CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 565

Il "breviario Jugoslavo" di Predrag Matvejević

I Balcani sono la polveriera d’Europa, ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa… Resto convinto che ora che i nazionalisti hanno portato tutti i popoli alla rovina, toccherà a noi salvare il salvabile
 
 Parole nette e chiare, tratte da uno dei colloqui di Predrag Matvejević con il giornalista Tommaso Di Francesco, pubblicati in “Breviario Jugoslavo” da Manifestolibri. Scrittore e accademico, nato a Mostar da padre russo di Odessa e da madre croata, Matvejević amava definirsi jugoslavo. Intellettuale finissimo e dalla scrittura chiara e potente, ha insegnato letteratura francese all’Università di Zagabria, letterature comparate alla Sorbona di Parigi ed è stato ordinario di slavistica all’Università la Sapienza di Roma e al Collège de France. Era una delle menti più lucide e appassionate, europeo dei Balcani fino al midollo. Il destino terribile della sua Jugoslavia, dissoltasi nel sangue dei conflitti dell’ultima “decade malefica” del ‘900. era probabilmente il dolore più grande che avvertiva la sua coscienza. E non fece mai nulla per nasconderlo. In una intervista diceva, tra le altre cose “la Jugoslavia semplicemente non doveva esistere più,non contava più. E perché non contava? Per loro ( Europa e Occidente, ndr) era stato “solo” un paese non allineato, che poteva rappresentare un equilibrio che conveniva agli uni e agli altri. Troppo al di sopra delle parti. Così questo paese tampone, questo mondo-tampone è stato azzerato nella percezione dell’Europa occidentale. Eppure finché esistevano questi paesi non allineati non esisteva nei paesi arabi il fondamentalismo feroce, non esistevano nell’ex Jugoslavia i nazionalismi micidiali. Era un mondo che veniva dalla subalternità al colonialismo, compresa la ex Jugoslavia sottoposta all’Austria come una parte dell’Italia nel corso della sua storia. Erano paesi che avevano un’esperienza storica comune, aspiravano ad un socialismo diverso. Facevano insieme l’equilibrio del mondo. Finito il non allineamento la Jugoslavia non serviva più. Lasciamola ai suoi demoni, devono aver pensato in Europa e negli Usa, ai demoni del peggior nazionalismo. E’ quello che è stato fatto”. Un “J’Accuse” lucido, duro. In “Breviario Jugoslavo” i pensieri di Matvejevic sul destino e i drammi del suo Paese vengono ripercorsi attraverso il lungo rapporto che lo scrittore, autore del fondamentale Breviario mediterraneo, ha avuto con il manifesto, quotidiano del quale Tommaso Di Francesco è condirettore. Dall’incontro personale con Rossana Rossanda, ai suoi contributi diretti sul giornale, alle tante interviste in occasione della pubblicazione dei suoi preziosi testi, tra cuiTra asilo ed esilio (1998), Il Mediterraneo e l’Europa (1999), Pane nostro (2010). Fino ai molti colloqui sui difficili momenti della crisi che si è consumata nei Balcani: dalla beatificazione del cardinale Stepinac alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, all’arresto di Milosevic e poi di Karadzic, all’incredibile assoluzione del criminale croato Ante Gotovina, alla piena del Danubio dell’aprile 2006. Un libro piccolo nel formato ma grande nei contenuti e nelle riflessioni che propone. Si legge d’un fiato ma poi obbliga alla rilettura, al ripensamento di tante e tali vicende che – come molta parte della storia balcanica – parlano non tanto a quei lembi di terra ma all’intera Europa di oggi. A patto che non si rimanga sordi ai moniti e ciechi di fronte alla realtà. Quando conobbi Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva. E di quanto era cambiata, delle speranze che non erano morte, delle possibilità che rimanevano per un riscatto della convivenza sul delirio delle divisioni imposte da chi disprezzava la vita badando solo al potere. Era in una certa misura ottimista, un ottimismo della volontà di un uomo che vedeva nell’Europa una madre che avrebbe ridato ai suoi figli rissosi la giusta collocazione all’interno della grande famiglia del continente. L’Europa. Come qualcuno ha scritto con acume “ non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. E lui insisteva sul fatto che il Mediterraneo ed i suoi simboli, come appunto il pane, potevano essere il punto di partenza per una nuova cultura dell’uomo veramente europeo”. E immaginava un’ Europa ben diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura. 

Marco Travaglini

Il “breviario Jugoslavo” di Predrag Matvejević

I Balcani sono la polveriera d’Europa, ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa… Resto convinto che ora che i nazionalisti hanno portato tutti i popoli alla rovina, toccherà a noi salvare il salvabile

 

 Parole nette e chiare, tratte da uno dei colloqui di Predrag Matvejević con il giornalista Tommaso Di Francesco, pubblicati in “Breviario Jugoslavo” da Manifestolibri. Scrittore e accademico, nato a Mostar da padre russo di Odessa e da madre croata, Matvejević amava definirsi jugoslavo. Intellettuale finissimo e dalla scrittura chiara e potente, ha insegnato letteratura francese all’Università di Zagabria, letterature comparate alla Sorbona di Parigi ed è stato ordinario di slavistica all’Università la Sapienza di Roma e al Collège de France. Era una delle menti più lucide e appassionate, europeo dei Balcani fino al midollo. Il destino terribile della sua Jugoslavia, dissoltasi nel sangue dei conflitti dell’ultima “decade malefica” del ‘900. era probabilmente il dolore più grande che avvertiva la sua coscienza. E non fece mai nulla per nasconderlo. In una intervista diceva, tra le altre cose “la Jugoslavia semplicemente non doveva esistere più,non contava più. E perché non contava? Per loro ( Europa e Occidente, ndr) era stato “solo” un paese non allineato, che poteva rappresentare un equilibrio che conveniva agli uni e agli altri. Troppo al di sopra delle parti. Così questo paese tampone, questo mondo-tampone è stato azzerato nella percezione dell’Europa occidentale. Eppure finché esistevano questi paesi non allineati non esisteva nei paesi arabi il fondamentalismo feroce, non esistevano nell’ex Jugoslavia i nazionalismi micidiali. Era un mondo che veniva dalla subalternità al colonialismo, compresa la ex Jugoslavia sottoposta all’Austria come una parte dell’Italia nel corso della sua storia. Erano paesi che avevano un’esperienza storica comune, aspiravano ad un socialismo diverso. Facevano insieme l’equilibrio del mondo. Finito il non allineamento la Jugoslavia non serviva più. Lasciamola ai suoi demoni, devono aver pensato in Europa e negli Usa, ai demoni del peggior nazionalismo. E’ quello che è stato fatto”. Un “J’Accuse” lucido, duro. In “Breviario Jugoslavo” i pensieri di Matvejevic sul destino e i drammi del suo Paese vengono ripercorsi attraverso il lungo rapporto che lo scrittore, autore del fondamentale Breviario mediterraneo, ha avuto con il manifesto, quotidiano del quale Tommaso Di Francesco è condirettore. Dall’incontro personale con Rossana Rossanda, ai suoi contributi diretti sul giornale, alle tante interviste in occasione della pubblicazione dei suoi preziosi testi, tra cuiTra asilo ed esilio (1998), Il Mediterraneo e l’Europa (1999), Pane nostro (2010). Fino ai molti colloqui sui difficili momenti della crisi che si è consumata nei Balcani: dalla beatificazione del cardinale Stepinac alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, all’arresto di Milosevic e poi di Karadzic, all’incredibile assoluzione del criminale croato Ante Gotovina, alla piena del Danubio dell’aprile 2006. Un libro piccolo nel formato ma grande nei contenuti e nelle riflessioni che propone. Si legge d’un fiato ma poi obbliga alla rilettura, al ripensamento di tante e tali vicende che – come molta parte della storia balcanica – parlano non tanto a quei lembi di terra ma all’intera Europa di oggi. A patto che non si rimanga sordi ai moniti e ciechi di fronte alla realtà. Quando conobbi Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva. E di quanto era cambiata, delle speranze che non erano morte, delle possibilità che rimanevano per un riscatto della convivenza sul delirio delle divisioni imposte da chi disprezzava la vita badando solo al potere. Era in una certa misura ottimista, un ottimismo della volontà di un uomo che vedeva nell’Europa una madre che avrebbe ridato ai suoi figli rissosi la giusta collocazione all’interno della grande famiglia del continente. L’Europa. Come qualcuno ha scritto con acume “ non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. E lui insisteva sul fatto che il Mediterraneo ed i suoi simboli, come appunto il pane, potevano essere il punto di partenza per una nuova cultura dell’uomo veramente europeo”. E immaginava un’ Europa ben diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura. 

Marco Travaglini

Un viaggio al termine delle note, non della notte

“Viaggio al termine delle note” vuole essere non soltanto un’opera teatrale, ma un’indagine artistica di carattere trasversale sul tema dell’espressionismo.

Nell’ambito del festival dedicato a questo tema, giunto ormai alla sua quarta edizione, la piece, con sottotitolo “Lo sguardo rosso dell’espressionismo”, si terrà domenica 24 febbraio prossimo alle 21 al teatro Vittoria di Torino. Lo spettacolo, prodotto da Inpoetica, vuole sottolineare l’eclettismo del movimento, facendo rivivere sul palco forme artistiche diverse, capaci di muoversi in parallelo per rendere omaggio ad Arnold Schonberg, compositore musicale di grande talento e figura cardine dell’espressionismo.A rappresentare sulla scena tutte le arti sarà la compresenza di una pluralità di talenti artistici che proporranno, in un lavoro corale, non solo musica, ma anche letteratura, poesia, architettura e pittura. La narrazione di questo affascinante viaggio sarà affidata alle parole di Cristiano Godano, leader dei Marlene Kuntz, e di Tiziano Scarpa, poliedrico scrittore, già vincitore del Premio Strega con il romanzo edito nel 2008 da Einaudi, dal titolo “Stabat Mater”. Le sonorizzazioni saranno affidate a Giorgio Li Calzi, compositore, musicista e direttore del Torino Jazz Festival, capace di dare forma all’idea di contaminazione, mescolando la musica jazz a quella elettronica, e giustapponendole nella “Veklarte Nacht”, il più celebre poema sinfonico di Schonberg. Ad eseguire questa composizione musicale alcuni dei più celebri interpreti d’archi, Edoardo de Angelis ed Umberto Fantini ai violini, Ula Ulijona e Mauro Rignini alle viole, Manuel Zigante e Claudia Ravetto ai violoncelli, Michele Lipani al contrabbasso. Direttore d’orchestra la brava Alessandra Morra, ideatrice e regista dello spettacolo, nonché direttrice artistica di Inpoetica, Festival Trasversale delle Arti.Veklarte Nacht è stata composta da Schonberg a soli 25 anni, ispirata ad un testo poetico di Richard Dehmel, in cui una donna, camminando al fianco del suo uomo in una notte scura, gli rivela che porta in grembo il figlio di un estraneo, conosciuto prima dell’inizio del loro idillio amoroso. L’opera veniva ultimata il primo dicembre 1899 e la prima esecuzione risale al 18 marzo 1902 a Vienna, nella Sala piccola del Musikverein, protagonisti il Quartetto Rose con l’aggiunta di Franz Jelinek e Franz Schmidt. Affermava Schonberg, nella rivista Die Musik del 1909, che “L’opera d’arte è un labirinto, in ogni punto del quale l’esperto sa trovare il filo rosso che lo guidi. Quanto più è fitto e complicato l’intrico dei viottoli, tanto più raggiunge la meta, sorvolando ogni via”.Domenica 24 febbraio ore 21. Teatro Vittoria. Ingresso libero fino ad esaurimento di posti.

 Mara Martellotta

Meglio soli che male accompagnati

Sono sempre numerosi i sostenitori dell’idea che avere un manager sia la panacea di tutti i problemi di una qualsiasi band di teenagers. Peccato che ci sia un piccolo particolare…. Se il manager è inadeguato o, peggio ancora, un “poco di buono” l’effetto boomerang è assicurato e la band farebbe bene a liberarsene quanto prima

Questo fu esattamente il caso della band di Philadelphia The Iron Gate, sorta nell’estate del 1965 sulle ceneri dei “The Five Shades”. I campioni della British Invasion erano la stella polare e il repertorio di Rolling Stones, Animals, Yardbirds accomunava i gusti di Thomas Cullen (V), Mike Campbell (chit), Lou Wolfenson (chit, b), Sal Gambino (org), Bill Moser (batt) [subentreranno in seguito Lou Mendincino (b) e George Muller (V, chit)]; era forte anche l’influsso di bands americane quali i Blues Magoos, Paul Revere & The Raiders, The Outsiders. Il 1966 (anno magico per il movimento del garage rock) fu intenso anche per The Iron Gate, che sapevano muoversi bene in tutta l’area tra Philadelphia, Jersey meridionale e Delaware settentrionale, soprattutto nel giro di teen [high school] dances e clubs (tra cui l’”Hullabaloo” di Bordentown, New Jersey). Le performances live della band erano molto apprezzate, tanto che The Iron Gate ben figurarono in due “Police Athletic League Battle of the Bands” locali ed avevano una buona sponda sulla stazione radio WIBG di Ocean City (New Yersey) col disc-jockey Frank X. Feller. La situazione paradossalmente si complicò quando la band si imbatté in un manager poco affidabile che gestì in modo scriteriato i gigs nell’area di Philadelphia; le esibizioni finivano disgraziatamente in locali piuttosto malfamati e in venues quantomeno insolite, tra cui addirittura il parcheggio di un concessionario di automobili di sabato mattina sotto il sole battente; per fortuna la parentesi fu breve, il manager venne scaricato rapidamente e Cullen e compagnia optarono per un più saggio self-management sotto l’ala del padre del chitarrista Campbell, che finanziò anche la prima (ed unica) sessione di registrazione in studio. Ebbe luogo nell’autunno 1966 presso gli Impact Studios di Tony Schmidt a Philadelphia e vide l’incisione di quattro brani, tra cui un originale e una cover dei The Who che andarono a costituire l’unico 45 giri dei The Iron Gate, uscito ad inizio 1967: “Feelin’ Bad” [Cullen – Gambino] (1001; side B: “My Generation” [Townshend]), con etichetta autoprodotta Marbell. Ne derivarono 500 copie, che dovevano essere vendute in occasione dei futuri concerti; l’incasso tuttavia fu molto inferiore rispetto agli introiti previsti. A ruota seguirono due esibizioni in TV, entrambe nell’ambito di dance shows firmati Ed Hurst: nel febbraio 1967 dall’Aquarama di Philadelphia e nel luglio successivo in collegamento con un importante show con ottimo audience trasmesso dallo “Steel Pier” di Atlantic City (New Jersey). La spinta propulsiva del secondo show, nonostante il vasto pubblico, si rivelò inferiore alle attese e lasciò una eco piuttosto limitata; fu un duro colpo, tanto che già nell’autunno 1967 l’entusiasmo della band era ai minimi termini, presagio di imminenti defezioni. Infatti entro dicembre uscirono i carismatici Cullen e Wolfenson; subentrarono Mendincino e Muller ma la situazione ristagnò fino a maggio-giugno 1968, allorquando quasi tutti i membri terminarono gli studi in high school e, ciascuno per strade diverse, portarono allo scioglimento della band. Si chiudeva così The Iron Gate… ed il cancello non si sarebbe più riaperto.

 

Gian Marchisio

Tesori nascosti del rock americano, 1965-1967

Il musicologo Giancarlo Marchisio terrà un incontro-conferenza 

L’incontro si accentrerà sulla realtà musicale americana che venne a formarsi con l’impetuosa ondata della British Invasion e sul fenomeno delle bands “meteora” nell’ambito del genere garage rock americano tra il 1965 ed il 1967. Si esporrà il contesto sociale americano di quei tempi, gli aspetti socio-psicologici dei concerti live, con riferimenti alle venues che furono terreno fertile per la nascita di miriadi di bands, in particolar modo nei generi garage/proto-punk. Si parlerà della realtà delle “Battles of the bands”, della funzione dei managers e degli intermediarii delle case discografiche di quei tempi e dei vari sottogeneri musicali rock in relazione alle aree geografiche (atlantic, pacific, middle-west etc.).

 

Il Piffetti ritrovato e altri capolavori

Fino al 19 dicembre 2019

Illustre “convitato di pietra” (presente solo in fotografia) nella mostra “Genio e Maestria”, realizzata la scorsa primavera alla Reggia della Venaria e dedicata agli ebanisti operanti alla corte sabauda fra Sette e Ottocento, oggi recita il ruolo di prim’attrice nella nuova, piccola ma particolarmente preziosa rassegna dedicata a Pietro Piffetti (Torino, 1701 – Torino, 1777), fra i più abili e prolifici “maestri del legno” del Settecento europeo, allestita sempre alla Real Venaria. Parliamo della straordinaria “Scrivania con scansia” realizzata nel 1768 dal “primo ebanista del Re”, per la residenza subalpina di Benedetto Maurizio di Savoia, duca del Chiablese e figlio ultimogenito del re di Sardegna Carlo Emanuele III. Di incredibile valore (anche sotto l’aspetto economico) e di esuberante prodigiosa magnificenza decorativa, del manufatto, dopo vari nebulosi passaggi di mano e il superamento dei patrii confini, s’erano perse le tracce da circa settant’anni, da quando nel secondo dopoguerra fu venduto dai duchi di Genova ad una collezione privata europea. Fino al ritrovamento e al recupero nel luglio scorso (come bene di proprietà demaniale, in quanto originariamente incastonato in una nicchia appositamente creata in Palazzo Chiablese) dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Torino. Benemerita Arma e benemerito il lavoro di recupero compiuto in quattro mesi dal Centro Conservazione e Restauro della Venaria; lavoro che ha consentito all’ex “convitato di pietra” di occupare oggi il podio più alto all’interno della mostra “Il Piffetti ritrovato e altri capolavori” ospitata, fino al 19 dicembre del 2019, nelle “Sale dei Paggi” della Reggia venariese e promossa dal Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Torino, il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” e Intesa San Paolo. “Un ulteriore tassello conoscitivo e di indagine – dicono gli organizzatori– rispetto all’opera del grande ebanista torinese”; per il quale indubbiamente il 2018 è stata un’annata particolarmente e meritatamente generosa in quanto a “pubbliche apparizioni”, con le varie mostre organizzate prima alla Fondazione Accorsi-Ometto di via Po e, in seguito, a Palazzo Madama e in Palazzo Reale, con la riapertura il 14 dicembre scorso del “Gabinetto del Secreto Maneggio degli Affari di Stato”, passando attraverso “Genio e Maestria”, di cui s’è detto, e a quella odierna, entrambe allestite alla Reggia della Venaria. Mostra contenuta, quest’ultima, ma di grandi mirabilia, che, accanto alla star assoluta della “scrivania ritrovata”, presenta altre quattro opere del Piffetti datate fra il 1740 e il 1750. Cinque opere in tutto, provenienti da Torino (Collezione Intesa San Paolo, Musei Reali – Palazzo Reale, Chiesa di San Filippo Neri e Palazzo Chiablese) e da Venezia (Ca’ Rezzonico), tutte passate sotto le abili e premurose cure del Centro Conservazione e Restauro della Venaria. Ecco allora il “Tavolo da muro” (secondo quarto del XVIII secolo) presente nell’Ufficio di Presidenza di Intesa San Paolo in piazza San Carlo a Torino; uno stupendo sinuoso “Cofanetto” (1740-’50 ca.) facente parte delle ricche collezioni di Palazzo Reale; e poi la superba “Scrivania” del 1741 proveniente dal “Museo del Settecento” di Ca’ Rezzonico a Venezia, accanto al simbolico “Paliotto d’altare” (1749), dalle linee azzardate e dall’abbondanza di pregiati inserti madreperlacei, commissionato all’artista dal prevosto Giovanni Battista Prever per la Chiesa torinese di San Filippo Neri. Ma l’attenzione va soprattutto e ovviamente (anche per l’aura di mistero che l’avvolge e ce la rende cara per quel “ritorno a casa” di cui forse s’era cessato di sperare) alla “Scrivania” del duca di Chiablese, eseguita, quando Piffetti aveva 66 anni, a doppio corpo, con scansie e un’anta a specchio e con l’impiego di legni rari e stupefacenti decorazioni in avorio e madreperla, con applicazioni in bronzo dorato. Capolavoro assoluto. Che, forse, al termine della mostra potrebbe tornare al suo posto originario (molti, dalle parti di Palazzo Chiablese, se lo auspicano) incastonato in quella nicchia nella sala ducale del Palazzo affacciata a piazzetta Reale, ancora oggi esistente. Ma vuota. In trepida attesa del “Piffetti ritrovato”.

Gianni Milani

“Il Piffetti ritrovato e altri capolavori”

Sale dei Paggi – Reggia di Venaria, piazza della Repubblica 4, Venaria Reale (Torino); tel. 011/4992333

Fino al 19 dicembre 2019 – Orari: mart.-ven. 9/17; sab.-dom. e festivi 9/18,30; lunedì chiuso

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Nelle foto

– “Scrivania con scansia”, 1768, Soprintendenza Archeologia Belle Arti per la Città Metropolitana di Torino (Palazzo Chiablese)
– “Tavolo da muro”, secondo quarto XVIII secolo, Torino, Collezione Intesa San Paolo
– “Cofanetto”, 1740-’50, Torino, Palazzo Reale
– “Paliotto d’altare”, 1749, Torino, Chiesa di San Filippo Neri

 

L’apologo di Kafka, la scimmia/uomo e il desiderio di libertà

Non soltanto un intrigante approfondimento scenico, circola soprattutto sul minuscolo palcoscenico del Teatro Marcidofilm! un’aria grottesca, quella componente critica virata allo sberleffo che ha caratterizzato tanta parte del pensiero novecentesco. L’occasione è la ripresa di Una relazione per l’accademia (il racconto, datato 1917, comparve due anni dopo nella raccolta intitolata Un medico di campagna), giovedì 14 e venerdì 15 alle ore 20,45, dove il testo di Kafka, intrigato dagli (e negli) umori di Marco Isidori – da più di trent’anni, familiarmente, l’Isi – e incorniciato dal trucco esasperato, dal lanoso costume e dal “Sipario delle Metamorfosi” di Daniela Dal Cin, trova nella trasposizione sulla scena la sonorità del racconto e in primo luogo la fisicità animalesca che un interprete come Paolo Oricco ha saputo imprimergli.

Una autentica quanto significativa prova d’attore, fatta di spasimi e di fatica, di visibilissimo sudore, di immedesimazione tangibile, di fatica che converge passo dopo passo in un “altro” stato umano, un tour de force al singolare, monolitico, espressivamente convincente, come di rado si può assistere a teatro. Non una bravura fine a se stessa, non un’eccellenza mostrata a tutti i costi nel sogno dell’applauso finale, non un percorso all’inseguimento spasmodico dell’effetto, non soltanto questo ci verrebbe da correggere, la prova di Oricco è il lento calarsi di un attore nel gesto e nella parola, nel volto bistrato carico di mobilità, nella costruzione al ralenti di una parabola, nella sensibilità di questa Scimmia umana (o di quest’Uomo scimmiesco) cavata su dal profondo dell’animo. Perfettamente immerso in una regia che ha voluto “rappresentare la superiorità biologica delle forze istintuali che si spappola in caduta libera a contatto con le esigenze preponderanti delle leggi della galoppante civiltà”. Rivolto ad un uditorio che, al di là della pagina scritta, qui realisticamente si concretizza, il personaggio racconta della sua vita precedente in veste di scimmia, della giungla africana, della spedizione che l’ha catturato, del viaggio in Europa, di una libertà ormai negata. Racconta dell’abitudine appresa poco a poco, e forse del piacere, a studiare le abitudini umane, quell’equipaggio nelle sue differenti azioni, la sua facilità ad imitarli, la vocazione a riconquistare la libertà di un tempo, lo sbarco, una successiva scelta di sopravvivenza (esistenziale), se finire in uno zoo o se darsi alle luci del musichall. L’umanità acquisita lo porterà con sempre maggior sicurezza verso la seconda scelta. Fase animalesca e una nuova veste umana, un mutamento che la statura alta della scena rende estremamente vitale e significativo, il passaggio da una condizione all’altra (che è seducente, che è estremamente appetibile) che è la resurrezione e il dramma del “personaggio/scimmia”, il dramma è la ricerca di una condizione che il personaggio da sempre coltiva nel proprio intimo, “già possiede in toto – sintetizza Isidori – ogni carattere della nostra specificità umana, solo le manca quella suprema astuzia con la quale ci si può specchiare nella moltitudine della folla civilizzata”. E il nuovo stato, l’abbandono del mostro, la riuscita a superare, la libertà, nuova, conquistata, affascinante? Porta con sé il peso quasi insopportabile del divenire. Alla messa in scena dell’apologo kafkiano, si unisce nella serata, in stretta continuità, tappa dell’itinerario nel mondo della Fiaba classica che s’identifica come “Favoleggiando con i Marcido, La bella addormentata, obbligatoriamente “da” Perrault, condotta dalla voce narrante di Maria Luisa Abate ed in puro “stile Marcido”. Con l’attrice nelle vesti di strega Malefica e di re Uberto ancora Paolo Oricco come principe Filippo e fata Fauna, Francesca Rolli nel ruolo del titolo, Valentina Battistone (fata Serena), Vittorio Berger (fata Flora) e Gabriele Sciancalepore (re Stefano). Per informazioni: Teatro Marcidofilm!, corso Brescia 4 bis, tel 011/8193522, prenotazioni ai numeri 339 3926887 – 328 7023604; info.marcido@gmail.com; www.marcido.it

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini, Paolo Oricco in “Una relazione per l’accademia” di Franz Kafka

“Magari toccasse a me… prendermi cura dei giorni tuoi”

Il carattere attivo dell’amore diviene evidente nel fatto che si fonda sempre su certi elementi comuni a tutte le forme d’amore. Questi sono: la premura (o cura), il rispetto, la responsabilità e la conoscenza

Siamo nel mese degli innamorati …febbraio ed io sono a proporvi una canzone per me importantissima: Magari, di Renato Zero. Partliamo dell’album “Cattura” e siamo nel 2003; Il disco è risultato l’album di maggiore successo del cantante romano degli anni 2000 con 800.000 copie vendute. Magari è un brano che mi tocca il cuore, la rivendicazione di un amore non corrisposto, al momento, e non se ne sa il motivo. Magari si muove sulle rotaie dell’amore incondizionato …Anche se il timore avrà sempre più argomenti, lui sceglie la speranza di potersi un giorno prendere cura di lei…, dei giorni suoi, per dirle che non invecchia mai. Una dichiarazione tra le più incantevoli di questi tempi. Una canzone, questa, tanto bella quanto struggente, a partire dal testo che ha delle parole talmente emozionanti da far venire i brividi, quel finale a sorpresa in cui chiede “Mi ami? magari…la speranza di poter essere li, quando l’altro si sveglia, per portare il caffè. Magari è deliziosa, favolosa, un piatto forte quando non ti aspetti più niente che non sia già stato fatto dal Renato nazionale. Ascoltatela e imparate a prendervi cura di chi amate perchè un giorno, forse, vi potrebbe mancare il suo respiro, o anche solo semplicemente il suo sguardo, che non sarà più vostro perchè ve lo siete lasciato scappare per una sciocchezza. Ricordate che Non è miliardi di miliardi il numero più grande che ci sia. Il numero più grande è due. “Ti amo. Tre secondi per dirlo. Tre

ore per spiegarlo. E una vita intera per provarlo”

 

https://www.youtube.com/watch?v=m3MBxEvliWs

Chiara De Carlo

 

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Chiara vi segnala i prossimi eventi… mancare sarebbe un sacrilegio!

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità librarie

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Mary S. Lovell “Le sorelle Mitford” –Neri Pozza- euro 25,00

 

Come recita il sottotitolo, questa è la biografia di una famiglia straordinaria, quella delle Mitford che la stampa britannica definì “le sorelle più affascinati del XX secolo”. Sono Nancy, Pam, Diana, Unity, Jessica (Decca) e Deborah (Debo) nate in successione tra il 1904 e il 1920, da David e Sidney Freeman-Mitford, baroni Redesdale. Una partenza privilegiata, anche se di nobiltà minore, tra debutti in società e lustrini… poi sei traiettorie di vita diverse, con rapporti non sempre facili, intrisi di affetto e passioni, ma anche rancori, incomprensioni ed estremismi politici opposti. La corposa biografia della Lovell racconta le loro storie e vi trasporta in un mondo che non c’è più, ma che conserva intatta la magia di luci ed ombre sullo sfondo delle vicende storiche. Le sorelle Mitford hanno -chi più, chi meno- incarnato lo stile di vita dell’elitè tra le due guerre. Erano tutte bellissime, affascinanti, con personalità molto diverse tra loro. Ambivano a studi universitari (che invece furono possibili solo per Tom, l’unico maschio della nidiata) ma all’epoca le femmine venivano istruite da precettori in casa e questo fu uno dei motivi di attrito con la madre. Seppero distinguersi comunque. Nancy, la maggiore, diventerà una scrittrice di successo, mentre la sua vita privata sarà segnata dall’amore infelice per il braccio destro di De Gaulle, Gaston Palewsky. L’altra autrice di famiglia sarà Jessica, la ribelle che, con il cugino Esmond Romilly, prima scappa in Spagna per partecipare alla Guerra civile e poi diventa sostenitrice del partito comunista americano e dei diritti civili, coerente fino alla fine. La secondogenita Pam è la sorella più appartata e bucolica, amante della campagna, del giardinaggio e dell’allevamento degli animali. Poi c’è Diana, bella da mozzare il fiato, a 22 anni sposa l’erede della fortuna Guinness, matrimonio da favola finito sui rotocalchi. Salvo poi innamorarsi perdutamente del fondatore del fascismo inglese, Sir Osvald Mosley, per lui manda all’aria tutto incorrendo nell’ostracismo sociale. Altra grave pecca della sua vita essere una sostenitrice di Hitler. Passione che condivise con l’altra sorella Unity, che a Berlino farà di tutto per incontrare il Furher, finirà nella sua cerchia esclusiva e per molti sarà “la fidanzatina di Hitler”. Vero o no cercherà di suicidarsi per lui. Ed infine Debo che, nonostante gli scandali delle sorelle, riesce a sposare Lord Andrew Cavendish, diventando proprietaria di una splendida dimora storica che saprà sfruttare al meglio come residenza di lusso. Ecco… il libro ripercorre le loro vite e quelle dei genitori (che finiscono per separarsi ufficiosamente a causa di divergenze politiche) e i loro rapporti spesso travagliati, regalandoci uno splendido ed ampio affresco dell’epoca tra le due guerre ed oltre.

 

Ed ora qualche consiglio sui loro libri da leggere.

 

 

Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” – Giunti- euro 9,50

 

E’ il primo romanzo scritto dalla primogenita Mitford, in gran parte autobiografico. Rivela vizi e virtù della nobiltà britannica della prima metà del 900, attraverso le vicende della famiglia protagonista, i Radlett, signori di campagna. Al centro delle vicende i ricordi della nipote Fanny che trascorre parte di infanzia e adolescenza presso di loro, affascinata dalla cugina Linda, bella e frivola. Sullo sfondo, la seconda guerra mondiale con il suo bagaglio di dolore e morte. I personaggi del libro sono tratti dalla vita reale e facilmente riconoscibili tra i vari parenti dell’autrice, nonostante i nomi diversi. Invece le eroine sono un miscuglio tra le caratteristiche di Nancy e delle sue sorelle.

 

 

Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo” –Adelphi- euro 18,00

 

Dopo 5 anni trascorsi in India come Vicere, il conte Montdore torna in Inghilterra con la famiglia. Sono ricchissimi, aristocraticissimi e decisamente vuoti. Con dosi massicce di ironia e humor tipicamente britannico, la Mitford delinea il rutilante e fatuo mondo dell’alta società tra le due guerre. Qui protagonista è Polly Montdore, giovane bellissima rampolla debuttante, reginetta dei tanti balli di stagione con cui le fanciulle dell’epoca facevano il loro fastoso ingresso in società. La voce narrante è quella della sua amica Fanny che rivela scandali, capricci, nefandezze e glamour dell’epoca.

 

 

Nancy Mitford “Non dirlo ad Alfred” –Adelphi- euro 18,00

 

Ritroviamo Fanny, narratrice di “L’amore in un clima freddo”, che racconta ancora mondanità, glamour e ironia. Fanny ha sposato Alfred che, dal mondo accademico e a tratti barboso di Oxford, viene catapultato come ambasciatore britannico a Parigi. Ed ecco la protagonista nel ruolo di ambasciatrice, piedistallo che le permette di osservare e svelare i tratti divertenti ma anche formali dell’entourage diplomatico europeo negli anni 50. A sparigliare un po’ le carte ci si mettono i 4 giovani figli della coppia e le loro ribellioni, e Northey,   l’affascinante segretaria di Fanny alle prese con il bel mondo della capitale francese.

 

 

 

Jessica Mitford “Figlie e ribelli” – BUR contemporanea – euro 11,00

 

Jessica era la pasionaria di sinistra della famiglia Mitford. Giornalista e scrittrice, dopo la Spagna, approda in America dove diventa famosa per le sue lotte per i diritti civili e per il libro-inchiesta “Il sistema di morte americano” (pubblicato nel 1963) in cui denuncia come le imprese di pompe funebri lucrino sul dolore di chi sopravvive ad un lutto. In “Figlie e ribelli” invece racconta le vicende della sua strampalata famiglia Redensdale, aristocratici inglesi stravaganti, a partire dai genitori alquanto eccentrici per arrivare alle loro figlie che finiscono spesso sulle pagine dei giornali. E’ tutto un   turbinio di stagioni mondane, aneddoti privati e personaggi della scena politica dell’epoca, come Churchill e Hitler. E’ in parte un affettuoso ma anche dissacrante ritratto della sua notevole famiglia. Inutile dire che raccontando alcuni episodi e delineando alcuni personaggi, il libro non fu gradito da qualche membro del nucleo familiare.

 

L'isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità librarie
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Mary S. Lovell “Le sorelle Mitford” –Neri Pozza- euro 25,00
 
Come recita il sottotitolo, questa è la biografia di una famiglia straordinaria, quella delle Mitford che la stampa britannica definì “le sorelle più affascinati del XX secolo”. Sono Nancy, Pam, Diana, Unity, Jessica (Decca) e Deborah (Debo) nate in successione tra il 1904 e il 1920, da David e Sidney Freeman-Mitford, baroni Redesdale. Una partenza privilegiata, anche se di nobiltà minore, tra debutti in società e lustrini… poi sei traiettorie di vita diverse, con rapporti non sempre facili, intrisi di affetto e passioni, ma anche rancori, incomprensioni ed estremismi politici opposti. La corposa biografia della Lovell racconta le loro storie e vi trasporta in un mondo che non c’è più, ma che conserva intatta la magia di luci ed ombre sullo sfondo delle vicende storiche. Le sorelle Mitford hanno -chi più, chi meno- incarnato lo stile di vita dell’elitè tra le due guerre. Erano tutte bellissime, affascinanti, con personalità molto diverse tra loro. Ambivano a studi universitari (che invece furono possibili solo per Tom, l’unico maschio della nidiata) ma all’epoca le femmine venivano istruite da precettori in casa e questo fu uno dei motivi di attrito con la madre. Seppero distinguersi comunque. Nancy, la maggiore, diventerà una scrittrice di successo, mentre la sua vita privata sarà segnata dall’amore infelice per il braccio destro di De Gaulle, Gaston Palewsky. L’altra autrice di famiglia sarà Jessica, la ribelle che, con il cugino Esmond Romilly, prima scappa in Spagna per partecipare alla Guerra civile e poi diventa sostenitrice del partito comunista americano e dei diritti civili, coerente fino alla fine. La secondogenita Pam è la sorella più appartata e bucolica, amante della campagna, del giardinaggio e dell’allevamento degli animali. Poi c’è Diana, bella da mozzare il fiato, a 22 anni sposa l’erede della fortuna Guinness, matrimonio da favola finito sui rotocalchi. Salvo poi innamorarsi perdutamente del fondatore del fascismo inglese, Sir Osvald Mosley, per lui manda all’aria tutto incorrendo nell’ostracismo sociale. Altra grave pecca della sua vita essere una sostenitrice di Hitler. Passione che condivise con l’altra sorella Unity, che a Berlino farà di tutto per incontrare il Furher, finirà nella sua cerchia esclusiva e per molti sarà “la fidanzatina di Hitler”. Vero o no cercherà di suicidarsi per lui. Ed infine Debo che, nonostante gli scandali delle sorelle, riesce a sposare Lord Andrew Cavendish, diventando proprietaria di una splendida dimora storica che saprà sfruttare al meglio come residenza di lusso. Ecco… il libro ripercorre le loro vite e quelle dei genitori (che finiscono per separarsi ufficiosamente a causa di divergenze politiche) e i loro rapporti spesso travagliati, regalandoci uno splendido ed ampio affresco dell’epoca tra le due guerre ed oltre.
 
Ed ora qualche consiglio sui loro libri da leggere.
 
 
Nancy Mitford “Inseguendo l’amore” – Giunti- euro 9,50
 
E’ il primo romanzo scritto dalla primogenita Mitford, in gran parte autobiografico. Rivela vizi e virtù della nobiltà britannica della prima metà del 900, attraverso le vicende della famiglia protagonista, i Radlett, signori di campagna. Al centro delle vicende i ricordi della nipote Fanny che trascorre parte di infanzia e adolescenza presso di loro, affascinata dalla cugina Linda, bella e frivola. Sullo sfondo, la seconda guerra mondiale con il suo bagaglio di dolore e morte. I personaggi del libro sono tratti dalla vita reale e facilmente riconoscibili tra i vari parenti dell’autrice, nonostante i nomi diversi. Invece le eroine sono un miscuglio tra le caratteristiche di Nancy e delle sue sorelle.
 
 
Nancy Mitford “L’amore in un clima freddo” –Adelphi- euro 18,00
 
Dopo 5 anni trascorsi in India come Vicere, il conte Montdore torna in Inghilterra con la famiglia. Sono ricchissimi, aristocraticissimi e decisamente vuoti. Con dosi massicce di ironia e humor tipicamente britannico, la Mitford delinea il rutilante e fatuo mondo dell’alta società tra le due guerre. Qui protagonista è Polly Montdore, giovane bellissima rampolla debuttante, reginetta dei tanti balli di stagione con cui le fanciulle dell’epoca facevano il loro fastoso ingresso in società. La voce narrante è quella della sua amica Fanny che rivela scandali, capricci, nefandezze e glamour dell’epoca.
 
 
Nancy Mitford “Non dirlo ad Alfred” –Adelphi- euro 18,00
 
Ritroviamo Fanny, narratrice di “L’amore in un clima freddo”, che racconta ancora mondanità, glamour e ironia. Fanny ha sposato Alfred che, dal mondo accademico e a tratti barboso di Oxford, viene catapultato come ambasciatore britannico a Parigi. Ed ecco la protagonista nel ruolo di ambasciatrice, piedistallo che le permette di osservare e svelare i tratti divertenti ma anche formali dell’entourage diplomatico europeo negli anni 50. A sparigliare un po’ le carte ci si mettono i 4 giovani figli della coppia e le loro ribellioni, e Northey,   l’affascinante segretaria di Fanny alle prese con il bel mondo della capitale francese.
 
 
 
Jessica Mitford “Figlie e ribelli” – BUR contemporanea – euro 11,00
 
Jessica era la pasionaria di sinistra della famiglia Mitford. Giornalista e scrittrice, dopo la Spagna, approda in America dove diventa famosa per le sue lotte per i diritti civili e per il libro-inchiesta “Il sistema di morte americano” (pubblicato nel 1963) in cui denuncia come le imprese di pompe funebri lucrino sul dolore di chi sopravvive ad un lutto. In “Figlie e ribelli” invece racconta le vicende della sua strampalata famiglia Redensdale, aristocratici inglesi stravaganti, a partire dai genitori alquanto eccentrici per arrivare alle loro figlie che finiscono spesso sulle pagine dei giornali. E’ tutto un   turbinio di stagioni mondane, aneddoti privati e personaggi della scena politica dell’epoca, come Churchill e Hitler. E’ in parte un affettuoso ma anche dissacrante ritratto della sua notevole famiglia. Inutile dire che raccontando alcuni episodi e delineando alcuni personaggi, il libro non fu gradito da qualche membro del nucleo familiare.