro e sul personaggio ritrovano la loro stringente attualità in questo apologo del teatro, della missione civile dell’attore e del suo mestiere, attraverso le sofferte meditazioni ed il rigore di un grande maestro del teatro medesimo. La piece consiste nella prova dell’incontro in cui donna Elvira comunica a don Giovanni il suo amore e la sua grande preoccupazione. Si tratta di una scena alla quale assistiamo e, da sempre, capace ogni volta di affascinarci come la prima volta. Il tessuto su cui Toni Servillo ha costruito il suo spettacolo è rappresentato da “Elvire Jouvet 40”, diario di lavoro in cui Brigitte Jacques trascrisse le “Sette lezioni sulla seconda scena di Elvira nel Don Giovanni di Moliere”, nella agile traduzione firmata da Giuseppe Montesano.

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Toni Servillo interpreta e dirige quello che si può considerare l’apologia del mestiere dell’attore, capace di svelare parole, tecnica e rigore di una pietra miliare del teatro come Louis Jouvet, che affermava che “una messinscena è una confessione “. “Elvira – spiega Toni Servillo – porta il pubblico all’interno di un teatro chiuso, quasi a spiare tra platea e palcoscenico, con un’allieva ed un maestro impegnati in un vero e proprio momento di fenomenologia della creazione del personaggio”. L’allieva di Jouvet si chiamava Paula Dehelly, una giovane interprete che, dopo il diploma, a causa delle sue origini ebraiche, fu costretta ad abbandonare le scene e lasciare Parigi, per tornare a lavorare in teatro ed al cinema solo nel dopoguerra. La stenografa Charlotte Delbo, poco dopo le trascrizioni, entrò nella Resistenza e sopravvisse ad Auschwitz, utilizzando poi l’esperienza con Jouvet ed il ricordo delle battute di Moliere quali risposte attive all’orrore. Toni Servillo, grande interprete, dirige tre giovani attori, Petra Valentini, Francesco Marino e Davide Cirri, in una grande celebrazione del teatro, capace di far conoscere al pubblico la fatica, il dolore e la tensione che si provano affrontando il palcoscenico, insomma la segreta realtà dell’attore, messaggero di poesia e verità.

Mara Martellotta

“Viktor und Viktoria”, il disordine dei sessi

Felice di essersi ripreso con S.O.B. – son of bitch la propria sfacciata rivincita sui produttori e sugli studios che per una decina d’anni l’avevano osteggiato, nel 1982 Blake Edwards firmò il film che molti considerano il suo capolavoro e il manifesto per eccellenza dell’eleganza e della bravura della consorte Julie Andrews, quel Victor Victoria che definì quanto i Cahiers du Cinéma avevano chiamato in precedenza Edwards touch. Un’ambientazione perfetta, gag infilate una dopo l’altra con una incredibile disinvoltura, un carico di intelligenza e raffinatezza, una sarabanda di travestimenti, canzoni e musiche, una artista in cerca di scrittura capace di convincere tutti di essere un uomo che finge di essere una donna, premi e incassi. La storia non era nuova. Già l’aveva portata sullo schermo il tedesco Reinhold Schünzel, esattamente cinquant’anni prima, ambientando la vicenda nei giorni della Repubblica di Weimar, tra barricate e disordini, con la grave crisi economica che attanagliava il paese, con l’estrema sinistra degli spartachisti e l’assassinio di Rosa Luxemburg, con il nazionalsocialismo che correva verso il potere. Liberamente ispirandosi a quella sceneggiatura – la fame e la solitudine di un’attrice che arriva dalla provincia, l’amicizia con l’immigrato Vito Esposito, la reinventata Viktoria che si finge Viktor, gli spettacoli en travesti e il successo insperato quanto grandioso, la vita notturna e il mondo nuovo che s’è aperto davanti, una baronessa/impresario dai più che dubbi costumi, una bionda ballerina di fila dal cuore grande, un attrezzista pieno di pratica filosofia che pare uscito dalle immagini di Cabaret, un giovane conte innamorato che vuole spalancare la porta dell’amore -, l’autrice Giovanna Gra e il regista Emanuele Gamba propongono, all’insegna della simpatia di Veronica Pivetti, con Viktor und Viktoria uno spettacolo che intenerisce e diverte il pubblico ma che non convince appieno. Ne risulta uno svagato susseguirsi di scenette che hanno vita propria ma che con difficoltà riescono a dar vita ad un affresco unico e compatto, che vogliono farci spiare dal buco della serratura il mondo dello spettacolo con tutti i dolori e le gioie ma che a fatica ce lo sanno rendere con qualche benedetta zampata, che strizzano l’occhio ad un linguaggio (del tutto fuori luogo) e ad una realtà di oggi ma dimenticano di calarsi con convinzione in quella che fu la società del tempo. È come se non si volesse approfondire, sempre che si voglia dare alla Storia il posto che le spetta, se si volesse incentrare ogni sviluppo drammaturgico nell’attenzione al disordine sessuale di chi abita la scena, con un buon spazio ai doppi sensi che inevitabilmente accaparrano risate. Per cui lo spettacolo soffre di una certa “povertà” di scrittura soprattutto e di messa in scena, mentre le ingombranti scenografie inventate da Alessandro Chiti (due alte quinte girevoli, che altrettanti volenterosi attrezzisti, accomunati negli applausi finali, pensano a manovrare per l’intera serata) sembrano rallentare il tutto. Dentro i costumi davvero belli, questi senza alcuna riserva, di Valter Azzini, la prof amata da mezza Italia – l’altra stravede – è servita malamente dal testo (assai meglio dalle canzoni brechtiane arrangiate da Maurizio Abeni) e non riesce, pur nella ricerca continua dell’effetto più che azzeccato, nella battuta veloce, nello sfruttamento appropriato di quella sua faccia da monella e incasinata cronica che tutti le conosciamo, a convincere appieno. Con lei Giorgio Lupano che ha quasi paura di farsi avanti con le emozioni e i sentimenti del suo conte, Yari Gugliucci che semina un po’ di napoletaneità in terra tedesca, Pia Engleberth, Nicola Sorrenti e l’amabilissima Roberta Cartocci, che comunque, a dispetto delle spiegazzature di cui sopra, la sala stracolma del Gioiello ha alla prima ampiamente applaudito. Si replica sino a domenica 18.

 

Elio Rabbione

Così da trovare la forza di vedere

Racconta e denuncia, Fatma Bucak. E le due azioni vivono nelle sue opere in perfetta simbiosi. Con il poetico recupero di memorie che paiono illuderci sulla possibilità (forse non del tutto perduta) di spazi ancora possibili per la redenzione umana e, di contro, la rabbiosa violenza e resistenza, ai limiti di incontenibili pazzie, contro i soprusi e le spietate repressioni di cui si nutrono nella realtà alcune voragini del genere umano

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L’ARTE COME DENUNCIA SOCIALE E POLITICA NELLE OPERE ESPOSTE ALLA TORINESE FONDAZIONE MERZ. FINO AL 20 MAGGIO

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Racconta e denuncia, Fatma Bucak. E le due azioni vivono nelle sue opere in perfetta simbiosi. Con il poetico recupero di memorie che paiono illuderci sulla possibilità (forse non del tutto perduta) di spazi ancora possibili per la redenzione umana e, di contro, la rabbiosa violenza e resistenza, ai limiti di incontenibili pazzie, contro i soprusi e le spietate repressioni di cui si nutrono nella realtà alcune voragini del genere umano. Voragini, mondi neppur troppo lontani. Ma spesso invisibili. Perché spesso non si vogliono o non si possono vedere. E conoscere e capire. Di qui il titolo esortativo affidato in lingua inglese alla mostra, organizzata dalla Fondazione Merz in collaborazione con la Fondazione Sardi per l’Arte: “So as to find the strenght to see” ovvero “Così da trovare la forza di vedere”. Progetto espositivo inedito e curato da Lisa Parola con Maria Centonze, si tratta della prima grande rassegna in uno spazio museale italiano dell’artista turca (formatasi fra Istanbul, Torino con studi all’Accademia Albertina e Londra) Fatma Bucak, che nelle sale della Fondazione di via Limone, a Torino, espone lavori fotografici, sonori, opere grafiche, video performativi e scultorei, alcuni realizzati appositamente per l’occasione. Suggestivo in proposito il lavoro site-specific che apre proprio il percorso espositivo. Il titolo è ” Enduring nature of thoughts”. Di fronte ci troviamo decine di catini smaltati posti a terra con logico rigore; tutt’intorno, il suono costante e amplificato di gocce che cadono e “sembrano alludere ad una serie di perdite invisibili”. Oggetti e suoni ossessivi nel loro costante e ansiogeno ripetersi. Che straniano dalla realtà. Presenze che includono e alludono, a un tempo, a dolorosi stati d’assenza. E l’iter prosegue con immagini e performance che diventano “voce di cronache dimenticate, narrazioni di pensieri inespressi, riesame delle ‘individualità’ escluse dalla Storia, di minoranze politiche o etniche, di strutture socio-culturali in opposizione al Potere”.

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Sono i temi con cui si raffronta costantemente l’opera della Bucak, nata nel sud della Turchia – vicino al confine con la Siria – di appartenenza alla minoranza curda e dunque portatrice di una gravosa storia personale che profondamente incide sulla sua formazione poetica. In “Omne vivum ex ovo”, una donna in tunica bianca e a piedi nudi su macerie indefinite e indefinibili, infila uova nei buchi di mattoni distrutti: il tempo è immobile, tutto è fermo e silente nella tragicità di una guerra che si nutre di fragilità e pazzia, di cose di sogni di attese che svaniscono nel tempo di un nanosecondo. Ma possono rivivere in una sorta di big bang, quale sembra voler raccontare il video “Four ages of womann: Fall”, girato su una collinetta di terra rossa dove a tratti compare e scompare una donna nuda (la stessa di prima?) intenta a scagliare pietre in totale solitudine contro un nemico invisibile, come se decidesse di riemergere dall’azzeramento del paesaggio, per reinventarsi e riscrivere al femminile la propria storia. E dalle guerre la riflessione su confini e migrazioni. In “Damascus Rose”, un centinaio di piante di rose di Damasco– fra le varietà più antiche, oggi a rischio di estinzione per la fuga dei coltivatori a causa della guerra civile- trasportate dalla Siria a Torino, vengono innestate e coltivate in un letto di terra, con la speranza che mettano radici e crescano. La stessa di milioni di rifugiati siriani e un rimando, che addolora, al bisogno di appartenenza e origine. Ma ancor più straziante è il racconto di annullamento della memoria e delle storie individuali contenuto in “342 names”, litografie dedicate alle vittime di sparizione forzata in Turchia a seguito del colpo di stato militare del 1980, i cui nomi vengono sovrapposti l’uno sull’altro, fino a diventare macchie illeggibili. Pasticci grafici. Nomi innominabili, storie senza storia, vite senza vita. Pozzo di incredibile dolore anche le 117 lastre di zinco (“Fantasies of violence”) visibili fronte e retro sulle quali sono incisi segni astratti che riportano immagini di violenza frutto di un’attenta ricerca compiuta dall’artista su giornali internazionali di Turchia, Europa e America. Immagini interrotte dall’astrazione dei segni. Cristallizzate nell’essenzialità di forme che ancor più evidenziano (sul retro compare la narrazione letteraria dell’evento) la macabra rappresentazione dell’atto violento. Di brutture umane che dobbiamo trovare la forza di guardare e di vedere. La stessa che guida Fatma Bucak nella sua ricerca estetica. Nell’urlo (presunto) lanciato al cielo da quella nuda figura femminile che scaglia pietre a vuoto, in quel solitario paesaggio di terra rossa che potrebbe essere il primo seme di un nuovo mondo.

Gianni Milani

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“Fatma Bucak. So a sto find the strenght to see”

Fondazione Merz, via Limone 24, Torino; tel. 011/19719437 – www.fondazionemerz.org

Fino al 20 maggio / Orari: dal mart. alla dom. 11 – 19

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Nelle foto:

– “Omne vivum ex ovo”
– “Four ages of womann: Fall”

 

Villa Costantino Nigra

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare. (ac)

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1 / Villa Costantino Nigra

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È una di quelle giornate acquose. C’è una pioggia sottile che impregna il paesaggio ed i vestiti, la luce che illumina le cose pare scivolarci sopra, dando uno strano e dolce effetto ottico. È lo sfondo perfetto per la storia di oggi, che si incentra sul fantasma di una nobildonna, Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione. Si dice che, talvolta, ella appaia mentre danza senza veli alla luce della luna, in un terrazzo di una villa ormai dimenticata, costruita sulle fondamenta di un antico castello. Parto in compagnia della mia amica Martina, chiacchieriamo disturbando la radio e la voce dispotica del navigatore, ci lasciamo Torino alle spalle, dirette verso il verde della provincia, fino a raggiungere la frazione di Villa Castel Nuovo, un piccolo comune di circa 414 abitanti, che al suo interno custodisce quello che un tempo era un gioiello di lusso ricercato, la villa della famiglia Nigra. La villa fu costruita probabilmente tra gli anni 50 e 90 dell’800, non è possibile essere più precisi a causa di un incendio, scoppiato agli inizi del ‘900, che distrusse tutti i progetti contenuti all’interno dell’archivio comunale. Per lo stesso motivo anche l’identità dell’architetto rimane una questione aperta, anche se è del tutto probabile che il progetto sia stato affidato a una personalità di rilievo nell’ambito del torinese.

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Gli unici abitanti in cui ci imbattiamo sono un paio di gatti chiacchieroni che ci accompagnano per un breve tratto di salita, ma, non appena l’inclinazione del nostro sentiero aumenta, ci abbandonano, proprio davanti ad una piccola chiesetta adiacente ad un muro massiccio. Alzando lo sguardo faccio qualche passo indietro, estraggo la mia reflex e scatto la prima fotografia: guardandola per controllare le impostazioni, penso che sia il luogo perfetto per una storia di fantasmi. Davanti a me si ergono mura imponenti, la particolare luce del giorno le rende di un colore tra il grigio di un gatto certosino e il lilla del glicine, il muschio del tempo si espande su tutta la superficie e fa da amalgama tra i muri esterni e il cancello d’entrata, interamente in ferro, reso di un cupo color ruggine dalle intemperie e dall’abbandono. Al di là dell’ingresso si trova un giardino disordinato, con erba troppo alta e alberi dai rami invadenti, tutto è in procinto di essere inghiottito dall’edera. Attorno a quello che un tempo doveva essere un elegante cortile interno, si trova un porticato di colonne massicce, dietro le quali gli accessi all’interno della struttura si presentano come portali misteriosi, complici dell’ombra che non fa intuire dove conducano. Lo spettacolo che sto guardando è un quadro di C.D. Friedrich: tutto attorno è malinconico come le foglie lucide di pioggia e decadente come le mura scrostate che sorreggono un guscio vuoto. L’esterno della villa mantiene ancora una certa eleganza e austerità, aspetti supportati dall’antico progetto che prevedeva la fusione del presente edificio con il preesistente Castello di San Martino, di cui sono ancora visibili le fondamenta. Del castello si hanno poche notizie. Tantissime furono le battaglie che dovette sopportare, tra cui, probabilmente, la rivolta dei Tuchini che coinvolse tutto l’alto Canavese e molti altri scontri durante le guerre franco-spagnole. Il Castello uscì da questo periodo estremamente danneggiato. Ciò costrinse il proprietario, Pompeo I di Castelnuovo, a trasferirsi in un’altra residenza, a Castellamonte. Da questo momento in poi non si hanno più notizie del sito, fino al momento in cui Ludovico Nigra lo acquistò, insieme ai terreni circostanti.

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Completamente opposta a quella esterna è la situazione interna, scavata dall’ingordigia dei curiosi che nel tempo hanno approfittato dello stato di abbandono su cui grava la villa, un tempo dotata di pavimenti sfarzosi, arazzi, affreschi sulle pareti e sui soffitti, ricca di splendidi suppellettili e di mobilia ricercata, tra cui una preziosa scrivania appartenuta a Napoleone I.   Sono intrappolata in una strana atmosfera, l’unico suono che si percepisce è il vento che infastidisce gli alberi. Sembra che l’enorme edificio stia dormendo; l’aria che viene dall’interno è il suo respiro, gelido e arreso all’idea che nessuno verrà a interrompere quel riposo. Spinta da un’insolita e strana curiosità, oltrepasso quello che percepisco come lo sterno della villa, costituito da stanze sgombre e desolate, ascolto lo scrocchio dei miei passi fino a che non raggiungo il vero cuore pulsante: il terrazzo esterno. Qui vi è un balconcino in stile classico, che da una parte si affaccia a strapiombo sulla strada, dall’altra parte – a ridosso della collina- esso è costeggiato da una serie di colonne massicce, oltre le quali si insinua un altro giardino ribelle. Scatto un’altra fotografia, mentre la guardo sul monitor noto l’estrema delicatezza del viola del glicine che si appoggia al bianco sporco della balaustra: al di là, le verdi colline sbiadiscono nella foschia. In questo punto particolare della casa l’atmosfera si fa più dolce, come se la villa mettesse le mani a conca per proteggere qualcosa, l’illusione di un ultimo tentativo di preservare la bellezza della dama antica, di cui qui si avverte l’impercettibile presenza. La Contessa fu una donna bella, straordinaria, intrigante, abile in politica, amica, oltre che cugina, di Camillo Cavour che la inviò in Francia per sedurre e piegare alla causa piemontese l’imperatore Napoleone III. A Parigi Costantino Nigra conobbe la seducente Contessa e ne fu profondamente attratto. Esempio di vanità assoluta, lei stessa si definì “la donna più bella del secolo”, e nessuno osò mai contraddirla. Terrorizzata dal vedersi invecchiare sostituì gli specchi della sua abitazione con i propri autoritratti fotografici e smise di farsi vedere in pubblico. Consumata da tale narcisistica ossessione, si trasformò nello spettro della sua stessa bellezza.

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La villa, se stai ad ascoltarla, ci racconta anche altre storie: le visite notturne di Re Vittorio Emanuele II e della sua scorta, gli incontri massonici nei sotterranei del castello, i cunicoli che si diramano nell’oscurità e raggiungono le colline più lontane. A partire dal suo primissimo proprietario, le mura della villa ospitarono solo personaggi molto discussi, fatto che aiutò a fomentare chiacchiere e leggende sul luogo. Ludovico Nigra era un cerusico di modeste condizioni, aveva aderito ai moti del 1821, motivo per cui non era molto stimato dai detentori del potere dell’epoca.Il figlio di Ludovico, Costantino, nacque all’interno delle stesse mura, l’11 giugno del 1828. Egli diventerà figura centrale del Rinascimento italiano, in qualità di segretario, prima di D’Azeglio, poi di Cavour. Anche Costantino però fu una figura controversa, prese parte a molti episodi che all’epoca destarono scalpore, uno dei più chiacchierati fu quello della distruzione di alcune lettere, scritte da Cavour e indirizzate all’amante Bianca Ronziani, il cui contenuto rimase per sempre segreto. Inoltre fu investito della carica di Gran Maestro della Massoneria del Grande Oriente d’Italia presso la Loggia Ausonia di Torino. Scatto altre fotografie degli interni, ma poi ritorno ancora sul terrazzo, in cui malia, storia e mistero vanno all’unisono. Il rumore della pioggia che aumenta mi avvisa che non c’è più nulla da perlustrare e fotografare, la penombra che si infittisce mi conferma che è ora di andare. Anche perché non bisogna approfittare troppo della gentilezza di chi ci ospita.

Alessia Cagnotto

Torinodanza 2018 apre con “Betroffenheit”

Racconto di un trauma vissuto. Realizzato dalla coreografa canadese Crystal Pite. La rassegna  è diretta per la prima volta da Anna Cremonini, in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino

 

Il Festival Torinodanza, da quest’anno diretto da Anna Cremonini, che ha preso il testimone da Gigi Cristoforetti, quest’anno gioca d’anticipo presentando, nell’elegante cornice del teatro Carignano, giovedì 15 marzo, l’anteprima di tutta la rassegna, che è in programma alle Fonderie Limone il 17 e 18 maggio prossimi. Si tratta del lavoro dal titolo “Betroffenheit”, creato dalla coreografa Crystal Pite e dall’attore drammaturgo Jonathon Young, entrambi canadesi. Questa anteprima rappresenta un po’ il biglietto da visita della rinnovata edizione del Festival, che si impegna a mantenere la linea tracciata nel passato, ampliandone, però, i confini. Betroffehneit rappresenta, infatti, la fusione di danza e teatro contemporanei, creando un sottile fil rouge tra la stagione di prosa del teatro Stabile e la rassegna Torinodanza. Il termine tedesco oscilla come significato tra le parole sbigottimento, costernazione e vuoto. La radice della parola “treffen” significa ” incontrare” e ” betroffen” vuol dire “essere attento”. Betroffenheit rappresenta, quindi, lo stato di essere stato travolto, scioccato o stordito da un particolare evento, spazio o tempo che nessuna lingua è in grado di descrivere. I dialoghi dell’ uomo con se stesso diventano la colonna sonora di un’ossessione che struttura la coreografia di Crystal Pite, fondatrice a Vancouver della Compagnia Kit Pivot e sperimentatrice di numerose ricerche tra teatro e danza, con inserimento di marionette tra i danzatori.

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Torinodanza inaugurerà il 10 settembre prossimo al Teatro Regio proponendo in un’unica serata due spettacoli piuttosto diversi tra loro, a firma di Sidi Larbi Cherkaoui, dal titolo “Noetic” ed ” Icon”, entrambi prodotti da Goteborgs OperansDanskompani , corpo di ballo dell’opera di Gotenborg, città svedese interessante nella costruzione di un repertorio molto originale in Europa. Cherkaoui diventa, così, artista associato del Festival Torinodanza per i prossimi tre anni di programmazione. Noetic fonda il proprio disegno creativo su elementi aerei supportati da elementi scenici che costituiscono affascinanti geometrie e forme; invece in Icon elementi di argilla danno vita alla scenografia e gli oggetti che ne derivano ancorano pesantemente al suolo forme e movimenti. In entrambi i lavori si celano domande universali. In “Icon” il coreografo si pone la questione del modo in cui la società contemporanea senta la necessità di crearsi sempre nuovi miti, vere e proprie “icone”, per poi distruggerle e sostituirle, in una spirale infinita. In ” Noetic” ci si interroga sul rapporto tra scienza e coscienza, forme fisiche e forme della mente. Il tema della contaminazione sarà al centro di questa edizione del festival, come nello spettacolo pluripremiato “The Great Tamer” di Dimitris Papaioannou, in programma alle Fonderie Limone dal 20 al 22 settembre prossimi, cui si aggiungerà la video installazione “Inside”, che sarà presentata nei nuovi spazi delle Ogr, sempre ad opera dell’ artista greco. The Great Tamer, il grande domatore, si richiama al concetto di Tempo, che, secondo la concezione omerica, agisce come domatore di illusioni. Siamo al crocevia tra danza, teatro ed arti visive, in una creazione che ben riflette la genialità del suo autore, Papaioannou, noto al grande pubblico per aver curato le Cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Atene del 2004.

 

Mara Martellotta

(foto mm – il Torinese)

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

A casa tutti bene – Commedia. regia di Gabriele Muccino, con Stefano Accorsi, Massimo Ghini, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino e Gianmarco Tognazzi. Una ricorrenza da festeggiare, le nozze d’oro dei nonni, una permanenza forzata, il traghetto bloccato e l’isola di Ischia a fare da sfondo: gli antichi ristoratori, i tre figli che hanno preso strade diverse, le mogli attuali e quelle di un tempo, il cugino solo e poveraccio con debiti e un figlio in arrivo, i rancori, le confessioni e le urla, il ritratto di una famiglia italiana in perfetto stile Muccino, figliuol prodigo tornato a casa dopo i (quasi totali) successi d’oltreoceano. Ma Muccino rimane Muccino, con le tante tessere di una storia, con il suo nervoso montaggio, con una sceneggiatura che non brilla, con certi attori presi nel vortice del dramma ad ogni costo, con altri che continuano a ripetere i loro soliti personaggi. Però un palmarès alle prove di Massimo Ghini e Valeria Solarino, all’invasione altissima del mai così bravo Gianmarco Tognazzi. Durata 105 minuti. (Massaua, Lux sala 2, The Space, Uci)

 

Anche senza di te – Commedia. Regia di Francesco Bonelli, con Nicolas Vaporidis, Andrea Branciamore e Myriam Catania. La storia di Sara, insegnante elementare precaria e prossima all’altare con il medico in carriera Andrea. Ma con il momento (troppo) fatidico arrivano gli attacchi di panico, incontenibili. Nei pressi c’è il collega (chiaramente, di lei) Nicola e con lui il sogno di una scuola gestita in un modo diverso, ad esempio con il linguaggio autentico delle emozioni: un metodo che potrebbe tornare comodo anche alla scombussolata protagonista. Durata 107 minuti. (Uci)

 

Black Panther – Fantasy. Regia di Ryan Coogler, con Chadwick Boseman, Lupita Nyong’o, Martin Freeman e Angela Bassett. Il protagonista è il nuovo re di Wakanda dopo la morte del padre: ma se sulla sua strada trova dei nemici pronti a detronizzarlo, lui sarà pronta a unirsi alla CIA e alle forze speciali del proprio paese. Durata 135 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Belle & Sebastien – Amici per sempre – Avventura. Regia di Clovis Cornillac, con Félix Bossuet e Tchéky Karyo. Terzo capitolo della saga, Sebastien ha 12 anni e Belle gli ha regalato tre splendidi cuccioli. Senonché la tranquillità familiare è scalfitta dall’intenzione di Pierre, il padre del ragazzo, di trasferirsi in Canada e dall’arrivo di un presunto proprietario di Belle che vorrebbe portarsela via. Sebastien farà di tutto per non dover abbandonare la sua amica a quattro zampe. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Benvenuti a casa mia – Commedia. Regia di Philippe de Chauveron, con Christian Clavier, Nanou Garcia e Ary Abittan. Come se dicessimo: dal dire al fare. C’è uno scrittore, un intellettuale decisamente aperto, punto di riferimento della scena letteraria, sposato ad una ereditiera lontanissima dalla realtà che la circonda. È il fortunato autore di un libro, “Benvenuti a casa mia”, in cui auspica che ogni suo lettore, soprattutto i ricchi e benestanti, accettino di aprire le loro abitazioni a chi ne ha davvero bisogno. Ma se il suo avversario lo sfida a mettere in pratica, lui per primo, quanto il libro consiglia, se quella sera stessa qualcuno busserà alla sua porta, che cosa potrà succedere? Durata 92 minuti. (Greenwich sala 1, The Space, Uci)

 

C’est la vie – Prendila come viene – Commedia. Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache, con Jean-Pierre Bacri, Jean-Paul Rouve, Hélène Vincent e Suzanne Clément. Gli artefici del fenomeno “Quasi amici” promettono risate a valanga e il successone in patria dovrebbe calamitare anche il pubblico di casa nostra. I due sposini Pierre ed Hélène hanno deciso di sposarsi e quel giorno deve davvero essere il più bello della loro vita. Nella cornice di un castello del XVII secolo, poco lontano da Parigi, si sono affidati a Max e al suo team, ad un uomo che ha fatto della sua professione di wedding planner una missione, che organizza e pianifica, che sa gestire i suoi uomini, che sa mettere ordine nel caos più supremo, che per ogni problema sa trovare la giusta risoluzione… Più o meno: perché quella giornata sarà molto ma molto lunga, ricca di sorpresa e di colpi di scena. Ma soprattutto di enormi, fragorose risate! Durata 115 minuti. (Romano sala 3)

 

Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo blu)

 

Il filo nascosto – Drammatico. Regia di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps e Lesley Manville. Nella Londra degli anni Cinquanta, il famoso sarto Reynolds Woodcock è la figura centrale dell’alta moda britannica, eccellentemente coadiuvato dalla sorella Cyril: realizzano gli abiti per la famiglia reale (qualcuno ha visto il ritratto del celebre Norman Hartnell), per le stelle del cinema, per ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Il grande sarto è anche un incallito e incredibile dongiovanni, nella cui vita le donne, fonte d’ispirazione e occasione di compagnia, entrano ed escono: fino a che non sopraggiunge la presenza della semplice quanto volitiva, a modo suo spregiudicata, Alma, una giovane cameriera di origini tedesche, pronta a diventare parte troppo importante della vita dell’uomo, musa e amante. L’ordine e la meticolosità, doti che si rispecchiano meravigliosamente nella fattura degli abiti e nella condotta di vita, un tempo così ben controllata e pianificata, vengono sovvertiti, in una lotta quotidiana tra uomo e donna. Film geometrico e algido quanto perfetto, forse scontroso, eccezionale prova interpretativa per la Manville e per Day-Lewis, forse il canto del cigno per l’interprete del “Mio piede sinistro” e di “Lincoln”, convinto da oggi in poi ad abbandonare lo schermo. Oscar per i migliori costumi. Durata 130 minuti. (Centrale in V.O., Due Giardini sala Nirvana, Reposi, Romano sala 2)

 

La forma dell’acqua – The shape of water – Fantasy. Regia di Guillermo del Toro, con Sally Hawkins, Doug Jones, Octavia Spencer, Michael Stulhbarg e Michael Shannon. Leone d’oro a Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, Eliseo Grande, Massimo sala 1 anche V.O., Reposi, The Space, Uci)

 

Il giustiziere della notte – Drammatico. Regia di Eli Roth, con Bruce Willis. Nel 1974 il medesimo titolo esplose con l’interpretazione di Charles Bronson, oggi, riadattato e attualizzato, lasciati i grattacieli di New York per essere ambientato a Chicago, chiuso nel vortice dei fatti successi nelle scuole americane e nel dibattito circa lo sfrontato acquisto/uso delle armi da parte dei cittadini degli States, vede il duro a morire Willis, medico chirurgo, combattere contro chi gli ha ucciso la moglie e violentato la figlia. Durata 92 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Lady Bird – Drammatico. Regia di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Lucas Hedges, Timothée Chalamet e Laurie Metcalf. Una storia che pesca nell’autobiografia, l’autrice, come il personaggio femminile del film, è nata a Sacramento, in California, e sin da giovane smaniosa di raggiungere la costa orientale per studiare e dedicarsi al cinema. Anche Christine sogna di iscriversi ad una università nella parte opposta degli States, sottrarsi alla madre autoritaria, alla figura del padre senza lavoro, a quel piccolo mondo che la circonda. S’inventa storie, fa fronte alle prime prove d’amore, dal risultato negativo, fa di tutto per mettersi in buona luce agli occhi dei compagni di scuola che sembrano valere più di lei, ricavandone delusioni, s’appiccica quel nome del titolo: quale sarà il suo futuro? Un ritratto femminile già visto altre volte, che cerca continuamente sfide interpretative e di regia: ma un film che non lascerà un grande ricordo di sé, a bocca asciutta nella notte degli Oscar. Durata 94 minuti. (Eliseo Rosso, Nazionale sala 2, Uci)

 

Maria Maddalena – Drammatico. Regia di Garth Davis, con Rooney Mara, Joaquin Phoenix e Chiwetel Ejiofor. Una visione nuova nei confronti di una Maddalena vista come la peccatrice e la prostituta, figura alimentata per secoli. Il regista australiano (che tuttavia ha scoperto gli ambienti adatti in Sicilia) vede questa donna come un esempio di femminismo ante litteram, colei che sfugge ai compiti di moglie e madre che la società del tempo inevitabilmente le impone, colei che stabilisce di seguire il Maestro e di abbracciarne in modo completo la dottrina: quella che tra i tanti discepoli è scelta dal Maestro ad assistere alla sua Resurrezione. Guardando anche alle figure di Giuda e di Pietro, messi di fronte ad un messaggio che sconvolgerà il mondo ma incapaci di assumerne l’esatta interpretazione. Durata 120 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Metti la nonna in freezer – Commedia. Regia di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, con Fabio Di Luigi, Miriam Leone, Barbara Bouchet e Eros Pagni. Un giovane e incorruttibile finanziere e una bella restauratrice, con un paio di aiutanti al seguito, che vive grazie alla pensione della nonna visto che lo Stato tarda a riconoscerle i quattrini che le deve per tutto il lavoro che ha svolto. E se la vegliarda passa a miglior vita? Spetterà alla ragazza ingegnarsi per la sopravvivenza, l’elettrodomestico del titolo fa al caso suo, le amiche un piccolo aiuto non lo negano e la pensione della nonna si potrà continuare a percepire. Durata 100 minuti. (Massaua, Greenwich sala 2, Reposi, The Space, Uci)

 

Omicidio al Cairo – Giallo. Regia di Tarik Saleh, con Fares Fares. La morte di una cantante di successo nelle stanze del Nile Hilton Hotel, la sua relazione con un uomo che fa affari con il mondo della politica, un caso che si vorrebbe chiudere al più presto. La capitale egiziana del 2011, le rivolte e la corruzione senza limiti raccontata senza nulla nascondere, la criminalità che invade il paese, un commissario che pur tra le proprie zone d’ombra eccelle senza dubbio sui suoi superiori e che vuole andare fino in fondo pur di scoprire i colpevoli. Una cinematografia a molti sconosciuta, che merita con questo esempio d’essere tenuta d’occhio, un ritmo sostenuto nelle indagini che combattono contro le mazzette di quattrini che circolano a mo’ di ricompensa da una e dall’altra parte. Durezza e debolezze sulla faccia del protagonista. Durata 106 minuti. (Classico)

 

Oltre la notte – Drammatico. Regia di Fatih Akin, con Diane Kruger e Johannes Krisch. Katia vive dentro una famiglia felice, un figlio e un marito che dopo un periodo di prigione per spaccio ne è uscito e oggi lavora in una piccola agenzia di viaggi. Ma è una felicità destinata a morire: un attentato, che ha i suoi fautori in una coppia di estremisti legata al gruppo di destra greco “Alba dorata”, distrugge la vita dei suoi cari. Katia grazie al sostegno di amici e famigliari affronta il funerale e riesce ad andare avanti, ma quelle morti, con la ricerca ossessiva degli assassini, riaprono ferite e sollevano dubbi. Palmarès per la migliore interpretazione femminile a Cannes lo scorso anno e Golden Globe come miglior film straniero. Durata 101 minuti. (F.lli Marz sala Groucho, Nazionale sala 1, Uci)

 

Nome di donna – Drammatico. Regia di Marco Tullio Giordana, con Cristina Capotondi, Valerio Binasco, Adriana Asti e Bebo Storti. Nina, madre di una bambina, trova lavoro in una elegante residenza per anziani, nel territorio di Cremona, dove il direttore, spalleggiato da un sacerdote fuori da ogni regola di accoglienza, fa il buono e cattivo tempo. Sulle dipendenti soprattutto, che ha molestato e che molesta, che continuano ad accettare. Nina rompe gli schemi ormai affermati, denuncia, cerca disperatamente ma inutilmente l’appoggio delle colleghe. Un tema quanto mai attuale, pronto a far discutere. Come è consuetudine per le storie raccontate da Giordana, da “Maledetti vi amerò” alla “Meglio gioventù”. Durata 98 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Uci)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (Greenwich sala 3)

 

Pertini – Il combattente – Documentario. Regia di Graziano Diana e Giancarlo De Cataldo. Interviste (da Napolitano a Bonino, da Scalfari a Dino Zoff), cinegiornali, articoli, documenti, fumetti, canzoni per tratteggiare la figura del Presidente più amato dagli Italiani. Durata 76 minuti. (Centrale)

 

Puoi baciare lo sposo – Commedia. Regia di Alessandro Genovesi, con Diego Abatantuono, Monica Guerritore, Salvatore Esposito e Cristiano Caccamo. Si sono fidanzati a Berlino (“dove è facile fare i gay…”) Antonio e Paolo e sperano che la loro unione venga benedetta dal padre di Antonio, sindaco di Civita di Bagnoregio e uomo fautore di ogni accoglienza. Ma il “suocero”, colpito nell’ambito familiare, non gradisce. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Quello che non so di lei – Drammatico. Regia di Roman Polanski, con Emmanuelle Seigner, Eva Green e Vincent Perez. Delphine ha conosciuto l’importante successo editoriale dando alle stampe un romanzo che racconta il suicidio della madre. Ora deve combattere contro una crisi creativa che la blocca davanti al foglio bianco. L’incontro con Leila che poco a poco, in tante differenti occasioni, si insinua nella sua vita e quasi se ne appropria, la metterà di fronte ad un mondo di ambiguità, dove anche l’aspetto morboso (basta ripercorrere la filmografia di Polanski per ritrovarne ampi esempi) trova eccellente spazio. Tratto dal romanzo “D’après une histoire vraie” di Delphine Vigan, con uno sguardo anche alla lotta incrociata di “Eva contro Eva”. Durata 100 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

Red Sparrow – Azione. Regia di Francis Lawrence, con Jennifer Lawrence, Joel Edgerton, Charlotte Rampling, Jeremy Irons e Matthias Schoenaerts. Con tutta probabilità il primo capitolo di una adrenalinica trilogia, dal momento che lo scrittore Jason Matthews, un ex agente della Cia che ha parecchie cose da raccontare dovute a una più che trentennale lotta sul campo, ha anche pubblicato, oltre a questo primo romanzo, “Il palazzo degli inganni” e “The Kremlin’s Candidate”. Con il visino, la carica erotica e l’escalation senza freni della bella Jennifer già pluripremiata e oscarizzata nonostante i suoi “soli” ventisette anni, la ballerina del Bolshoi Dominika, in una guerra fredda che sembra affatto terminata, dovrà vedersela con un intrepido agente della Cia sotto copertura al di là della Cortina, ma si sa che in questi incontri/scontri possono farsi strada crocevia amorosi. Dirige il regista di “Hunher Games”, intriganti i panorami che si inseguono tra Atene e Mosca, tra Helsinki e Washington. Durata 139 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)

 

Ricomincio da noi – Commedia. Regia di Richard Loncraine, con Imelda Stauton, Celia Imrie e Timothy Spall. Il film che con risate, un po’ di autentica commozione e grande successo aveva aperto l’ultimo TFF. Scoperto che il marito la tradisce da anni con la sua migliore amica (mai fidarsi!), la protagonista scopre, attraverso l’eccentricità della sorella, quei tanti amici che la circondano, il suo modo spensierato di affrontare e condurre la vita, di avere voglia di buttarsi alle spalle tutto quanto, magari iniziando con il frequentare una sala da ballo. La attendono ancora altre prove ma un non più giovane innamorato la farà decidere la nuova strada da intraprendere. Nessuno scossone ma una bella botta di vita comunque, per lo spettatore e per la terna d’attori che sono tra il meglio del cinema e del teatro inglesi, da ammirare. Durata 110 minuti. (F.lli Marx sala Chico, Romano sala 1)

 

La terra buona – Commedia drammatica. Regia di Emanuele Caruso, con Fabrizio Ferracane, Giulio Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc. Durata 110 minuti. (Reposi)

 

The lodgers – Non infrangere le regole. – Horror. Regia di Brian O’Malley, con Charlotte Vega, Bill Milner, Eugene Simon e David Bradley. Nell’Irlanda del 1920, i gemelli Edward e Rachel debbono combattere, per una punizione per le colpe dei loro antenati, contro le presenze sinistre che popolano la loro casa. Debbono andare a letto entro la mezzanotte, non debbono mai fare entrare estranei in casa e debbono stare sempre insieme, senza mai separarsi. Ognuna di queste regole va rispettata. Se il ragazzo è pronto ad accettare ogni norma, la sorella cerca di sfuggire per sottrarsi ad una crudele prigionia. Durata 92 minuti. (Uci)

 

The Post – Drammatico. Regia di Steven Spielberg, con Meryl Streep e Tom Hanks. Ancora l’America descritta da Spielberg con gran senso dello spettacolo. L’argomento è ormai noto, il New York Times aveva tra le mani nel 1971 un bel pacco di documenti comprovanti con estremo imbarazzo la cattiva politica di ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth. Durata 118 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Greenwich sala 1)

 

Tomb Raider – Avventura. Regia di Roar Uthaug, con Alicia Vikander e Dominic West. Dopo l’avventura firmata da Angiolina Jolie, ecco nuovamente Lara Croft. La quale decide di partire, dopo l’insperato ritrovamento di un quaderno d’appunti, per una sconosciuta isola del mar del Giappone alla ricerca di suo padre dato per scomparso. Durata 115 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci anche in V.O.)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Oscar strameritati per la protagonista e per il poliziotto mammone e fuori di testa di Rockwell. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 3, Lux sala 3, Uci)

 

Un amore sopra le righe – Drammatico. Regia di Nicolas Bedos, con Nicolas Bedos e Doria Tillier. Dagli anni Settanta ad oggi, la storia di un uomo e una donna, che s’incontrano, si amano e si lasciano, si ritrovano e tornano ad amarsi e si tradiscono, routine e delusioni e passioni lunghe circa cinquant’anni. Sarah, una giovane studentessa di famiglia ebraica, incontra Victor, un ragazzo che vive tra insicurezze e smanie di scrittore, farà con lui due figli, sempre tra alti e bassi. Durata 120 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Uci)

“The Art of Rights”, tutti i colori dei diritti

Abbiamo partecipato all’inaugurazione della mostra   “The Art of Rights” dell’artista Sabrina Rocca. L’invito perviene da Maria Irma Ciaramella, avvocato torinese, amante dell’arte moderna e promotrice della serata inaugurale. Già, perché il “vernissage” si svolge nello studio legale dell’avvocato e dei suoi partners al numero 64 di corso Vittorio Emanuele II in Torino. Un luogo insolito, inedito -ad una prima impressione – ma poi entrando nell’elegante studio lo stupore svanisce: l’ampio ingresso, il corridoio lunghissimo che forma una lettera a “elle”,   le stanze ariose intervallate dalle ampie sale riunioni sono la magnifica cornice che accolgono e valorizzano tutte le opere pittoriche di Sabrina Rocca. E così tra una stretta di mano, un saluto e le presentazioni (sono intervenute oltre 400 persone) arriviamo nella “sala rossa” dove incontriamo Sabrina Rocca, il “clou” delle sue opere e il progetto “The Art of Rights” condiviso con Daniela Foresto e Max Judica Cordiglia.   L’introduzione alla novità artistica della pittrice è raccontata tecnologicamente da un video che colpisce l’immaginazione: i protagonisti sono i bambini che semplicemente con entusiasmo e convinzione attraverso i numeri e i colori ti dicono che cosa significano per loro i diritti umani. Sulla parete della sala campeggia una grande didascalia che riassume il progetto. A quel punto potremmo essere in un salone di Thyssen Bornemisza di Madrid.

 

Chiediamo all’artista pittrice di raccontare la storia del progetto

Nel giugno del 2017 sento l’esigenza di rappresentare in un’unica opera il momento storico e sociale che stiamo vivendo, unendo fotografia, video e pittura; e mi decido a voler realizzare un “quadro multimediale” del nostro tempo che porti a riflettere sul concetto dei Diritti Umani. Il riferimento concettuale è la Bandiera della Pace, usata spesso con poca consapevolezza da parte di chi la sbandiera. Partendo dalla Bandiera l’obiettivo artistico è quello di alzare l’attenzione e favorire la conoscenza e la consapevolezza sul tema dei Diritti Umani.

 

Sabrina, non è un’opera tradizionale: almeno il concepimento è diverso, innovativo….

Si voglio che l’opera non sia solo qualcosa da ammirare e possedere; l’opera è il percorso stesso di condivisione e riflessione che nasce dal dibattito, dalle domande e dalla partecipazione attiva dei bambini. Nel luglio 2017 incontro Daniela Foresto (fotografa ritrattista) e Max Judica Cordiglia (regista e documentarista) che sposano l’idea e il progetto può partire. “The Arts of Rights” nasce dall’appello del Segretario Generale delle Nazioni Unite per l’anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1948, un documento davvero importante che tutti dovrebbero conoscere e che mai come oggi sono prevaricati: lo leggiamo tutti i giorni sui giornali internazionali e nazionali. Così ho deciso di utilizzare il mio lavoro e la mia sensibilità per supportare nel mio piccolo quelli che ritengo i valori fondamentali. Sapendo di poter contare sul supporto di Daniela e Max, ho iniziato a costruire e condividere l’ idea artistica e ad Ottobre una maestra di una scuola elementare ha accolto con entusiasmo il progetto. La Scuola Elementare è la Manzoni Nasi di Moncalieri.

E così inizia il primo passo…

Si… e a novembre comincia così un lavoro di preparazione da parte degli insegnanti con i bambini e contemporaneamente Daniela e Max si attivano per l’organizzazione della produzione video, fotografica ed artistica già prevista in calendario tra gennaio e marzo 2018. L’8 Dicembre scorso il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha ricordato che il 2018 sarà l’anno del 70esimo anniversario dalla Costituzione della Carta dei Diritti Umani. Forse una coincidenza che conferma come l’arte possa essere davvero contemporanea? L’opera sarà costituita da sette quadri pittorici che rappresentano sette tra i diritti fondamentali dell’uomo.

 

Come si concluderà il progetto pilota?

Mi piace ricordare i diritti scelti dai bambini: “All human begins are born free, Equal in dignity and rights, In a spirit of brotherhood, Without distinction of any kind, Everyone has right of life”.

Ogni opera sarà il risultato dell’interpretazione pittorica che riuscirò a dare, su ciò che i bambini avranno dichiarato alle telecamere di Max, riguardo questi temi, e le loro espressioni immortalate dalle fotografie di Daniela.Questo è naturalmente l’inizio di un progetto che ci auguriamo di diffondere in altre scuole e possibilmente ovunque.

 

https://www.youtube.com/watch?v=0tiE9I-26K8

 

Sabrina Rocca, profilo di una artista torinese

Sabrina Rocca, nata a Torino, vive e lavora in Svizzera.

Dopo aver conseguito la laurea in Architettura, ha deciso di seguire le orme di suo padre e dedicarsi all’arte. Attraverso la sua produzione artistica ha voluto unire la sua due grandi passioni: l’arte e l’architettura. Luccicanti e multicolor, le opere di Sabrina Rocca seducono chi le guarda per il loro appeal accattivante e patinato. Paragonarle alle immagini cui ci ha abituato la pubblicità oggi sarebbe però un grosso errore, perché attraverso la riproduzione pittorica l’artista riflette sulla società contemporanea penetrandola in profondità al fine di carpirne le dinamiche interne, dinamiche che ad una visione superficiale e frettolosa rischiano di sfuggire. C’è una citazione di Max Beckmann che la stessa artista predilige e suggerisce la chiave di lettura del suo lavoro: “Se vuoi entrare in possesso dell’invisibile, penetra il più profondamente possibile nel visibile”. Il punto di vista di Sabrina, pur essendo attento e critico, al contempo non ignora il divertimento e la giocosità della vita metropolitana, catturando il fascino dei suoi colori, dei riflessi delle vetrine. La Rocca ha ereditato l’amore per il continente americano dal padre, che era un artista rinomato per le sue vedute di New York dall’alto. Lei è stata in grado di rielaborare questo background attraverso una prospettiva personale, svincolandosi dall’iniziale influenza della famiglia, aprendosi ad opere provocatorie impregnate di concettualità. Finestre, edifici e panorami incantevoli nei loro colori, segni rubati dalla principale strada, ci invitano a riflettere sul nostro modo di vivere, suggerendoci, con apparente leggerezza, una visione ottimistica ed una filosofia positiva della vita. Nella serie Gioie dell’infanzia , però, i suoi occhi guardano gli oggetti e i feticci del tempo perso, quel tempo in cui ognuno di noi era felice per le piccole gioie della vita di tutti i giorni, quando era sufficiente la magia di una pistola ad acqua o di una bolla di sapone per attivare un sorriso entusiasta. Qui ci sono le dolci, deliziosi e frizzante, qui è la Gummy Bear che in un impeto di nostalgia, che tutti noi vogliono di più, alla ricerca di quella sensazione di disperazione, un pianto ‘età della fanciullezza’.

– Biografia di Maria Livia Brunelli-

 

www.sabrinarocca.com

 

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Maria Irma Ciaramella, bellezza, classe e garbo

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Maria Irma Ciaramella è una donna dinamica. Avvocato torinese con studio in Torino in corso Vittorio Emanuele II 64. Civilista: specializzata in diritto commerciale. All’attività professionale affianca numerosi interessi: dalla cultura all’arte contemporanea, alla passione per l’equitazione, agli impegni nelle attività sociali nel mondo associativo.

 

 

Ci spieghi il connubio arte e diritto?

Arte e diritto sono due mondi solo apparentemente distanti. In realtà c’è un filo rosso che li lega, a volte indissolubilmente, come nel caso di Sabrina Rocca. Ogni sua opera identifica un tema, ne è la rappresentazione grafica, veicola un messaggio sociale forte. Il progetto che Sabrina con Daniela Foresto e Max Judica Cordiglia ha voluto presentare in studio “the Art of Rights” ne è la riprova. Il punto di partenza di tutto il processo creativo di “ The art of rights” è condividere con i ragazzi delle scuole di ogni grado una riflessione sui diritti traendo spunto dalla Dichiarazione dei Diritti Umani, la Carta di Parigi sottoscritta 70 anni fa. Gli amici artisti che abbiamo ospitato hanno risposto ad una “call to action” del Segretario delle Nazioni Unite, l’arte diventa uno strumento per contribuire a costruire consapevolezza e conoscenza dei diritti. Sabrina è una formidabile story teller anzi la definirei una story and right teller: con i suoi quadri racconta storie ed evoca i diritti: l’uguaglianza di genere, la libertà, l’esclusione sociale, la povertà, il diritto all’istruzione. Il binomio arte-diritto non è circoscritto all’opera di Sabrina Rocca, da ultimo mi sovviene il Calendario Lavazza 2018 “2030 What are you doing?” che attraverso 17 scatti del celebre fotografo Platoon identifica e valorizza il tema della crescita sostenibile e delle azioni per contrastare i cambiamenti climatici. Ma potrei andare avanti a lungo citando Shepard Fairey meglio noto come Obey, autore del manifesto elettorale di Obama “Hope”, e   il cosidetto artista invisibile Cinese Liu Bolin, noto per le sue performance hiding in the city , in cui tocca temi universali non solo dei diritti umani ma anche del rapporto tra pensiero e potere politico. In un contesto come quello nel quale viviamo siamo sempre più influenzati dai social media che ci invitano alla sintesi; la narrazione avviene sempre più attraverso le immagini che hanno un’efficacia comunicativa assai più diretta ed immediata delle parole: dunque l’immagine, sia essa una foto, un video, un dipinto, e’ in grado di rappresentare con potenza a volte inaspettata concetti complessi ed astratti come quelli giuridici. E’ una bella sfida per chi, come me, vive di parole, quella di tradurle in un’immagine: la più mirabile delle sintesi. Forse è per questo motivo che tra tutti i social media preferisco Instagram che mi porta ad un’esercizio intellettuale sempre gratificante e, poiché mi sembra che l’immagine, spesso scattata semplicemente con il cellulare, abbia come interlocutore il mondo intero mi induce a scrivere “caption”, didascalie in inglese, così l’esercizio è duplice!

 

Avete già ospitato in passato altre mostre nel vostro studio?

L’arte è sempre stata parte della mia vita e quattro anni fa in occasione dell’inaugurazione dello studio, che condivido con mio fratello Gianluca Ciaramella, Roberto Roggero, Luca Macchioni, Federica Ballario Cristiana Sardo e altri collaboratori dopo la ristrutturazione dei locali, abbiamo ospitato una mostra di fotografie da noi selezionate dagli archivi de “La Presse”. Si trattava foto che hanno segnato la storia recente come quella della Strage dei Soldati Italiani a Nassiriya che è negli occhi e nel cuore di tutti: il soldato in mimetica davanti alle macerie con la mano destra alla testa in un gesto che racchiude in sé l’orrore per la guerra. Non dimentichiamo che i nostri soldati erano in Iraq in operazione di peacekeeping, in ossequio di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.  Lo vedi che poi tutto può essere letto con la lente del diritto? Sarà deformazione professionale?

 

 No, anzi è un punto di vista interessante perché ciascuno vede nell’opera d’arte ciò che sa…

Mi piace pensare, come ha fatto il Procuratore di Torino Armando Spataro che non a caso ha sintetizzato il suo pensiero in un’immagine di auguri natalizi, che la giustizia possa essere percepita come nella foto di Norman Rockwell “The problem we all live with”: una bambina di colore, Ruby Bridges, alla quale la Corte Suprema aveva riconosciuto il diritto di frequentare la primary school di New Orleans, che ne aveva rifiutato l’iscrizione a causa del colore della sua pelle, ponendo così fine all’apartheid in Louisiana. La bambina, con atteggiamento fiero, è ritratta mentre è scortata da quattro agenti del Marshals Service, davanti ad un muro sul quale si legge la scritta Nigger: rappresentando l’orgoglio ed il coraggio di chi si affida soltanto alla legge. L’orgoglio e, a volte, il coraggio per noi, avvocati e magistrati con ruoli diversi ma con unità di intenti, di essere strumento per la realizzazione dei diritti. Per concludere anche noi avvocati – dice sorridendo – abbiamo risposto alla “call to action” del Segretario Generale Antonio Guterres: in fondo ospitare in studio mostre di artisti sensibili ai temi sociali come Sabrina Rocca contribuisce all’obiettivo di diffondere la conoscenza dei 17 obiettivi posti dall’ONU per la crescita sostenibile e alla divulgazione dei diritti umani.

 

Franco Maria Botta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Belleville, dagli ultimi giorni della Comune di Parigi a Édith Piaf

Belleville , storico quartiere nel XX° arrondissement parigino, uno dei più popolari della “Ville Lumière”, s’innalza come Montmartre su uno dei colli più alti della città, sviluppandosi tra case e piccole vie tra il parco delle  Buttes- Chaumont e il grande “cimetière de l’Est”, il Père Lachaise.  E’ lì, sul finire del 1915, che vide la luce – al 72 di Rue Belleville – la donna che incarnò una delle leggende e dei miti del filone realista della canzone francese. Si chiamava Édith Giovanna Gassion. Piccola, minuta come un “passero”  (venivano chiamati così i bambini che vivevano nelle strade del quartiere), passò l’infanzia accompagnando con la sua voce le esibizioni del padre contorsionista per poi diventare la celebre Édith Piaf, l’usignolo di Francia. In rue de Belleville una targa ricorda la casa  dove “nacque il 19 dicembre 1915 nella più grande miseria Edit Piaf, la cui voce, più tardi, sconvolgerà il mondo”. Ma la collina di Belleville è conosciuta anche come quella dei martiri della Comune, delle barricate e delle strade che conservano tracce e memorie di lotte e insurrezioni. Fu lì che si concluse l’ultima resistenza di quello che Karl Marx definì “il primo governo operaio della storia”, con i combattimenti tra le tombe del Père-Lachaise. Nata come forma estrema di reazione allo sfascio del Secondo Impero (la guerra franco-prussiana, dopo la sconfitta francese a Sédan, volgeva a favore di Bismarck) la Comune  s’impose come un moto spontaneo di rivolta, cui fece seguito un concreto tentativo di dare allo slancio iniziale la forma di un governo popolare. Dal 18 marzo al 28 maggio del 1871, in settantadue giorni, la Comune mise in atto un programma d’impronta socialista con misure a beneficio dei lavoratori come l’abolizione del lavoro notturno e l’occupazione degli alloggi sfitti, la separazione tra Stato e Chiesa, la socializzazione delle fabbriche abbandonate dagli imprenditori, il riconoscimento delle coppie di fatto, la creazione di una scuola pubblica, laica e gratuita. Tra gli obiettivi della Comune, c’era anche la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari. Misure radicali che però non entrarono quasi mai in vigore in quei tre mesi scarsi. Cosa sarebbe diventata la “Commune de Pàris”? Avrebbe mantenuto il suo profilo di democrazia partecipata dal basso o si sarebbe trasformata in dittatura? Difficile dirlo perché la storia non si fa con i se e con i ma. E’ certo che vi furono delle frizioni tra le varie componenti del governo rivoluzionario ma l’esperimento finì in tragedia con la violenta repressione da parte dell’esercito regolare, ordinata dall’assemblea nazionale riunita a Versailles.Dal 2 aprile in poi Parigi fu assediata e bombardata dalle truppe governative mandate da Adolphe Thiers , il primo presidente della Terza Repubblica francese. I soldati di Versailles entrarono nella capitale il 21 maggio 1871: iniziava la “semaine sanglante”, la tristemente famosa “settimana di sangue“. Sei giorni dopo, sabato 27 maggio, il Peré Lachaise fu teatro di uno degli ultimi, feroci  scontri , durante i quali precipitarono i sogni e le speranze della Comune di Parigi. Obbedendo agli ordini di Thiers, i reparti dei fucilieri di marina provenienti da Charonne e comandati dal generale Vinoy invasero i viali  del grande cimitero dell’Est dove si erano trincerati poche centinaia di federati decisi a battersi fino alla morte per difendere le proprie idee. Gli uomini della Comune si difesero tra le tombe, dietro ogni albero, al riparo di cripte e monumenti. Finite le munizioni, sotto una pioggia battente, i combattimenti proseguirono all’arma bianca fino a notte inoltrata. Gli scontri più violenti si consumarono tra il 48° e il 49° settore , soprattutto nell’area nord occidentale del cimitero, attorno al Rond-point des travailleurs Municipaux, dove sono sepolti Honoré de Balzac e Gerard de Nerval, Eugène Delacroix e lo storico Félix Féris, barone de Beaujour. Ancora oggi è possibile scorgere tracce dei proiettili su alcune tombe come quella di Charles Nodier, lo scrittore che fu precursore del Romanticismo.Le Monde Illustré, nell’occasione, scrisse: “L’orribile dramma ebbe fine al cimitero, come nell’ultimo atto di Amleto, tra tombe scoperchiate, colonne rovesciate, urne profanate, statue e lastre divelte a formare l’ultima barricata. Lottarono passo dopo passo su un terreno disseminato di corone in onore di personaggi immortali, nella fossa comune, con le ossa fino alla caviglie, fin dentro le tombe di famiglia dove la baionetta trafiggeva i vivi infilzandoli assieme ai morti”. I 147 federati sopravissuti, furono immediatamente condannati a morte da una corte marziale straordinaria insediata sul posto, tra le tombe. Immediatamente fucilati, i loro corpi vennero gettati, assieme a circa ventimila altri passati per le armi e provenienti da tutta Belleville, in grandi fosse comuni scavate ai piedi del muro che porta il loro nome, nel 76° settore del Peré Lachaise . In realtà il muro sul quale campeggia la targa “Aux mort de la Commune 21-28 Mai 1871” fu ricostruito successivamente e con i resti del muro originario venne edificato un monumento,“Il muro delle Rivoluzioni”, a loro dedicato dallo scultore Paul Moreau-Vauthier. L’opera si trova all’esterno della cinta cimiteriale, in Square Samuel de Champlain 18, nell’avenue Gambetta. Con un po’ d’attenzione si potrà leggere una citazione di Victor Hugo: “Ce que nous demandons à l’avenir, ce que nous voulons de lui, c’est la justice ce n’est pas la vengeance“ (Ciò che noi domandiamo all’avvenire, ciò che vogliamo da lui è la giustizia, non la vendetta). Parole quanto mai giuste, perfettamente opposte allo spirito e all’intento di colui che all’epoca ordinò di soffocare nel sangue l’insurrezione popolare, agendo con uno spirito vendicativo senza scrupoli, violento e repressivo. Su Adolphe Thiers,  soprannominato “le serpent à lunettes ” e “le croque-mort  de la  Nation “, il becchino della nazione, il giudizio più duro  fu quello pronunciato dal sindaco di Montmartre, Georges Clemenceau. Giornalista e repubblicano, presidente del consiglio e deputato dell’Assemblée Nazionale, Clemenceau durante i giorni della Comune definì  Thiers  “il prototipo del borghese crudele ed ottuso che sguazza nel sangue senza battere ciglio“.Oltre 43 mila federati furono fatti prigionieri e condannati dai consigli di guerra a morte o ai lavori forzati nei bagni penali (soprattutto in Nuova Caledonia, territorio francese d’Oltremare nel sud del Pacifico). Alla Comune furono imputate circa 800 vittime mentre secondo le cifre ufficiali tra i ranghi dei federati furono uccise più di 30 mila persone. Le truppe di Versailles eseguirono fucilazioni in serie, senza processi. A caldo, il giornale inglese “Evening standard” constatò: “Dubitiamo si possa mai stabilire la cifra esatta della carneficina che continua. Persino per gli autori di queste esecuzioni deve essere impossibile dire quanti cadaveri hanno accumulato”.Resta il fatto, tutt’altro che secondario, di un fatto importante che ha segnato in maniera profonda la storia e la memoria collettiva della Francia. Eugène Pottier, il poeta che nel giugno del 1871, nascosto in una soffitta di Parigi per sfuggire alla repressione che seguì alla sconfitta della Comune, compose il famoso inno “L’Internazionale”, scrisse : “L’hanno uccisa a colpi di fucile. A colpi di mitraglia. E avvolta con la sua bandiera nella terra argillosa. E l’accozzaglia di boia panciuti si credeva più forte. Tutto ciò non impedisce che la Comune non sia morta!

 

Marco Travaglini

L’identità scavata in Un passato infinito

L’associazione teatrale Nessun Vizio Minore torna in scena venerdì 16 marzo alle 20.45 nella suggestiva cornice in San Pietro in Vincoli con Un passato infinito, per la regia di Angelo Scarafiotti. Lo spettacolo, nato nel 2015 e vincitore della rassegna teatrale Maldipalco del Tangram Teatro di Torino, è liberamente tratto dal romanzo “Appuntamento a Londra” del premio Nobel Mario Vargas Llosa. Tutto ruota intorno all’incontro in una stanza d’albergo tra Claudio, uomo irrisolto interpretato dall’intenso Davide Bernardi, e Sofia, donna conturbante e fatale, interpretata dall’affascinante Mara Scagli. La rievocazione di un passato lontano riesce a turbare Claudio e l’incontro con la misteriosa donna si tramuta presto in un gioco di specchi che costringe il protagonista a fare i conti desideri, verità inconfessabili, sensi di colpa, ambiguità. In questo tempo cristallizzato il protagonista viene travolto da un’inquietudine che lo conduce senza via di scampo a viaggiare dentro di sé. Il testo affronta con eleganza il tema dell’identità, del suo disvelamento che può avvenire solo nell’incontro con l’altro. La regia e la selezione musicale finemente curate non potevano trovare mani più sapienti di quelle di Angelo Scarafiotti. Attore, regista e formatore teatrale per Assemblea Teatro, Scarafiotti nella sua lunga esperienza professionale si è sempre contraddistinto per la sua ricerca e difesa delle particolarità, che siano individuali, politiche o sociali. Il suo stile è riconoscibile nel suo raffinato e sommesso grido di protesta contro ogni forma di omologazione. Commenta così l’allestimento: “Nella messa in scena ho lavorato molto sull’interazione tra i due personaggi, sulla loro psicologia così sfuggente e misteriosa e sulle loro dinamiche alterne, di incontro e di fuga, cercando di mostrare la loro diversità, prima nascosta e poi, nello svilupparsi della narrazione, sempre più evidente. Un gioco di emersioni consecutive che stupisce lo spettatore fino a rendere chiaro, quasi esplosivo, che, per quanti sforzi si possano fare, il passato torna sempre a presentare il suo conto, perché è possibile fuggire da tutto, tranne che da se stessi”. Intrigante e sensuale la protagonista femminile Mara Scagli che dal 2011, con il suo eccentrico alter ego artistico Carmilla Lux, si esibisce con successo in Italia e all’estero in un sofisticato duetto che mescola il varietà e il burlesque nel Cabaresque Show.Tenuto conto delle tematiche affrontate lo spettacolo ha ricevuto il patrocinio del Servizio LGBT della Città di Torino ed il supporto del Coordinamento Torino Pride GLBT.

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Abbiamo incontrato l’attore Davide Bernardi che è anche autore del testo e uno dei fondatori dell’Associazione Nessun Vizio Minore.

 

Ciao Davide, raccontaci qual è la cifra stilistica della vostra associazione.

La nostra associazione nasce nel 2011 dal’incontro di persone con diversi percorsi artistici, ma che si sono ritrovate a condividere un’ idea comune di messa in scena. Nelle nostre produzioni c’è una grande attenzione al testo, al racconto e, in particolare, a quelle storie che sanno mescolare dramma e commedia, perché il teatro è una metafora della vita e li include entrambi.Nella messa in scena ci piace lavorare col corpo e con gli elementi scenici, con grande attenzione alle scelte musicali. Potremmo definirlo un “teatro di narrazione con una visione contemporanea”. Ci siamo resi conto col tempo che il pubblico riconosce le nostre scelte e apprezza il nostro stile, e questo secondo me è il riconoscimento di una identità forte, di cui siamo grati.

Vieni da una formazione teatrale, e non solo, molto variegata ed eclettica, che spazia dal teatro classico a quello contemporaneo. Qual è l’esperienza che più ti ha segnato e influenzato nella tua decisione di diventare anche regista ad un certo punto del tuo percorso?

Il passaggio dalla recitazione alla regia ha come minimo comune denominatore l’amore per la scrittura. Amo molto la parola: scrivere, adattare, rivedere drammaturgicamente è comunque una forma di interpretazione. Quasi tutti i testi dei nostri spettacoli sono stati proposti da me e sempre da me curati. E quando lavori sui testi viene naturale cedere alla tentazione di vederli rappresentati come li hai immaginate. Il passaggio alla regia è quindi stata una conseguenza logica, anzi inevitabile, per me. Ed è la parte che amo di più ad oggi. L’esperienza più forte è stata proprio la prima: l’adattamento per la scena di un film, “La mia vita senza me”, a sua volta ispirato ad un racconto. Da qui è nata una vera e propria riscrittura originale che aveva come filo guida una immagine scenica che avevo in mente: i nastri delle videocassette VHS fatti scorrere tra le dita come fossero dei lettori di messaggi di una persona che non c’è più. Da questa immagine ho tratto il coraggio per portare in scena la nostra prima produzione di compagnia: “Prima che cada la notte” nel 2012.

 

Lo spettacolo, che è liberamente ispirato al romanzo di Vargas Llosa, “Appuntamento a Londra”, sembra un invito a scavare dentro la propria identità, dove spesso in quello che abbiamo ignorato sembra annidarsi la sostanza stessa della nostra vita. Oggi il teatro ha ancora questo potere di suggestionare, di instillare qualche dubbio, di offrire domande?

Il testo di Vargas Llosa è una indagine sulla verità, quella che riguarda noi stessi e che, proprio per questo, è la più difficile da accettare. In questo caso, il testo affronta l’identità di genere da un lato e l’omofobia dall’altro. Questa storia racconta di quanto difficile sia resistere al giudizio degli altri ed accettare la propria natura più profonda. Come già detto, il teatro è metafora della vita. Io credo profondamente che sia uno strumento per porsi dubbi, vivere alternative che magari non osiamo affrontare nella vita reale. Ma il potere della rappresentazione può darci il coraggio di immaginare quello che possiamo diventare.

 

Se dovessi consigliare ad un giovane che si accosta all’arte drammatica per la prima volta, quale esperienza formativa consiglieresti per cominciare?

Dico sempre che, prima che un attore, io sono un ottimo spettatore. Per avvicinarsi al teatro, io consiglio prima di tutto di andare a teatro: vivere l’attesa del sipario, il buio della sala, la partecipazione al testo, la catarsi degli applausi finali. E poi, se si decide di passare al palcoscenico, di non perdere mai di vista il divertimento, la passione, la curiosità. Si ha spesso l’idea del teatro come una cosa seriosa, noiosa. Chi lo pensa, forse, ha la stessa idea della propria vita. E ilproblema allora non è il teatro.

 

Giuliana Prestipino

 

Il Matisse e la luce della Côte d’Azur

L’inaugurazione del Museo Matisse, avvenuta nel 1963, riflette il profondo attaccamento che il pittore aveva per Nizza, dove soggiornò quasi ininterrottamente dal 1916 e dove morì nel 1954, poco dopo aver donato alla città un cospicuo numero di opere

Henri Matisse proveniva da Parigi, dove aveva aderito alla corrente artistica dei Fauves ed era diventato buon amico di Pablo Picasso (sebbene quest’ultimo lo considerasse sdegnosamente un pittore borghese). Sulla Côte d’Azur cercava quell’atmosfera tersa e luminosa, quei colori accesi della natura che già avevano spinto altri pittori (a cominciare da van Gogh) verso il Sud. Il clima delicatamente mite rendeva la permanenza ancora più gradevole e serena. “Quando ho capito che ogni giorno avrei visto questa luce”, scrisse, “non potevo credere alla mia felicità”. Dopo aver vissuto diversi anni nella città vecchia, nel 1938 Matisse stabilì la sua residenza nell’elegante quartiere di Cimiez, in un appartamento dell’Hôtel Régina, che trasformò in atelier. Cimiez è situato sulla superba collina omonima posta a Nordest di Nizza. Fino alla fine del XIX secolo i ripidi versanti erano interamente piantati ad ulivi. La rapida urbanizzazione cominciò nel 1880 quando venne aperto il Boulevard de Cimiez; sui terreni lottizzati furono edificati palazzi e ville dove la vita mondana della Belle Époque conobbe i fasti maggiori.

Dalle finestre del suo appartamento Matisse poteva scorgere una gran parte della Villa Garin de Cocconato, un edificio seicentesco appartenuto a una nobile famiglia genovese e rimaneggiato nell’Ottocento, secondo le nuove esigenze borghesi. Gli intonaci color ocra della facciata e le finestre decorate à trompe-l’œil spiccavano nella vegetazione dell’ampio parco circostante, dove il pittore era solito passeggiare. Matisse conosceva bene e amava la collina di Cimiez che, accanto alle abitazioni moderne, conserva i segni visibili del passato. I resti del foro e dell’anfiteatro testimoniano l’antica Cemenelum, capoluogo della provincia romana delle Alpi Marittime. Il Monastero Francescano, situato a breve distanza, offre dal suo giardino coltivato a rose un magnifico belvedere sul mare. Così, quando la moglie e i figli di Matisse donarono alla città di Nizza numerose opere per la creazione di un museo, il Municipio acquistò a questo scopo la Villa Garin de Cocconato che, a partire dal 1950, ha preso il nome di Villa des Arènes.

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Il Musée Matisse venne inaugurato nel 1963; una nuova ala edificata nel 1993 ha permesso di aumentare la superficie espositiva e la sistemazione che vediamo attualmente risale al 2002. La famiglia dell’artista pose fin dall’inizio un’attenzione particolare alla presentazione della collezione. Il fine dichiarato era di facilitare e promuovere la comprensione delle opere in un insieme armonioso e coerente, permettendo al visitatore di ricostruire il percorso artistico di Matisse. Una magnifica successione di pitture, disegni e sculture illustrano il cammino dell’artista documentando le ricerche, i tentativi, le tappe creative. Tra i lavori che sono esposti si trovano tutti i primi quadri realizzati a partire dal 1890, cominciando dalla Nature morte aux livres. Fu con la Tempête à Nice (1919-20), dipinta mentre il mistral spazzava il cielo dalle nuvole grondanti pioggia, che Matisse scoprì la luce della Côte d’Azur. L’importante collezione di disegni (da Paysage de Saint-Tropez del 1904 a Grande Tête, Masque del 1952) costituisce un fondo di grande valore per lo studio dell’arte grafica. “Il mio disegno a mano libera è la traduzione diretta e la più pura delle mie emozioni”, scriveva Matisse. Il Museo raccoglie poi arazzi e serigrafie che riproducono ricordi e sensazioni derivanti dal viaggio a Tahiti del 1930. Si possono inoltre vedere i disegni preparatori della composizione murale La Danse, tema ripreso più volte da Matisse, autentica sintesi tra pittura, musica e poesia. Una sala intera è dedicata a un insieme di disegni, tempere su carta poi ritagliate (gouaches découpées) e modelli in scala che portarono alla decorazione della Chapelle du Rosaire di Vence.

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Come ricordava lo stesso Matisse la cappella, inaugurata nel 195, gli costò quattro anni di lavoro esclusivo, assiduo, e rappresentò la summa di tutta la sua vita artistica. Matisse, ormai anziano ed impossibilitato a dipingere, utilizzò la tecnica del “disegnare con le forbici” per la collezione Jazz, comprendente venti tavole accompagnate da riflessioni scritte con un pennello intriso nell’inchiostro nero. Colorava dei fogli con tempere intense e brillanti, quindi ritagliava delle sagome che assemblava su grandi tavole, creando composizioni di carattere astratto. Fra queste tavolemIcarus e Le cirque possono considerarsi autentiche icone dell’arte moderna.

Nel 1978 il museo si è arricchito di una cinquantina di bronzi donati dal figlio Jean, i quali rappresentano di fatto l’intera attività scultoria dell’artista. Presentati in mezzo ai quadri e ai disegni, permettono di comprendere ancora meglio il suo cammino creativo fondato sulla ricerca costante della massima semplicità. Singolare è l’esposizione di oggetti provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’Oceania, di cui egli amava circondarsi. Sono vasi e statuette di guerrieri cinesi, un bruciaprofumi moresco, un guéridon ottagonale, un moucharabieh di tessuto rosso, un tanka del Tibet. Più che gli oggetti in sé, appare interessante la relazione che questi ebbero con la sua produzione artistica, particolarmente ispirata dalle culture extra-europee. Fanno quindi bella mostra gli ultimi lavori (Nu bleu IV, La vague, Femme à l’amphore), composizioni figurative a collage che giocano sui contrasti tra blu e bianchi, creando un equilibrio mirabile tra pieni e vuoti. Fino alla fine dei suoi giorni, Matisse ha creato opere di qualità altissima, al di sopra e al di là delle correnti che si sono succedute nella storia dell’arte contemporanea. Molti dipinti realizzati da Matisse sono giunti in esposizione a Torino e a Milano negli ultimi anni. La mostra “Matisse e il suo tempo”, che si tenne a Palazzo Chiablese tra il 2015 e il 2016, comprendeva cinquanta opere provenienti dal Centre Pompidou di Parigi. È soltanto nella Villa des Arènes, tuttavia, che la sua produzione artistica trova la naturale e giusta collocazione. Il visitatore non deve pensare di trovare qui i capolavori più noti, quelli sono conservati al Musée d’Orsay o all’Ermitage. Grazie al Musée Matisse ci si avvicina invece alle radici della sua creatività, si percepisce la parte più intima della sua essenza compositiva. Qui si intuiscono quelle che sono state le tappe di un percorso artistico ed esistenziale, dalle origini alla piena maturità espressiva.

Paolo Maria Iraldi

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Muséè Matisse, 164 Avenue des Arènes de Cimiez, 06000 Nizza. Orari di apertura: ore 11-18. Giorno di chiusura: martedì. Ingresso: 10 €.

Sito Internet: http://www.musee-matisse-nice.org/

Visita effettuata il 24 febbraio 2018.