CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 486

Chiusa a Saluzzo la 42^ edizione del “Premio Matteo Olivero”

Vincitore, l’artista tedesco Veit Laurent Kurz

Saluzzo (Cuneo)

Su 28 artisti invitati e provenienti da tutto il mondo su segnalazione di prestigiosi advisor internazionali, è stato l’artista tedesco Veit Laurent Kurz ad aggiudicarsi la 42^ edizione del “Premio Matteo Olivero”, promosso dalla Città di Saluzzo e organizzato dalla Fondazione Amleto Bertoni, con la curatela di Stefano Raimondi, per ricordare il celebre pittore e scultore cuneese, fra i maggiori esponenti del Divisionismo ( nato a Pratorotondo in Valle Maira nel 1879 e morto a Saluzzo nel 1932)“con l’intento – dicono gli organizzatori – di costruire un percorso artistico capace di rileggere l’arte classica con gli occhi del contemporaneo”. Il Premio è realizzato all’interno di “START/storia e arte a Saluzzo”, che si terrà, sotto la direzione artistica di Soluzioni Turistiche Integrate, nella capitale del marchesato dal 24 aprile al 31 maggio prossimi e che quest’anno avrà come tema “La Rivoluzione”.

Per Saluzzo Kurz (classe 1985, nato a Erbach, nel land dell’Assia e oggi attivo fra Francoforte, Berlino e New York) ha pensato all’opera site specific, di netta e forte impronta astratto-espressionistica con la violenta accensione dei suoi rossi dei blu e dei neri, “The Campi Flegrei Conferenca”, che andrà ad arricchire il percorso del contemporaneo offerto dal territorio e che già ha avuto inizio con le scorse edizioni del Premio, assegnato al colombiano Santiago Reyes Villaveces nel 2019 e al duo newyorkese composto da Mark Barrow e Sarah Parke nel 2018.

Pensata appositamente per la “Sala de Foix” di Casa Cavassa ( luogo di forte storicità, in cui si respira il clima della corte dei Marchesi di Saluzzo e in cui si trova la Pala d’altare del fiammingo Hans Clemer “Madonna della Misericordia”) l’opera premiata di Kurz   segue la scia dei suoi più recenti lavori, concepiti e realizzati, attraverso segno e colore, in un singolare mix di temi scientifici e archeologici. Nello specifico, la sua attenzione è stata attirata dai vulcani, che ha studiato da vicino in tutto il mondo e che egli accosta alle centrali nucleari. Nelle società moderne “sostituiamo costantemente i fenomeni naturali con quelli creati dall’uomo; a causare questo cambiamento sono soprattutto gli sviluppi tecnologici che, se da un lato sono considerati rivoluzionari in modo positivo (così come nel tema di START 2020), dall’altro ci portano a rivivere le nostre paure più esistenziali”. Ed è così che si accorciano le distanze tra i vulcani e le centrali nucleari.

E per Casa Cavassa, Kurz realizzerà un vulcano artificiale, abitato dai Dilldapp, creature ideate dall’artista stesso che, cibandosi di pietre e vegetazione vulcanica, hanno resistito al tempo e sono sopravvissute a vecchie e nuove eruzioni. Un incontro che mescola realtà e immaginazione, il nostro mondo e quello dei Dilldapp.

 

L’inaugurazione di “The Campi Flegrei Conferenca” avverrà nel giorno inaugurale di “START”venerdì 24 aprile, alle ore 19, nella “Sala de Foix” di Casa Cavassa, a Saluzzo.

 

Per info: www.startsaluzzo.it e su Facebook e Instagram @startsaluzzo

 

g.m.

 

Nelle foto
– Veit Laurent Kurz
– “The Campi Flegrei Conferenca”
– “Sala  de Foix” – Casa Cavassa: photo credits Pietro Battisti

 

Conoscere Pannunzio centodieci anni dopo

Di Pier Franco Quaglieni / Mario Pannunzio, nato a Lucca nel 1910, centodieci anni fa, attende ancora il suo storico, malgrado sia stato negli anni oggetto di  studi e ricordi più o meno importanti. Alcuni di quelli che si sono occupati di Pannunzio erano mossi più dall’intento di celebrare sé stessi come suoi eredi e continuatori che da quello di riflettere con il necessario distacco  sul direttore di “Risorgimento liberale”(spesso trascurato) e del “Mondo”, la rivista culturale italiana più importante del secondo dopoguerra

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Pannunzio ha lasciato poco di scritto e quasi sempre ha ispirato altri, limitandosi a fare il giornale. Sul “Mondo” non ci sono articoli a sua firma e il piccolo saggio su Tocqueville, risalente al ‘42, è una testimonianza di poco conto. Molti sono invece i suoi articoli prima della guerra pubblicati sull’ “Omnibus “ di Longanesi e su “Oggi” che fondò e diresse insieme ad Arrigo Benedetti. Se escludiamo gli studi di Carla Sodini, nessuno si è occupato delle radici lucchesi, umane ed intellettuali, limitandosi ad analizzare il periodo romano, certamente il più importante, dagli anni universitari alla morte.

Nel 2010 il centenario della sua nascita fu l’occasione per tante iniziative promosse prevalentemente dal Centro “Pannunzio” di Torino in tutta Italia che registrarono un vasto interesse. Fu possibile dare una lettura della sua opera,evidenziando il significato liberale del suo impegno.

 

I Centodieci anni dalla nascita possono essere l’occasione per tentare di ribadire alcuni punti fermi a livello storico:

*Pannunzio ha il merito, negli anni del più aggressivo anticrocianesimo, di aver considerato il magistero morale,filosofico e politico di Benedetto Croce un riferimento non negoziabile. Lo dimostrano le annate del “Mondo” e il Carteggio Croce- Pannunzio che curai nel 1998 e che alcuni hanno voluto curiosamente ignorare. Oggi che l’opera di Croce torna ad essere oggetto di studi, va sottolineato che Pannunzio non si allineò alla vulgata anticrociana.

*Pannunzio espresse una linea politica che potremmo definire antitotalitaria ed antiautoritaria ,vedendo nel nazifascismo e nel comunismo i due terribili mostri ideologici del ‘900.

*Pannunzio in anni nel quali la demonizzazione del Risorgimento, sull’onda di Gobetti e di Gramsci, era imperversante, assunse la “difesa del Risorgimento”, per citare un titolo di Omodeo, anticipando l’idea storiografica di Rosario Romeo, il biografo insuperato di Cavour.

*Ha torto Valerio Castronovo nel sostenere che nel “Mondo” ebbe prevalenza l’insegnamento di Salvemini perché la figura di Luigi Einaudi (di cui lo stesso Ernesto Rossi fu allievo in materia economica), oltre a quella di Croce, ebbe una particolare importanza per Pannunzio e per il suo giornale.

*Pannunzio fu sempre amico dello Stato di Israele,l’unica democrazia mediorientale, e nel 1967 si dichiarò durante la guerra arabo-israeliana dalla parte di Israele,mentre “L’espresso” parteggiò per Nasser e gli arabi.

*Pannunzio ebbe una concezione della politica mai disgiunta dalla cultura,ritenendo un politico incolto un semplice “faccendiere”. Una riflessione più che mai attuale oggi in Italia e non solo.

Nel 2010, d’intesa con il Comune di Roma e la Sovrintendenza, si sarebbe dovuto procedere ,per il centenario pannunziano, ad apporre nel palazzo di via Campo Marzio dove nacque “Il Mondo”una lapide il cui testo era stato già predisposto ed approvato. Fu il proprietario dell’edificio a non dare il consenso. I Centodieci anni dalla nascita sarebbero l’occasione per tributare il riconoscimento negato a Pannunzio che invece gli tributò la natia Lucca. Temo che i tempi dell’emergenza accantoneranno ogni ricordo e spiace che i tempi calamitosi che viviamo impediscano persino un’iniziativa del Centro “Pannunzio”, l’unico in Italia a lui intitolato, perché i tentativi di imitazione sono tutti naufragati miseramente, mentre il Centro vive da oltre cinquantedue anni.

Fotografia e pittura in accoppiata al MEF

“Costellazioni umane” / “The Golden Harp”. gli scatti di Massimo Vitali e le opere di Nebojsa Despotovic

Fino al 5 luglio  – Ai più è noto soprattutto come “il fotografo delle spiagge”. Luoghi non luogo, “posto ideale – dice lui – dove osservare la società”. Tanto che dal 1995, quando inizia la sua “Beach Series” in giro per il mondo, di panorami balneari ne ha realizzati, a oggi, più di duemila. “Nei miei scatti – dice ancora – c’è l’Italia degli ultimi vent’anni”. Messa a nudo – o quasi – in ogni senso. Donne e uomini, bambine e bambini, giovani e diversamente giovani e poi gli ombrelloni, i lettini, le sdraio, i costumi colorati, le tavole da surf, le rocce, gli scogli e l’azzurro terso del mare e del cielo; geometrie di corpi e oggetti dal “sapore di mare” cristallizzati, in un click che dura l’irrepetibile spazio di un attimo o in appostamenti che rincorrono le ore, nel parossismo di descrizioni così minuziose e dettagliate da sembrare quasi improbabili teatrini, messi in piedi da un regista tanto bravo quanto meticoloso all’eccesso. Ma il fotografo comasco Massimo Vitali, classe 1944, cui il MEF-Museo Ettore Fico di Torino dedica, fino al 5 luglio prossimo, una suggestiva personale, dal titolo perfetto di “Costellazioni umane” e curata da Andrea Busto direttore del MEF, non è solo questo. Più in generale, i suoi lavori ben rispondono nella loro complessità alla definizione perfettamente calzante di “paesaggi umani contemporanei”. Una trentina le opere esposte al Museo di via Cigna, documentanti venticinque anni di un’intensa e prestigiosa carriera; opere dal “formato extra large”, in cui l’artista si sbizzarrisce all’inverosimile e molla i freni alla sua incontenibile, giocosa predilezione per i grovigli e le voluminose masse di persone. Vere e proprie “costellazioni umane”. Le spiagge, dunque, ma anche le discoteche, i raduni musicali, le folle vocianti radunate in spazi pubblici gremiti fino all’ultimo centimetro: “immagini catturate da un occhio algido e preciso per quantità di dettagli e particolari illustrati”, scrive Busto, paragonandole alla certosina descrittività delle vedute di un Canaletto e di molt’altra pittura settecentesca. Mirabili in tal senso, in “Carcavelos Pier Paddle”, il tuffo acrobatico del ragazzino immortalato sulla sinistra della foto, così come in “Kappa Futur Festival” il sollevamento del giovane sulla sedia a rotelle e braccia al cielo da parte di un pubblico in totale esaltante delirio. Fermi immagine. Casuali. Voluti. Attesi. In ogni caso autentici colpi di genio.

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In contemporanea alla mostra di Vitali, il MEF ha inaugurato anche la personale “The Golden Harp” dedicata all’artista serbo Nebojsa Despotovic (Belgrado, 1982), curata sempre da Andrea Busto e visitabile anch’essa fino al 5 luglio prossimo. Tele di forte impatto emozionale, quelle del giovane Despotovic propongono storie non poco inquietanti collocate “in un mondo senza tempo – precisa Busto – senza precisi riferimenti al nostro vissuto” dove tutto sembra appartenere “a un momento infinito nella grande commedia della vita”. A piene mani, l’artista fa incetta, visiva e mnemonica, di immagini recuperate da un ricco patrimonio iconografico, collettivo e personale, che fa di ritagli di giornale, vecchie fotografie, enciclopedie, libri e manuali scolastici carichi di tempo, il punto di partenza della sua pittura. Su quel materiale lavora con vigorosa tensione di segno e colore, ricreando storie ingiallite dagli anni e riproposte in narrazioni pittoriche che sono sintesi perfetta di “mondi e poetiche altrui”. Dalle figure folli e disperate di Bacon, alle tinte smorzate e al senso di profondo disagio del fiammingo Tuymans, non meno che all’ansiogeno intreccio di illusione e realtà ricreato nelle opere di Gerhard Richter. O ancora, sostiene Busto, dal “mondo erotico di Scipione” fino alla “materia sovrapposta di Picabia”. Con richiami finanche al cinema neorealista o a suggestivi “amarcord” felliniani (i personaggi in costume) e a “tutta la derisione del mondo borghese di Bunuel”. Maestri d’arte, su cui Despotovic ricrea passo passo il proprio personalissimo mondo pittorico.

Gianni Milani

 

“Costellazioni umane” / “The Golden Harp”

MEF- Museo Ettore Fico, via Cigna 114, Torino; tel. 011/853065 o www.museofico.it

Fino al 5 luglio

Orari: dal merc. alla dom. 11/19

 

Nelle foto

– Massimo Vitali: “Riccione Black Bikini”, 1997
– Massimo Vitali: “Carcavelos Pier Paddle”, 2016
– Nebojsa Despotovic: “Your Love keeps the gates safe”, 2019
– Nebojsa Despotovic: “Riposo (Golden Harp)”, 2019

Arte e storia, al via i percorsi di Grand Tour

Prenotazioni al via il 5 marzo per quasi 50 appuntamenti dell’edizione primaverile. Temi di questa edizione: il Barocco e la Valle d’Aosta.

Un appuntamento atteso, che ogni anno attiva centinaia di visitatori alla scoperta del territorio attraverso percorsi unici e originali. Tutto questo è Grand Tour, il programma poco meno di 50 itinerari guidati ideato e organizzato dall’Associazione Abbonamento Musei, per scoprire il Piemonte (e non solo) a piedi o in autobus.

Le prenotazioni partono giovedì 5 marzo; il primo itinerario sarà sabato 21 marzo, in coincidenza con l’arrivo della primavera.

Diverse le novità di questa edizione, a partire dall’organizzazione delle gite fuoriporta. Gli appuntamenti che necessitano di autobus infatti saranno realizzati da Linea Verde viaggi, già partner dell’Associazione e realtà professionista dell’organizzazione turistica. Grazie ai nuovi pullman, al sistema di microfonaggio e alle tante piccole e grandi migliorie apportate da questa collaborazione, gli utenti potranno vivere un’esperienza di visita ancora più confortevole.

 

Dal punto di vista del programma, sono due i filoni intorno a cui si sviluppa questa edizione di Grand Tour: il Barocco, tema dell’anno del Piemonte culturale, e la Valle d’Aosta, new entry nell’offerta di Abbonamento Musei.

 

IL BAROCCO

Diffuso su tutta la regione Piemonte, il Barocco si svelerà agli occhi dei visitatori con le sue straordinarie architetture, i preziosi arredi e dipinti conservati nelle chiese, negli oratori, in santuari e sinagoghe.

A Torino, si approfondiranno i lavori degli architetti barocchi per eccellenza, Filippo Juvarra, Guarino Guarini e Bernardo Vittone, visitando luoghi iconici della città come palazzo Reale, la Basilica di Superga, Villa della Regina e la Palazzina di Caccia di Stupinigi.

Sul territorio regionale si potrà accedere a palazzi nobiliari diffusi tra grandi città come Vercelli, Asti, Novara, e nei suggestivi borghi del Monferrato, nel Canavese e nelle vallate alpine del biellese. E ancora gli incantevoli scorci dei laghi d’Orta e Maggiore, con il fascino dei giardini dell’Isola Bella, di Cannero e Cannobio.

Tra le “chicche” di questa edizione troviamo la scoperta del “Bianco di Novi” la pregiatissima seta che nei secoli scorsi veniva prodotta nel novese (Seguendo un filo di seta tra San Cristoforo e Novi Ligure, 28 marzo); l’apertura speciale di Palazzo Bellini, sede storica della Banca Popolare di Novara, eccezionalmente visitabile al pubblico (percorso Barocco nel novarese, 16 maggio); il percorso nei luoghi barocchi del Lago Maggiore dove, a bordo di un catamarano solare, si costeggeranno gli isolotti con i leggendari Castelli di Cannero (XVI-XVII secolo) per arrivare a Cannobio (Verbano Barocco, 6 giugno); la visita alla cava del marmo a Frabosa, da cui Guarini estrasse il marmo per la Cappella della Sindone di Torino, e del santuario di Vicoforte con l’esperienza di salita alla cupola Magnificat (Il genio e la pietra, sabato 9 maggio). Ma il programma è ricco di esperienze da scoprire, che toccano le tante eccellenze che rendono unico il Piemonte, dalle botteghe tra 600-700 a Carignano e Moncalieri alle Sinagoghe di Saluzzo, Carmagnola e Mondovì, dal Preziosi oratori di Gavi e Voltaggio con la famosa pinacoteca, una delle più importanti del Piemonte alle valli Elvo e Cervo nel biellese.

 

LA VALLE D’AOSTA

Una delle grandi novità di Abbonamento Musei nel 2019 è stata l’ingresso della Valle d’Aosta all’interno della proposta: da settembre ben 16 siti sono entrati a far parte dell’offerta della tessera, accessibili sia agli abbonati piemontesi, sia a quelli lombardi.

E quale occasione migliore del Grand Tour per approfondire la conoscenza di questo territorio prossimo ma spesso poco esplorato?

Per questo nascono 4 itinerari dedicati: La Roma delle Alpi. Aosta e dintorni (25 aprile) parte dalla strada delle Gallie per giungere alla fondazione della città nel 25 a.C.; I castelli di Casa Savoia (21 giugno) alla scoperta delle due residenze valdostane care alla famiglia regnante, il Castello Reale di Sarre, quartier generale per le spedizioni venatorie del Re cacciatore Vittorio Emanuele II, e il Castel Savoia, a Gressoney, dimora estiva della Regina Margherita; Alla scoperta di Aosta (24 giugno) che include la visita all’area megalitica di Saint-Martin de Corléans: la più vasta area archeologica coperta d’Europa che racchiude arature rituali, pozzi, stele antropomorfe, menhir, tombe, dolmen…; I Castelli di Casa Challant (25 luglio) alla scoperta della storia della potente famiglia Challant che dominò la Valle, seconda per importanza solo a casa Savoia, proprietaria dei due castelli più celebri, il Castello di Fénis e quello di Issogne.

 

COME PRENOTARE LE PASSEGGIATE

La prenotazione è obbligatoria e può essere effettuata da giovedì 5 marzo 2020 ore 9. È possibile prenotare:

• Tramite il Numero Verde 800 329 329 (dal lunedì al sabato ore 9 – 18)

• Recandosi presso Infopiemonte, via Garibaldi angolo piazza Castello, Torino (aperto tutti i giorni dalle 9 alle 18)

• Sul sito www.abbonamentomusei.it

 

COME PRENOTARE I PERCORSI IN BUS

La prenotazione è obbligatoria e può essere effettuata da giovedì 5 marzo 2020,

È possibile acquistare e richiedere informazioni presso LINEA VERDE VIAGGI S.R.L.:

• Uffici di Via Caboto, 35 – 10129 Torino

• Telefonando al numero: 011 2261941 – orari: lunedì – venerdì 9:00- 18:00

• Online sul sito www.lineaverdeviaggi.it

• Scrivendo a grandtour@lineaverdeviaggi.it

Dopo dieci anni il vuoto lasciato da Ronchey resta incolmabile

Fu un intellettuale libero, colto, equilibrato. Più scozzese che italiano

Di Pier Franco Quaglieni

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A dieci anni dalla morte di Alberto Ronchey, voglio ricordare l’amico e il maestro. Il suo giornalismo che non ha fatto scuola perché era troppo alto ed era irripetibile, merita di essere ricordato soprattutto oggi di fronte ai giornalistini e anche ai direttorini che si dedicano più alla Tv che ai giornali.

Anche il saggista Ronchey non è invecchiato ed è diventato un classico perché seppe guardare lontano anche nell’analisi lucidissima del presente e nella ricostruzione rigorosa del passato. E’ stato una delle più alte intelligenze che io abbia frequentato nella mia vita. Vorrei ricordarlo, tentando di delinearne la poliedrica figura in cui manifestò sempre il suo originario rigore scozzese .Era nato a Roma nel 1926,ma l’ambiente romano gli fu sempre estraneo. Era uno che aveva viaggiato moltissimo ed era vissuto molto all’estero: uno dei pochi italiani davvero cosmopoliti che guardavano alla politica con occhi diversi rispetto al provincialismo ideologizzante nostrano. Parto da un ricordo del 1968,propedeutico al nostro incontro torinese dell’anno successivo e che ne costituisce la premessa.

Ha scritto Gabriella Poli che fu l’unica donna a capo della Cronaca del quotidiano “La Stampa”:

Ricordo quella sera primaverile del ’68 come se fosse ieri. Palazzo Campana era chiuso, altre facoltà occupate. Per via Roma stava passando uno dei soliti cortei che quasi ogni giorno a quell’ora irrompevano nelle strade del centro […]. Davanti a me, una voce appena un po’ più alta di tono per vincere il fracasso e le urla, un giovanissimo professore parlava di primato della ragione e della cultura, parlava di Pannunzio…

Quel giovanissimo professore ero io.In effetti non ero ancora professore,ma Gabriella mi volle promuovere sul campo forse perché ero tanto lontano dai contestatori cappelloni e scravattati. Di fondamentale importanza fu poi il rapporto con Ferruccio Borio ,il mitico capo cronista del giornale,con cui nacque un’amicizia inossidabile nel tempo. Gabriella scrisse una davvero bellissima testimonianza di quel primo incontro voluto da Giulio De Benedetti, ma il momento decisivo fu nel 1969 con il nuovo direttore de “La Stampa” Alberto Ronchey che aveva collaborato al “Mondo” ed era stato amico di Pannunzio. All’incontro partecipò anche Carlo Casalegno, vicedirettore di Ronchey destinato a diventare un altro grande amico della mia vita.Mi era già capitato di incontrarlo di sfuggita a Roma a casa Carandini in via XXIV Maggio, ma al suo arrivo a Torino chiesi un appuntamento alla “Stampa” come feci con molti direttori che lo seguirono. Mi capitò di non avere rapporti solo con Ezio Mauro e Carlo Rossella.

Mi ricevette la sera stessa, si compiacque per l’idea di ricordare Pannunzio a Torino e si dichiarò disponibile ad aiutarci. Finché fu direttore, volle che gli facessi recapitare direttamente i comunicati stampa relativi alle attività. Con Ronchey ci si vedeva anche in piazza San Carlo dove abitava e qualche domenica al “Cambio” dove amava andare a pranzare.Apprezzava il vecchio ristorante di Cavour e del Risorgimento ,tanto diverso da quello attuale.Specie la domenica ,c’era un clima vellutato che ci faceva immergere nell’’800,malgrado fossimo immersi nei frenetici e terribili Anni ’70. In quelle due salette tutti parlavano sottovoce   quasi fossimo in un museo anziché in un ristorante. Ronchey è stato sicuramente uno dei più grandi giornalisti italiani del Novecento. Come direttore de “La Stampa”, succedendo a Giulio De Benedetti che governò il giornale per un ventennio, seppe modernizzare il quotidiano, facendone uno dei più autorevoli anche all’estero. Anche la stessa grafica venne modificata attraverso un’impaginazione piacevole e rigorosa insieme.

Diceva di aver iniziato a scrivere sui giornali clandestini della Resistenza, per poi fare il cronista, il redattore capo, il corrispondente, l’inviato, il direttore. Fece esperienza alla “Voce repubblicana”, un giornale assai poco letto, organo del Pri, fucina di giornalisti destinati a diventare famosi, da Stefano Folli a Maurizio Molinari. Sicuramente in Ronchey quell’esperienza non lasciò traccia significativa perché il suo modo di intendere il giornalismo non fu mai di parte, ma sempre distaccato e spassionato, quasi maniacale per l’ordine, la precisione, le cifre. “Fortebraccio” lo definiva l’ing. Ronchey per la accuratissima documentazione dei suoi articoli e per il linguaggio asciutto, quasi da ingegnere. Coniò espressioni come “lottizzazione” che sono entrate nell’uso comune.Ma Ronchey fu anche autore di saggi di grande importanza; ne ricordo uno per tutti, quell’Atlante ideologico del 1973 che ci ha consentito di superare i furori delle ideologie. Una rassegna di fatti inoppugnabili, ricavati dai suoi viaggi e dalle sue vastissime letture che avrebbe dovuto far riflettere quelli che la moglie Vittoria definiva i “marxisti immaginari” in un suo libro di successo, ma non sufficientemente meditato dai docenti e dai genitori italiani.

Le fughe in avanti delle ideologie vengono in quel saggio di Ronchey smentite dai ragionamenti suffragati da prove inoppugnabili, riprendendo in chiave contemporanea il realismo del Machiavelli che egli oppose ai sogni velleitari dei nostri tempi. Quel volume venne a presentarlo nella disadorna sede di piazza Castello a Torino dov’era di casa e venne ad ascoltare Arrigo Benedetti nel primo ricordo di Pannunzio di cui Ronchey affidò la cronaca in III pagina al grande Stefano Reggiani che in una sua rubrica pubblicata sulla Cronaca de “La Stampa” ambientava spesso i suoi racconti immaginari presso la sede del Centro “Pannunzio”, dove si incontravano Cavour e il re Vittorio Emanuele.  Una realtà dell’altro mondo,vista la livida indifferenza che quel giornale riserva al Centro “Pannunzio” che allora era nato da pochissimo tempo e non aveva l’importanza di oggi.

A distanza di molti decenni quel saggio di Ronchey ne rivela la statura di studioso. Ha scritto Pierluigi Battista autore del libro-conversazione con lui Fattore R: «Alberto non sbaglia mai: non una cifra fuori posto, una data inesatta un riferimento fattuale impreciso, una citazione zoppicante». Un esempio di giornalismo di altissima qualità intellettuale che tende al saggio. Non senza ragione insegnò per un certo periodo Sociologia a Ca’ Foscari di Venezia, indotto anche dal suo amore per quella città. Una volta o due ci incontrammo anche da “Altanella” alla Giudecca ,la mitica,semplice e pur affascinante trattoria della famiglia Stradella,dove amava andare anche Gabriele d’Annunzio. Nel 1976 fu tra i promotori di una lista laica alle elezioni politiche insieme a Cesare Zappulli ed Enzo Bettiza. Negli anni in cui si stava cercando di varare il compromesso storico, Ronchey, unico dei tre che non venne eletto, volle indicare la strada dell’alleanza laica tra Pri, Pli, Psdi, malgrado la riluttanza dei loro vertici. Fu un esperimento che, se fosse stato seguito, forse avrebbe inciso sulla politica italiana; era una proposta che partiva da lontano, dal “Mondo” di Pannunzio. Il 1976 invece fu l’anno in cui comparvero in Parlamento per la prima volta i radicali di Marco Pannella.

Ronchey fu anche ministro per i Beni Culturali dal 1992 al 1994. Dopo la nomina rimase in silenzio per due mesi, poi con una mossa a sorpresa vietò piazza San Marco al galà di chiusura del Festival del Cinema di Venezia. Fino ad allora, se escludiamo Spadolini, i ministri dei Beni culturali erano, di norma, personaggi politici assai marginali, non supportati dalla cultura necessaria per esercitare il mandato loro affidatogli. Dopo Ronchey continuò la passerella di personaggi non sempre all’altezza. Nel poco tempo in cui fu ministro varò la cosiddetta Legge Ronchey concernente la gestione dei servizi aggiuntivi negli istituti d’arte e antichità dello Stato e si preoccupò di una piaga che divenne sempre più grave: le scritte e i disegni sui muri anche dei palazzi storici. Cercò in tutti i modi di sensibilizzare al problema che dopo di lui non solo rimase irrisolto, ma assunse dimensioni non più controllabili e non più controllate. Si preoccupò del problema del personale dei musei e dei privilegi incomprensibili che ne regolano il lavoro. Volle incentivare un uso più ampio e mirato dei volontari nei musei e mi chiese dell’esperienza fatta dal Centro “Pannunzio” nel 1975 quando promosse la mostra dei disegni di Leonardo a Torino. Vide i pericoli insiti negli sponsor privati, dicendo che «i privati,com’è normale, tendono ad investire denaro solo su grandi opere che danno un grande ritorno di immagine». Si interessò delle istituzioni culturali, anche quelle che avevano scelto di restare associazioni non riconosciute, volendo mantenere totale la propria autonomia. Preciso che al Ministro Ronchey il Centro “Pannunzio” non chiese mai neppure un quattrino.

Anche nell’esercizio delle sue funzioni di ministro ebbe una capacità di vedere i problemi in una dimensione internazionale come seppe fare nel giornalismo e nella saggistica. Nel 1997 gli venne assegnato il Premio “Pannunzio”. In quell’occasione accadde un episodio spiacevole. Prima che Ronchey ricevesse il Premio, il Gabibbo di “Striscia la notizia” interruppe la manifestazione chiedendogli pubblicamente ragione del fatto che, come presidente della Rizzoli, stesse per chiudere “Il Mondo” un giornale economico finanziario che solo formalmente riprendeva la testata di Pannunzio. Il Gabibbo chiese a Ronchey se non si sentisse imbarazzato nel ricevere il Premio intitolato a chi aveva fondato il giornale che lui intendeva chiudere. Con calma assoluta smontò ogni accusa, dimostrando l’infondatezza della tesi e rassicurando comunque che non avrebbe chiuso il settimanale. E così fu. Morì il 5 marzo 2010, lo stesso giorno in cui Pannunzio era nato cent’anni prima. C’era la solenne presentazione del francobollo di Poste italiane dedicato a Pannunzio in occasione del centenario e non mi fu possibile partecipare ai suoi funerali. Egli è stato uno di quei maestri che non si possono dimenticare: la «moralità delle sue opere crocianamente parlano e continuano a parlare per lui». Cito volutamente le parole da lui usate nel ricordare Pannunzio su “La Stampa” quando nel 1968 il giornalista morì.Quelle parole valgono più che mai oggi ,dopo dieci anni. Intellettuali colti ,equilibrati, liberi come lui in Italia mancano totalmente e il vuoto che ha lasciato resta davvero incolmabile. Non poter contare più sulle sue opinioni autorevoli e spassionate ci rende tutti più poveri.

 

 

 

 

 

 

 

 

Vita e morte di Cleonice Tomassetti

Presentazione del libro di Nino Chiovini giovedì 5 marzo a Cuneo

Giovedì 5 marzo, alle 17,30 nel Museo Casa Galimberti di Cuneo ( piazza Tancredi Galimberti, 6) verrà presentato il libro di Nino Chiovini “Classe IIIB.Cleonice Tomassetti, vita e morte”, edito dalla verbanese Tararà.

Nel corso dell’evento, promosso dal Comune di Cuneo e curato da Maria Silvia Caffari e Franca Giordano, verranno proposte anche le letture dal testo teatrale “Cleonice” portato in scena dalla compagnia Il Teatrino al forno del pane “Giorgio Buridan”. Cleonice Tomassetti, detta Nice, venne fucilata dai nazisti il 20 giugno del ’44 a Fondotoce (Vb) . Aveva 33 anni e morì, unica donna, insieme ad altri 41 antifascisti. Penultima di sei fratelli, era nata il 4 novembre 1911 a Petrella Salto, nella frazione di Capradosso, un villaggio sulle montagne tra il Lazio e l’Abruzzo. Donna di straordinarie scelte, dal suo piccolo  paese andò  a Roma e in seguito a Milano e sulle sponde piemontesi del lago Maggiore, nell’ultima scelta che la condurrà alla morte: unirsi ai combattenti per la libertà. La fotografia del corteo dei martiri di Fondotoce la ritrae in prima fila. Sono 42 uomini e una donna che vanno a morire. I nazifascisti li fanno sfilare sul lungolago di Intra e poi, paese per paese, fino al luogo della fucilazione. Due prigionieri, davanti, reggono un cartello: “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?”. Cleonice è in mezzo, sotto la scritta. Uno solo dei 43 si salverà, ferito. Carlo Suzzi, sopravvisse per miracolo,tornò a unirsi ai partigiani della divisione “Valdossola” e scelse il nome di battaglia “Quarantatré”; e poté testimoniare come questa donna straordinaria si comportò: “Bisognava vedere il coraggio di questa ragazza, che durante il percorso ripeteva a tutti: “Mostriamo a questi signori come noi sappiamo morire”. E lei per prima è caduta da eroe”. Carlo Suzzi, l’allora diciottenne sopravvissuto alla fucilazione, è scomparso all’età di 91 anni, nel luglio 2017.

Marco Travaglini

I libri più letti e commentati a Febbraio 2020

Ecco i  tre libri più letti e discussi in questo mese di febbraio nel gruppo FB Un libro tira l’altro, ovvero il passaparola dei libri 

 

Sono Il Manicomio dei bambini, saggio di Alberto Gaino che ripercorre la storia delle istituzioni psico-pedagogiche e fa riflettere su molti aspetti della storia più recente del nostro paese; i recenti fatti legati alla paura di epidemie hanno riacceso i riflettori su L’ombra dello scorpione, classico romanzo di Stephen King  e al terzo posto troviamo La straniera, di Claudia Durastanti, romanzo che, pur essendo molto presente nelle discussioni, non sembra convincere i nostri lettori.

Per questo mese, la libreria Empatia di Teramo consiglia la lettura di Il nostro desiderio è senza nome di Mark Fisher (Minimum Fax), “perché in quasi ogni pagina del critico radicale inglese si trova uno spunto, un’intuizione genuina sulla nostra società e sul modo così sinistro in cui stiamo scegliendo di portarla avanti”; Kintu di Jennifer Nansubuga Makumbi (66thand2nd), romanzo epico che racconta l’ Uganda, fra tradizioni e racconti orali, dal sapore dei poemi omerici con  la magia della Storia infinita di Ende e la potenza del Conte di Montecristo.

 

Nel mese di San Valentino, i nostri lettori hanno votato la migliore storia d’amore raccontata dalla letteratura e dalla narrativa e al primo posto del sondaggio troviamo quella tra Catherine e Haethcliff in Cime Tempestose, di Emily Bronte; seguono Louise e Will protagonisti di  Io prima di te, di JoJo Moyes e infine la lunga passione di Florentino e Fermina nel classico L’amore ai tempi del colera, di Gabriel Garcia Marquez.

 

Per la serie: Time’s List of the 100 Best Novels, ovvero i cento romanzi più importanti del secolo XX, scritti in inglese e selezionati dai critici letterari per la rivista Times, questo mese noi abbiamo discusso di tre capolavori della letteratura inglese contemporanea:  il celebre romanzo storico di Robert Graves Io Claudio, l’arguto e cinico ritratto di maggiordomo di E vissero felici di Henry Green e del recente premio Nobel Kazuo Ishiguro con Non lasciarmi.

 

Per questo mese è tutto, ci rileggeremo il mese prossimo!

 

Podio del mese:

Il Manicomio dei bambini, di Alberto Gaino (Edizioni Gruppo Abele) – L’ombra dello scorpione, King (Sperling & Kupfer) –  La straniera, di Claudia Durastanti (La Nave di Teseo).

 

I consigli del libraio: Il nostro desiderio è senza nomeFisher (Minimum Fax) – Kintu Nansubuga Makumbi (66thand2nd).

Nel mese di San Valentino:

Cime Tempestose, di Emily Bronte; Io prima di te, di JoJo Moyes – L’amore ai tempi del colera, di Gabriel Garcia Marquez.

 

Time’s List of the 100 Best Novels  :

Io ClaudioGraves (Bompiani) – E vissero felici, Green (Longanesi) – Non lasciarmi, Ishiguro (Einaudi)

 

Testi di Valentina Leoni

grafica e impaginazione di Claudio Cantini redazione@unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

Fontana dei Mesi: marzo e aprile e… il Barocco

Marzo leva la mano sinistra: accenna un gesto di saluto. Come la primavera, attesa da tutti a marzo, arriva, sicura di sé, tra persone che stanno aspettando il suo ritorno. Come sapete, per questa uscita sulla Fontana dei Mesi di Torino, la rubrica dedicata ad analizzare le dodici statue allegorie dei mesi a fattezze femminili che compongono la corona della Fontana al parco del Valentino, più belle che mai dopo la fine dei lavori di restauro del marzo scorso (2019), tratteremo del mese di marzo

Gli appassionati più fedeli sono informati già dalla scorsa uscita, dedicata all’Impressionismo e alla statua del mese di febbraio; questa volta, nel post edito da iltorinese.it sulla fine del secondo mese dell’anno (quest’anno bisestile), trattiamo di due statue. Si parla dunque della statua di marzo, dicevamo, una donna che ha una certa musica e che leva una mano in cenno di saluto, ma anche di quella di aprile che raffigura una giovane esuberante e sfrontata, atteggiamento una volta tipico -parlando allegoricamente- del mese di aprile nel corso della primavera.

Oggidì i cambiamenti climatici fanno saltare tutte le consuetudini a riguardo del cambio delle stagioni, tuttavia non è vano ricordare come stavano le cose prima, quando ancora si poteva fare affidamento sul tempo per programmare cose, siano esse semine, raccolti, vacanze, serate conviviali all’aperto, gite per mare o montagna e chi più ne ha più ne metta, se non altro per fare un paragone sia esso positivo o negativo. Ai lettori più curiosi non sarà sfuggito il fatto che per la rubrica di questo mese è annunciato il Barocco. La corrente artistica che lega le statue e l’arte ha una buona ragione per essere scelta tra le tante che la storiografia artistica annovera come strumenti possibili per interpretare l’arte nel coso dei secoli.

Come di solito, non è fatta alcuna pretesa di assolutezza, il legame tra le statue e le correnti artistiche è puramente finzionale e è da prendersi -su buona dritta- come una cosa del tutto speculativa e del tutto evanescente, si potrebbe dire di fantasia. Piuttosto è bene ricordare che la Fontana dei Mesi anche detta “di Ceppi” è stata inaugurata nel xix secolo per la precisione nel 1898, in occasione dell’Esposizione nazionale e che oltre alle dodici statue dell’arco discendente esterno, vi sono all’interno dei giochi d’acqua altre statue, allegorie dei fiumi del Piemonte, di cui si è avuto modo approfondire in precedenza. Detto questo vediamo perché si potrebbe associare il Barocco a questo tratto della fontana.

 

Il barocco inizia negli anni trenta del xvii secolo, come la primavera inizia nel mese di marzo, ma non proprio all’inizio, piuttosto il 21 del mese dato l’equinozio, e come per la corrente artistica i dipinti sono via via più riconoscibili come certamente appartenenti a quel periodo anche nelle statue della Ceppi si nota che le statue primaverili si discostano da quelle invernali sul piano espressivo, per arrivare al forte separazione che si ha tra la fulgida pienezza delle estive e la riservatezza delle invernali.

Descrivere una tendenza tra le statue dei mesi in rapporto alla stagione a cui appartengono è fattibile in modo -direi- evidente e così prendendo in considerazione la diade marzo-aprile, tenendo inoltre come pulce nell’orecchio il Barocco, corrente artistica caratterizzata da uno spazio plurale, in altri termine dal fatto che in uno stesso quadro i barocchi propongono più scene compresenti, iniziamo teoreticamente a collocare l’insieme delle statue nelle loro stagioni, creando quattro gruppi di statue dialogicamente connessi; in relazione tra loro grazie a quelle che rappresentano i mesi di equinozio e di solstizio (in questo caso marzo) e attraverso quelle subito seguenti (qui si ha aprile) per scoprire un tratto caratteristico della stagione che in questo frangente è la rinascita, il ritorno, il riconoscimento, la vita nell’al di qua. La primavera è alle porte, anche se qualcuno dice che quest’anno l’inverno non si è sentito affatto, in ogni caso sarà bene prepararsi e godersi consapevolmente il periodo.

Elettra Nicodemi

 

 

Un lungo percorso attraverso il “Divisionismo”, tra le nevi di Segantini e le istanze sociali di Pellizza e Longoni

Sino al 5 aprile nelle sale del Castello Visconteo di Novara

Alla Triennale milanese del 1891 risale l’atto di nascita del Divisionismo, allorché vengono esposti Le due madri di Giovanni Segantini e Maternità di Gaetano Previati, una derivazione tecnica del neoimpressionismo e per molti versi consanguineo di quel pointillisme che accresceva da pochi anni il proprio successo Oltralpe con le opere di Georges Seurat (la Grande Jatte) e di Paul Signac (Le port de Saint-Tropez).

Il nostro non certo da ascrivere ad un vero e proprio movimento pittorico, non ne ha mai avuto l’aria, dal momento che nessuno tra i suoi rappresentanti ha mai sfoderato l’ardire di mettere su carta un manifesto artistico: per cui per lui si può siglare una definizione che suoni “fenomeno artistico”, con tutto quel che di ribelle si possa coccolare all’interno nei confronti di un passato più o meno recente (anche la Scapigliatura andava già messa in soffitta).

Tecnicamente, il Pointillisme dei cugini francesi trattava i colori complementari accostandoli sulla tela attraverso una serie di puntini e scartando le pennellate, una visuale che abbracciava non soltanto un intendimento pittorico ma altresì un interesse scientifico: considerando il raggiungimento della scomposizione del colore, nell’obbedienza delle ultime acquisizioni scientifiche, e il suo totale assorbimento a livello retinico. Dovrà in altre parole essere la retina dell’osservatore a riconsiderare la lettura di un oggetto, i suoi toni coloristici, quelle sfumature che derivano da un tale percorso “per punti”, che ci appariranno nettamente individuabili se quegli oggetti verranno osservati da vicino, mentre tenderanno all’uniformità se visti di lontano (di “…una funzione intellettiva sulle forme e i colori del vero” parlava Previati).

Il Divisionismo italiano – con la sua culla nel Nord d’Italia, grazie soprattutto al sostegno di Vittore Grubicy de Dragon, mercante d’arte, critico, pubblicista e ancora pittore, che con il fratello Alberto gestisce dal 1876 una galleria d’arte a Milano – scavalcherà i punti degli artisti francesi per rivolgersi al tratteggio, ad una serie di tratti allineati, di filamenti di colore ripiegati su se stessi, arabescati, spiralati, pronti in una calma posatura a seguire l’andamento circolare dell’oggetto. In tale andamento ondivago, a tratti sognante, dove gli artisti intravedono la vita, troveranno spazio non solo gli ariosi scenari colti tra pianure e montagne, tra casolari e distese innevate ma pure le componenti personali e no della religiosità come i momenti drammatici della vita quotidiana e le rivendicazioni sociali, quei fermenti di socialismo che sempre più andavano invadendo le necessità di una classe popolare in ristrettezze o povertà e che Pellizza da Volpedo o Plinio Nomellini o ancora Previati mettevano in primo piano come i personaggi principali e irrinunciabili di molte loro opere.

Come raccogliendo all’indietro un filo di nozioni e di ricordi, a questo e a molto altro ancora si pensava nei giorni addietro (non contaminati dal Coronavirus che chiude e serra anche mostre e musei) nell’attraversare quegli spazi chiari e pieni di luce del Castello Visconteo di Novara in cui sino al 5 aprile (una proroga?) è ospitata la mostra Divisionismo. La rivoluzione della luce, con tutto il suo prezioso carico di suggestioni, curata da Annie-Paule Quinsac, tra i primi storici dell’arte ad essersi dedicata al Divisionismo fin dal termine degli anni Sessanta, un passato e un presente carichi di esposizioni e fondamentali pubblicazioni, una mostra che vede la promozione del Comune di Novara e dell’Associazione METS Percorsi d’Arte con i patrocini della Commissione Europea e con il sostegno, tra gli altri, di Banco BPM quale main sponsor.

Circa settanta opere suddivise in otto sezioni, ad introdurre il vasto percorso, a pian terreno del palazzo, quel capolavoro che è Maternità (1890-91) di Previati, i sei angeli a fare da languido riparo alla Vergine che allatta, mentre un reticolo di fili sottili di colori s’inerpica lungo l’altezza della tela (l’opera fu la “più controversa e derisa” della Prima Triennale di Brera dove la critica non era ancora pronta ad accettare un misticismo veicolato dalla nuova tecnica), esempio di una certa solitudine pittorica dell’artista, “irriducibilmente antirealista sin dagli esordi”, che fa sua una visione simbolista scaturita “dal mito, da un’interpretazione visionaria della storia o dall’iconografia cristiana”, ben lontana dalla visione di Segantini che amò al contrario percepire una ben più precisa radice naturalistica, dichiaratamente panica.

Un prologo, un’isola a sé che apre a nuovi orizzonti, può essere considerata la Pensierosa di Tranquillo Cremona (1872-73), ma accanto trovano immediatamente posto titoli del decennio successivo, La partita alle bocce (1885) di Angelo Morbelli – la bellezza dello slancio del giocatore, il secondo piano del paesaggio affondato tra le colline dell’alessandrino, gli amici e gli spettatori al riparo ombroso, il tessuto filamentoso che s’impone in tutta la sua stesura -, il ricamo prepotente del ramo di pesco che avanza sulle due monache nelle Capinere (1883) di Emilio Longoni e soprattutto la crudele istantanea, fermata in pieno abbandono, delle Fumatrici di hashish (1887) di Previati (suo anche, in una sala successiva, stupefacente e nuovo nell’impostazione, Le tre Marie ai piedi della Croce del 1888). Come una moderna istantanea, potente nel proprio taglio fotografico, finisce con l’essere la ribellione sociale dell’operaio nell’Oratore dello sciopero (1891) di Longoni, autore ancora capace di mettere in primo piano le nuove istanze con una personale visione, semplice e immediata al tempo stesso, della differenza di classi, con Riflessioni di un affamato, un ragazzo che, in un finissimo gioco di luci del giorno, cattura attraverso la vetrina opaca di un caffè la ricchezza di una coppia benestante.

La mostra è un omaggio altresì a Pellizza da Volpedo, una sala ne raccoglie cinque opere fondamentali nel suo percorso d’artista, per tutte La processione (1893-95) e Sul fienile pensato nell’estate del 1892, uno stacco netto tra luce e ombra, una meditazione sulla morte che accompagna gli ultimi istanti di un uomo su di un semplice giaciglio di paglia, ancora i filamenti di colori complementari che occupano lo spazio in controluce, alle spalle nel bagliore quasi accecante la continuità della vita, tra la vegetazione e la geometria delle case assolate. Come è un omaggio ai paesaggi innevati di Giacomo Segantini – ma con lui hanno anche indagato intorno ai chiarori delle bianche e vaste distese Cesare Maggi e Matteo Olivero, Morbelli e Pellizza e Tominetti -, sarebbe sufficiente il celebre Savognino sotto la neve (1890) con la sua lunga distesa di case ariose contro la montagna e quel mantello candido che lascia trasparire tutta le tecnica del Divisionismo, su cui s’imprimono le ali nere che rimandano a van Gogh, unione simbolica di vitalismo e di presagi di morte.

Tappe di armonie, di chiaroscuri, di voci diverse, di colori che s’allineano e che portano ai primi decenni del nuovo secolo, il Novecento, il secolo dei grandi conflitti: un quadro di Plinio Nomellini, sullo sfondo, quasi al termine dell’esposizione, quel Baci di sole che “è un inno alla gioia di vivere”, un inno alla calura estiva e al rigoglio della vegetazione al cui interno l’autore immerge la moglie ed il figlio Vittorio, tra lo scorrere dell’acqua e la riva, tra studiati giochi di luci che si liberano in chiazze dal folto delle piante, in un alternarsi continuo e frenetico di luci e di ombre, occasione per Nomellini per allontanarsi dai suoi compagni di viaggio e tornare per citazioni al Renoir del Déjeuner des Canotiers o al Monet che ritrae i giardini di Giverny: “è una pittura che si affida al colore come cromatismo, luce e trascrizione dei piani, anche se lo scopo è di esprimere un senso panico della natura nella più pura valenza dannunziana”.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini

Gaetano Previati, “Maternità” 1890 – 1891, olio su tela, 175,5 x 412 cm, firmato in basso a destra, Banco BPM

Emilio Longoni, “Riflessioni di un affamato. Contrasti sociali” 1894, olio su tela, 190 x 155 cm, firmato in basso a destra, Museo del Territorio Biellese, Biella

Giovanni Segantini, “Savognino sotto la neve”, non datato (1890), olio su tela, 35 x 50 cm, firmato e dedicato “All’intelligente in arte Luigi Dell’Acqua”, coll. privata

Plinio Nomellini, “Baci di sole” 1908, olio su tela, 93 x 119 cm, Galleria d’Arte Moderna Paolo e Adele Giannoni, Novara

 

Parma e Saluzzo insieme nel segno di Bodoni

Saluzzo e le Terre del Monviso insieme alla Capitale italiana della cultura 2020 nel segno del grande tipografo di cui il 26 febbraio ricorrono 280 anni dalla nascita. Primo appuntamento con la mostra “Bodoni à rebours – The dazzling beauty” del fotografo parmigiano Lucio Rossi

 

Prende il via sotto il segno di Giambattista Bodoni nel giorno dei sui 280 anni la collaborazione tra le città di Saluzzo e di Parma siglato nel 2019 da un protocollo di che guarda agli eventi dell’anno in cui la città emiliana è Capitale italiana della cultura.

Ci sono infatti molteplici ragioni per instaurare un duraturo dialogo tra i due territori. Li uniscono infatti i nomi non solo di Giambattista Bodoni, ma anche di Carlo Alberto dalla Chiesa e di Magda Olivero. Li lega un peculiare vincolo culturale di stampo e lingua francese.

Il primo tassello è la mostra fotografica Bodoni à rebours – The dazzling beauty che racconta le terre di Bodoni, incisore, tipografo, editore nato a Saluzzo il 26 febbraio 1740 e morto a Parma nel 1813. Apprese l’arte tipografica nella piccola officina del padre, poi si recò a Roma come compositore nella stamperia di Propaganda Fide, quindi passò a Parma, invitato dal duca a fondare e a dirigere la Stamperia Reale. A Parma restò sino alla morte, divenendo celebre per l’incisione di nuovi caratteri e per le molte splendide edizioni che pubblicò. Dapprima stampò coi caratteri di P.-S. Fournier, ma nel 1771 diede un primo saggio di caratteri suoi, che a poco a poco perfezionò fino a giungere al famoso Manuale tipografico (post. 1818).

Saluzzo, l’Antica Capitale del Marchesato, e il suo territorio, sono ancora oggi scrigno dell’eredità culturale di Bodoni, come della manualità e artigianalità che vi stanno dietro. A Saluzzo vi sono la Biblioteca Storica che ha saputo gestire al meglio il materiale antico preservato e manifestazioni che annualmente raccontano Antiquariato e Artigianato, proponendo un continuo confronto tra passato e futuro.

A narrare questa storia sarà l’immagine: il fotografo parmigiano Lucio Rossi ha raccontato le Terre del Monviso attraverso migliaia di scatti; 250 di questi divengono una mostra che a partire dall’8 maggio a Saluzzo aprirà le sue porte per narrare un territorio attraverso i volti, le emergenze architettoniche e paesaggistiche, le strade e i passi alpini.

 

La mostra fotografica rappresenterà un saggio di un reportage fotografico di enormi proporzioni che Lucio Rossi ha realizzato, nel territorio intorno al Monviso, durante l’estate del 2019. Quattro categorie di immagini restituiranno l’ambiente in cui Bodoni vide la luce (con particolare riguardo alle montagne), i volti della gente, la storia artistica ed architettonica del Marchesato di Saluzzo con cui egli potè venire in contatto e che, possiamo presumere, ne influenzò il gusto. In particolare, sarà la verticalità degli orizzonti al centro delle scelte, poiché proprio la verticalità dei tipi bodoniani ne rappresenta un elemento fortemente distintivo, oltre che l’origine del dazzling effect che a tale peculiare, elegantissimo stile si associa. La quarta sezione si chiamerà bodoniana e rappresenterà gli elementi che più da vicino raccontano il legame del nostro illustre, comune concittadino con la sua petite patrie: le immagini della casa natale, del convento dei gesuiti dove studiò (oggi casa comunale), dei monumenti medievali e rinascimentali che poterono impressionare la sua estetica, si alterneranno in uno zibaldone di rimandi che affondano le radici nella storia tra Italia e Francia di questo rapporto.

 

La mostra fa parte di Start/storia e arte Saluzzo, un mese di appuntamenti in cui la città diventa capitale dell’Arte di ogni tempo: Arte contemporanea, Artigianato e Antiquariato (dal 24 aprile al 31 maggio 2020).

La mostra Bodoni à rebours – The dazzling beauty con le immagini di Lucio Rossi in autunno si sposterà a Parma, all’interno delle iniziative per la Capitale italiana della cultura 2020.

 

La collaborazione prosegue poi con la musica: in occasione della Festa della Musica (21 giugno), dalle Terres Monviso giungerà la musica occitana per lanciare Occit’amo Festival 2020.

Inoltre in programma appuntamenti di carattere enogastronomico, con l’incontro di produzioni che nel Parmense come nel Saluzzese (sempre rappresentato da TERRES MONVISO) presentano motivi di interesse: erbe e miele, arte casearia, norcineria e vini.