CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 546

L'isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità in libreria
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Piersandro Pallavicini “Nel giardino delle scrittrici nude” -Feltrinelli- euro   16,00
 
Cosa fareste se a 60 anni, improvvisamente, ereditaste inaspettatamente una vagonata di miliardi, tanto per capirci, una rendita sicura di due milioni di euro al mese? Se, come la protagonista Sara Brivio, aveste velleità letterarie e qualche sassolino da togliere dalla scarpa, magari fareste come lei. Ed ecco che in questo divertente romanzo di Pallavicini gronda l’ironia sul mondo letterario. La protagonista, infatti, come eredita la montagna di soldi che l’odiato padre si era fatto a sua insaputa inventando il Viagra e il Cialis, si toglie subito un paio di sfizi. Compra una rombante jaguar color “verdone”; ma soprattutto una magnifica casa nel centro di Milano, dove va a vivere con le sue due amiche più care, Elena e Fanny, scrittrici di nicchia e scarso successo. La villa vanta un magnifico giardino in cui le tre si godono il sole nude, leggendo, al riparo dagli sguardi del mondo esterno. Però la soddisfazione più grande per Sara è aver creato un premio letterario col suo nome che mette in palio la bellezza di 500.000 euro; concepito anche per ridicolizzare i soliti noti del jet set editoriale e far vincere, invece, gli eterni esclusi che, come lei e le sue amiche, hanno ottenuto scarsa fama e niente pecunia. Le vicende del premio si intersecano con il lussuoso stile di vita di Sara, che ora può permettersi qualsiasi capriccio. Per esempio, prenotare 3 posti in business (così sta più comoda e tranquilla) per Vienna, alloggiare nella suite deluxe (da 2100 euro a notte) dell’hotel più lussuoso, tutto per gustarsi la migliore Sacher al cioccolato della città. Dietro a questo ci sono però anche le ferite che la vita le ha inferto. Il padre scappato tanti anni prima, mentre lei era incinta e accudiva da sola la madre devastata dal cancro. Poi il disastroso matrimonio con Giorgio -velleità da scrittore ed omosessualità latente- finito con un divorzio, e il sommo dispiacere dell’unica figlia che non la vuole più vedere. Hai voglia a trovare consolazione nei soldi…. Ma nel romanzo scoppiettante, intriso di continui rimandi e citazioni c’è molto di più: personaggi curiosi, a volte estremi, meschinità e pochezza di un certo milieu letterario, e vedrete anche come andrà a finire la seconda edizione del Premio Brivio che fa concorrenza nientemeno che allo Strega. Preparatevi a divertirvi e sorridere.
 
 
Ulrich Alexander Boschwitz “Il viaggiatore” -Rizzoli-   euro 19,00
 
Questo è un romanzo sull’Olocausto, diverso da tutti gli altri, e arriva da molto lontano. Racconta, passo per passo il tentativo di fuga di Otto Silberman, un ricco ebreo che non ha saputo prevedere la catastrofe. Un po’ per ingenuità, un po’ perché non è sempre facile accorgersi delle atrocità intorno a noi, mascherate dapprima da tenui segnali, e poi deflagranti in tragedia di portata storica. La vicenda inizia dopo la drammatica Notte dei cristalli tra 9-10 novembre del 1938, in cui nel pogrom condotto dagli ufficiali del Partito Nazista e dalla Gioventù hitleriana, su ordine di Goebbels, bruciarono e vennero distrutte circa 1500 sinagoghe e case di preghiera ebraiche, migliaia di negozi, case private e cimiteri. Otto Silberman in una notte perde tutto. In casa irrompono teppisti fanatici che distruggono più possibile; la sua azienda gli viene praticamente espropriata in un attimo dall’avido socio ariano; la moglie fugge dal fratello, altro ariano che vigliaccamente negherà ospitalità a Otto. Il romanzo accenna a lager, treni della morte, filo spinato e sterminio; ma lo fa da lontano, inquadrandoli come eventualità remote a cui il protagonista un po’ crede e un po’ non ritiene umanamente possibile. Silberman ha messo in salvo e porta con sé solo una ventiquattrore con ciò che resta del suo patrimonio: 41.000 marchi che potrebbero tornargli utili se riuscisse a passare il confine. Dalla sua ha l’unica fortuna di avere i tratti somatici di un ariano, ma il passaporto denuncia la sua appartenenza alla razza ebraica, da sterminare. Non vi dico di più della sua odissea da un treno all’altro….fino all’epilogo. Ma chi era e che destino ha avuto l’autore? Ulrich Alexander Boschwitz aveva appena 23 anni quando scrisse in poche settimane “Il viaggiatore”. Ne aveva 27 quando morì in una traversata dell’Atlantico su una nave inglese che fu silurata dai tedeschi al largo delle Azzorre. Era nato a Berlino nel 1915, figlio di un commerciante ebreo convertitosi al cristianesimo e morto durante la 1° Guerra Mondiale; mentre la madre apparteneva ad una ricca famiglia di Lubecca. Scappato dalla Germania in seguito alla promulgazione delle leggi razziali nel 1935, ebbe vita breve e difficile. Fu esule in Svezia, Norvegia, Francia e Inghilterra, da dove fu espulso in quanto tedesco e nonostante le radici ebraiche, infine venne deportato in Australia. Nel 1942 si imbarcò su una nave di profughi che rientravano in Europa e lì la sua giovane vita finì negli abissi. Il suo libro rimase chiuso per 80 anni negli Archivi della Biblioteca Nazionale di Francoforte e dobbiamo la sua riesumazione alla lungimiranza di un editore tedesco. Durante il rientro in nave Boschwitz aveva con sé una versione perfezionata del manoscritto, quasi un amuleto, proprio come la valigia del protagonista del romanzo anch’esso in fuga dall’odio razziale.
 
 
Kevin Powers “Un grido nelle rovine” – La nave di Teseo-   euro 19,00
 
E’ un magnifico affresco della guerra civile americana ed uno spaccato di sapore Faulkneriano dello schiavismo di metà 800 quello che Powers ci regala in “Un grido nelle rovine”.
L’autore è nato e cresciuto a Richmond in Virginia nel 1980, si è arruolato nell’esercito a 17 anni ed è stato uno dei giovani soldati inviati in Iraq tra 2004/5. Quell’esperienza gli ispirò nel 2012 il suo romanzo di esordio “Yellow birds”: un caso editoriale internazionale che si è portato a casa premi prestigiosi ed è stato finalista al “National Book Award”. Dopo l’Iraq è tornato a casa nel sud degli Stati Uniti e si è Laureato in Letteratura inglese alla Virginia Commonwealth University.
In “Un grido nelle rovine” dimostra ancora una volta di saper maneggiare la scrittura in modo sublime.   E lo fa raccontando un’altra storia di guerra e violenza, ambientata nel posto in cui è cresciuto, la Contea di Chesterfield in Virginia, all’epoca della sanguinosa guerra civile e dello schiavismo più crudele. La vicenda inizia con le voci che nel 1870 darebbero ancora per viva Emily Reid Levallois, per’altro dichiarata morta dal cancelliere della contea. E chi sarebbe? La figlia del proprietario terriero Bob Reid, cresciuta in un’epoca in cui era dato per scontato che sfruttare, punire, picchiare ed ammazzare gli schiavi fosse cosa del tutto normale. Ed ecco uno spaccato della vita nelle piantagioni dov’era lecito mozzare le dita dei piedi agli schiavi che tentavano la fuga, come accade al giovane Rawls. O si poteva essere spediti, per qualunque inezia, nella terribile Lumpkin’s Jail, la prigione di Richmond in cui erano rinchiusi gli schiavi, ed è proprio lì che finisce anche la giovane Balia, di cui Rawls era innamorato. Bob Reid è tutto sommato un padrone che non vessa più di tanto i suoi subalterni. Di tutt’altra tempra è invece il suo vicino Antony Levallois, uomo spietato, senza scrupoli, pronto a torturare e uccidere per un nonnulla. Quando Reid parte per la guerra, Levallois approfitta della sua lontananza per portargli via tutto. E’ lungimirante e sa bene che le future ricchezze arriveranno, non tanto dalla coltivazione di tabacco e cotone, ma dal progresso, per esempio, dei mezzi di trasporto, supportato da grandi capitali e industria. Il suo disegno è chiaro: usurpa la proprietà di Reid e la rade al suolo per farci passare la futura ferrovia di cui è padrone, gli porta via gli schiavi, seduce e sposa la giovane Emily che appena 12enne si lascia incantare dal suo tono protettivo e paternalistico. E’ decisamente amaro il ritorno di Reid, mutilato di un braccio e zoppo, malato più ancora nell’anima per le brutture a cui ha assistito sui campi di battaglia. Arriva e la sua vita precedente è tabula rasa: Levallois gli ha portato via tutto, figlia compresa….e cosa rimane al reduce sfigurato? La vendetta…

 
 
 

La musica elettronica di Christian Fennesz e il rock dei Negrita

Gli appuntamenti musicali della settimana

Martedì. Al Blah Blah suonano gli svedesi Liar Than Bandit. Al Jazz Club Oscar degli Statuto, presenta da solista “Sentimenti travolgenti”. Al Magazzino sul Po per il Fringe Festival,c’è La Stanza di Greta.
Mercoledì. All’Osteria Rabezzana suona il trio della cantante Elisabetta Prodon, per un tributo a Chet Baker. Al Jazz Club si esibisce il trio del batterista Manfredi Crocivera. Al Blah Blah sono di scena i metallari R.IP..
Giovedì. Al Milk suona Fabrizio Bosso con il quartetto Blue Moka. All’Astoria è di scena Verano. Al Teatro Colosseo ultima replica per la PFM con il tributo a De Andrè. All’Opificio Cucina e Bottega per “Novara Jazz”, si esibisce il duo 78 Line. Al Blah Blah suona il trio britannico Virginmarys.
Venerdì. All’Hiroshima Mon Amour si esibiscono i Sick Tamburo. Al Teatro Colosseo i Negrita festeggiano i 25 anni di attività. Al Blah Blah sono di scena i You Said Strange. Al Circolo della Musica di Rivoli, Christian Fennesz rielabora in chiave elettronica le partiture di Gustav Mahler. Al Bunker si esibisce il rapper Speranza. All’OffTopic è di scena il duo Blindur.
Sabato. Allo Spazio 211 si esibisce Alosi. Al Jazz Club suona il trio di Marco Betti. Al Teatro Colosseo arrivano i Nomadi. A El Paso suonano i Plastination , Contropotere e CCC CNC NCP. Allo Ziggy si esibiscono i Respect For Zero.
Domenica. Al Mezcal di Savigliano suonano i Black Tusk. All’OffTopic è di scena il rapper Priestess.
 

Pier Luigi Fuggetta    

Paolo Rumiz. Un filo infinito per salvare l’Europa

Giovedì 9 maggio Paolo Rumiz ha presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino il suo ultimo libro “Il filo infinito”, il racconto di un viaggio tra i monasteri benedettini che porta lo scrittore triestino a contatto con la storia di uomini straordinari che hanno rifondato l’Europa in un momento di grave crisi, ricostruendo un continente lacerato dalla caduta dell’impero romano. Il “Viaggio alle radici dell’Europa” nasce quasi per caso, due anni fa, durante un altro viaggio, quello nei territori feriti e martoriati dal terremoto. Rumiz, giunto a Norcia, entra nella piazza principale e si trova di fronte ad uno spettacolo che lo colpisce: le due chiese sono crollate e distrutte, ma è rimasta intatta la statua di San Benedetto, patrono d’Europa. Nella notte lo scrittore cerca informazioni su un santo che non conosce, su un uomo dell’Appennino che, con la sua regola, ha avuto la forza di rifondare un Occidente in decadenza e travolto dalle invasioni barbariche, riuscendo a convertire e a rendere sedentarie popolazioni affamate di cibo e di guerra, per nulla paragonabili ai poveretti che, oggi, cercano rifugio nei nostri territori, attratti dalla speranza di un domani migliore. L’idea di un viaggio tra i monasteri d’Europa nasce dalla necessità di un triestino, laico, magiapreti, di comprendere come, in un momento molto più difficile di quello che il nostro continente sta vivendo oggi, in anni in cui l’Europa stava attraversando un periodo estremamente buio, un gruppo di uomini sia riuscito, attraverso il lavoro, la preghiera, il silenzio, la cultura e soprattutto il cibo a ricostruire un mondo che sembrava morto, integrando popolazioni diverse e conquistandole con una Regola che è quanto mai attuale. Il percorso tra quindici monasteri collocati in sette nazioni viene scandito da susseguirsi di incontri perché quello che rende unico un viaggio non sono i luoghi che si visitano, ma le persone nelle quali ci imbattiamo durante il cammino.
 
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Tra le pagine di questo libro che diventa una ricerca di una soluzione che ci consenta di ricostruire, ancora una volta la nostra Europa, Rumiz ci accompagna a conoscere persone straordinarie come l’abate Wolf “padrone di undici lingue, amante della musica, studioso di teologia, filosofia, zoologia, chimica e astronomia, missionario in Africa, insegnante al pontificio ateneo di sant’Anselmo a Roma, autore di una trentina di libri” che si rivela un uomo di una semplicità disarmante quando confessa candidamente “siamo contadini”, sottolineando come i benedettini compiono una rivoluzione culturale quando, primi uomini liberi, prendono in mano una zappa e iniziano a lavorare la terra, creando un sistema economico. L’abate conduce Rumiz a visitare gli orti, le stalle e, infine, il cimitero tripartito: da una parte riposano i soldati della Wermacht, in un’altra gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio e nella terza i monaci che dormono sotto piccoli cumuli di terra smossa, sormontati da una croce di ferro che indica il mestiere che fecero in vita. In questo luogo di pace l’abate Wolf indica la propria tomba, già pronta, un cumulo che viene ad innaffiare ogni giorno, non un “memento mori” tragico, ma un simbolo di speranza perché i benedettini non pensano “troppo all’eterno nel senso orizzontale della durata. Immaginano l’istante in cui si siederanno al tavolo delle nozze”. Tra musica celestiale, manoscritti antichi e preziosi, incontri straordinari Rumiz giunge a comprendere che questi uomini sono stati capaci di costruire un mondo in grado di dialogare con il laico in un momento in cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo sull’Europa e sono queste le radici dalle quali dobbiamo partire. Soltanto facendo nostra e attualizzando una lezione che parla di accoglienza, di integrazione, di speranza, di lavoro, potremo salvare e rifondare questa Europa che si sta disgregando sotto i nostri occhi. Bisogna ripartire dal mito di Europa, la fanciulla che Zeus, trasformatosi in un toro bianco, rapì e portò attraverso il mare fino all’isola di Creta. Europa fu la prima migrante della storia ed è il suo destino essere punto di arrivo per i popoli, essere luogo di dialogo, di convivenza, di democrazia perché anche nei momenti più difficili “democrazia” significa speranza che anche il più debole, il più misero degli esseri umani possa vincere contro un potente.
 

Barbara Castellaro

 
 

Queen Eye: dodici artisti contemporanei raccontano il mondo delle donne

Percorrere le sale della mostra Queen Eye significa fare un vero e proprio viaggio nell’universo femminile Allestita al piano terreno del Castello di Adelaide, sede del Museo Civico della città di Susa, la mostra è nata per raccontare lo sguardo delle donne in tutte le sue molteplici declinazioni. «Regine, madri, mogli, imprenditrici, migranti — racconta il curatore, Stefano Angelo Paschero le donne sono tutto questo e molto altro: l’associazione Artemide ha deciso di dedicare loro una mostra per raccontarle attraverso gli occhi di dodici artisti contemporanei di talento, sia donne che uomini». In questo modo, lo sguardo delle donne non si limita ad essere solo quello delle artiste che espongono i loro lavori, ma anche e soprattutto quello delle protagoniste femminili delle 70 opere presenti in mostra.  Si tratta di lavori realizzati con tecniche e stili completamente diversi, aderenti alle differenti personalità degli artisti. Così, alle opere di Marco Sciarpa, estremamente pop per stile e colori ma non per questo banali, fanno da contraltare gli scatti di Enzo Gargano, fotografo attento alle relazioni umane. Presentano in mostra una serie di fotografie pure Gianni Caruso e Pamela Cirella. Quest’ultima espone anche un paio di opere su carta, «nate per fissare in un’immagine i momenti bui e i momenti belli della vita di ogni donna». Sullo stesso materiale lavora Anna Olmo, che nei suoi disegni lascia che sia la forma ad emergere liberamente: «Le donne protagoniste delle mie opere — tiene a precisare l’artista — nascono per sottrazione perché oltre al carboncino uso la gomma con cui cancello il segno per far emergere la figura». Invece, in tutte le opere di Gabriele Bosco, è la preparazione rossa della tela a emergere volutamente lungo i contorni delle figure. La presenza di animali felini rappresenta la costante dei dipinti di Matilde Negro, mentre il dialogo con la pittura metafisica costituisce la cifra distintiva delle opere di Davide Pognant Gros. Oltre alla riproduzione di un dipinto di Giorgio De Chirico, il giovane artista valsusino presenta due lavori densi di significato: «In Medusa racconto della donna che seduce l’uomo per poi abbandonarlo, mentre in Notte trasfigurata, rappresento un uomo e una donna incinta abbracciati e senza volto per riflettere sulla decadenza della condizione umana». Attraverso un’installazione e un dipinto su tela, Sara Francesca Molinari affronta il tema della violenza sulle donne, mentre Anna Branciari gioca con i colori per dare vita a poetiche immagini di fantasia. Venere Chillemi presenta in mostra alcune tele e una serie di sculture, lavori che concepisce e realizza come strumenti di ricerca e di riflessione spirituale. Infine, Rosalba Castelli racconta l’amore tra due donne attraverso un’installazione di otto dipinti su tela. Questi ultimi fanno parte di C(i)elate, un progetto artistico articolato, che prevede la realizzazione di una performance. Intitolata Chi sono le nuvole e incentrata sul concetto di identità, si terrà alle ore 18 del prossimo venerdì 17 maggio: «Proprio in occasione della Giornata mondiale contro l’omofobia — precisa il curatore Paschero — per ribadire che al Castello non facciamo distinzioni. Tutti gli esseri umani legati da un rapporto di amore e rispetto per noi danno vita a una famiglia». Proprio per la famiglia, comunque intesa, il Castello ha pensato a un pacchetto speciale: l’ingresso al museo, comprensivo della mostra, costa 6 euro, quello ridotto 3 euro, ma per due adulti e due bambini il biglietto è unico a 10 euro. Si tratta di un’iniziativa lodevole, che nasce dalla volontà di far conoscere un luogo ricco di storia: nei mesi di maggio e giugno, il Castello apre le sue porte ogni venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18. 
Giulia Amedeo

I divieti non servono a capire

Di Pier Franco Quaglieni
La scelta” tutta politica” del presidente Chiamparino e del sindaco Appendino di vietare all’ultima ora la presenza al Salone dell’editore di Salvini va rispettata perché i due interessati se ne sono assunti la piena la responsabilità. Ma essa tuttavia suscita non pochi dubbi in chi è di convincimenti liberali perché i liberali non amano i divieti e si ispirano a Voltaire che destava certe idee,ma diceva di voler lottare fino alla morte perché esse possano essere manifestate liberamente.Io,sia chiaro,non metterei mai in gioco la mia vita per difendere Casa Pound che è mille anni- luce distante dalle mie idee che si ispirano al pensiero liberal-democratico e laico.Ma, proprio perché liberale e laico, non posso condividere le decisioni dell’ultimo momento di Chiamparino ed Appendino ,affermando allo stesso tempo una condanna senza appelli per ogni forma di fascismo ,comunque camuffata. Voglio tentare di fare alcuni ragionamenti a mente fredda,sgombra da pregiudizi settari,ammesso che in questo Paese, nel clima incandescente in cui ci troviamo,sia ancora lecito farlo.Ieri su “La stampa “ e’ comparso un articolo di Waldimiro Zagrebelski, non propriamente un liberale, nel quale quasi mi identifico. La civiltà culturale e giudica europea ha sempre garantito a tutti, specie a chi è più distante,il diritto di manifestare il suo pensiero. E sempre ieri ho letto tanti articoli e prese di posizione che manifestano spirito liberale e tollerante. Forse oggi molti di quelli che hanno scritto ieri ,si trovano a disagio di fronte alle decisioni prese ieri era. Il Salone che non voleva politici, per non essere trascinato nella campagna elettorale ,e’ diventato invece oggetto di un’aspra polemica politica, come mai era accaduto in trent ‘anni.C’è’ sicuramente da rimpiangere l’equilibrio avveduto di Picchioni e Ferrero rispetto agli attuali gestori del Salone . Lo stesso notaio Giulio Biino presidente del Circolo dei lettori,copronotore del Salone ,da uomo di legge, ha sollevato dei dubbi sulla limitazione imposta al diritto di parola . Certo, dà molto fastidio che un giovane editore ,neppure trentenne ,si dichiari fascista e ritenga Mussolini il più grande statista italiano,come già disse Gianfranco Fini prima di essere folgorato sulla via di Damasco dalla tesi del “fascismo male assoluto”. Da’ fastidio non perché possa essere illecito dichiararsi tale- lo ha riconosciuto Zagrebelski che non e’ illecito dichiararsi fascista – ma perché significa che certi valori, che sembravano essersi affermati, sia pure faticosamente, una volta per sempre, sono tutt’altro che condivisi da tutti.Questo è il dato che involontariamente mette in evidenza la decisione di Chiamparino e Appendino. Se c’è gente ,sia pure poca ,che ad oltre settant’anni dalla fine ingloriosa e drammatica del fascismo,lo rimpiange ,ciò deve essere motivo per una seria ed approfondita riflessione e non per dichiarazioni di fede fini a se’ stesse, simili a vere e proprie giaculatorie laiche che non servono a salvarci dal male del fascismo. C’è da domandarsi se la presenza di fascisti in Italia sia un fatto patologico rispetto alla democrazia o non si debba invece considerare ,visto il numero molto ridotto di nostalgici ,un fatto fisiologico ad un sistema democratico, in quanto gli apologeti della violenza e della forza sono forse un elemento irriducibile in ogni umana società. Ampliando per un attimo il discorso va detto che una società formata tutta da buoni cittadini democratici resta un’utopia impossibile da realizzare: Caino ed Abele ,ad esempio,sono, purtroppo,una dura,implacabile realtà che dobbiamo condannare e combattere, pur sapendo che essa non è facilmente estirpabile dalla storia umana . Solo un sano realismo machiavelliano può preservarci da mali peggiori,evitando le utopie dell’uomo naturalmente buono di Rousseau o dell’uomo “virtuoso” di Robespierre, vittima egli stesso del terrore giacobino da lui fomentato:reminiscenze lontane, eppure incredibilmente vicine al clima infuocato del Salone del libro di Torino in cui brilla soprattutto l’evidente giacobinismo del sindaco Appendino e dei consiglieri comunali grillini che si lasciano andare a vere e proprie forme di virulenza polemica totalmente prive di qualsivoglia cultura storica.
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Chiamparino invece ha la sua storia che viene direttamente dal Pci e merita più rispetto proprio perché sempre coerente con le sue idee che non ha mai sostanzialmente cambiato nel corso dei decenni.Pensare ad un Chiamparino liberale in effetti sarebbe quasi un ossimoro. In ogni caso appare in tutta la sua vistosa vacuità chi, pur non essendo grillino, ha mandato nel 2016 con il suo voto al ballottaggio, Appendino a fare il sindaco di Torino al posto di Piero Fassino.Oggi può toccare con mano il grave errore commesso eleggendo Appendino. Palmiro Togliatti, uomo coltissimo che aveva letto e studiato Machiavelli e Marx, non credo si sarebbe messo ad urlare contro l’untorello fascista,negandogli uno spazio al Salone. Corazzato di cultura storica, egli,pur nel suo cinismo quasi assoluto, si differenzia totalmente da questa sinistra odierna , formata in larga misura da quelli che Vittoria Ronchey chiamava i “figlioli miei marxisti immaginari”, per lo più parolai sessanttotini o loro diretti eredi. Togliatti, ministro di grazia e giustizia,volle l’amnistia per partigiani e repubblichini, all’indomani del referendum istituzionale del 1946, per chiudere la pagina della guerra civile ,scontentando molti comunisti che criticarono il suo provvedimento di clemenza che copri’ veri e propri crimini,anche se non “particolarmente efferati”. A molti di quelli che hanno strillato più forte in questi giorni consiglierei una lettura di Togliatti che sarebbe loro estremamente utile per capire la complessità della storia che non divide mai la mela esattamente in due parti. Il problema è come circoscrivere e battere ogni forma di neo- fascismo risorgente nel modo più aperto e convincente senza rinunciare alle libertà di parola di chi la pensa diversamente. Il bello della democrazia e’ proprio quello di consentire ai suoi nemici di parlare,anche se Popper poneva dei limiti agli intolleranti. Uno storico autorevole come Carlo Ginzburg dovrebbe aiutarci a capire perché non tutti gli italiani sono antifascisti e ci sono invece persone che non esitano a dichiararsi fascisti. Dire di disertare il Salone per non mescolarsi con loro è una scelta in ogni caso poco utile a consentirci di capire il problema del neofascismo nell’Italia di oggi . Posso comprendere e anche condividere che la sopravvissuta novantenne di Auschwitz Halina Birembaum possa avere a ridire sulla presenza dell’editore di Salvini e rispetto la sua testimonianza come se fosse quella di Primo Levi. Ma gli altri che si sono espressi sul tema non hanno i titoli morali della Birembaum e spesso hanno peccato di eccessiva faziosità . Le frasi ad effetto-non dimentichiamolo- non risolvono i problemi e servono esclusivamente a riempire i giornali di panna montata ,perché le dichiarazioni bellicose e gladiatorie che abbiamo letto rivelano un’intelligenza corta e un grado di intolleranza molto alto. La presidente dell’ANPI che non voleva partecipare al Salone per non infettarsi avrebbe dovuto invece forse dovuto più umilmente domandarsi se anche l’ANPI non avesse commesso qualche errore, riducendo a volte l’antifascismo ad un fatto reducistico, come accadde nel secolo scorso per i Mille di Garibaldi, sopravvissuti all’impresa in Sicilia. Festeggiare il 25 aprile o premiare il sindaco di Riace  non basta a far crescere tra i giovani e i cittadini in generale una coscienza democratica che non venga imposta da qualcuno,ma nasca da una radicata e profonda convinzione personale. Non si può obbligare tutti con la forza a pensarla allo stesso modo, alla maniera dell’ANPI o di chiunque altro, a meno di cadere più, o meno volontariamente, in una sorta di mistica antifascista. La mistica, non dimentichiamolo mai, e’ quanto di più lontano ci sia dal pensiero democratico – liberale e laico. Al Salone, a scegliere i libri e a deciderne la sorte, debbono essere solo ed esclusivamente i visitatori e i lettori: nessuno, neppure i magistrati, sono autorizzati a decidere quali siano i libri buoni da ammettere e i libri cattivi da respingere. Che il presidente uscente della Regione e il Sindaco di Torino, abbiano anche presentato esposti non come singoli cittadini,ma in rappresentanza delle rispettive istituzioni appare un fatto senza precedenti. Un atto che sembra più emotivamente elettorale che ragionato. Nella Costituzione della Repubblica non c’è mai un riferimento all’antifascismo e si parla del “disciolto partito fascista” solo in una norma finale e transitoria. Questo è il merito storico dei Costituenti: aver scritto una costituzione antifascista in positivo e non in negativo. Nella sostanza e non nella forma.
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E’ un merito che già vedeva Piero Calamandrei che,pur costituente, non era così entusiasta della Costituzione,come si evince da un suo discorso all’Assemblea costituente che pochi ricordano. L’antifascismo è certamente un valore importante,ma va testimoniato con coerenza ,facendo crescere una consapevolezza democratica che deve essere acquisita volontariamente come scelta e non imposta da altri. Questo è l’elemento discriminante tra chi è liberale e chi non lo è.Sicuramente non c’è obbligo di essere liberali,ci mancherebbe altro. Ma chi è liberale non può lasciarsi intimidire e tacere perché l’esempio della tolleranza liberale vale sopratutto per le idee intollerabili. La proposta più esilarante che abbiamo letto in questi giorni e’ venuta dal Torino Pride che pretende niente meno che la firma di un codice etico per partecipare al Salone. Si tratta di una vera e propria sciocchezza perché il Salone deve essere una sorta di Pireo della cultura in cui la categoria del bene e del male non c’entra nulla.Un porto in cui ci si incontra e ci si scontra in libertà assoluta. Con idee opposte, anche diametralmente opposte, che sono il vero sale della democrazia . Solo le dittature pretendono uniformità di consensi. Gobetti diceva che le idee è meglio che siano diverse e contrastanti perché solo dal loro scontro nascono nuove idee. Gobetti era intransigentemente antifascista e pagò un prezzo altissimo per questa scelta coraggiosa a cui bisogna rendere l’onore dovuto. Ma Gobetti era anche un liberale,malgrado la sua intransigenza che portò Prezzolini a definirlo un cherubino della rivoluzione. Cantare in coro e’ l’opposto della democrazia e l’idea di andare a cantare “Bella ciao”al Salone lanciata da una assessore regionale uscente ha tutto il sapore della trovata elettorale, con tutto il rispetto dovuto alla canzone più popolare della Resistenza. Il Salone non è fatto per i coristi,ma per tanti,tantissimi solisti capaci,per usare parole di Montanelli di steccare nel coro dei conformismi. Come non ho protestato a suo tempo per la presenza al Salone di Sofri e di Curcio,come non ho protestato per la presenza dei libri del pluriomicida e terrorista Cesare Battisti ,così non mi scandalizzavo per la presenza dell’editore vicino a Casa Pound che ha pubblicato il libro-intervista di Salvini il quale, forse, non sarebbe stato neppure in grado di scrivere in proprio un suo libro. Semmai mi scandalizzo del fatto che abbiamo dei politici incolti e grossolani come Salvini che ,per altro-gli va riconosciuto-non ha neppure mai tentato di approdare al Salone,avendo capito per tempo che la cultura non è esattamente il suo forte. Semmai mi scandalizzo per il bassissimo livello degli interventi contro Salvini e la sua casa editrice. E noto che, di fatto ,nessuno si è schierato dalla sua parte. E questo deve far riflettere. Non mi scandalizzo neppure per l’assenza dell’editore vicino a Casa Pound che legittimamente è stato deciso di escludere da chi aveva il potere di farlo,scindendo un contratto che pure era stato sottoscritto altrettanto legittimamente ,come ha riconosciuto anche il direttore Lagioia. A questo punto però, altrettanto legittimamente, credo di avere il diritto di dissentire.  Con questo dissenso non si sento meno antifascista di altri. Lo sono e lo rimango, anzi proprio per questo motivo, mi permetto di dissentire perché il fascismo fu basato sui divieti. Nel campo della cultura,per dirla con il ’68 francese,per me è “vietato vietare”. Non sopporto il Sessantottismo, ma il suo essere libertario lo condivido. Credo che Marco Pannella mi avrebbe indicato questa strada: criticare con durezza gli avversari nemici della democrazia,ma garantire a tutti il diritto di parola.  Non dimentichiamo che l’intera vicenda ha dato una visibilità a questa casa editrice sconosciuta che neppure un’agenzia di pubblicità avrebbe potuto garantirle. E vietare può significare anche rendere incredibilmente attrattivo qualcosa che di per sè non lo sarebbe,anzi sarebbe disgustoso. Anatole France scrisse che, facendone un peccato,il Cristianesimo ha fatto molto per il sesso. E il sesso ha di per sé una forte, naturale attrattiva. Non vorrei che rendendolo proibito,un libro suscitasse un interesse che non merita affatto.  Trattandosi di un divieto esplicitamente politico,vedremo le conseguenze che potrà avere anche sul voto di fine maggio. Ma, forse,la maggioranza degli elettori si sarà nel frattempo scordato anche il Salone del Libro, oltre che le polemiche che ha suscitato e che lo accompagneranno. Viviamo in un Paese in cui, in fondo, la cultura interessa a pochi e una delle cause del risorgere del fascismo è proprio questa:la mancanza di un’adeguata cultura che consenta di non dimenticare cosa sono state la dittatura e la guerra per milioni di Italiani. 
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P.s. Vedo al Salone del libro delle persone che molto civilmente passeggiano in silenzio con frasi antifasciste. Questo è un modo di essere presenti che approvo totalmente perché non impedisce a nessuno di manifestare le proprie idee .

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Eugenio Bolley: il gioco dell’arte e della montagna

La storia di Eugenio Bolley è la storia di un artista anticonvenzionale e generoso che sogna in grande. Nato nel 1935 a Gap, in Francia, lavora a Torino come dirigente industriale sino al 1973, quando decide di trasferirsi a Bardonecchia. Tra le montagne della Valle di Susa adotta uno stile di vita rigoroso, scandito dai tempi della natura, dalla lettura della Bibbia e dal lavoro artistico. Bolley realizza sculture, dipinti, disegni e litografie sin dagli anni Cinquanta del Novecento. Nelle sue opere colorate, l’artista descrive il mondo che lo circonda con la fantasia e l’ingenuità proprie dei bambini.  Stupore e meraviglia rappresentano il denominatore comune degli oltre 1300 lavori che portano la sua firma. Si tratta di opere che Bolley sogna di vendere con l’obiettivo di destinare la totalità dei ricavi a iniziative di solidarietà. L’ambizioso progetto di Bolley ha incontrato il sostegno di Reale Mutua. La compagnia assicurativa ha decido di offrire all’artista l’aiuto necessario affinché il suo sogno possa completamente compiersi. Per tale ragione, dopo aver fortemente voluto la pubblicazione di un volume monografico dedicato all’artista, Reale Mutua ha deciso di organizzare una mostra.  «Reale Foundation ha proposto al Museo della Montagna di esporre le opere dell’artista — spiega il direttore generale di Reale Mutua, Luca Filippone — per compiere un ulteriore passo verso la realizzazione del sogno di Bolley». La mostra, intitolata «Eugenio Bolley: il gioco dell’arte e della montagna – opere 1950-2019», verrà inaugurata alle 18.30 di questo pomeriggio e sarà visitabile sino al prossimo 23 giugno. Nelle sale del Museo della Montagna saranno esposti circa 80 lavori dell’artista. Già nel 2006 il museo aveva dedicato alle opere di Bolley una mostra al Forte di Exilles, dimostrando di apprezzare l’attenzione dell’artista nei confronti della salvaguardia dell’ambiente e della sicurezza in montagna. «Accogliamo ora con piacere le opere di Eugenio Bolley — dichiara Daniela Berta, direttore del Museo della Montagna — e condividiamo con Reale Mutua lo scopo benefico dell’iniziativa». In effetti, al termine della mostra si terrà un’asta benefica a favore di Dynamo Camp Onlus. L’associazione gestisce l’unica struttura italiana di terapia ricreativa, nata per regalare a bambini affetti da malattie gravi o croniche momenti di divertimento, socializzazione e spensieratezza. Alla Onlus verrano consegnati i ricavi derivanti dalla vendita delle creazioni di Bolley, artista outsider dal cuore grande.  
 
Giulia Amedeo

Emilio Isgrò: i 35 libri dei Promessi Sposi ‘cancellati’

In mostra al Castello Gamba di Chatillon l’opera, fra le più emblematiche, dell’artista gran “cancellatore”
 

“I miei genitori,amici e parenti dicono di non conoscermi: quindi affermano di più la mia identità”. Parola di Emilio Isgrò. Classe ’37, origini siciliane e milanese d’adozione, Isgrò è artista (pittore, ma anche poeta, scrittore, drammaturgo e regista) fra i più rivoluzionari ed eccentrici delle cosiddette seconde Avanguardie degli anni Sessanta; anni in cui s’inventa, con profonde ragioni di causa, quel nuovo linguaggio passato alla storia come “linguaggio delle cancellature” che lo renderanno celebre a livello internazionale, aprendogli le porte di Musei fra i più prestigiosi al mondo (nel 2017, tre sue importanti opere sono state acquisite nella collezione permanente del “Centre Georges Pompidou” di Parigi), oltreché la strada a nuovi modi di intendere il “valore della parola e della comunicazione”. Ne sono un chiaro esempio “I Promessi Sposi cancellati per venticinque lettori e dieci appestati”, opera del 2016 (con chiaro riferimento all’ironia del Manzoni sul numero dei lettori che lo scrittore s’aspettava interessati alla lettura del suo romanzo) e primo appuntamento espositivo, a cura di Casa Testori, della rassegna Détails con cui il Castello Gamba – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea della Regione Autonoma Valle d’Aosta intende valorizzare il proprio patrimonio legato al Contemporaneo. Partendo quindi da “Quel che è scritto”, opera realizzata da Isgrò nel ’91 e di certo fra le più significative di quelle già custodite nel Museo valdostano, prende corpo l’attuale allestimento incentrato sulla cancellatura con inchiostro nero o tempera bianca dei 35 volumi della “Quarantana”, l’edizione definitiva del romanzo manzoniano, illustrata da Francesco Gonin e pubblicata fra il 1840 e il 1842. Cancellatura da cui Isgrò salva, con personale filosofica lungimiranza, solo alcune parole-chiave. “L’opera che si sviluppa nello spazio con la sequenza di un film – scriveva Marco Bazzini, curando la stessa mostra nell’edizione meneghina di tre anni fa – rappresenta la più attuale riscrittura del romanzo”. E ancora: “Isgrò attraverso la cancellatura invita lo spettatore a riconsiderare il grande romanziere italiano sotto una nuova luce rispetto agli stereotipi trasmessi dal nozionismo scolastico”. Non dunque atto oltraggioso o azione nichilista, ma strumento attraverso cui far emergere la “dignità” e il valore portante di alcune parole e di alcune frasi su altre. E in questo senso, si può anche parlare di lavoro particolarmente impegnativo sul piano etico oltreché estetico per chi, come Isgrò, è arrivato negli anni a fare opera di cancellatura perfino sull’“Enciclopedia Britannica” e sulla “Costituzione”. Non meno che su pagine di giornali, carte geografiche, spartiti musicali o fotografie, declinando il tutto “in installazioni o in opere dall’originale sapore concettuale”. “La cancellatura – sottolinea l’artista – non è una banale negazione ma piuttosto l’affermazione di nuovi significati: è la trasformazione di un segno negativo in gesto positivo”. Un vero e proprio atto d’amore, di ricostruzione attraverso l’impeto distruttivo del segno, da cui spesso si salvano solo – nel caso dei “Promessi Sposi” e al di là di quello che avrebbe potuto pensarne lo stesso Manzoni – poche parole, come quelle portentose narranti la conversione dell’Innominato: “Io, Dio”. E non manca la concretezza del gesto pittorico, come nelle due anime della Monaca di Monza, contemporaneamente bianca e nera. O nei tracciati della scrittura, armoniosamente giocati sulla sinuosità del segno e sul contrasto di chiari e scuri, di pieni e vuoti. E’ la parola a portare Isgrò alla formulazione della composizione artistica, concettuale nell’esteriorità della forma e profondamente intima nel messaggio di emozionale singolarità. E proprio da qui deve partire l’atto di comprensione vera dell’opera in mostra nelle sale del novecentesco Castello Gamba della Vallée.

Gianni Milani

“Emilio Isgrò: i 35 libri dei Promessi Sposi ‘cancellati’”
Castello Gamba – Località Cret-de-Breil, Chatillon (Aosta); tel. 0166/563252 o www.castellogamba.vda.it
Fino al 16 giugno
Orari: tutti i giorni 9/19

Nelle foto

– “Io, l’Innominato”, tecnica mista, 2016
– “La sventurata rispose”, tecnica mista, 2016
– Castello Gamba di Chatillon

Le risate di Frayn e gli irregolari di Miller nell’anima di Valerio Binasco

Mentre Antonio Latella prova L’isola dei pappagalli di Sergio Tofano (debutto al Carignano il 28 maggio), mentre si guarda all’immediato futuro con la stagione attuale che avrà il suo termine nel prossimo luglio con le serate shakespeariane di “Prato inglese” con La bisbetica domata e Otello, i vertici dello Stabile torinese hanno presentato ieri le proposte e il calendario del prossimo anno
“Una fabbrica di spettacolo a ciclo continuo”, sottolinea il direttore Filippo Fonsatti, con 53 titoli in cartellone – produzioni e ospitalità che allineano classicità e drammaturgia contemporanea – per oltre 500 alzate di sipario. L’immagine simbolo che sovrintende alla stagione, che ne segna il corso, è opera della fotografa norvegese Maren Klemp, una bambina poggiata all’angolo di un ring, un viso diviso tra luce ed ombra, due occhi (“adulti”, ben lontano da quelli sgranati e pieni di curiosità della bambina dello scorso anno, in Wonderland) che fissano melanconici e un paio di guantoni da boxe enormi che forse scatteranno contro qualcuno. Il titolo originale, The boxer, ha lasciato il posto a Fair play. Perché? Tra piroette linguistiche e divertimento assicurato, tenta di darne un significato il direttore artistico Valerio Binasco: “Questa bambina è la mia anima, probabilmente, ma di sicuro è l’anima del teatro… Siamo qui perché crediamo nell’Arte di combattere con fair play, perché crediamo nella delicatezza di un’Arte aggressiva come il teatro, che racconta quasi sempre storie di persone che cercano disperatamente di stare in piedi, di portare addosso con dignità e bellezza il loro ko. Lo so che siamo tutti così. Che siamo anche stanchi morti di essere così. Ebbene, quasi solo di questo parla il teatro. Saliamo sul palco o scendiamo in platea per combattere contro la perdita della memoria della nostra umanità”. Dentro ognuno di noi c’è quella bambina, il suo stesso sguardo, la sua voglia di combattere, magari il desiderio di lasciarsi alle spalle una sconfitta per tirare avanti. Sera dopo sera.

Un’immagine ad incorniciare una stagione che si aprirà, per quanto riguarda le produzioni, con le prove di regista e di interprete (un ritorno!) di Binasco. Ha scelto per inaugurare la stagione il 7 ottobre un cult del teatro contemporaneo, quel Rumori fuori scena di Michael Frayn sinora appannaggio di varie compagnie private (Attori e Tecnici, ad esempio), l’omaggio ad un testo di successo che può aspirare con diritto ad una struttura pubblica di più ampio respiro: tre atti che sono l’allestimento, il debutto e la tournée di una farsa erotica, con le entrate e le uscite ad orologeria, con le invidie e i dispetti, con i congegni che s’inceppano, con gli equivoci di varia natura che stanno per rovinare ogni cosa. Un classico ormai, che segue alle recenti prove di Molière Goldoni e Shakespeare, già trasformato da Bogdanovich nel ’92 in un film di successo, dove ogni risata è un piccolo capolavoro. In finale di stagione Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, che da un po’ di anni manca dai nostri palcoscenici, un esempio di italiani in America, di immigrazione clandestina, del ritratto a tutto tondo del portuale Eddie Carbone e della passione cieca verso la nipote Catherine. Binasco ancora regista e interprete, con Deniz Özdogan. Kriszta Székely, tra i nuovi talenti della scena europea, che abbiamo conosciuto grazie a Nora – Natale in casa Hekmer, proporrà il cecoviano Zio Vanja, la quotidianità e l’impossibilità ad essere felici, il trascinarsi delle esistenze, interpreti Paolo Pierobon, Ivano Marescotti, Ariella Reggio e Beatrice Vecchione. Eugenio Allegri si confronterà ancora una volta con Mistero Buffo di Dario Fo, Gian Luca Favetto si affida ad un progetto che a cent’anni dalla nascita vuole dire una parola nuova su Fausto Coppi. L’affollata solitudine del campione, Leonardo Lidi cresciuto alla scuola dello Stabile sarà il regista di La casa di Bernarda Alba, terminato da Garcìa Lorca soltanto due mesi prima di essere trucidato dalla milizia franchista, la vicenda di una donna autoritaria e oppressiva, capace di imporre alle figlie otto anni di lutto alla morte del secondo marito, condannandole di fatto a una prigionia che scatenerà il dramma.
Tra le coproduzioni, Gabriele Lavia ambienta in un antico teatro in rovina l’ultima opera pirandelliana, incompiuta (“una folle e poetica sarabanda”), I giganti della montagna, Filippo Dini – autore di quel Così è (se vi piace) che tanto è piaciuto al pubblico negli scorsi mesi e che verrà ripreso tanto da raggiungere anche il Teatro del Popolo di Pechino – si cimenterà in compagnia di Arianna Scommegna nelle atmosfere claustrofobiche e malate di Misery che William Goldman ha tratto dal romanzo di Stephen King, Fuoriusciti di Giovanni Grasso indagherà sul carteggio tra Don Sturzo e il laico Gaetano Salvemini, Elena Serra – nello spazio inconsueto della galleria d’arte Franco Noero – proporrà Scene di violenza coniugale di Gérard Watkins mentre Anna di Francisca farà rivivere L’anello forte di Nuto Revelli. Ancora tra le ospitalità Filippo Timi, Ditegli sempre di sì di Eduardo per la regia di Roberto Andò, Geppy Gleijeses che in periodo natalizio porta a Torino, in compagnia di Marisa Laurito, Così parlò Bellavista dal film e dal romanzo di Luciano De Crescenzo, Massimo Popolizio (Un nemico del popolo di Ibsen), Umberto Orsini (Il costruttore Solness, ancora Ibsen), Alessandro Gassmann che dirige Fronte del porto e la lettura contemporanea di Tartufo di Molière, la comunicazione e l’arroganza e l’arrivismo, dovuta al lituano Oskaras Koršunovas, presentata con grande successo all’ultimo festival di Avignone.
 

Elio Rabbione

 
Nelle immagini (nell’ordine) Valerio Binasco tra il presidente Lamberto Vallarino Gancia e il direttore Filippo Fonsatti; scene tratte da “Così è (se vi pare)”, “I giganti della montagna”, “Tartufo”, “Così parlò Bellavista” e “Skianto” con Filippo Timi.
 

I Musei Reali celebrano la festa dell’Europa

“Venuti da tutti i continenti, credenti e non credenti, apparteniamo tutti allo stesso pianeta, alla comunità degli uomini. Dobbiamo essere vigili, e difenderla non solo contro le forze della natura che la minacciano, ma anche di più contro la follia degli uomini.”
Simone Veil (1927-2017), prima presidente del Parlamento europeo

 
Giovedì 9 maggio i Musei Reali celebrano la festa dell’Europa aprendo gratuitamente le porte al pubblico. Un’opportunità per ritrovare le radici comuni del nostro continente attraverso le collezioni, nate da scambi, doni, viaggi, bottini di guerra e relazioni diplomatiche. Opere che intrecciano le storie e i destini di popoli diversi per lingua e cultura, oggi uniti su un territorio che accoglie 508 milioni di abitanti e 28 diversi paesi. Una seconda patria nata da secoli di guerre, di migrazioni, di conflitti, ma anche da scambi commerciali e culturali, invenzioni e progressi.
La festa dell’Europa celebra la pace e l’unità in Europa e la data è l’anniversario della storica dichiarazione del ministro francese Robert Schuman, che il 9 maggio 1950 espose la sua idea di una nuova forma di cooperazione politica che avrebbe reso impensabile una guerra tra le nazioni europee.
L’arte costituisce un deposito prezioso della memoria storica dell’Europa, rappresentato nelle collezioni dei Musei Reali da centinaia e centinaia di opere. Dalle asce preistoriche provenienti dalla Danimarca alle armature degli artigiani tedeschi, dallo Statere di Amatunte, preziosa moneta cipriota, alla spada di Napoleone, dai dipinti fiamminghi e olandesi alle porcellane viennesi, dalle carte nautiche spagnole e portoghesi ai ritratti dei figli del re d’Inghilterra.
Il 9 maggio, una fotogallery dedicata all’Europa sarà presentata sul sito dei Musei Reali e pubblicata sulle pagine social ufficiali – Facebook, Instagram e Twitter – per scoprire le opere e gli oggetti che documentano la storia e la cultura dei paesi dell’Unione Europea.
L’ingresso per la mostra Leonardo da Vinci. Disegnare il futuro, ospitata nelle Sale Palatine della Galleria Sabauda, resterà a pagamento. Laprossima apertura gratuita sarà sabato 18 maggio, in occasione della Festa dei Musei.
 

"L'ombra cupa degli ippocastani"

Al Centro Pannunzio viene presentato da Federico Audisio di Somma il romanzo di Patrizia Valpiani
“L’ombra cupa degli ippocastani” è il titolo dell’ultimo romanzo scritto da Tosca Brizio, nom de plum di Patrizia Valpiani, medico nativo di Pietrasanta, cittadina ricca di arte nell’entroterra versiliese. Verrà presentato giovedì 9 maggio prossimo alle 18 al Centro Pannunzio, in via Maria Vittoria 35/h, dallo scrittore Federico Audisio di Somma. Le letture saranno affidate a Cristina Tira del Piccolo Teatro Instabile. Il romanzo nasce, come i precedenti, dalla passione letteraria della dottoressa toscana, nella cui vita medicina e letteratura si illuminano e completano a vicenda. La sua produzione letteraria, che comprende saggi, poesie, romanzi ed una guida su Torino, ha ricevuto i primi riconoscimenti nel 1994 ed anche il Premio Pavese. “L’ombra cupa degli ippocastani” fa parte di una serie di cui il primo volume, intitolato “Chiaroscuro”, è uscito lo scorso anno. Si tratta di un noir con uno sfondo fantasy, in cui il protagonista, Pietro Jackson, ha tratti assolutamente non convenzionali. Questo artista è sia pittore sia jazzista; mentre dipinge e suona, viene a trovarsi in uno stato di coscienza alterato. Pietro è in grado di aprirsi ad una sensibilità alternativa, riuscendo anche a percepire le negatività che lo circondano. Il personaggio è nato dall’osservazione dal vivo da parte della scrittrice di un pittore e dello stesso artista impegnato in una jam session con un sax. Il romanzo è ambientato nell’entroterra versiliese nella cittadina di Camaiore, uno dei luoghi molto amati dall’autrice, che li descrive a tinte artistiche. La vicenda si svolge in una casa di cura per malattie mentali, è frutto di fantasia, non vera ma assolutamente verosimile. Intorno al protagonista, all’ombra cupa degli ippocastani e circondato da linee di confine piuttosto labili, si muovono le figure dolorose di persone affette da disagi mentali. L’epilogo finale della vicenda fa riemergere un mondo sommerso che si nasconde a Villa Emma, sotto acque torbide.

Mara Martellotta