CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 556

La pazzia dell’imperatore e lo sberleffo di Carlo Cecchi

Carlo Cecchi ha con Pirandello un rapporto e un giudizio conflittuali, lo considera il più grande autore italiano ma pure il più insopportabile. Prevale – diciamolo subito – in modo sfacciato questa antipatia di fondo condita con una buona dose di gelido sarcasmo, per cui, dopo aver invaso in anni addietro il campo dell’autore siciliano con le rivisitazioni dell’ “Uomo la bestia e la virtù” e dei “Sei personaggi” ecco che oggi si diverte a banalizzare, come un bambino che dispettosamente faccia le linguacce, quel mostro dell’”Enrico IV” scritto nel ’21 per Ruggero Ruggeri. Le forche caudine inevitabili sono una riscrittura a volte violenta nei confronti del testo e lì sotto Cecchi è costretto a passare. Ma ci passa con gioia. Che in cent’anni circa qualcosa di fumoso e di annebbiato, di troppo acquoso e di macchinoso ci sia è innegabile, che la macchina teatrale scricchioli e possa aver bisogno di un piccolo colpo di manutenzione da anni Duemila potremmo comprenderlo. Ma. Come ognuno sa, un uomo senza nome s’è richiuso da tempo nella pazzia “ideale” e creduta da tutti all’indomani di una caduta da cavallo durante un carnevale in cui aveva assunto la maschera di Enrico IV, non quello di Francia cinquecentesco (e su questo s’era preparato il malcapitato ultimo arrivato tra i servi che con lui si sono esiliati) ma quello che secoli prima attraverso Matilde di Toscana ottenne a Canossa dopo tre giorni d’attesa in mezzo alla neve di gennaio il perdono papale. I cavalieri e le dame di quel tempo sono ora riuniti, nell’eremo dell’imperatore pazzo, a rappresentare un’altra volta quel gioco, quella cavalcata e quel travestimento, Matilde la donna amata un tempo e quel barone Belcredi che ha preso il posto del vecchio amore, il medico che dovrebbe trovare la via della guarigione con l’improvvisa apparizione della giovane Frida, uguale alla madre giovanissima come una goccia d’acqua. A quel sotterfugio l’uomo non ci sta, afferra una spada, sbudella il buon Belcredi e si affossa vita natural durante nella propria pazzia. Anche Cecchi a quei sotterfugi teatrali, alla commozione cerebrale, alle disquisizioni senza fine non ci sta. Comincia, tra il Bignami e il fast food, a ridimensionare come un forsennato, a ridurre i tre canonici atti ad un unico blocco di 90’, via via via gli intervalli! per carità, a prosciugare di parecchio le lunghe battute del primo attore, guardando di sbieco la Grandattorialità, e a giocare a far apparire in miglior luce gli altri personaggi, a modernizzare il linguaggio di Pirandello seppur con una gran bella risata lasciando e ripetendo certe parole, quelle che già stridono e farle stridere ancora di più, gioca al teatro con i quattro suoi consiglieri, rovistando nella tragedia alta che diventa una insignificante fiction e potendo contare anche su chi s’è preso il compito di riportarlo, copione alla mano, sulla retta via quando lui s’allontana troppo dall’impianto originale. Perché s’allontana. Non gli interessa tanto il percorso da e verso la pazzia del protagonista né la fatidica capocciata – è stato lui a scegliere liberamente di fingersi pazzo, conscio ormai del mondo che gli si è aperto davanti -, scova e gli interessa il pirandellismo del teatro nel teatro e chiede a Sergio Tramonti una scena che abbia le quinte mobili di uno spazio teatrale e una superficie specchiante sul fondo in cui Enrico si possa guardare sempre più spesso mentre recita con le spalle rivolte al pubblico, in una non-dizione tutta di oggi. Tra uno sfrondare e l’altro, tra una linguaccia e uno sberleffo, il Cecchi nuovo autore trova le occasioni per farci riascoltare un breve brano di una lettera di Pirandello a Ruggeri, improvvisare il grido “Hanno ammazzato compare Turiddu” dalla “Cavalleria” di Mascagni con l’allegria di “Noi siam come le lucciole” e – prima degli applausi finali di un pubblico del Carignano estremamente divertito – un indifferente e frettoloso “dai, alzati, che domani sera abbiamo un’altra replica” rivolto al Tancredi che fino a un secondo prima cercava di esprimere tutta la sua sofferenza come neppure il Gallo morente. Ridicolo andare a cercare il “qua insieme, qua insieme… e per sempre” della tragedia finale, manco da parlarne. Nel pastiche gli stanno accanto Angelica Ippolito, Roberto Trifirò, Gigio Morra, Dario Iubatti, Chiara Mancuso e altri, estremamente obbedienti. I costumi, preziosi, sono di Nanà Cecchi.

 

Elio Rabbione

foto Matteo-Delbò

 

 

Torino torna capitale del Jazz

Un marchio che rappresenta i tre tasti stilizzati di una tromba verrà proiettato fino a domenica – da sera fino a tarda notte – sulla facciata della Mole Antonelliana per annunciare la rinascita del Torino Jazz Festival

La manifestazione porterà dal 23 al 30 aprile numerosi artisti a esibirsi sul palco delle OGR, nei circoli jazz centrali e periferici della città e in diversi teatri e musei, dal Piccolo Regio al Conservatorio a prezzi popolari

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Il logo è stato ideato dal gruppo di creativi Ikigai Media partendo da uno dei simboli per eccellenza del jazz, la tromba e gli strumenti a fiato. Si tratta di un marchio non privo di sinuosità e tagli netti, realizzato pensando allo stile di Torino, alle forme che si incontrano camminando e osservando le facciate di un palazzo nelle vie del centro, una chiesa barocca, i dettagli liberty di una vetrata.

Novità di questa edizione, diretta dal compositore e trombettista Giorgio Li Calzi in collaborazione con il sassofonista e compositore Diego Borotti, è il coinvolgimento diretto di musicisti italiani e torinesi con produzioni originali create per il festival, insieme a star del jazz internazionale e artisti provenienti da altri mondi musicali. Il programma del TJF sarà interpretato da grandi “vecchi” del jazz statunitense e da artisti che rappresentano l’evoluzione attuale del jazz, nel rock, nella musica elettronica e nei nuovi linguaggi improvvisativi che oggi contengono una forte identità extra-americana.La sede del Museo nazionale del Cinema, monumento simbolo della città, richiama stasera, a sessantasei giorni dall’apertura ufficiale del festival, l’attenzione alla tradizione jazzistica torinese di un’area metropolitana che è territorio fertile per questo genere musicale da quasi un secolo e che la kermesse intende valorizzare e rafforzare, in sinergia con le istituzioni culturali, raccogliendo il crescente favore del pubblico.

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Negli otto giorni, oltre all’energia degli assoli e delle jam session, si svolgeranno meeting, sonorizzazioni realizzate in aree pubbliche e private, incursioni musicali in luoghi atipici. Laboratorio di cultura per antonomasia, Torino intende sostenere e promuovere le produzioni e le sperimentazioni musicali, chiamando a collaborare tutte le realtà della città. Saranno infatti coinvolti nel TJF gli oltre 20 club cittadini in cui si suona jazz tutto l’anno e circa 250 musicisti (110 nei concerti del main, oltre 130 nei locali, 16 nei jazz blitz).  Cinquanta concerti di cui sette produzioni originali, la prima italiana di un’artista iconica, numerosi spettacoli pomeridiani, aperitivi in musica e le esibizioni serali.Il TJF intende proporsi come evento primaverile internazionale. Tuttavia l’edizione 2018 conta di sperimentare richiami nel resto dell’anno, con appuntamenti musicali e il coinvolgimento delle orchestre di allievi del Conservatorio e della Scuola Civica di musica e gruppi di studenti delle più titolate scuole specialistiche di jazz.Il programma e gli artisti saranno annunciati alla conferenza stampa in agenda mercoledì 28 marzo.

 

#tjf2018 

“Neroaurora”, le persone narrano il quartiere

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Per vincere la paura e al contempo far emergere i talenti 

Incominciano ad affluire alla segreteria del C.I.C. – Centro di Iniziative per le Comunicazionele prime iscrizioni al Premio Letterario “neroaurora” concepito per far emergere le capacità di racconto delle persone che a diverso titolo vivono la realtà del quartiere Aurora a Torino. I gruppi BOOKsMAKERs e CIAO Aurora, che fanno capo a quella associazione senza fini di lucro, hanno unito le forze per creare una miscela culturale a servizio della costruzione di comunità. La proposta ai partecipanti è di redigere dei racconti brevi del genere noir ambientati in questo territorio: una sfida all’immagine diffusa fra i non residenti di un luogo off-limits, per affrontare la quale è richiesta una buona dose di auto-coscienza al fine di oggettivare paure e attese.

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Il progetto è stato sùbito accolto con molto interesse dal Presidente della Circoscrizione 7, Luca Deri, che ha dato volentieri il patrocinio. Si sono coinvolti nella promozione dell’iniziativa l’Officina della Scrittura, museo-laboratorio sui codici della comunicazione scritta, il Cecchi Point, hub culturale di zona, Accademia dello Spettacolo, scuola di formazione che fa capo al Teatro Murialdo, il giovane e dinamico Comitato per la Riqualificazione del Quartiere Aurora, e il servizio PRONTOLIBRI per la promozione della produzione editoriale “made in Piemonte”.

A dare qualità al Premio in fase di esame delle opere presentate è la disponibilità di un gruppo di professionisti articolato per esprimere un giudizio articolato:

Marco Bardesono, caporedattore di Cronacaqui, Maria Giangoia, direttrice del Sistema Bibliotecario Torino Nord, Massimo Giardini, attore e docente di Accademia dello Spettacolo, Elena Morea, editor specializzata in giallistica al femminile, Davide Paglia, presidente del Cecchi Point, Rocco Pinto, organizzatore di eventi letterari e titolare della libreria Ponte sulla Dora, Bruno Quaranta, firma autorevole di Tuttolibri de La Stampa,Giulia Venuti, direttrice di Officina della Scrittura.

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I premi per i primi classificati nelle due sezioni “under 21” e “over 21” saranno due penne Aurora, offerte dall’Azienda sponsor principale dell’iniziativa. Gli altri premi consisteranno in buoni-spesa da usare negli esercizi commerciali del quartiere: un modo per far conoscere le eccellenze di prossimità e per incontrare le concrete esigenze delle famiglie. Il Premio Letterario è aperto anche a chi non risiede ad Aurora ma frequenta la zona per lavoro o nel tempo libero; prevede inoltre la possibilità di presentare opere in lingue stranierepurché corredate da adeguata traduzione in italiano: un chiaro segnale di invito ai moltissimi immigrati che frequentano questo quartiere che va da Porta Palazzo a corso San Maurizio, oltre la Dora e verso piazza Baldissera. Il termine per l’iscrizione è a metà marzo (salvo proroghe); le opere possono essere inviate entro quel mese. La premiazione avverrà in due fasi: prima nella sede del Salone Off ad Aurora e poi al Salone internazionale del Libro di Torino, a metà maggio.

Maggiori informazioni si trovano nel sito https://neroaurora.wordpress.com, con aggiornamenti nella pagina Facebook Premio Letterario neroaurora. È anche possibile rivolgersi telefonicamente al numero fisso 011 546076 o direttamente a Gabriele Galvagnoal numero cellulare 333 7592448, o scrivere un e-mail a cic.associazione@gmail.com .

La Salome’ di Richard Strauss al Regio

Nell’ambito del Festival dedicato a Richard Strauss, è in scena al teatro Regio dal 15 febbraio scorso la Salome’ del celebre compositore tedesco. Sul podio dell’Orchestra del Teatro Regio Gianandrea Noseda, al suo terzo appuntamento operistico della stagione lirica in corso, dopo i successi ottenuti con la direzione del Tristano e Isotta di Wagner e della Turandot di Puccini. Salome’ viene rappresentata in forma semiscenica, curata da Laurie Feldman, che nesegue fedelmente il libretto, evidenziando gli aspetti fondamentali della grande drammaturgia presente nel capolavoro di Strauss.I personaggi interagiscono tra di loro all’interno di uno spazio scenico connotato da alcune sedie e racchiuso da fondali neri. Il cast è di assoluto livello. Nel ruolo di Salome’ il soprano Erika Sunnegardh, Erode è interpretato dal tenore Robert Brubaker ed il soprano Doris Soffel veste i panni di Erodiade. Il personaggio di Jochanaan è affidato alla voce del baritono Tommi Hakala. Il capolavoro di Salome’ lega il suo nome a quello del teatro Regio di Torino in quanto proprio qui ebbe luogo la prima italiana dell’opera, nel lontano 1906, diretta dallo stesso Strauss. “Salome’ – dichiara il maestro Noseda – è un’opera che dà i brividi. A più di un secolo dalla prima non ha perso nulla del suo fascino seducente e morboso. Per il pubblico d’oggi non presenta più quella mostruosità emotiva che percepivano i primi spettatori agli inizi del Novecento, noi sappiamo già cosa aspettarci, ma l’effetto è dirompente; invade con quell’erotismo selvaggio, con quella sensualità, con quel suo disagio esistenziale.

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È un’opera meravigliosa, molto difficile da rendere, che richiede una grande scaltrezza tecnica, per non parlare delle difficoltà dei cantanti, una vera e propria vetta da scalare. Se non ci fosse stata Salome’ la storia dell’opera sarebbe cambiata, non ci sarebbero stati il Wozzeck e la Lulu’ di Berg, il Trittico e la Turandot di Puccini. Salome’ è il primo capolavoro operistico con il quale si è avuto il coraggio di osare moltissimo”. La novità che distingue la partitura della Salome’ consiste nel fatto che Strauss vi traspone l’estetica dei suoi poemi sinfonici, vale a dire il principio dell’analisi e della descrizione sonore fino ai limiti estremi. Salome’ è, infatti, un poema sinfonico con l’aggiunta di parti vocali. Strauss rimase folgorato dalla rappresentazione a teatro della Salome’ di Oscar Wilde nel 1903 e decise lui stesso di sfrondarne la versione tedesca, eliminando le parti ridondanti. Il linguaggio nell’opera è forse l’aspetto che, più degli altri, sembra giustificare la citata e peraltro discutibile affermazione di Thomas Mann: “Avanguardia e sicurezza si traducono in un’armonia dissociata e dissonante quant’altre mai”. Negli Stati Uniti l’opera, che ottenne un vasto successo di pubblico in Europa, fu negli anni Venti vietata per oscenità. L’atto unico da cui Strauss trasse la sua opera, la Salome’ di Wilde, è un testo simbolistico. Il Battista rappresenta la nuova etica, Erode e la sua corte la corruzione del passato e la sedicenne Salome’, che rispecchia il sedicenne Alfredo Douglas di cui Wilde era innamorato, lo strumento di comunicazione tra i due mondi.

Mara Martellotta

I talenti di Sanremo Unlimited

Anche quest’anno SANREMO UNLIMITED, il format patrocinato da Casa Sanremo (l’hospitality ufficiale del Festival della Canzone Italiana) finalizzato alla presentazione di talenti della musica leggera a discografici, autori e produttori, ha avuto un vero successo

Ben 35 i cantanti che Franco Ganci ha proposto. Erano presenti agli ascolti:

DAVIDE MAGGIONI, produttore discografico e direttore artistico dell’etichetta milanese “Rusty Records” già vincitore del Festival nel 2013 con Antonio Maggio, secondo nel 2016 con Chiara Dello Iacovo (nostra diretta scoperta) e vincitore del Premio Sala Stampa nel 2018 con Alice Caioli; MASSIMO MORINI, pluridirettore d’Orchestra del Festival di Sanremo (28esima presenza), vincitore di 7 Festival, A&R Manager di Sony Music, vincitore di 8 dischi d’Oro; MARCO CIAPPELLI, autore di brani per Noemi, Giuliano Palma, Fiorello, Francesco Facchinetti, Fiorella Mannoia, Patty Pravo, Bianca Atzei, Nina Zilli, Loredana Errore, etc.; ADRIANA ROMBOLA’, Presidente dell’etichetta discografica “Riserva Sonora”; MARCO MORI, già nello staff di Ligabue e manager di Paola & Chiara, direttore artistico di “Riserva Sonora”; GIOVANNI GERMANELLI, promoter artistico per cantanti tramite i principali media radio/televisivi, web e stampa; MARCO COLAVECCHIO, produttore discografico, direttore artistico nel tour di Paolo Vallesi e attualmente impegnato in un progetto con Eros Ramazzotti. La manifestazione si è svolta nei giorni 8 e 9 febbraio al Palafiori di Sanremo ed è andata in onda in diretta su 3 emittenti in streaming. Tutti i partecipanti sono stati premiati con la consegna del NATIONAL VOICE AWARDS, cerimonia svolta nell’ambito dell’area riservata di Casa Sanremo. Tra coloro che hanno premiato i nostri partecipanti c’erano anche MAURO MARINO di Radio Italia e ROSARIA RENNA di Radio Montecarlo. Un ringraziamento per la collaborazione va a Pulsart Academy nelle persone di Patrizia Mottola e Emiliano Boschetti, a Monica Pera, Ketty Camerlengo e a Massimo Curzio del Big Stone Studio. Sono venuti a trovarci Alice Caioli, Andrea Maestrelli e Alberto Lionetti. Infine un grazie a Paolo Formia, prezioso nell’aiuto delle attività di ascolto e consegna premi, alle belle ed eleganti vallette Carola Falco e Corinne Liscio e a Stefano Celi, nostro partner ufficiale con l’Azienda Agricola valdostana LA SOURCE.

 

Franco Ganci

L’arte e la società, la vita e la politica, quarant’anni di storia italiana

Innanzitutto una novità. Roba da segnare sul proprio diario, da non scordare più. Italiana, contemporanea come più non si potrebbe, negli argomenti, nella felicità con cui delinea i vari personaggi, nel linguaggio incisivo e scoppiettante, con battute godibili a raffica, nell’articolazione delle differenti vicende che vi si incrociano. La produzione è degli Stabili di Torino e Bolzano, l’autore Fausto Paravidino, quarantunenne, nato a Genova ma piemontese (Ovada e dintorni) di formazione, primo exploit Due fratelli che si aggiudicò nel 1999 il premio Tondelli e l’Ubu quale migliore novità italiana un paio d’anni dopo, incursioni nel mondo del cinema (Texas, un titolo per tutti, ai suoi tempi a rischio di un David quale miglior esordiente), quantomai maturo nella propria scrittura e allo stesso tempo ancora troppo debole in un nostrano panorama teatrale che pare non volerlo ancora completamente accettare. E allora ecco che il successo, quello fragoroso, quello di costante ricerca, arriva all’estero, con le presenze nei cartelloni dei teatri del nord Europa, con il Royal Court Theatre londinese che gli commissiona Genova 01, con la Comédie Française che gli mette in scena La malattia della famiglia M. (pronta a raggiungere pure la lontana Taipei, in Taiwan). Qualcuno lo ha definito “uno dei migliori drammaturghi europei”, dal gennaio di quest’anno il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale lo ha promosso “dramaturg residente”, oggi siamo curiosi del lavoro che saprà svolgere.

Per intanto godetevi questo Senso della vita di Emma, fino a domenica sul palcoscenico del Gobetti, la narrazione di quattro decenni di casa nostra difficilmente dimenticabili, attraverso la presenza/assenza del personaggio del titolo, attraverso le azioni e le idee, i rapporti e i caratteri di quanti le stanno intorno, il padre e la madre, la sorella perennemente stronza e il fratello in cerca di identità sessuale, la coppia di amici estremamente suscettibili ma rifugio sicuro e consolatorio per un momento di riflessione e per una gravidanza che bisogna portare avanti, la zia che ama tanto narrare favole come fossero tragedie orripilanti, il don Mario che non disdegna di rovistare tra le gambe delle parrocchiane… Un iniziale vernissage in una galleria, con le chiacchiere farraginose intorno al mondo dell’arte, i pareri strampalati, dove campeggia un ritratto di donna sconosciuta, la prima di tante fotografie che allineano i “ritratti di una quotidianità semplice, viva e riconoscibile”, un principio a questo “romanzo teatrale in due parti” che narra, che ironizza, che diverte, che serve da specchio al pubblico in sala, che predispone alla riflessione. Che percorre un lungo tratto di storia con il sorriso stampato in faccia: ma non troppo. Paravidino, in un impianto che a tratti s’avvicina al cabaret e alla facile rivista (nel commento musicale di Enrico Melozzi incroci pure Orietta Berti), che utilizza attori in carne e ossa come le marionette o le maschere, gioca con la politica e la società, tra il pubblico e il privato, guarda all’Italia e fa un salto in Gran Bretagna, seguendo quella ragazza/donna negli anni della sua disturbata crescita, tra urla e chiacchierate sulfuree allinea il rapimento Moro e le Brigate Rosse, il boom e i tanti oggetti che riempivano le nostre case, Elisabetta the queen e i Beatles che attraversano le strisce pedonali di Abbey Road, la Thatcher e Tony Blair, le nuove suffragette dell’ecologismo, le irruzioni e le rivolte. Sino a ritrovarsi dentro un altro vernissage e un’altra galleria, ancora con quella tela e quel viso di donna sconosciuta: ma ecco che Emma compare, lei che quel quadro lo vorrebbe distruggere, a fare i conti con il passato, quello proprio e quello degli altri, in un pistolotto finale di ricordi e di confessioni che vuole tirare tutte le fila. È la chiusura su una bella commedia che nel secondo tempo, con il rischio di girare su se stessa, ha avuto qualche cedimento, qualche fragilità, che prosciugata sarebbe perfetta. Ma il successo della serata rimane, intatto, non soltanto per la brillantezza della scrittura ma pure per l’apporto immediato, tutto uno scoppiettìo, degli interpreti, maschere di un’Italia da manuale, dallo stesso Paravidino a Eva Cambiale, da Gianluca Bazzoli (un fratello perfetto nell’esporre con feroce pragmatismo il modus vivendi di casa sua) alla drammaticissima narratrice Sara Rosa Losilla, da Giacomo Dossi, prete arrapato e bellone da discoteca a Iris Fusetti, la Emma del titolo.

 

  Elio Rabbione

(Foto: T. Le Pera)

Cinema, l’onomastica della sala

Torino vanta una grande tradizione di sale cinematografiche. Nel tempo in cui il cinema fu più popolare, tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento, i loro nomi incisero in maniera importante sul successo delle proiezioni

L’onomastica costituiva il primo elemento di congiunzione tra la realtà e un mondo intangibile fatto di pura luce. Doveva propriamente evocare il senso di un magnificente “altrove” che costituisce l’essenza più intima della settima arte.Doveva fungere da richiamo irresistibile, racchiudendo in un concetto di facile memorizzazione la promessa di chissà quali visioni, chissà quali avventure, simulacri pronti a materializzarsi per incanto sul grande schermo. A volte il nome si limitava a evocare la via o la piazza dove si trovava il locale. Il Vittorio Veneto sorse nel cortile di Palazzo Denina con il nome di “Impero” nel 1913, per cambiare denominazione nel 1942. Trasformato in locale a luci rosse nel 1979, è stato restaurato negli anni Novanta come Empire e ora i torinesi lo conoscono come Classico. Sotto i portici di via Po aprì nel 1907 il Cinema per le Famiglie, dove ebbe luogo la prima proiezione dei fratelli Lumière in città. Nel 1941 il locale prese il nome di Cinema Po. Nel 1985, a seguito di una ristrutturazione, divenne King Kong Cinestudio, quindi semplicemente King (lasciando il marchio Kong alla sala di via Santa Teresa). Oggi è noto come Blah-Blah, spazio d’incontro non più destinato al solo cinema.

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Nel 1989 venne aperta la multisala Massimo, frutto della trasformazione del locale omonimo aperto negli anni Trenta e bombardato dalla RAF durante la Seconda Guerra Mondiale. Da allora la sua storia è legata al Museo Nazionale del Cinema, accogliendo i principali festival cinematografici torinesi. Nel 2001 è stato completamente ristrutturato in tre sale da proiezione. Il Cinema Alpi sorse nei locali che, dal 1853, avevano ospitato il Caffè omonimo, il quale era situato nel palazzo Saluzzo Paesana tra via Garibaldi e via della Consolata. Fu inaugurato nell’aprile 1914, cambiò il nome in Puntodue d’Essai nel 1977 e in Charlie Chaplin a partire dal 1983. Chiuse definitivamente nel 2003 per far posto a un negozio di abbigliamento in franchising. Torna in questi giorni alla memoria lo Statuto di via Cibrario, di cui ricorre il trentacinquesimo anniversario del rogo, che fece sessantaquattro vittime, soffocate dal fumo e bloccate in sala dalle porte di sicurezza rimaste chiuse. La tragedia costituì il punto di partenza per riscrivere le norme sulla sicurezza nei locali pubblici italiani. Lo Statuto non riaprì mai più; venne abbattuto una decina di anni dopo e, con esso, sparirono molte sale del centro storico come l’Astor di via Viotti, il Vittoria di via Roma e l’Ariston di via Lagrange. Il nome della sala poteva anche celebrare un pioniere del cinema dei primordi. Torino non ha dedicato una sala al regista di Cabiria Giovanni Pastrone – ci ha pensato invece Asti. Una delle più importanti in città è dedicata, invece, ad Arturo Ambrosio, fondatore della prima compagnia di produzione cinematografica italiana e autore del primo film girato in Piemonte, “La corsa automobilistica Susa-Moncenisio” del 1904. Per iniziativa di Amedeo Reposi, il cui padre Felice era stato un imprenditore cinematografico degli anni Venti, nel 1947 aprì i battenti il Cinema Teatro omonimo. La multisala attuale è nata dalla trasformazione radicale del cinema originario, dotato di 2700 posti, che aveva una particolare forma a interno d’uovo e il soffitto apribile.

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Il cinema italiano conobbe la consacrazione sotto il fascismo e, in quel periodo di autarchia lessicale, si ricorse spesso all’uso di termini latini. La semantica ridondante, utilizzata a piene mani dalla propaganda mussoliniana, andava a coincidere con i paradisi immaginari che emanavano dagli schermi delle sale. In tutta la penisola sorsero i vari Excelsior, Major, Arena, Astra, gli Splendor (titolo di un film bello e struggente girato da Scola), i Fulgor (un film sul cinema Fulgor di Rimini rimase un progetto mai realizzato da Fellini). Il Lux venne inaugurato nella primavera del 1934 con il nome di Cinema Rex, nel contesto dei lavori di riqualificazione che interessarono la Galleria Geisser (poi San Federico) e l’intero asse di via Roma (1931-1937). Caratterizzato da una ricca decorazione in stile liberty, con i suoi 1573 posti era il più grande e moderno cinematografo torinese. Ribattezzato successivamente Dux, ritornò (per ovvi motivi) all’attuale nome nel 1945. Nel 2004 è stato oggetto di un completo rifacimento che ha comportato la realizzazione di tre nuove sale. A riprova che la storia italiana è passata anche attraverso i nomi dei cinematografi, l’Adua di corso Giulio Cesare ha tenuto in vita remote fantasie coloniali fino al 2008. Inaugurato nel 1937, venne utilizzato per alcuni anni anche come teatro dal Gruppo della Rocca. Un moderno edificio residenziale ne ha cancellato definitivamente la memoria.

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Meritano una menzione particolare due cinema storici della città. Il Nuovo Romano è il cinema della Galleria Subalpina, inaugurata nel 1874. Sorse nel 1897 come Caffè Concerto Romano e nel sottopiano ospitò dal 1905 il Cinematografo Lumière. Nel 1911 il Caffè divenne Cinema Romano, adibito per qualche decennio anche a teatro-varietà. I bombardamenti dell’agosto 1943 causarono gravi danni e la sala rimase chiusa fino alla fine della guerra. Nel 1958 fu sottoposto a una radicale ristrutturazione e poi riaperto al pubblico con un recital di Vittorio Gassman. Il Cinema Nazionale sorge invece sulle ceneri del Teatro omonimo, situato in fondo a Contrada degli Ambasciatori, l’attuale via Pomba. Venne inaugurato nel marzo 1848 con la Lucrezia Borgia di Donizetti. Alla fine degli anni Settanta, quando in tutta Italia si liberalizzò la circolazione dei film hard core, molte sale si riconvertirono, esibendo la classica luce rossa al loro esterno. Esse seguirono un percorso già tracciato, cercando nel nome un’identificazione che le rendesse immediatamente riconoscibili. E fu così che nella nostra città spuntarono l’Artisti Erotic Center, il Zeta Sexy Movie, l’Arco Pussycat, l’Alcione, l’Alexandra. Ne sono rimaste tre o quattro, sopravvissute ai vari Tube online per pochi sparuti spettatori.

 

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I tempi sono cambiati. Oggi non c’è grande città che non abbia il suo Warner Village o un Multiplex Qualchecosa: sulle sponde italiche sono sbarcati i distributori americani con il loro carico di coca-cola e popcorn. Torino non fa eccezione e ha seguito questo cambiamento epocale. La diffusione delle pay-tv, prima, e la rivoluzione digitale, poi, stanno portando a prediligere la visione domestica a scapito della fruizione collettiva. Con buona pace di chi sostiene che il cinema è un’arte di massa (‘di’ e ‘per’ la massa): anzi, è l’arte di massa per eccellenza. Molte sale cittadine hanno dovuto chiudere definitivamente, oppure far posto ad edifici residenziali e attività commerciali. Oltre a quelle già citate ricordo il Doria, inaugurato nel 1947 e costretto ad abbassare le saracinesche qualche anno fa. Il Corso (già Palazzo), situato nel prestigioso edificio Art déco di corso Vittorio Emanuele angolo via Carlo Alberto, aveva invece già chiuso nel 1980 in seguito a un incendio. Ma potrei citare anche il Cristallo, il Capitol, l’Arlecchino e tutti quei cinema di quartiere (lo Studio Ritz e l’Eridano, per nominarne un paio) che resero il grande schermo l’ultimo luogo del Mito. C’era una volta, e un’altra non c’è stata più. Ma quella volta c’era. C’era un pubblico formato da gente semplice che, almeno una notte nella vita, sognò sotto le stelle di un cielo Maestoso.

 

Paolo Maria Iraldi

 

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

A casa tutti bene – Commedia. regia di Gabriele Muccino, con Stefano Accorsi, Massimo Ghini, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino e Gianmarco Tognazzi. Una ricorrenza da festeggiare, le nozze d’oro dei nonni, una permanenza forzata, il traghetto bloccato e l’isola di Ischia a fare da sfondo: gli antichi ristoratori, i tre figli che hanno preso strade diverse, le mogli attuali e quelle di un tempo, il cugino solo e poveraccio, i rancori, le confessioni e le urla, il ritratto di una famiglia italiana in perfetto stile Muccino, figliuol prodigo tornato a casa dopo i (quasi totali) successi d’oltreoceano. Durata 105 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, Eliseo Blu, F.lli Marx sala Groucho e Chico, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)

 

Benedetta follia – Commedia. Regia di Carlo Verdone, con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Lucrezia Lante della Rovere e Paola Minaccioni. Guglielmo, in depressione stabile, è il proprietario di un negozio di arredi sacri e abbigliamento d’eccellenza, per il piacere e l’eleganza della moltitudine di porporati romani. Depresso anche per il fatto che la moglie lo ha appena abbandonato perché innamorata proprio della commessa del suo negozio: quando come un ciclone entra nella sua vita una ragazza di borgata. Opera con un buon inizio se poi non prendesse la strada delle vogliose signore che in un modo o nell’altro vogliono accaparrarsi il misero quanto problematico single. Con una comicità che fa acqua da ogni parte (in sala piena ho contato un paio di risate davvero convinte), non priva di momenti quantomai imbarazzanti (oltrepassando di gran lunga, all’italiana, lo spudorato ma tranquillo divertimento della scena clou di “Harry, ti presento Sally”, la signora che nasconde il cellulare “nel posto più bello del mondo” finisce per ritrovarsi in una storiellina soltanto fuori dei limiti; l’attore/regista che si mette a fare il cicerone all’interno di palazzo Altemps a Roma denuncia tutta la sua odierna mancanza d’idee, lontanissimo dalle cose migliori; e poi le pasticche, i balletti, le cianfrusaglie tra colori e suoni…). La gieffina Pastorelli rimane se stessa in ogni occasione, immutabile se non fosse per i cambi d’abito (sempre più ristretto), alla ricerca dei begli effetti che una Ramazzotti ci ha dato in altre occasioni. Godetevi la manciata di minuti della Minaccioni. Un toccasana. Durata 109 minuti. (Uci)

 

Black Panther – Fantasy. Regia di Ryan Coogler, con Chadwick Boseman, Lupita Nyong’o, Martin Freeman e Angela Bassett. Il protagonista è il nuovo re di Wakanda dopo la morte del padre: ma se sulla sua strada trova dei nemici pronti a detronizzarlo, lui sarà pronta a unirsi alla CIA e alle forze speciali del proprio paese. Durata 135 minuti. (Massaua, Greenwich sala 3, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche in V.O. e 3D)

 

C’est la vie – Prendila come viene – Commedia. Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache, con Jean-Pierre Bacri, Jean-Paul Rouve, Hélène Vincent e Suzanne Clément. Gli artefici del fenomeno “Quasi amici” promettono risate a valanga e il successone in patria dovrebbe calamitare anche il pubblico di casa nostra. I due sposini Pierre ed Hélène hanno deciso di sposarsi e quel giorno deve davvero essere il più bello della loro vita. Nella cornice di un castello del XVII secolo, poco lontano da Parigi, si sono affidati a Max e al suo team, ad un uomo che ha fatto della sua professione di wedding planner una missione, che organizza e pianifica, che sa gestire i suoi uomini, che sa mettere ordine nel caos più supremo, che per ogni problema sa trovare la giusta risoluzione… Più o meno: perché quella giornata sarà molto ma molto lunga, ricca di sorpresa e di colpi di scena. Ma soprattutto di enormi, fragorose risate! Durata 115 minuti. (Romano sala 2)

 

Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi troppo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero, in corsa verso l’Oscar con quattro candidature. La sceneggiatura è firmata da James Ivory dal romanzo di André Aciman. Chissà come risponderà il pubblico italiano? Durata130 minuti. (Massimo sala 2 (V.O.), Nazionale sala 2)

 

Cinquanta sfumature di rosso – Drammatico. Regia di James Foley, con Dakota Johnson e Jamie Dornan. Si cambia colore (ed è la terza e ultima volta), impaginazione dello stesso regista di “Cinquanta sfumature di nero”. L’ultimo dei romanzi di E.L. James in versione “oggi sposi”, con cerimonia nuziale, bella casa e viaggio di nozze in Europa, con qualche addolcimento per quel che riguarda la “padronanza” del bel tenebroso Christian verso la bella Anastasia, comunque – gli appassionati non disperino – nei dintorni del “bondage soft”. Uscendo un po’ di più dalla camera da letto e imboccando la via del thrilling, rapimenti e inseguimenti in auto si ricollegano ad un passato di gente che non molla, dall’ex datore di lavoro dell’ormai sposina fresca fresca alla Elena della sempre appetitosa e combattiva Kim Basinger, ancora una volta pronta a riconquistarsi il ragazzone che lei stessa ha avviato alle pratiche amorose tutte frustini in bella vista. Durata 104 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Coco – Animazione. Regia di Lee Unkrich e Adrian Molina. Fa parte di una famiglia che certo non stravede per la musica il piccolo Miguel e lui non ha altro sogno che diventare chitarrista. Questo il preambolo; e a dire quanto la Pixar guardi allo stesso tempo ad un pubblico di bambini (ma, per carità, senza nessun incubo) e di adulti, ecco che Miguel si ritrova catapultato nel Regno dei Morti a rendere omaggio ai tanti parenti che non sono più attorno a lui. Durata 125 minuti. (Ideal)

 

Corpo e anima – Drammatico. Regia di Ildiko Enyedi, con Alexandra Borbély e Géza Morcsànyi. Un film dove si mescolano realtà e sogno, immerso nella cruda realtà quotidiana (pur con qualche momento d’ironia) ancora più acida se si pensa all’ambientazione in un mattatoio. Una coppia “lontana”, lui direttore di quel luogo, lei addetta al controllo qualità, introversi entrambi, chiusa nelle proprie solitudini, scoprono di condividere ogni notte lo stesso sogno, essere una coppia di cervi in un bosco invernale. Orso d’oro all’ultima Berlinale, “Corpo e anima” è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani: “Un film capace di tracciare il racconto della storia d’amore che unisce due solitudini, sospendendolo con lucidità visiva tra la materialità della vita reale e l’impalpabile spiritualità del sentimento”. Durata 116 minuti. (Classico)

 

Ella & John – The Leisure Seeker – Drammatico. Regia di Paolo Virzì, con Donald Sutherland e Helen Mirren. Tratto dal romanzo americano di Michael Zadoorian, con alcune varianti apportate dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista in compagnia di Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e Stephen Amidon (a lui già Virzì si rivolse per “Il capitale umano”), è la storia della coppia del titolo, svanito e smemorato ma forte John, fragile ma lucidissima Ella, è il racconto del loro viaggio, dai grattacieli di Boston ai climi di Key West, lungo la Old Route 1, anche per rivisitare con la (poca e povera) memoria il vecchio Hemingway – John è stato un professore di letteratura di successo che ha coltivato con passione lo scrittore del “Vecchio e il mare” -, un viaggio che ha la forma di una conclusiva ribellione ad una famiglia e soprattutto a un destino che ha riservato per lei il cancro all’ultimo stadio e a lui l’abisso dell’Alzheimer. Momenti di felicità e anche di paura in un’America che sembrano non riconoscere più, una storia attuale e un tuffo nella nostalgia (quella che guarda agli anni Settanta), a bordo del loro vecchio camper, mentre corpo e mente se ne vanno. Un’occasione, per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni fino all’ultimo istante. Un film di emozioni per coppie vecchio stampo, due formidabili interpretazioni, due doppiaggi – Ludovica Modugno e Giannini – da ascoltare con attenzione: ma a me è sembrato di essere lontano anni luce dalla stratosferica follia e umanità della “Pazza gioia”. Durata 112 minuti. (Romano sala 3)

 

Final portrait – L’arte di essere amici – Drammatico. Regia di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush e Armie Hammer. Quinta prova dietro la macchina da presa (Big night, uno per tutti i titoli) di uno dei migliori caratteristi hollywoodiani (ricordiamo soltanto Il diavolo veste Prada e Shall we dance?), questa volta per raccontare l’incontro e l’amicizia (era il 1964) dell’artista Alberto Giacometti con il giovane scrittore e appassionato d’arte James Lord. L’invito dello scultore, il sì con la certezza che si tratterà di poche sedute: sarà l’inizio di un lungo percorso, l’attraversare da parte del ragazzo il mondo di insicurezze e frustrazioni dell’artista, delle sue fragilità e della sensibilità come della sua grandezza artistica. Partecipazione all’ultimo TFF, un eccezionale ritratto nell’interpretazione di Rush (Shine, La migliore offerta di Tornatore), con una precisa immedesimazione, con il suo calarsi appieno nella creatività come nelle zone d’ombra dell’uomo. Ma qualcosa non funziona, dal momento che la storia e la regia si fanno grigie come il colore che predomina nello studio dell’artista, tutto gira noiosamente su se stesso senza sprazzi e senza invenzioni, Hammer è un bel posacenere ben lontano dal film di Guadagnino: e per tutta la durata del film allo spettatore finisce col non importargli nulla delle stesure di colore e dei ripensamenti artistici di Giacometti. Durata 90 minuti. (Romano sala 1)

 

Hannah – Drammatico. Regia di Andrea Pallaoro, con Charlotte Rampling, André Wilms e Stéphanie Van Vyve. Il marito è stato arrestato per una colpa di cui non si saprà mai la natura e la vita di Hannah sembra sgretolarsi. Il figlio non vuole più avere contatti con lei, anche il nipotino segue le orme del padre. Hannah vive tra sguardi profondi e intimi silenzi, guarda al passato e si interroga su quale sarà il suo futuro. Coppa Volpi all’ultima Mostra di Venezia. Durata 95 minuti. (Centrale)

 

Jumanji – Benvenuti nella giungla – Avventura. Regia di Jake Kasdan, con Dwayne Johnson, Karen Gillan e Jack Black. Un fenomeno che ha più di vent’anni (eravamo nel 1996) e che ricordiamo ancora oggi per il personaggio, Alan Parrish, interpretato dal compianto Robin Williams, attore al culmine del successo dopo la prova in “Mrs. Doubtfire”. Hollywood non dimentica e rispolvera un passato di ottimi botteghini. Messi in punizione nella scuola che frequentano, quattro ragazzi scoprono un vecchio videogame. Una volta dato il via al gioco, essi vengono catapultati all’interno del sorprendente meccanismo, ognuno con il proprio avatar. Assumeranno altre sembianze, entreranno nell’età adulta: ma che succederebbe se la loro missione fallisse e la vita di ognuno finisse intrappolata nel videogame? Durata 119 minuti. (Uci)

 

La forma dell’acqua – The shape of water – Fantasy. Regia di Guillermo del Toro, con Sally Hawkins, Doug Jones, Octavia Spencer, Michael Stulhbarg e Michael Shannon. Leone d’oro a Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Grande, Massimo sala 1 (anche V.O.), Reposi, The Space, Uci)

 

Made in Italy – Commedia. Regia di Luciano Ligabue, con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak e Filippo Dini. L’autore di “Radiofreccia” guarda al nostro paese tra malinconia rabbia e qualche speranza con il ritratto di Riko, fortunato per quel lavoro che possiede ma che gli consente con fatica di mantenere la propria famiglia. Una moglie e un figlio e un gruppo di amici che all’occorrenza lo aiutano: ma qualcosa s’inceppa e se Riko vorrà sottrarsi ad altre sconfitte dovrà necessariamente condurre la propria vita in maniera diversa. Durata 104 minuti. (Reposi, Uci)

 

Maze Runner: la rivelazione – Fantasy. Regia di Wes Ball, con Dylan O’Brien e Aiden Gillen. Terzo appuntamento (già avevamo avuto “Il labirinto” e “La fuga”) con le avventure che già hanno coinvolto Thomas e i suoi amici. Adesso si tratta di dare l’assalto a un treno in puro stile western, di salvare a ogni istante la ragazza amata, di liberare i ragazzi che stanno per diventare le cavie di un grande laboratorio. E poi, si sa, il mondo è salvato dai ragazzini, specialmente quando a sconvolgerlo potrebbe essere un gruppo di adulti che aspira ad un pieno, feroce potere. Durata142 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è già visto per il ruolo assegnare un Globe, sta sopravanzando sugli altri papabili per quanto riguarda gli Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: gorse un altro Oscar assicurato. Durata 125 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Lux sala 3, Reposi)

 

Ore 15:17 assalto al treno – Drammatico. Regia di Clint Eastwood, con Spencer Stone, Alek Skarlatos e Anthony Sadler. Era il 21 agosto 2015 quando il mondo ricevette la notizia di un attentato, ad opera di un terrorista islamico, sventato sul treno che proveniva da Amsterdam ed era diretto a Parigi da tre ragazzoni californiani che già s’erano fatte le ossa sui vari fronti di guerra. Il film è il racconto delle loro vite sino a quel momento, del loro viaggio attraverso l’Europa, del loro atto di coraggio, di quell’essere in un momento preciso coraggiosi eroi per caso. Eastwood ha voluto che sullo schermo raccontassero la loro vicenda i diretti protagonisti, con i sogni, la realtà, lo spirito d’avventura e l’amicizia della loro età. Il film è il racconto di come quel giorno hanno salvato 500 vite, i buoni contro i cattivi o le avversità, come già avevano combattuto Bradley Cooper cecchino implacabile in “American Sniper” o Tom Hanks in “Sully” ammarando sull’Hudson. Questa la storia: con l’aggravante che questa volta l’autore di “Mistic river” ha perso completamente l’asse attorno al quale costruire la vicenda, scentrando l’episodio dell’attentato (lo ha relegato dentro l’ultimo quarto d’ora) e dando eccessiva importanza (in maniera quantomai folkloristica e banale al soggiorno italiano) a quanto lo ha preceduto. Se è vero che “quandoque bonus dormitat Homerus”, ebbene questo treno è il sonno completo del grande Eastwood. Durata 94 minuti. (Massaua, Eliseo Rosso, F.lli Marx sala Chico, Ideal, Lux sala 3, Massimo sala 2 V.O., Reposi, The Space, Uci)

 

Sono tornato – Commedia. Regia di Luca Miniero, con Massimo Popolizio, Stefania Rocca e Franck Matano. I tedeschi tre anni fa proposero “Lui è tornato” riaffacciando i baffetti di un tempo sul suolo germanico. Noi veniamo in scia (molto sbiadita) e immagine che il Duce dai tratti mascolini che ha il viso di Popolizio ricompaia a piazza Vittorio, multietnica, di Roma e venga scambiato per un discreto attore che ne fa discretamente l’imitazione. Trattandosi di pura realtà, il soggetto vuole raddrizzare la molliccia Patria e riprendere le cose là dove le ha lasciate. Un inesistente regista di documentari pregusta già il successo e lo prende sotto la sua ala protettrice: e se i risultati non sono quelli sperati, oggi i social aiutano per cui la buonanima, che ha visto il proprio nome sempre più pubblicizzato, si lascia catturare dalla ferrea vicedirettrice di un’emittente, pronta a spargerlo per l’intero palinsesto. Nell’Italia arrabbiata e indecisa di oggi lo share può salire alle stelle. Ci voleva tutt’altro approccio, altra regia e soprattutto una sceneggiatura che si potesse definire tale. È l’ennesimo esempio dell’insicurezza (o se volete, della pochezza, faciloneria, dabbenaggine, pressapochismo) di certo nostro cinema. Ed è chiara sempre più la rarefazione di quelli che un tempo (per carità, non è che dell’oggi si debba fare tabula rasa!) sapevano mettersi a tavolino e scrivere una vera storia. Con tutta l’intelligenza che serviva. E che servirebbe ancora. Durata 100 minuti. (The Space, Uci)

 

The Party – Drammatico. Regia di Sally Potter, con Timothy Spall, Kristin Scott Thomas, Emily Mortimer, Cillian Murph e Bruno Ganz.    Metti una sera a cena, una tavolata di amici, ambiente di sinistra, di quelli ci diciamo tutto in faccia e ancora di più, noi siamo per la schiettezza a qualunque costo, con una padrona di casa (siamo a Londra) che è appena stata nominata ministro ombra della sanità, un marito che sta a guardare e che fatto di tutto per appoggiare la carriera della moglie, anche a scapito della sua, due lesbiche che aspettano un figlio e altro ancora. Uno stile, l’amicizia, la cordialità. l’ideologia, che cosa rimarrà in piedi dopo che il paziente consorte avrà buttato lì sul tavolo un paio di rivelazione che porteranno lo sconquasso tra gli ospiti? Un po’ dalle parti di “Chi ha paura di Virginia Woolf”, un po’ “Carnage”, un po’ anche del nostro Paolo Genovese con il suo “Perfetti sconosciuti”. Durata 71 minuti. (Nazionale sala 1)

 

The Post – Drammatico. Regia di Steven Spielberg, con Meryl Streep e Tom Hanks. Ancora l’America descritta da Spielberg con gran senso dello spettacolo, segue candidatura a due Oscar, miglior film e migliore attrice protagonista. L’argomento è ormai noto, il New York Times aveva tra le mani nel 1971 un bel pacco di documenti comprovanti con estremo imbarazzo la cattiva politica di ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth; con questo ultimo ritratto Meryl Streep si conquista la sua ventunesima nomination agli Oscar. Riuscirà la fantastica Frances McDormand di “Tre manifesti” a sbarrarle la strada? Durata 118 minuti. (Ambrosio sala 3, Centrale V.O., Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 2, The Space, Uci)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Da parte di molti “Tre manifesti” è già stato giudicato come il miglior film dell’anno, i quattro recenti Golden Globe spianano la strada verso gli Oscar. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 3, Eliseo Rosso, Greenwich sala 2)

 

L’ultima discesa – Drammatico. Regia di Scott Waugh, con Josh Hartnett e Mira Sorvino. La storia vera del campione olimpionico di hockey Eric LaMarque, il suo ritiro in montagna per spegnere il dolore dall’aver procurato un incidente automobilistico, il pericolo di una tempesta di neve che lo travolge. Nessuno sa dove lui si trovi, sarà necessario tutto il suo coraggio (e l’intuito di una madre quando le squadre di salvataggio hanno già abbandonato ogni ricerca) per tornare alla vita. Durata 98 minuti. (The Space)

 

L’uomo sul treno – Azione. Regia di Jaume Collet-Serra, con Liam Neeson, Vera Farmiga e Dean-Charles Chapman. Sul treno di pendolari che prende regolarmente da dieci anni, l’assicuratore Mc Cauley è avvicinato da una bella donna, una psicologa, che gli promette una bella quantità di soldi se lui vorrà fare con lei un gioco: su quel treno viaggia un tale che non ha proprio le caratteristiche di un normale pendolare, a lui scoprire di chi si tratta. Come nelle storie del maestro Hitchcock, l’uomo entrerà negli ingranaggi di un gioco più grande di lui, se volesse sottrarsene ne andrebbe della sua famiglia. Durata 105 minuti. (Massaua, The Space, Uci)

 

Il vegetale – Commedia. Regia di Gennaro Nunziante, con Fabio Rovazzi, Luca Zingaretti e Ninni Bruschetta. Fabio è laureato in scienze della comunicazione e all’improvviso si ritrova a gestire la società paterna, cresciuta a suon di malaffare. Lui è forte della propria onestà, lascia Milano e se ne va al sud, in cerca d’aria nuova: finirà a raccogliere frutta agli ordini di un caporale di colore, unico bianco in mezzo a cento immigrati. Dovrà tenere a bada una sorellina pestifera che per lui non ha nessuna considerazione, ma in compenso troverà anche una maestrina dal cuore tenero. Durata 90 minuti. (Uci)

 

 

I 40 anni della Legge Basaglia alla “Lavanderia”

Dal ricordo di Alda Merini il 16 febbraio alla straordinaria Giulia Lazzarini il 6 aprile: tanti gli appuntamenti per ricordare il quarantennale della Legge Basaglia alla Lavanderia a Vapore di Collegno

Nel 2018 si festeggiano i 40 anni dalla promulgazione della Legge Basaglia: la Fondazione Piemonte dal Vivo e la Città di Collegno propongono, in occasione di questo anniversario, un calendario di iniziative teatrali, musicali, espositive per alimentare il dibattito intorno al tema della malattia mentale, della tutela dei diritti, dell’inclusione, dell’accoglienza, del rispetto della dignità della persona.  Sono trascorsi oltre 160 anni dall’istituzione del Manicomio di Collegno (1853) e 41 dal primo atto concreto che ne decretò il superamento. Infatti nel 1977, anticipando di un anno la legge Basaglia, l’Amministrazione Comunale di Collegno fece abbattere un lungo tratto del muro di cinta che circondava il Manicomio, un atto coraggioso che permise a migliaia di cittadini di entrare per la prima volta in quel luogo dove era stata allestita la mostra dal titolo “Collegno, proposte e documenti” che nel sottotitolo aveva la spiegazione di quell’atto dirompente: “… per un nuovo rapporto tra istituzione psichiatrica e città …”. Negli anni successivi, si completò l’opera di demolizione del muro e quel luogo di coercizione si trasformò in un parco aperto a tutti i cittadini, in uno spazio per la cultura e lo svago, come tra l’altro anticipato in quella esposizione del 1977. All’interno della stagione 2017/2018 Together We Dance, ideata da Piemonte dal Vivo e ospitata in quella che fu la lavanderia dell’ex Ospedale Psichiatrico, un fil rouge collega alcuni spettacoli, tra danza e teatro, scelti per ricordare questo importante anniversario. Senza Filtro – Uno spettacolo per Alda Merini (16 febbraio), di Fabrizio Visconti e con la coautrice Rossella Rapisarda, è una passeggiata lungo ai Navigli insieme alla poetessa, per entrare nella sua vita senza filtri, fatta di troppo amore fino alla follia; La Storia di Marco Cavallo (7 marzo, Teatro Le Selve, appuntamento per le scuole con MediaDance) di e con Franco Acquaviva, è un racconto a più voci, tra le quali quelle di Franco Basaglia e dei suoi contemporanei, della prima esperienza di animazione teatrale condotta dentro a un manicomio, a Trieste nel 1973, che cambierà il modo di vedere il teatro e la cura. Nessuno sa di noi (21 marzo, Teatro La Ribalta) è una danza d’amore, un duetto emozionante, un incontro profondo tra la danzatrice del Wuppertal Tanztheater Julie Anne Stanzak e il performer Mattia Peretto dell’Accademia Arte della Diversità, un ragazzo affetto da Sindrome di down, di cui il regista Antonio Viganò racconta la fragilità. Infine con la straordinaria Giulia Lazzarini si potrà rivivere, attraverso lo sguardo di un’infermiera, la vita in manicomio prima e dopo la rivoluzione di Basaglia, in Muri, per la regia di Renato Sarti (6 aprile, Teatro della Cooperativa). Questi due spettacoli sono preceduti il 19 marzo da un incontro a tema al Polo del ‘900 di Torino con Peppe Dell’Acqua, Giuliano Scabia, Renato Sarti e Massimo Cirri. Tra gli altri appuntamenti: esposizione fotografica di Gianni Berengo Gardin, spettacolo – concerto di Simone Cristicchi, una mostra realizzata dalla Società Tedesca di Psichiatria, concerti e altri incontri. Il calendario completo ideato dal Comune di Collegno, con iniziative fino a giugno 2018, è disponibile sul sito della Città di Collegno.

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La Lavanderia a Vapore di Collegno, dal 2015 in concessione decennale alla Fondazione Piemonte dal Vivo, è oggi il centro regionale per la danza in Piemonte. Oggi il centro è riconosciuto a livello nazionale e internazionale, grazie a una innovativa politica di gestione che punta al rinnovamento dei processi creativi e al confronto artistico, seguendo il modello dei centri coreografici europei. La Fondazione Piemonte dal Vivo ha creato un Raggruppamento Temporaneo di Organismi (RTO), coinvolgendo nella governance i principali soggetti territoriali di promozione della danza: Fondazione Piemonte dal Vivo, con il Teatro Stabile di Torino/Torinodanza festival, Teatro Piemonte Europa, Associazione Mosaico Danza e Associazione COORPI. Il progetto è realizzato con la collaborazione di MiBACT, Regione Piemonte, Città di Collegno e con il sostegno della Compagnia San Paolo.

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Rassegna “Quello che tutti chiamavano manicomio

 

16 febbraio 2018 ore 21.00

Together we dance/PdV

SENZA FILTRO – UNO SPETTACOLO PER ALDA MERINI

di Fabrizio Visconti, Rossella Rapisarda

con Rossella Rapisarda

musiche originali dal vivo Marco Pagani

un progetto La Gare

Eccentrici Dadarò

con il sostegno di Regione Lombardia Progetto NEXT 2012

 

Andiamo a trovarla Alda. Ancora. Oltre il flusso della sua poesia. E allora troviamo il Naviglio, le bevute al Bar Charlie, il risuonare liquido della sua risata e dei tasti che premono come una corrente sulla macchina da scrivere. Il fumo è una scia che ci lascia impressa Rosella Rapisarda, nell’istantanea di Alda Merini che ritrae. In una vita senza filtro, che non si protegge dalla vita stessa e dall’amore “perché troppo amore ti cambia, ti rende diverso, ti rende pericoloso. . . e allora meglio rinchiuderli quelli così, meglio rinchiuderli dentro una casa, dentro un ruolo, dentro una corsia di manicomio, dentro un bar.”

Uno spettacolo che è un invito a frugare tra e “dietro le pagine” di una straordinaria poetessa.

[60’]

7 marzo 2018 ore 10.30

Media Dance/PdV

LA STORIA DI MARCO CAVALLO

di e con Franco Acquaviva

aiuto regia Anna Olivero

con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal Vivo-Circuito Regionale Multidisciplinare, comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo

Teatro delle Selve

Il racconto a più voci della prima esperienza di animazione teatrale condotta dentro a un manicomio, a Trieste, nel 1973. Esperienza che aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare “il modo di essere del teatro e della cura”. È il racconto di un ‘epopea collettiva che vede protagonisti, in anni che ora ci appaiono mitici, le visioni di Franco Basaglia, di Giuliano Scabia e del gruppo di artisti e operatori che, per primi, provarono a “sfondare” il Muro dell’ospedale psichiatrico.

Lo spettacolo nasce dal testo omonimo ed è un’elaborazione per attore solo del denso tessuto di voci che dialogano e monologano nel corso della vicenda. Un teatro affidato alla fisicità di Franco Acquaviva, al ritmo del dialogo, alla caratterizzazione sintetica dei personaggi della vicenda e alla forza intrinseca della storia narrata.

[60’]

19 marzo 2018 ore 17 Polo del ‘900 Torino

A quarant’anni dalla caduta del muro di Collegno e della legge Basaglia

incontro con Peppe Dell’Acqua, Giuliano Scabia, Renato Sarti e Massimo Cirri

 

 

21 marzo 2018 ore 21.00

Together we dance/PdV

IL BALLO

testo e regia di Antonio Viganò

con Michele Fiocchi, Vasco Mirandola, Evi Unterthiner, Michael Untertrifaller, Rodrigo Scaggiante, Maria Magdolna Johannes, Daniele Bonino, Matteo Celiento, Mirenia Lonardi, Rocco Ventura, Jason De Majo, Mattia Peretto coreografie di Julie Anne Stanzak

Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt con la collaborazione di: Lebenshilfe Bolzano, Residenze artistiche Olinda – Festival Da vicino nessuno è normale” Milano

 

Il ballo è il manifesto poetico della compagnia Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt, un progetto che indaga sul senso di questa sua appartenenza al teatro: e lo fa con una nuova creazione che coinvolge sulla scena, per la prima volta, tutti gli attori e le attrici della compagnia e i tanti artisti esterni, come la danzatrice Julie Anne Stanzak che ha curato le coreografie.

“Il ballo” è uno spettacolo di teatro – danza dove i personaggi, prigionieri in una stanza – metafora del mondo – cercano di dare un senso alla propria vita, a questa “pupazzata” o “pantomima” che sono le vite desertiche e vuote. Prigionieri delle proprie abitudini e convenzioni sociali, di uno spazio fisico e mentale, lottano per non soccombere alle regole e alle logiche a loro imposte. Prigionieri non solo di quello spazio fisico ma anche dello sguardo che gli “altri” gli rimandano, cercano una via di fuga, un modo per ritrovare una propria soggettività, una propria storia, intima ed esclusiva. La loro lotta è un elogio alla vulnerabilità umana, un canto alla possibilità di esistere e farsi bellezza e stupore.

[60’]

6 aprile 2018 ore 21.00

Together we dance/PdV

MURI

testo e regia Renato Sarti

con Giulia Lazzarini

musiche Carlo Boccadoro

con il sostegno di Regione Lombardia/Progetto Next 2010 e della Provincia di Trieste

Teatro della Cooperativa

Un racconto di grande intensità sulla vita in manicomio prima e dopo la rivoluzione voluta da Franco Basaglia. Un riaffermare con forza attraverso lo sguardo di un’infermiera, le enormi conquiste di carattere sociale, affinché le lancette della storia non riportino indietro.

“Trieste, 1972. Tra gli utenti c’era Brunetta, una ragazza lobotomizzata, che aveva marchiata sul volto tutta la violenza di cui le istituzioni sono capaci: pochi denti, occhi infossati, cicatrici sulla testa. Ciondolava in avanti, tenendo le braccia a penzoloni, e si esprimeva a mugugni. Spesso si sedeva con noi alla ricerca di una sola cosa: l’affetto, che per anni le era stato negato, e ricambiava ogni nostra attenzione aprendosi in un sorriso che, nonostante fosse sdentato, era meraviglioso. Nel ’74 mi sono trasferito a Milano. Brunetta non c’è più da parecchi anni, ma i suoi sguardi e la sua storia fanno indelebilmente parte della mia.”

Renato Sarti

 

[60’]

 

Lavanderia a Vapore – Corso Pastrengo 51, Collegno (To)

Tel. 011/4322902 – biglietteria@piemontedalvivo.it www.piemontedalvivo.it

Facebook: LavanderiaaVapore Vieni alla Lavanderia con la navetta!

Una navetta gratuita è disponibile a partire da 45 minuti prima dell’inizio dello spettacolo alla fermata Fermi della metropolitana di Torino. La navetta effettua più corse verso la Lavanderia fino all’inizio dello spettacolo. Il servizio è garantito anche per il rientro al termine dello spettacolo. Non è necessario prenotare.

Baby sitter a teatro

È attivo un servizio gratuito di baby sitter a teatro per bambini a partire dai 3 anni, con prenotazione obbligatoria entro le ore 15.00 del giorno di spettacolo (inserito nell’ambito della stagione Together we dance). Le prenotazioni vanno effettuate alla mail lavanderia@piemontedalvivo.it o al numero 011.4320786, segnalando nome, cognome e numero di telefono del genitore e nome ed età del bambino.

Il servizio si attiverà con un minimo di 5 bambini e inizierà 15 minuti prima dell’inizio dello spettacolo.

“Baby sitter alla Lavanderia a Vapore” è un progetto di Fondazione Piemonte dal Vivo con la collaborazione di Cooperativa Atypica e Le Microtane.

 

Dal “bel Danubio blu” al jazz sui Navigli

Il racconto di Marco Travaglini

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Appoggiato alla balaustra seguiva il lento scorrere del Danubio sotto il ponte di Catene. Dalla collina di Buda lo sguardo poteva perdersi fin oltre Pest, dove l’orizzonte coincideva con la grande pianura ungherese. Il cielo plumbeo minacciava di scaricare da un momento all’altro tutta la pioggia che gonfiava le nuvole. Era già stato una infinità di volte, a Budapest. Quando aveva voglia di star solo andava lì. Come d’abitudine aveva preso una camera all’ Hotel Parlament , nel V° distretto di Budapest, nel cuore della città, all’angolo delle vie Kálmán Imre e Vadász, a pochi passi dal Parlamento. Da lì, in poco tempo, poteva raggiungere il piazzale degli Eroi o la piazza Petofì, passeggiando. Gli capitava spesso di restare, pensieroso, davanti al monumento delle vittime della rivoluzione del 1956, a fianco dell’imponente  Parlamento, classico esempio di architettura neogotica dell’800. Era ormai da un mese nella capitale magiara. Amava questa città divisa dal “bel Danubio blu” e unita dai sei ponti che attraversavano il grande fiume  da una riva all’altra. Li aveva percorsi tante volte, a piedi e in auto. Gli capitava di ricordarne i nomi  a memoria, come in uno scioglilingua. Il Ponte Árpád, a nord dell’isola Margherita, lungo quasi due chilometri, e il Ponte Margherita, costruito tra il 1872 e il 1876 allo scopo di collegare l’isola che portava lo stesso nome con le circonvallazioni Santo Stefano a Pest e Margit a Buda. E poi il preferito, lo Széchenyi Lánchíd, il Ponte di Catene. Era stato il primo ponte stabile di collegamento tra Buda e Pest, costruito nel 1849 secondo i progetti dell’ingegnere inglese Clark, che fece importare dall’Inghilterra anche il ferro.  Non dimenticava certo i  ponti Elisabetta , Petofi  e  – per finire – il Ferenc József híd, il Ponte Francesco Giuseppe, che nel 1896 – in occasione del Millennio dell’Ungheria e dell’inaugurazione – piantò con tutta l’energia che aveva in corpo l’ultimo chiodo d’argento sul ponte. Quante volte gli era capitato di guardare in direzione dei due punti più alti di questo ponte lungo più di trecento metri, dove erano  stati collocati quattro “turul”, le mitologiche aquile nere ungheresi? Tante, mai troppe. Amava l’aria fumosa e calda dei caffè di Budapest, dov’era  custodita gelosamente la tradizione mitteleuropea, dove si respirava un’atmosfera unica, tipica di città come questa o come Vienna, Praga, Trieste. Un mondo ricco di sapori e profumi diversi, uniti e fusi con il brusio delle voci in sottofondo. Quando capitava di guardare , al tramonto o con le prime luci dell’alba, l’acqua scura che passava sotto i ponti , pensava alle parole di Claudio Magris … “… Il Danubio è il fiume lungo il quale s’incontrano, s’incrociano e si mescolano genti diverse…È il fiume di Vienna, di Bratislava, di Budapest, di Belgrado, della Dacia, il nastro che attraversa e cinge , come l’Oceano cingeva il mondo greco, l’Austria asburgica, della quale il mito e l’ideologia hanno fatto il simbolo di una Koinè plurima e sovranazionale, l’impero il cui sovrano si rivolgeva “ai miei popoli” e il cui inno veniva cantato in undici lingue diverse. Il Danubio è la Mitteleuropa tedesca-magiara-slava-romanza-ebraica…”. 

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Con gli amici Imre e Sandor non si era mai tirato indietro davanti alla cucina ungherese. Ricordava le risate quando chiese per la prima volta di poter mangiare il goulash , pensando che si trattasse di uno stufato e invece si ritrovò nel piatto fondo una zuppa densa, preparata con grande maestria. Nelle vecchie cantine di Pest imparò a gustare la panna acida,  ingrediente indispensabile per gustare l’effetto piacevole e cremoso dei cibi. E poi il pollo con la paprika, gli stufati fatti in casa ,  i pesci d’acqua dolce – ricordava con un certo piacere il luccio grigliato e la trota con le mandorle – , lo straordinario fegato d’oca che – cotto al forno, grigliato, freddo o caldo- lascia sul palato un traccia indimenticabile. E il Tokaj , che bevevano nel centro storico, alla Boutique des Vins , al numero 12 di via József Attila utca. Un vino straordinario, molto amato da Luigi XIV, il Re Sole, che gli diede il titolo onorifico di “vino dei re, re di vini”. Quella mattina si svegliò di soprassalto. Aveva dormito molto male, forse a causa della cena che sentiva ancora pesargli sullo stomaco. “ Ogni volta ci ricasco. Non dovrei nemmeno guardarli i cibi grassi e speziati ma poi..”. Parlava da solo, con lo specchio che rifletteva l’immagine di un volto sofferente, un po’ scavato, con due occhiaie scure e profonde e  un filo di barda ispida. No, non andava per niente bene. Doveva rallentare gli impegni, prendere fiato. Anche le due crisi cardiache di sei mesi prima erano state archiviate troppo in fretta, senza ascoltare il campanello d’allarme che veniva dal suo corpo. “ Fermati, stai attento.. Non tirare la corda,Marco”. Era come se una vocina l’avesse messo in guardia ma lui, testardo e sordo, aveva fatto finta di nulla. Salvo poi, con quelle fitte a trafiggergli il cuore come una lama, trovarsi per strada piegato sulle ginocchia, ansimante. E solo. Fortuna che quel tassista aveva visto la scena e non si era intimorito nel soccorrere uno sconosciuto che stava boccheggiando come un ubriaco sul ciglio della strada. E, pur salvando così la pelle, aveva continuato a fare di testa sua, a correre su e giù per l’Europa. Quella vita sregolata era stata la causa della separazione da Akiko Okada, la donna con cui era stato sposato per quasi otto anni. Bella, intelligente,  l’aveva conosciuta a Ginevra dove lavorava come interprete al consolato del paese del Sol Levante. Era rimasto come fulminato da lei e nel giro di poche settimane, avevano deciso di mettersi insieme. Per un paio d’anni le cose andarono benissimo poi il rapporto si sfilacciò sempre di più, fino ad esaurirsi del tutto. Da allora, per scelta, aveva evitato accuratamente di impegnarsi seriamente sul piano sentimentale. Era una scelta, quasi una forma di difesa, per se stesso e per chi – eventualmente – gli stava vicino. Così, a poco a poco, era diventato sempre più umorale, scostante e solitario. Guardò l’orologio. Erano appena passate le quattro del mattino del 27 settembre. Fuori non pioveva più. Ormai sveglio, s’infilò sotto la doccia e in poco  di mezz’ora era già nella hall dove, dalla reception, ritirò le chiavi del fuoristrada.  Erano le 11 quando, varcata la frontiera austriaca, entrò nell’area dell’aereoporto di Linz. Il volo per Milano era in programma per il pomeriggio. Nel capoluogo lombardo, all’indomani, doveva svolgere una relazione a un convegno sui confini europei, tra l’est e l’ovest. E a lui toccava la parte più complessa, raccontando la realtà dei Balcani.

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Linz era bella sotto il cielo terso del mattino. Solo uno sbuffo di nuvole pareva turbare tutto quell’azzurro che solo il cielo di fine estate sapeva offrire. L’aeroporto era affollato. Un via vai di turisti in partenza dopo l’ultimo turno di vacanza, prolungatosi fin oltre la stagione normale, complice il bel tempo che quell’anno dilatava l’estate e autorizzava a sperare in un ottobre soleggiato e mite anche in Austria. Il vecchio DC9 era già sulla pista, in attesa dei pochi passeggeri. Del resto era un volo riservato a non più di 20 persone che dovevano raggiungere l’aerostazione di Malpensa entro le 16  pomeridiane. Lanciando un ultimo sguardo ai campi coltivati con regolarità e meticolosa attenzione e alle nuvole che sfumavano l’orizzonte verso est, sospirò  trattenendo con una mano il fascio di giornali ed aggiustandosi, con l’altra, il bavero dell’impermeabile beige. Quando viaggiava all’estero, soprattutto in quella stagione e principalmente nell’area balcanica o nei paesi della mitteleuropea, amava vestirsi così, informalmente. Giacca di velluto, leggera. Pantaloni comodi e camicia non abbottonata sul collo ( niente cravatta, possibilmente). E l’immancabile impermeabile stile Humphrey Bogart che aveva acquistato  proprio a Budapest vent’anni prima. Quasi non s’accorse del volo. Appena l’aereo iniziò a rullare sulla pista s’addormentò. Gli accadeva sempre. Non aveva paura di volare, anzi, al contrario, le vibrazioni dell’aereo gli conciliavano il sonno. Era una specie di ninna-nanna tecnologica che lo strappava via dalla realtà, catapultandolo nel mondo dei sogni. E di solito era la voce un po’ citofonata dell’assistente di volo che annunciava l’atterraggio a ridestarlo. E così fu anche questa volta. A Malpensa prese  un taxi (niente auto blu e autisti: lo infastidivano) e dalla borsa sfilò la cartellina del convegno, sulla quale spiccava – in rosso – il titolo: “L’abbattimento dei confini europei”.  “Strano titolo”, pensò. “Caro onorevole Travas – disse a se stesso, rimuginando – Più che abbatterli, i confini, stanno costruendone di nuovi. Non ci saranno più le barriere delle dogane ma restano alti i muri nelle teste e quelli sono i più duri da sbatter giù”. E qualcuno pensava nuovamente al filo spinato, ai cavalli di frisia, ai muri di cemento armato per bloccare migranti e stranieri. Quando gli capitava di pensare ai suoi impegni si scopriva a parlare da solo, l’onorevole Marco Travas. Un titolo che non amava ostentare, innervosendolo. Sessantenne quasi calvo, alto e piuttosto massiccio, era stato eletto al parlamento europeo nel cartello progressista dopo aver passato più di vent’anni ad impegnarsi nelle battaglie civili. Era stato il rifiuto della guerra e della violenza  a spingerlo verso un impegno più diretto. Prima come giornalista, inviato di un noto giornale nei paesi del nord Africa che si affacciavano sul Mediterraneo e poi, freelance nei Balcani durante la guerra. Era stato a Tuzla, Mostar, Srebrenica, Sarajevo. Quegli anni erano stati decisivi per compiere il passo decisivo verso l’impegno a tempo pieno. Toccò anche a lui, giornalista senza padroni, girare lungo i confini della Bosnia  sentendosi soffocato dall´impotenza. Da allora, fino all’elezione al parlamento europeo, non aveva smesso di darsi da fare. Per questo, quando l’avevano contattato per il convegno a Milano, non aveva esitato a dire di sì. La sala del convegno era al  31° ed ultimo piano del “Pirellone”, in piazza Duca d’Aosta, a pochi passi dalla stazione Centrale. Lì, in cima al più alto grattacielo d’Italia , si sarebbero confrontati i diversi relatori. Arrivò, come sempre, con largo anticipo dopo aver telefonato e concordato gli ultimi dettagli. Appena uscito dall’ascensore venne accolto dal sorriso di una bella ragazza. Rimase colpito subito dai suoi occhi neri, lucenti. E balbettò quasi il suo nome rispondendo al saluto di quella voce calda, profonda. “ Buongiorno, sono Carla. Posso esserle utile?”. “Buongiorno, sono l’onorevole Travas… Marco Travas. Sono qui per il convegno sulle frontiere europee”. “Prego, mi segua. E’ uno dei primi ad arrivare, sa?”, rispose sorridente la ragazza. Mentre gli faceva strada non potè evitare al suo sguardo di inquadrare la figura della ragazza che lo precedeva. Capelli lunghi con meches bionde, flessuosa, non tanto alta ma con un portamento deciso. Eh, quante volte si era rimproverato per quel suo modo di guardare. Ma, nonostante tutto, non riusciva a farne a meno. In poco tempo la sala si riempì e il moderatore – un vecchio amico, professore universitario e redattore di “Limes”, una delle più autorevoli riviste di geopolitica – esaurite le presentazioni, aprì il confronto che ( interrotto qua e là da qualche applauso, senza che l’attenzione scemasse ) si protrasse per circa due ore e mezza. Per tutto il tempo, non riuscì a fare a meno di incrociare lo sguardo della ragazza che l’aveva accolto sorridendo. E lei, Carla, seduta ai margini della terza fila, non aveva distolto un istante lo sguardo su di lui. Quel volto, quegli occhi  erano una vera calamita, tant’é che – a un certo punto – mentre parlava delle ultime elezioni in Bosnia e delle differenze tra le tre realtà che componevano il mosaico della terra bosniaco erzegovese – perse il filo. Persino l’amico professore, che era tutt’altro che uno sprovveduto in quanto ad affari di cuore, se ne accorse e, terminato il dibattito , esaurite le strette di mano, gli sussurrò in un orecchio ..“l’ho notata,sai, la bella ragazza che ti ha mandato in tilt..”. Arrossì come un adolescente l’onorevole, cosa che non gli accadeva da molto, troppo tempo. Mentre il pubblico lasciava la sala, ormai semivuota, si avvicinò a Carla e , dopo aver commentato l’incontro, chiedendogli le sue impressioni, prese coraggio e le chiese se avrebbe avuto piacere ad accompagnarlo nella zona dei Navigli. “Non vorrei disturbarla, Carla. Ma è tantissimo che non vado più in quella che ritengo sia , insieme a Brera, la Milano che vale più la pena di visitare. E poi, se ci si può andare con una bella ragazza come lei, la cosa è ancora più piacevole”. “Sono lusingata, onorevole. E accetto volentieri l’invito”, rispose Carla, con prontezza ma senza sfacciataggine. Lui, tradendo un filo d’emozione, aggiunse: “Sono contento ma, per favore, non mi chiami onorevole. Mi sa tanto di formale. Mi chiami pure Marco, se non le dispiace”. “ Per me va benissimo, Marco. Con grande piacere”, ribatté Carla con voce cristallina. Il suono delle sue parole, pensò Travas, gli ricordava il tintinnare dei calici di Boemia.

***

E così, chiamato un taxi, raggiunsero la zona dei Navigli, nel cuore della vecchia Milano di Porta Ticinese. Dopo pochi passi, uno al fianco dell’altra, svoltarono in via Ludovico il Moro,  alla  Cà Bianca – Corte dei Navigli.  Era quello che, nella Milano un po’bohémien  di un tempo, veniva chiamato il “Capolinea”, indimenticabile covo del jazz italiano dove avevano suonato i più famosi artisti italiani e stranieri. Quel luogo aveva poi ispirato l’apertura del Ca’ Bianca. E lì, oltre alla vecchia cucina tradizionale di rito meneghino, trovava ancora dimora il jazz d’autore, riproducendo l’atmosfera del vecchio club, cercando di ricreare quell’ambiente che aveva visto sul proprio palco i virtuosismi musicali di  artisti del calibro di Chet Baker e Dizzie Gillespie. Prima di entrare, Carla gli strinse delicatamente il braccio. Marco si voltò verso di lei, incrociandone lo sguardo. Lei sorrise e anche lui fece altrettanto. Stava così bene che non riusciva a ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che si era sentito così a suo agio, in uno stato di calma che era ben diverso da quella, apparente, che doveva mostrare agli altri. Stava bene “dentro” ed era una cosa piacevolissima e,  nello stesso tempo, strana. Non era più abituato a provare emozioni che non fossero quelle in cui inciampava in giro per il mondo. Fu l’inizio di una serata molto bella. Cenarono a lume di candela, ascoltando dell’ottima musica. Brindarono all’incontro e, prima di congedarsi ( Carla doveva rientrare a casa sua, a Gallarate, e aveva lasciato  l’auto nel parcheggio sotterraneo davanti alla stazione Centrale ), gli confidò quel suo stato di leggera ebbrezza. E la ringraziò per quelle ore piacevoli che avevano trascorso insieme. L’indomani sarebbe ripartito molto presto per Strasburgo dove era prevista una seduta straordinaria del Parlamento Europeo. Lei, invece, aveva un impegno di lavoro – come hostess di sala – a un incontro promosso dall’assessorato comunale alla cultura in piazza del Duomo, per la presentazione di un progetto legato alle grandi mostre di arte moderna che avrebbero occupato gran parte del panorama della stagione culturale milanese nella primavera prossima. Lei lo strinse a se, gli posò un leggero bacio sulla guancia ed espresse il desiderio di rivederlo quando sarebbe tornato a Milano. Lui ricambiò il gesto d’affetto e confermò lo stesso desiderio. Rimase lì, con la mano alzata in un accenno di saluto, mentre la figura di lei si allontanava dietro ai vetri un po’ appannati del taxi. Raggiunse il suo albergo a piedi, camminando a lungo, e ogni tanto colpiva con il piede un piccolo sasso come faceva da ragazzo, simulando  improbabili partite di calcio. Stava bene. Si sentiva bene. Ma iniziava già a sentire la mancanza di quel sorriso, delle parole pronunciate con tono basso, di quegli occhi neri e vivaci che  l’avevano fatto sentire meno solo. Presto sarebbe tornato a Milano. Molto presto.