CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 460

ContemporaneA. Parole e storie di donne

Lunedì 1° marzo tornano gli incontri online, i consigli di lettura e le rubriche più amate.

La dj e speaker radiofonica Clarice Trombella e la scrittrice Laura Calosso le prossime ospiti.

 

L’arrivo imminente della primavera porta con sé una nuova stagione di ContemporaneA. Parole e storie di donne, che dal 1° marzo 2021 riprende i rendez-vous sui suoi canali social.

Dopo l’avvio dei primi incontri online lo scorso giugno, culminati a ottobre nella prima edizione del festival, che si è tenuto dal vivo in una due giorni con oltre venti ospiti e la maratona natalizia, ContemporaneA è pronta a riprendere le attività sui suoi canali Facebook, Instagram e YouTube: ogni giorno un appuntamento con una diversa rubrica, con temi che ruoteranno intorno a letteratura, arte, cultura, sempre affrontati attraverso una lente femminile.

 

I PROSSIMI APPUNTAMENTI
Ritorna il lunedì la rubrica che ogni settimana porta un po’ di ispirazione a tutti i followers di ContemporaneA: Una collana di perle, dedicata alle citazioni; si inizia con la poetessa e giornalista statunitense Dorothy Parker e la filosofa e scrittrice britannica Iris Murdoch.
Martedì 2 marzo la prima ospite della rubrica Caffè con le ragazze è la dj e speaker radiofonica milanese Clarice Trombella. Intervistata da Stefano Minola, Trombella racconta del suo Sacerdotesse, imperatrici e regine della musica (BeccoGiallo), nel quale tratteggia venti ritratti di donne protagoniste della musica e che della musica hanno fatto uno strumento di cambiamento sociale. La settimana successiva è la volta di Laura Calosso con Ma la sabbia non ritorna (SEM), in cui si intrecciano narrativa e inchiesta giornalistica, fiction e riflessione sulla realtà, in un romanzo che è anche denuncia dei disastri ambientali causati dall’estrazione indiscriminata della sabbia.
Ritroviamo Dorothy Parker ne L’amica che vorrei di mercoledì 3 marzo, mentre l’appuntamento successivo con la stessa rubrica è con Gianna Manzini, con un focus sulla sua vita, tra anarchia e Virginia Woolf, passando per la vittoria Premio Campiello nel 1971 con Ritratto in piedi, in cui ci racconta in modo lirico, visionario e insieme aspro la storia di suo padre.
Giovedì 5 marzo, spazio all’arte, con un focus su tre progetti di Marinella Senatore, la cui cifra distintiva è da sempre quella di intendere l’arte come partecipazione attraverso performance, dipinti, collage, installazioni, video e fotografie con un forte interesse per le tematiche sociali come l’emancipazione e l’uguaglianza. La settimana successiva (11 marzo), sui canali social di ContemporaneA arriva l’illustrazione di Anna Ippolito Donna con i pesci rossi: una giovane donna si tuffa con slancio perfetto in acqua verso un gruppo di pesciolini rossi, animali simbolo di pace, saggezza e lunga vita sin dal mondo egizio.
Sabato è il momento dei consigli di lettura delle curatrici del progetto, con A ruota libera: Barbara Masoni parla di Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo, edito da SUR e tradotto da Martina Testa (6 marzo) e Irene Finiguerra racconta la sua lettura de La figlia unica, ultimo libro della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera con la traduzione di Federica Niola (13 marzo).
Chiude la settimana La donna della domenica, l’appuntamento dedicato a grandi figure del passato, più o meno note: la francese Simone Veil, che fu sempre impegnata a difendere i diritti delle donne e la memoria della Shoah oltre ai valori dell’Europa unita (7 marzo) e della grande giornalista e critica cinematografica Lietta Tornabuoni (14 marzo).

 

Il progetto ContemporaneA. Parole e storie di donne nasce all’interno dell’associazione biellese BI-BOx da un’idea di Irene Finiguerra e Barbara Masoni, in collaborazione con la libreria Giovannacci e con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. L’illustrazione e il progetto grafico è a cura di Anna Ippolito.

 

COS’È CONTEMPORANEA. PAROLE E STORIE DI DONNE

I RENDEZ-VOUS

ContemporaneA è un progetto che fin dalla sua nascita si è presentato con una doppia anima, online e analogica, e un solo obiettivo: quello di essere uno spazio per tutte le donne (e non solo) dove confrontarsi, sognare e progettare, dove ascoltare gli interventi di scrittrici, artiste, imprenditrici. È così che, nell’ambito della rubrica social Caffè con le ragazze, in questi due mesi hanno raccontato sé stesse e il proprio lavoro autrici come Giusi Marchetta, Costanza Rizzacasa D’Orsogna, Marta Barone, Bea Buozzi, Marilù Oliva, Carola Benedetto e Luciana Cilento. Non solo scrittrici: sono intervenute anche professioniste del mondo dell’arte e della cultura come la direttrice dei Musei Reali Enrica Pagella, la regista Irene Dionisio, la tatuatrice Silvia Maschio, le ideatrici del progetto Senza Rossetto Giulia Cuter e Giulia Perona, la manager musicale Katia Giampaolo, le giornaliste Ritanna Armeni, Simonetta Fiori, Cristina Manfredi.

Non sono mancate le voci maschili, grazie alla rubrica Scrittori per scrittrici, attraverso cui alcuni tra i più amati nomi della narrativa italiana hanno raccontato con brevi video la propria autrice preferita, come Maurizio de Giovanni, Antonio Manzini, Matteo B. Bianchi, Raffaele Riba, Nicolò Targhetta, Lorenzo Marone, Fabio Stassi, Giacomo Nicolella.

Tra le altre rubriche Una collana di perle, ogni lunedì mattina una citazione diversa, che sia di ispirazione per tutta la settimana; L’amica che vorrei, la rubrica dedicata alle scrittrici: da conoscere, da leggere o da rileggere; A ruota libera, in cui le due curatrici di ContemporaneA Irene Finiguerra e Barbara Masoni approfondiscono ogni volta un tema diverso: una corrente artistica, una storia, un libro; La donna della domenica, dedicato alle donne da non dimenticare.

 

IL FESTIVAL

Il 10-11 ottobre 2020 si è tenuta a Biella la prima edizione in presenza del festival Contemporanea. Parole e storie di donne. Tra gli ospiti, Vera Gheno, Simonetta Fiori, Roberta Scorranese, Ritanna Armeni,

Florencia Di Stefano-Abichain, Rossana De Michele, Mariangela Pira, Francesca Angeleri, Silvia Zanella, Elena Varvello, Simone Tempia, Nicolò Targhetta, Andrea Pomella e Raffaele Riba. La prossima edizione del festival è prevista nell’autunno 2021.

 

www.contemporanea-festival.com

Facebook: @contemporaneafestival

Instagram: @contemporaneafestival

 

70 anni di Festival di Sanremo, storia semiseria (seconda parte)

DAL 1990 AL 2011

In questa seconda parte della storia del Festival vi racconto le vere storie dei vincitori dal 1990 al 2011, con i titoli veri delle canzoni che hanno trionfato.

Scoprirete interessanti notizie che non vi sareste mai immaginati…

Una canzone simbolo s’impone nel 1990: è “Uomini poli”magistralmente cantata dai Puh (un gruppo di tubercolotici che sputacchiano continuamente…). Evidente il richiamo a Totò Cotogna (vedi il 1980).

Gli anni 90 iniziano con Riccardo Scocciante (un cantante che in genere canta con Fiorella M’annoia) che vince con la sua allegra “Se sciamo insieme”. Il bello è che, nella sezione giovani, vince Paolo Pallesi (un altro nome che dà l’idea del divertimento…).

Nel 1992 vince Luca Barbagrossa (un parrucchiere prestato alla canzone) che si esibisce con “Portami a sballare”, un rock scritto da un ex drogato recuperato grazie ad un lungo percorso di riabilitazione.

Rivince Enrico Buggeri (il baro a poker, ve lo ricordate? Già primo con il Trio) con “Miss Tero” una marcetta dedicata ad una concorrente di Miss Italia.

Ecco il 1994 con il bell’Aleandro Caldi che trionfa con una canzone dal nome emblematico che suscita l’entusiasmo del Teatro Ariston: “Passera”.

Nel 1994 s’impone la bella Jorja con la tenera “Tome saprei”,canzone dedicata ai fabbricanti di formaggi alpini ed alle loro deliziose forme a pasta dolce.

E’ la volta di Ronron, nel 1995, con la sua “Vorrei incontrati tra centenni”, uno slow ambientato in una casa di riposo per anziani centenari che cercano di avere rapporti sessuali ingurgitando dosi massicce di Viagra.

Gli sconosciuti Gialisse cantano “Fumi di parole”, vincono e scompaiono (anche perché pare avessero copiato la canzone da una sconosciuta band svedese… ma si può?).

Toh, un nome antesignano, Annalisa Minetti (zia dell’igienista dentale tanto nota ai giorni nostri): vince nel 1998 con la canzone dal titolo problematico “Senza the o con the”, liberamente tratto dall’Amleto all’ora in cui gli inglesi devono la loro bevanda nazionale.

1989: Anna Boxa (l’attrice che aveva avuto un gran successo nel film di Clint Eastwood One million dollar baby, ricordate?) porta al successo “Senza dietà”; con un forte accento francese Anna racconta la storia di una bulimica che non riesce a dimagrire perché non trova la dieta giusta…

Il decennio si chiude con gli Avion Travet e la delicata canzone “Pentimento”, l’amara confessione di un bambino che ha rubato la Nutella e chiede perdono alla mamma.

Il nuovo millennio inizia con la vittoria di E’ Lisa (il soprannome di Mona Lisa, una vecchia prostituta padovana) che canta “Duce”, un inno fascista rivisitato a seguito del processo di trasformazione del MSI in AN.

Nel 2002 trionfano i Matia Lazar con “Massaggio d’amore”, il jingle di molte case d’appuntamento che mascherano la loro attività di bordelli con innocui cartelli tipo massaggiatrice Marisa, citofonare quarto piano…

Appare la giovane Aleksya con “Per dire di do” uno scioglilingua per bambini sul tipo ti ritiri o tiri tu, taratara taratà…

Marco Marini (bagnino di Laigueglia) vince a sorpresa nel 2004 con “L’uovo volante”, la storia di uno chef specialista in frittate, abituato a lanciare uova contro il muro per spezzare i gusci.

Il 2005 incorona Francesco Menga (autore dell’omonima “legge”, che non possiamo pubblicare per decenza…) che mette in musica il teorema di Pitagora con il titolo “Angolo”. Purtroppo il successivo contributo musicale, dal titolo “Ipotenusa”, non ha avuto lo stesso successo…

E’ la volta di Povera che, dopo aver cantato la sigla del Sanremo precedente (“Quando i bambini fanno O”, dedicata ai bimbetti che affrontano il disegno per la prima volta), si esibisce con “Vorrei avere il Recco”, sogno di un allenatore di pallanuoto che desidererebbe tanto allenare la migliore squadra italiana.

E finalmente i pazzi di Cristocchi vincono: è l’anno 2007, la canzone si chiama “Ti regalerò una posa”, storia di un fotografo di calendari per soli uomini, che si fa pagare profumatamente per gli scatti a tette e chiappe, ma poi, generosamente, regala sempre una foto alla modella.

Che ridere nel 2008! Il cantante Joe di Tonno (farebbe già ridere così, il bello che il nome è VERO!) vince con “Polpo di fulmine”,delicata storia d’amore tra un polipo ed una seppia in un vorticoso mulinello di tentacoli che sembra di essere ad Arcore…

Trionfo decretato nel 2009: vince Marco Corta (già vincitore della trasmissione Amici e quindi predestinato ad essere primo a Sanremo…) con “La forza zia” un oscuro messaggio lanciato alla sorella della mamma da un giovane in cerca della prima esperienza sessuale (un po’ come nel film Grazie zia).

Stessa storia nel 2010, che chiude i primi 60 anni di Festival: vince, ovviamente, Valerio Scalu (caposcalu all’aeroporto di Olbia, già vincitore della trasmissione Amici e quindi predestinato ad essere primo a Sanremo…) con la canzone “Per tette le volte che…”, un inno al più celebrato simbolo delle donne.

Nel 2011 la censura non riesce a fermare Roberto Secchioni (uno studente sempre gobbo sui libri) che presenta la sua invocazione erotica cantando Chiavami ancora amore”, diventato l’inno delle ammiratrici di Rocco Siffredi.

Arriva, lemme lemme, la cantante Flemma che sorprende tutti cantando, a metà febbraio del 2012, Non è l’inverno, un testo di contestazione delle rigide temperature verificatesi quell’anno a Sanremo.

Il 2013 è l’anno di Marco Mentoni, un giovane con una mandibola molto pronunciata, che trascina il pubblico con la sua L’e senza ale”, misterioso titolo evocativo di pratiche esoteriche.

L’anno dopo è la volta di Arìda, cantante che deve il nome al fatto di essere nata nel deserto del Gobi, molto arido; ma la sua canzone vincente, Controvetro non ha successo.

Ce l’ha invece, nel 2015, enorme, il trio 2015 Il Molo che ottiene una standing ovation con la bellissima Gronde a mare che descrive la strana forma dei tetti delle case della Riviera ligure.

Ancora una vittoria di un gruppo nel 2016: si chiamano Gli Studio e presentano una complicata ricetta di torta cotta a legna; titolo della canzone Un forno mi dirai”.

Originalissima la canzone vincitrice nel 2017, dal titolo “Occidentali’s Tarma”, che descrive una tenera storia d’amore fra una tarma ed un pidocchio conosciutisi in un armadio a muro dove erano accumulati vecchi vestiti. L’artista che la porta al successo è Francesco Gabbiani, un allevatore di pellicani della costa delle Nuove Ebridi.

E’ la volta, nel 2018, della coppia Ermal Menta (un ortolano specializzato nella coltivazione di piantine di menta e di liquirizia) e Fabrizio Toro (allevatopre di bovini nella bassa padana). Cantano una canzone ecologica dal titolo Non mi abete fatto niente per sensibilizzare il pubblico sui problemi del disboscamento alpino.

E siamo arrivati ai giorni nostri: il 2019 segna l’apertura del Festival ai cantanti immigrati: il giovane Mammut (evidenti ascendenze siberiane) lancia il ritornello Saldi”,immediatamente adottato come jingle da tutti gli outlet sparsi per l’Italia.

E chiude questa rassegna il grande Iodato (figlio di un proprietario delle saline di Trapani) che giusto 12 mesi fa vince con la delicata “Mai rumore”, forte denuncia contro rappers ed urlatori di ogni tipo che hanno invaso Sanremo pe decenni.

Chi vincerà la prossima edizione?

Io lo so, ma non ve lo dico…

GIANLUIGI DE MARCHI

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Il “Battista” di Caravaggio ai Musei Reali di Torino

Da Roma un capolavoro delle “Gallerie Nazionali di Arte Antica”. Fino al 30 maggio

Da Roma a Torino. Scortato dal Corpo dei Carabinieri, è arrivato sotto la Mole mercoledì 24 febbraio scorso e qui resterà per i prossimi tre mesi, il “San Giovanni Battista” di Caravaggio, ospitato fino a domenica 30 maggio nelle sale dedicate ai pittori caravaggeschi della “Galleria Sabauda” ai Musei Reali del capoluogo piemontese. L’opera, un olio su tela di 94 x 131 cm., è una delle due ispirate al “Battista”, realizzate da Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (Milano,1571 – Porto Ercole, 1610) fra il 1604 e il 1606 – la seconda, commissionatagli dal banchiere e mecenate ligure Ottavio Costa, si trova ora al “Museo Nelson-Atkins” di Kansas City – e proviene dalle “Gallerie Nazionali di Arte Antica” di Roma grazie a uno scambio promosso dalle direzioni dei due musei in occasione della mostra “L’ora dello spettatore. Come le immagini ci usano” che si terrà fino al prossimo 5 aprile in “Palazzo Barberini” e che, nel suo percorso, accoglierà la rarissima tavola di Hans Memling con la “Passione di Cristo”, conservata alla “ Sabauda”. Sostenuto dalla “Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali” di Torino e da “Reale Mutua”, l’evento espositivo “rappresenta dunque una straordinaria opportunità per portare all’attenzione del pubblico le collezioni di due grandi pinacoteche italiane e il genio dei loro insuperati maestri”. Al San Giovanni Battista, (talvolta definito “San Giovanni nel deserto”), fra i santi più venerati dalle chiese cristiane e spesso considerato come l’ultimo dei Profeti, Caravaggio dedicò, fra l’altro, almeno otto dipinti, oltre tre grandi scene raffiguranti la sua morte, l’imponente “Decollazione” (1608) oggi nella “Cattedrale di San Giovanni” a La Valletta e altre due opere (1609) rappresentanti Salomé che mantiene la sua testa, una custodita al “Palazzo Reale” di Madrid e l’altra alla “National Gallery” di Londra. Davanti a questa tela oggi visitabile a Torino restiamo davvero incantati e toccati nel profondo per il prevalere narrativo di quel “realismo drammatico” di cui a ragione parlava il grande Giulio Carlo Argan che nelle opere religiose di Caravaggio vedeva sempre il prevalere del “motivo sociale”, poiché “il divino – affermava – si rivela negli umili”. Ecco dunque, ancora una volta, un San Giovanni spoglio dei consueti attributi iconografici allusivi all’identità del santo, fra cui il più volte ripetuto (nei tempi dell’arte) “mantello con peli di cammello” . Il Giovanni Battista è qui raffigurato come un essere umano qualunque, un qualunque adolescente, fermato in un momento di riposo nel deserto, accanto la croce di canne e la ciotola per i battesimi, la figura avvolta in un mantello rosso, con le mani screpolate e rugose per la fatica, il busto pallido che emerge dall’oscurità dello sfondo (quale potenza di luci e ombre!), il volto in penombra e lo sguardo schivo e malinconico a ricordarci che fu proprio un vero ragazzo del popolo a posare in studio e a fare da modello a Caravaggio. Non ricordato da fonti coeve, del dipinto si sa solo che nel 1784 faceva parte della Collezione “Corsini” di Roma, dov’era forse approdato in seguito al matrimonio fra Bartolomeo Corsini e Vittoria Felice Barberini Colonna, avvenuto nel 1758. Ora Torino, per qualche mese, potrà goderselo in tutta la sua suggestiva tattile evidenza e sarà anche un’occasione unica per metterlo a confronto con le opere di quei pittori, italiani e stranieri (custoditi alla “Sabauda”) di prima e seconda generazione, che furono profondamente influenzati dalla pittura di Caravaggio. I cosiddetti “caravaggeschi”. Tanti. Da Giovanni Baglione – suo coetaneo e acerrimo nemico – ad altri come Antiveduto Gramatica e all’olandese Matthias Stomer, fino al “Cristo flagellato” di Jusepe de Ribera (lo Spagnoletto) e alla magnifica “Annunciazione” donata da Orazio Gentileschi a Carlo Emanuele I nel 1623. Per la nostra città un evento espositivo imperdibile, che ben risponde alla “necessità di offrire al pubblico- sostiene Enrica Pagella, direttrice dei Musei Reali – proposte culturali inedite, misurate sulle attuali esigenze di fruizione e di sostenibilità, sviluppate anche in collaborazione con altre realtà nazionali”.

Gianni Milani

“San Giovanni Battista” di Caravaggio
Musei Reali – Galleria Sabauda, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5362030 o www.museireali.beniculturali.it
Fino al 30 maggio
Orari: dal lun. al ven. 9/19

In Turingia, nei lager del Terzo Reich

Storia e storie / Il viaggio nei lager del Terzo Reich in Turingia, regione della Germania centro-orientale, inizia con la visita del campo di concentramento di Buchenwald , a circa otto chilometri da Weimar, dove tra il 1937 e il 1945 venne istituito uno dei più importanti campi di prigionia  e di sterminio nazisti sul suolo tedesco.

Buchenwald fu un luogo di morte e sofferenza collocato a qualche chilometro dalla città che, tra il 1700 e il 1800 fu la culla della cultura europea. A Weimar, infatti, vissero Johann Sebastian Bach, Wolfgang Goethe, Friedrich Schiller, Franz Liszt, Richard Wagner e Friedrich Nietzsche. In questo campo, costruito sulla boscosa collina dell’Ettersberg (Buchenwald significa letteralmente “bosco di faggi) vennero internati circa 250 mila uomini provenienti da tutti i paesi europei e un quinto di loro non sopravvisse. A Buchenwald morì anche la principessa Mafalda di Savoia. Sul cancello principale d’ingresso la scritta “Jedem das Seine“, “A ciascuno il suo“, appare come un duro monito per i prigionieri che, nei primi tempi, furono gli oppositori politici del regime nazista, i cosiddetti antisociali, gli ebrei, i testimoni di Geova e gli omosessuali. A Buchenwald era stato un ruolo non secondario nel progetto di sterminio di massa organizzato dal regima nazista: infatti qui si svolgeva la selezione dei prigionieri che sarebbero stati inviati nei campi di concentramento. All’interno del campo si perpetrarono, nel corso degli anni, grandi orrori: le uccisioni in massa dei prigionieri, le morti degli internati prostrati dai lavori forzati, dalle malattie e dalla mancanza di cibo, gli esperimenti dei medici, gli abusi delle SS. Tra i delitti più efferati si ricordano quelli di Ilse Koch, la moglie del comandante del campo, ribattezzata la “strega” o la “iena” di Buchenwald. In pieno delirio feticista fece scorticare la pelle dei prigionieri che avevano tatuaggi e dopo averla fatta conciare la utilizzò per farne copertine di libri e paralumi.

 

Gli alleati liberarono Buchenwald l’11 aprile 1945 quando, dopo la fuga dei nazisti, il campo era già in mano degli stessi deportati e un comitato clandestino internazionale ne gestiva democraticamente la vita. Quando i soldati dell’89ª Divisione di Fanteria della Terza Armata statunitense entrarono nel campo vi trovarono oltre 20 mila persone, tra cui circa quattromila ebrei. Il fatto che il campo fosse stato liberato dagli stessi deportati consentì di evitare la distruzione da parte dei nazisti in fuga dei documenti, come è, invece, accaduto in altri luoghi. Gran parte del materiale conservato a Buchenwald permise di istruire il processo di Norimberga. Dopo la divisione della Germania nella zona Ovest e in quella Est, Buchenwald si trovò nella DDR e fu riaperto tra il 1945 ed il 1950 dal governo sovietico che ne affidò l’amministrazione alla polizia segreta dell’NKVD, trasformandolo in “campo speciale” per oppositori dello stalinismo ed ex-nazisti. La maggior parte del campo fu poi demolito, lasciando intatti solo il cancello principale, l’ospedale interno, due torri di guardia e il forno crematorio. Dopo una breve visita a Weimar, il cui nome è associato all’omonima “Repubblica”, nome dato al governo della Germania nel periodo che va dalla fine della prima guerra mondiale alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti nel 1933, si raggiunge Dora Mittelbau, lager nazista presso Nordhausen, sempre in Turingia, a sud dell’Harz, la più settentrionale delle catene montuose tedesche, dove si racconta riposi, in una grotta, Federico Barbarossa. Il nome femminile non deve trarre in inganno: in realtà si trattava delle iniziali della Deutsche Organisation Reichs Arbeit, l’organizzazione del lavoro tedesca. La sua costruzione, nell’estate del 1943, fu decisa personalmente da Hitler allo scopo di produrvi le “Wunderwaffen” naziste, le armi segrete delTerzo Reich, scelta fatta in seguito alla distruzione della base di Peenemünde, nella parte più orientale della costa tedesca sul mar Baltico, bombardata tra il 17 e il 18 agosto del 1943 dalla Royal Air Force britannica. Secondo alcune testimonianze, le ricerche nelle gallerie di Dora dovevano rappresentare l’estremo tentativo di cambiare le sorti della guerra, grazie alle sperimentazioni e allo sviluppo dei programmi missilistici delle micidiali V1 e V2. Una descrizione precisa del campo venne fornita da Charles Sadron, deportato a Dora dal febbraio del 1944 all’aprile dell’anno successivo, che scrisse: “Il campo è concentrato sul fondo di un vallone incupito dalla foresta di faggi, di betulle e di larici, che copre i suoi versanti. Uno dei quali, a Nord, costituisce il fianco della collina sotto la quale sorge l’officina. […] Due grandi tunnel, designati dalle lettere A e B, paralleli all’apparenza, di circa 3 km di lunghezza e orientati da Nord verso Sud, traforano la collina da parte a parte. Questi due tunnel principali sono collegati fra loro da una quarantina di gallerie…”. Da quei lunghi tunnel, collegati con un sistema di numerose gallerie minori, uscirono quasi seimila micidiali V2. Si trattava di un lavoro massacrante per le migliaia di deportati, costretti a vivere in condizioni disumane nelle caverne, senza vedere la luce per mesi. Tra la fine dell’agosto del ‘43 e l’aprile del ’45, nei venti mesi della sua esistenza, transitarono da Dora 60mila deportati, dei quali circa 20mila persero la vita. Tra di essi vi furono 1.500 italiani, deportati politici e anche militari trasferiti lì in spregio ad ogni convenzione internazionale sui prigionieri di guerra. Quasi un terzo di loro vi  trovò la morte. Tra loro anche i sette alpini furono fucilati a metà dicembre del 1944 per aver contestato le condizioni disumane alle quali erano costretti dai loro carcerieri. Alla metà di aprile del 1945 le forze armate americane liberarono il campo, all’interno del quale lavorarono anche importanti scienziati nazisti. Dopo la guerra, fatte saltare le gallerie e trasferiti negli Usa e nell’Urss  centinaia di scienziati, su Dora cadde il silenzio. I primi ad arrivare furono gli americani ai quali si consegnò la mente scientifica del progetto, l’ingegner Wernher von Braun, giovane genio della missilistica e maggiore delle SS. Von Braun passò con i suoi piani di costruzione delle V2 e con tutti i suoi ingegneri al servizio degli Usa, con la garanzia dell’asilo e della cancellazione dei crimini di guerra. Di Mittelbau Dora si “dimenticarono” anche i processi di Norimberga: fu unico lager che non venne citato. L’oblio del campo di Dora Mittelbau durò fino alla caduta del muro di Berlino e alla riunificazione tedesca. Attualmente le gallerie sono in parte visitabili e accanto c’è un memoriale. Il lungo silenzio, però, pesa come un macigno. Molte testimonianze sostengono che sia stata la conseguenza dell’invenzione delle V2, antesignano dei missili balistici (nel 1969 l’uomo arrivò sulla Luna spinto dal razzo Saturno 5, progettato sotto la direzione di Von Braun: di fatto, l’evoluzione della V2) .

La tecnologia nazista, molto avanzata per l’epoca, favorì la conquista dello spazio da parte di americani e russi, ed entrambi non avevano nessun interesse a ricordare ciò che aveva tragicamente preceduto le loro imprese. In quell’inferno sotterraneo, nel freddo umido di quelle gallerie fiocamente illuminate, tra i rottami dei razzi, si percepisce ancora l’enormità del dolore e della sofferenza di chi non vide la luce nel più duro campo di lavoro forzato del regime della svastica. E’ questa la memoria che resta e che non può essere dimenticata. A testimoniarla, per molto tempo, fu Albino Moret. Trevigiano d’origine, si era trasferito giovanissimo con la famiglia a San Mauro Torinese. Alpino nella Divisione Taurinense, all’ armistizio si trovava sul fronte jugoslavo. Scelse subito di combattere i tedeschi, fu catturato e rifiutò di arruolarsi nella Repubblica di Salò. Per questo fu deportato a Dora. Moret venne liberato nel maggio ’45 a Ellrich, un sottocampo del lager di Buchenwald. Non dimenticò mai quell’orrore e fino all’ ultimo dei suoi giorni testimoniò ai giovani e nei viaggi della memoria la tragedia dei campi di sterminio, insegnando a tanti l’importanza di non dimenticare. Perché, come ammoniva Primo Levi, occorre meditare “che questo è stato”.

Marco Travaglini

Quei “rivoluzionari” dei Macchiaioli!

In mostra al Forte di Bard ottanta capolavori dei pittori ottocenteschi della “macchia”, ribelli ad ogni accademico formalismo Fino al 6 giugno. Bard (Aosta)

In piedi dietro un malandato muricciolo, su cui siede un omino con cappello e un ragazzo se ne sta sdraiato a pancia in giù, quattro giovani soldati in divisa osservano il mare e le vele (due belle grandi in primo piano e una appena accennata in lontananza) che danzano nell’aria pungolate dal vento.

In cielo i grigi ghirigori delle nuvole, specchiate nell’azzurro del mare appena increspato dal moto morbido delle onde e in primo piano il blu e il rosso accesi degli abiti militari. Macchie di colore repentine ma vigorose e composite definiscono un paesaggio particolarmente amato dall’artista. “Reclute sul mare” è un suggestivo dipinto a olio su tela, senza data ma probabilmente realizzato a inoltrata metà Ottocento, da Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908), fra i massimi esponenti del movimento artistico dei “Macchiaioli”, che letteralmente rivoluzionò la storia della pittura italiana del XIX secolo.

Su quella tela, in cui il racconto è vigorosamente creato “en plein air” dal contrasto acceso di luci e ombre, su cui poco o nulla agisce l’incisività del segno grafico, Fattori riuscì mirabilmente, in un solo colpo, a celebrare i temi a lui più cari: il mare “che amo – scriveva lui stesso – perché nato in città di mare” e i soggetti militari legati a quel patriottismo risorgimentale proprio dell’epoca e che ritroviamo in altre sue opere. Come in quelle di altri artisti ottocenteschi, in particolare toscani, ribelli come lui all’“inerzia formale” delle Accademie e passati alla storia con il nome di “Macchiaioli”, cui il “Forte di Bard”, oggi il più importante Polo culturale delle Alpi occidentali, dedica un’importante retrospettiva dal titolo “I Macchiaioli.

Una rivoluzione en plein air” ospitata, all’interno delle “Cannoniere”, fino al prossimo 6 giugno. Curata da Simona Bartolena, prodotta e realizzata da “ViDi” (Visit Different) in collaborazione con il “Forte di Bard”, la mostra presenta ottanta opere che perfettamente testimoniano l’evoluzione di un movimento nato a Firenze nella seconda metà dell’Ottocento (1855-1867) da parte di giovani artisti che, soliti a riunirsi nelle sale del celebre “Caffè Michelangiolo”, diedero vita ad una corrente fondamentale per la nascita della pittura moderna italiana. I “Macchiaioli”. Ribelli giurati al sistema accademico, votati al verismo più immediato e alla ricerca della luce come macchia di colore – accostato, distinto o sovrapposto – e così definiti per la prima volta in un articolo della “Gazzetta del Popolo” del 1862 in occasione di un’esposizione fiorentina, ma con significato tutt’altro che benevolo, che tuttavia il gruppo decise di adottare senza problemi, in quanto incarnava alla perfezione la filososofia delle loro opere.

“Questa mostra – spiega il direttore del Forte, Maria Cristina Ronc- offre molti spunti per rileggere la storia risorgimentale e quegli anni complessi. Il Forte di Bard, infatti, non è ‘solo’ un luogo espositivo ma prima ancora un edificio storico e come tale in questa occasione, più che in altre, amplia e dialoga con l’esposizione dei Macchiaioli e con le vite e le opere di questi pittori soldati”. Il tutto in un ampio percorso storico-artistico che prende avvio dalle opere del livornese pittore-soldato Serafino de Tivoli, formazione neoclassica ma, negli anni di maggior fervore artistico, precursore della rivoluzione macchiaiola, per giungere alle espressioni più mature della “Macchia” con Silvestro Lega (sua la solida immagine de “L’Etrusca”) e Telemaco Signorini, autore di una “Donna a Rio Maggiore”, olio su cartone di potente, lirica intimità.

A seguire le opere del veronese Vincenzo Cabianca, del fiorentino pittore – patriota e docente di italiano Raffaello Sernesi e del pisano Odoardo Borrani, fino alla poetica “Scena romantica” di Cristiano Banti, in cui permangono allusive tracce della formazione scolastica ricevuta all’Accademia di Belle Arti di Siena. E infine i dipinti a tema storico, con i soldati di Giovanni Fattori; toccante anche il suo “Soldato che legge una lettera al campo” del 1874. Così come quelli firmati dai protagonisti del gruppo dopo gli anni Sessanta, quando “la ricerca macchiaiola perde l’asprezza delle prime prove e acquisisce uno stile più disteso, aperto alla più pacata tendenza naturalista che andava diffondendosi in Europa”. A chiudere la mostra, una riflessione sull’eredità lasciata dalla pittura di “Macchia”.

Gianni Milani

“I Macchiaioli. Una rivoluzione en plein air”
Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II 85, Valle d’Aosta; tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it
Fino al 6 giugno
Orari: mart. – ven. 10/18; sab., dom. e festivi 10/19 (Date e orari potranno subire variazioni sulla base  delle eventuali chiusure disposte nell’ambito della classificazione dell’indice di rischio delle regioni stabilito dalle autorità di governo)

 

Nelle foto

– Giovanni Fattori: “Reclute al mare”, olio su tela, collezione privata, courtesy Enrico Gallerie d’Arte, Milano
– Silvestro Lega: “L’Etrusca”, olio su  tavola, collezione privata,courtesy Galleria San Barnaba, Milano
– Telemaco Signorini: “Donna a Rio Maggiore”, olio su cartone, collezione privata
– Cristiano Banti: “Scena romantica”, olio su tavola, collezione  privata

Questo è il Piemonte, bellezza!

AL VIA IL PROGETTO CHE UNISCE CINEMA E PERFORMING ARTS PER VALORIZZARE IL PATRIMONIO CULTURALE
Fino al 24 marzo aperto il bando per registi e videomaker
Foto e grafiche del progetto a questo link https://tinyurl.com/g98jsepl

Alcuni dei più importanti luoghi-simbolo d’arte e cultura del Piemonte diventeranno set cinematografici d’eccezione per dieci compagnie di teatro, musica, danza e circo contemporaneo, grazie a “CIAK! Piemonte che Spettacolo”.
Il progetto ha l’obiettivo di rilanciare il territorio anche in chiave turistica e far ripartire i comparti dello spettacolo e delle produzioni audiovisive messi a dura prova dalla pandemia.
E’ stato ideato e messo in campo da Fondazione CRT, Film Commission Torino Piemonte e Fondazione Piemonte dal Vivo, per promuovere le eccellenze del patrimonio storico, architettonico, paesaggistico e i talenti delle performing arts, attraverso la realizzazione di dieci clip e cortometraggi d’autore destinati alla diffusione locale, nazionale e internazionale. Un’iniziativa che unisce il valore culturale a quello economico-occupazionale, con
Fino al 24 marzo è aperto il bando che selezionerà registi e videomaker. Le dieci location, diffuse in tutte le province del Piemonte, saranno individuate all’interno di una rosa che comprende: le OGR, il Museo di Scienze Naturali, Palazzo Madama, l’Armeria Reale, il Planetario InfiniTo, Stupinigi, il Castello di Rivoli (Torino); il Parco Paleontologico Astigiano e il complesso di beni gestito dalla Fondazione Asti Musei (Asti); il Castello di Casale Monferrato (Alessandria); il Castello di Racconigi, il Castello di Govone, Bene Vagienna con Casa Ravera, Palazzo Lucerna di Rorà e la Confraternita dei Disciplinati Bianchi (Cuneo); il Broletto di Novara; il Museo Borgogna (Vercelli); Villa Giulia (Verbania), il Ricetto di Candelo (Biella).
A ognuna delle dieci sedi sarà abbinata una compagnia di performer dal vivo e una produzione cinematografica, che “abiteranno” gli spazi d’arte e cultura con progetti site-specific, parte integrante della narrazione video.
“Riaccendiamo i riflettori sulle molte eccellenze culturali del territorio, con un progetto anticiclico in collaborazione con le istituzioni: un segnale concreto per far fronte alla crisi e accelerare la ripresa, per costruire una nuova normalità fondata sulla fiducia”, ha detto il Presidente di Fondazione CRT Giovanni Quaglia.
Per Vittoria Poggio, Assessore alla Cultura, al Turismo e al Commercio della Regione Piemonte “Il progetto non solo è innovativo e originale, ma riesce ad attivare il settore economico-occupazionale in un momento in cui far ripartire i comparti dello spettacolo e delle produzioni audiovisive, messi in ginocchio dalla pandemia, è fondamentale. La bellezza delle dieci location che verranno scelte, spaziando in tutte le province del Piemonte, non farà che rafforzare la promozione turistica del nostro territorio attraverso le seduzioni dell’arte cinematografica.”
“E’ un patto stretto fra artisti, autori e istituzioni per salvaguardare alcuni valori: Il primo è il valore creativo nell’offerta digitale che si è inflazionata di questi tempi e non sempre con prodotti di qualità, il secondo restituire in Italia e all’estero l’immagine del Piemonte più bello”, ha detto Matteo Negrin direttore di Piemonte dal vivo
Secondo il Presidente di Film Commission Torino Piemonte Paolo Damilano “questo progetto sintetizza al meglio la naturale connessione tra cultura e turismo, tra audiovisivo e valorizzazione del territorio. Il rilancio turistico di luoghi e architetture passa e parte spesso proprio dal cinema, che ne enfatizza egregiamente la bellezza e l’unicità.

Il bando e i documenti per partecipare sono disponibili sul sito di Piemonte dal Vivo alla pagina dedicata: www.piemontedalvivo.it/ciak.

70 anni di Festival di Sanremo (parte prima)

DAL 1951 AL 1989  / La storia d’Italia è cambiata nel febbraio 1951, quando a Sanremo fu presentato il primo festival della canzone italiana. Quanti vincitori da allora! Vogliamo ricordare i più noti? Ho fatto lunghe e precise ricerche e sono in grado di rinfrescarvi la memoria.

Dunque, nel 1951 vince una giovane Nilla Pazzi con “Grazie dei fuori”, un ritornello composto da Nereo Tocco, grande allenatore di calcio che insegnava ai suoi calciatori a buttar fuori la palla appena vincevano, per guadagnare tempo.

L’anno dopo rivince Nilla Pazzi, con la deliziosa “Viola colomba”, la storia surreale di un uccello dal colore insolito.
Nel 1953 è la volta di Carla Bona (un nome da escort, ma a quel tempo non esistevano…) con la tristissima “Fiale d’autunno”, canzone che parla di vecchietti ricoverati in un ospizio che aspettano Ottobre per iniziare a farsi iniezioni di ricostituenti.
Finalmente vince un uomo, anzi due, la coppia Giorgio Tontolini e Gino Lapilla che nel 1954 cantano l’inno di tutti i figli “Tette le mamme”, una canzone che a quel tempo fece scalpore per l’allusione un po’ osé all’attrattiva del sesso femminile…
Il 1957 porta alla ribalta Nunzio Ballo e Claudio Lilla, con la straziante “Morde della mia chitarra”, la storia di un suonatore di chitarra rimasto disoccupato perché il suo fox terrier gli ha divorato lo strumento con il quale si esibiva nei tabarin (oggi si direbbe discoteca).

Ed ecco il biennio d’oro, con la prepotente apparizione di Domenico Mordugno, in abbinamento con Johnny Durelli (una specie di Rocco Siffredi anni ’60?). Nel 1958 trionfano con “Colare”, divenuto il jingle di una nota casa di bevande gassate americane, la Coca Cola; nel 1959, invece, vincono con “Piave”, liberamente ispirata alla Grande Guerra.
Il decennio si chiude con la vittoria della coppia Pony Dallara e Renato Mascel e la loro “Roma antica”, dedicata ai monumenti più noti della città eterna.
Nel 1963 trionfa Tony Trenis, un vecchio capostazione di Villarbasse, con la sua bellissima (ed eccitantissima…) “Uno per tette”, un’anticipazione di storie verificatesi quasi 50 anni dopo ad Arcore.
Il 1964 è memorabile, compare Gigliola Cinguetti con la sua “Non ho l’età”, canzone di una minorenne coinvolta in un traffico di prostitute-bambine, una forte denuncia sociale contro un fenomeno sempre attuale.
E’ la volta, nel 1965, del grande Bobby Molo, ex marinaio di Camogli che, dopo aver aperto un negozio di barbiere, ha scoperto la bellezza di fare barba e capelli, componendo il tema vincitore, “Se piangi, se radi…”
Nel 1966 vince una coppia di grandi cantanti, Gigliola Cinguetti e Domenico Mordugno con la loro “Pio, come ti amo”, liberamente tratta dalla poesia del Carducci, “T’amo pio bove”, che canta l’innamoramento di una cecoslo vacca per il suo adorato che, purtroppo, ha perso gli attributi saltando malamente una staccionata.
Ancora una coppia l’anno dopo, con Claudio Lilla (toh, chi si rivede…) ed Iva Nanicchi (la cantante più bassa del Festival, una prozia del Ministro Brunetta) che duettano con “Non pesare a me”, testo elaborato nei centri Weight watchers da un gruppo di bulemici preoccupati dei controlli sulla bilancia.

Nel 1968 ecco sul palco Sergio Intrigo (ex dirigente del SISDE) che canta “Canzone per the”, colonna sonora del film “Un the nel deserto”.
Tornano vincitori due colossi della canzone italiana, Bobby Molo in coppia con Iva Nanicchi con la canzone “Bingara”, ambientata nel mondo dei pensionati che passano le domeniche pomeriggio a giocare a Bingo, mangiandosi la magra pensione nell’illusione di azzeccare almeno una cinquina…
Il decennio si chiude nel 1970 con il meritato successo della coppia Adriano C’è l’ontano (proprietario di boschi vicini e l’ontani) e Claudia Pori, un’estetista specializzata nella cura della pelle. Il ritornello è cantato ancora adesso “Chi non lavora non fa le more” che ricorda a tutti che se non si lavora non si possono raccogliere le gustose bacche dei rovi.
Il 1971 è storico, vince Nicola di Bali, un immigrato clandestino proveniente dalla lontana isola dell’Indonesia. Il giovane Nicola canta in coppia con una giovane cantante di nome Nuda (ancora un riferimento a fatti odierni!) e la canzone s’intitola “Il cuore è uno zigaro”. L’apparente errore (zigaro anziché sigaro) è dovuto al fatto che a Bali la esse non esiste, ma c’è solo la zeta, quindi…
Il buon Nicola di Bali rivince l’anno dopo con la canzone che richiama la sua precedente esperienza come cacciatore di balene sulle navi giapponesi. Il titolo è infatti “I giorni dell’arco balena”.
Nel 1973 è la volta di Peppino di Capra, un pastore di lontane origini sarde, con la romantica canzone “Un glande amore e niente più”, che celebra le eroiche gesta erotiche di un giovane imprenditore milanese.

Ritorna sul podio l’inossidabile Iva Nanicchi nel 1974 con “Ciao bara, come stai?”, una marcetta diventata di moda nei funerali delle sette sataniche.
Appare per la prima (ed ultima) volta una certa Gilda con un titolo scomparso subito dalle classifiche “La ragazza del CUD”, storia di un’impiegata addetta alla dichiarazione dei redditi dei pensionati.
Ritorna sul palco Peppino di Capra nel 1976 con la sua “Non lo caccio più”, motivetto ispirato ad un professore di latino che, dopo aver espulso dall’aula infinite volte un alunno indisponente cambia atteggiamento e gli dà dei bei 10 quando il padre, facoltoso professionista, gli stacca un assegno da 50 milioni.
Gli Homo sapiens vincono nel 1977 con “Balla da morire”, colonna sonora del film “Balla coi cupi”, torbida storia di omosessuali piemontesi.
Ecco il 1978 con la canzone “…E dirsi miao” cantata dai Mattia Lazar, una bella storia di amore tra mici, tratta dal film “Gli Aristogatti”.
Lo sconosciutissimo Mino Vermaghi arriva primo con “Arare” e scompare nel nulla…
E finalmente nel 1980 trionfa Totò Cotogna, un coltivatore di mele destinate alla produzione di cotognata. La canzone, famosissima, s’intitola “Polo noi”, l’epopea degli esploratori Amundsen e Scott impegnati alla ricerca del Polo Nord e del Polo Sud.

Gli anni 80 iniziano con Anìce che si esibisce con una canzone di forte denuncia sociale, “Pere Lisa”, in cui si fa chiaramente riferimento ad una giovane in preda alla droga.
Nel 1982 vince Riccardo Foglia (un botanico prestato alla canzone) che si esibisce con “Storie di tutti i forni”, liberamente ispirato al romanzo di Giulio Verne “Il giro del mondo in 80 forni”.
La sconosciuta Tiziana Risale vince con “Farà quel che farà” e scompare nel nulla.
E finalmente, dopo anni di tentativi andati a vuoto, vince Al Nano (un lontano parente di Brunetta) che, in coppia con la moglie Romina, canta “Ci farà”; ma tutti ricordano il vero vincitore, quello della sezione giovani, Eros Racazzotti (un ex pugile dilettante) che entusiasma giovani e vecchi con la sua “Una tetta promessa”, altra anticipazione di storie attuali…
Nel 1985 al primo posto si piazzano i Ricci e Poveri, pescatori squattrinati di ostriche, cantando “Se minna moro”, di cui nessuno ha mai capito il significato…
Il bravo Eros Racazzotti trionfa nella sezione principale nel 1986: il titolo del suo brano è “Adesso Su”, dedicato ai protagonisti della serie televisiva Dallas, in cui domina la figura di Su Ellen.
Si mettono in tre, nel 1987, per vincere, e sono tre grandi: Gianni Forandi (gommista di Roncobilaccio), Enrico Buggeri (baro a poker) e Franco Gozzi (un malato con vistose carenze di iodio). Il titolo è rimasto nella storia: “Si può mare di più”, una spensierata canzone che celebra la bellezza delle vacanze ad Alassio.
E’ la volta, nel 1988, di Massimo Panieri, un esperto nella fabbricazione di cesti di vimini, che dopo tanti anni vince l’alloro con “Perdere le more”, la storia di una giovane raccoglitrice di bacche dei rovi che inciampa nel bosco e perde tutto il raccolto.

1989: una coppia supera tutti i concorrenti. Sono Anna Ossa e Fausto Le Ali (un pilota dell’Alitalia in congedo; tanto a quei tempi lo stipendio si prendeva lo stesso…) con la loro “Ti fascerò”, tenera storia di una mamma che accudisce il suo bébé con sistemi tradizionali, rinunciando ai pannolini preconfezionati.

Gianluigi De Marchi

Volete saperne di più sul Festival di Sanremo?
Chiedete il libro “La mormora sussurra, l’ornitorinco … glionisce” al numero 3356912075 oppure scrivete a demarketing2008@libero.it

Il paesaggio di Ugo Dusio

Mombello 1926 – Casale 2001 / Il paesaggio, tema prediletto della pittura piemontese del secondo ottocento attraverso diverse interpretazioni, da quella ancora classicistica ed istoriata di Massimo d’Azeglio, la sommessa intonazione intimistica di Antonio Fontanesi oltre al verismo schietto di Lorenzo Delleani e della Scuola di Rivara, ha sollecitato diversi artisti del novecento nel proseguire il percorso figurativo senza lasciarsi sedurre dall’arte aniconica che si stava imponendo prepotentemente.

I grandi pionieri delle avanguardie, geniali e provocatori,troppo spesso sono stati emulati e banalizzati da una miriade di pseudo-artisti che si sono limitati a ripetere ciò che non deve essere ripetibile, ma solo un invito a nuove possibilità creative, avviando una specie di ”Accademia delle Avanguardie” .

Nel nostro Monferrato abbiamo avuto, nel secolo scorso, alcuni artisti che hanno continuato costantemente e coraggiosamente il genere figurativo memori di quanto disse Felice Casorati “Impoverendo la forma si impoverisce la conoscenza del mondo avviando ad un nichilismo senza valori”.

Tra gli artisti che hanno privilegiato il paesaggio mi pare doveroso ricordare il casalese Ugo Dusio che ha esplorato la natura in ogni suo elemento, collina, boschi, sottibosco, vigneti, soprattutto i singoli alberi con una descrizione riconoscibile in ogni tipologia pur facendogli assumere un aspetto purificato al di sopra del reale.
Amante della bellezza, sobrio, raffinato e meditativo,

attraverso l’unione di forma e contenuto, capacità tecnica e idea, ha saputo conciliare il visibile con l’invisibile confermando la convinzione che le opere d’arte sono una ampia confessione autobiografica, traduzione della propria vita spirituale poiché possiedono una finalità interna corrispondente alla personalità umana.

La passione per il paesaggismo ha stimolato Dusio, sebbene autodidatta e di professione bancario, a dedicarsi costantemente all’arte, favorito dalla visione della bellezza del Monferrato e dal nutrito bagaglio culturale appreso con lo studio accurato di artisti del passato, a lui congeniali, senza che potessero minarne lo stile personale, avviandolo a nuove creazioni.


Non gli sono estranee le morbide e ovattate pennellate di Poussin mentre la concessione all’Impressionismo si risolve unicamente nel gusto del plein air, piuttosto c’è affinità elettiva con gli artisti della Scuola di Barbizon nella foresta di Fontainebleau, in particolare Theodor Rousseau, che non colgono l’attimo fuggente bensì il sentimento duraturo nel tempo.

Ne nasce un’autentica dichiarazione di appartenenza alle proprie radici dove ogni forma di vita diventa archetipo, sedimento inalterato della terra in cui è nato e vissuto.
Di preferenza i silenti dipinti escludono la figura umana come se questa potesse disturbarne la silente bellezza; basta però l’accenno ad una casa emergente inaspettata dalla vegetazione per sprigionare un afflato di calda umanità che solo un vero artista sa evocare in modo così sincero.

Giuliana Romano Bussola

Le città (tutt’altro che) invisibili

Da remoto impero di Kubilai Khan, popolato da città – invero già nel Medioevo ben più popolose di quelle europee – favolose tanto nel Milione quanto nella reinterpretazione novecentesca di Calvino, a gigante demografico e potenza geopolitica, competitore degli USA più serrato dell’URSS durante la Guerra Fredda.

Il Museo di Arte Orientale allestisce un affresco urbanistico in collaborazione con il Politecnico di Torino, i cui studenti di ingegneria ed architettura hanno documentato la nascita di nuovi distretti abitativi e governativi cinesi previsti dai Master Plan di riorganizzazione delle grandi città costiere e creazione di poli nelle province più interne e meno sviluppate.
Dalla loro esperienza nasce un’esposizione, principalmente fotografica, aperta da fine ottobre, interrotta dalla seconda ondata pandemica, e di recente riaperta e prolungata.
La vocazione del MAO, non limitata alla raccolta archeologica, ma punto di riferimento per approfondire e comprendere le grandi civiltà orientali, le quali, dall’islamica all’indiana, dalla cinese alla giapponese, sono ben vive e contigue al proprio passato, non riconducibili ad “oggetti da museo” come per altre parabole storiche ormai concluse, è confermata tanto dal ricco calendario di eventi e seminari quanto dalla creazione di una mostra fondata su materiali contemporanei – plastici, contributi multimediali, planimetrie, disegni tecnici e appunti di architetti – , fino agli immancabili dati, animati, raccolti in grafici comparativi, resi vivi e parlanti, ormai parte di ogni storytelling.
La vorticosa espansione urbana cinese si traduce nell’impressionante velocità di crescita dei principali indicatori sociali, dal PIL pro capite all’accesso a beni di consumo, pienamente disponibili nelle città e in rapidissimo aumento (impressionante la crescita nell’ultimo ventennio) nelle campagne.
I visitatori si muovono tra innumerevoli cantieri, visioni quasi fantascientifiche di strade a tre corsie, ferrovie, spazi enormi e silenziosi, dominati da grattacieli, in cui le persone spariscono, pur presenti nelle luci accese delle notti, dal traffico, dal formicolare dei muratori, nel fatto che dietro l’espansione della città non c’è nessuna forza autonoma, ma l’azione di quel mammifero sociale che è il Sapiens.
Pur nelle somiglianze esteriori, la città cinese si mostra lontana dalla tradizione urbana occidentale nata dal Medioevo e sulla quale la nostra cultura si fonda, il cui centro storico si fa punto d’attrazione turistica, luogo di storia e di bellezza; è una città funzionale, concepita per gestire l’esuberante demografia – ancorché destinata a venir superata dall’India e con molti dei problemi di senescenza di Europa e Stati Uniti – in quello che dovrebbe essere il secolo dell’affermazione e forse dell’inizio di un nuovo corso della storia, smaltendo l’amministrazione, offrendo il benessere cui le nuove generazioni, dopo il travagliato secolo scorso, ambiscono, raccogliendo il frutto dello sviluppo dell’ultimo quarantennio.
La fotografia delle biciclette affastellate a perdita d’occhio nelle rastrelliere del bike sharing in un piazzale, così diverso dalla manciata di stalli nelle nostre vie, pone inevitabilmente l’interrogativo sul significato di una vita in periferie sterminate, ancorché residenziali, immerse in megalopoli dove il nucleo originario dista ore di metropolitana, in cui appare la possibilità di trascorrere l’intera propria esistenza nel proprio sterminato quartiere, un po’ come si poteva condurre la propria vita all’interno della propria piccola patria, o la propria città, nella quale è pur possibile ritrovare il mondo intero.
Ideale distopico e propagandistico, parte di quella società del controllo, di internet nazionale a circuito chiuso e social network autarchici, o necessità del progresso che qualunque collettività di quelle dimensioni dovrebbe affrontare per consentire a tutti una vita dignitosa?
Le città fotografate ingoiano l’uomo, inesorabili come inesorabili fagocitano le campagne verso le quali si protendono, sottraendo loro la residua “misura umana”, ma al cui rimanente ritardo, soprattutto in termini di reddito, si propongono di porre rimedio; città dunque con problemi diversi da quelli delle “nostre”, gentrificate, dissociate tra periferia e centro, centro a sua volta diventato turistico e in crisi di identità: ci si può solo interrogare su quali dinamiche, e di quale scala, si potranno generare in futuro nelle enormi metropoli d’Oriente.
La Cina, che proprio grazie alla progressiva acquisizione di una dominante dimensione urbana, potrebbe apparirci più vicina dell’India, si mostra in realtà sfuggente nella difficoltà ad inquadrare davvero le proporzioni in gioco, per non parlare dei numeri assoluti.
Le questioni interne, di repressione etnica e politica, e estera, la crescente frizione economico-commerciale e l’interrogativo sul futuro esercizio dell’opzione militare, restano sullo sfondo, come probabilmente sono secondarie alla quotidianità dei cinesi, uomini come noi, che quelle torri di cemento abitano, con i loro lavori, pensieri, sogni ed impegni quotidiani, connaturati alla nostra condizione; quanto non si mostra direttamente, non può però che riaffiorare in una riflessione finale, riandando a ciò che più di tutto spicca dai contributi multimediali della mostra: la numericamente vertiginosa leva umana che la Repubblica Popolare può cooptare ed organizzare.

Andrea Rubiola

Sbagliare si può, anzi si deve

Commettere errori è legittimo, la perfezione non esiste.

Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono” diceva Cicerone.

Sbagliare è una cosa del tutto normale, la vita, di frequente, ci coinvolge in difficili ed inedite situazioni a cui non siamo preparati, il percorso che percorriamo è cosparso di ostacoli chespesso siamo costretti a superare passando per la strada del fallimento. A nessuno piace l’idea di aver commesso degli errori e la consapevolezza di averlo fatto provoca frustrazioni, sensi colpa e insoddisfazione.  Sfortunatamente non ci sono persone immuni, tutti noi prima o poi  siamo vittime di uno scacco, ma il risvolto positivo è proprio che da questi incidenti di percorso possiamoimparare e crescere.

La perfezione quindi a cui utopicamente ci ispiriamo, l’impeccabilità che rincorriamo nei vari ambiti della nostra vita,dall’aspetto fisico alle relazioni sentimentali e sociali, dallo studio alla carriera non  esiste; siamo esseri imperfetti con qualità e fragilità, umani legittimamente difettosi ma straordinariamente pronti a risollevarsi più forti di prima.

Di questa capacità di miglioramento, legata ad un profondoprocesso di evoluzione, ce ne parla Enrico Galiano nel libro “L’arte di sbagliare alla grande; l’autore ci spiega, in sostanza,che è  più importante insegnare a rialzarsi piuttosto che puntare a non fallire e che è fondamentale percorrere la strada dell’autenticità invece di quella della perfezione.

Come afferma Galiano, nel libro edito dalla Garzanti, “l’errore è una potente arma di apprendimento” mentre nella quotidianità, nella scuola e nella cultura in genere la tendenza è di demonizzarlo, di considerarlo esclusivamente un tabù. In questo modo, sbagliare si  riduce unicamente ad una colpa, ad unafrustrante azione da evitare per non doversene vergognare, purtroppo qualche volta per la vita intera. Nessuno potrebbe mai affermare che fallire, commettere un errore, fare un passo falso o peccare è piacevole, ma a volte è necessario per imparare, per crescere, per imboccare la strada giusta per noi e ricominciare. Ovviamente l’errore bisogna cercare di non ripeterlo e fare tesoro dell’esperienza negativa ma ancora più importante è non accanirsi su se stessi piegandosi ai sensi di colpa, pesanti macigni che minano la nostra serenità e a volte la nostra salute.

In 157 pagine, l’autore ci racconta anche i suoi sbagli e le sue scelte avventate, ci confida i suoi errori veniali ma anche quelli più seri; il libro è uno scritto pedagogico che, grazie alla sensibilità di Galiano, può rivelarsi molto utile per comprendere che la vita, una meravigliosa e complessa avventura, deve essere vissuta profondamente accettando  anche gli sgambetti e le difficoltà a cui quest’ultima ci mette di fronte.

Ogni situazione, compresi quelle di cui ci pentiamo e che consideriamo sbagliate, sono una grande fonte di trasformazioneed evoluzione.

Concediamoci di sbagliare, perdoniamoci, impariamo dall’errore e cerchiamo di vivere più serenamente e a pieno la nostra vita.

Maria La Barbera