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Un dialogo con le periferie di Mario Sironi presso la Tait Gallery, dal 24 gennaio al 27 aprile 2025
Dopo il successo della mostra alla Promotrice delle Belle Arti a giugno, torna a Torino l’artista Ciro Palumbo con la mostra “Nulla è perduto nonostante l’oblio”, un dialogo e un confronto con alcune opere di Mario Sironi e le sue periferie. La mostra è visitabile dal 24 gennaio fino al 27 aprile 2025 presso la Tait Gallery di via San Quintino 1 bis, a Torino, un nuovo spazio espositivo aperto nel maggio 2024 da Lorenzo Palumbo e Simone Lo Iudice.
Il tempo scorre veloce e inesorabile, fugge via come i ricordi senza un testimone. Se non si ha la determinazione e la consapevolezza di fermarlo, l’oblio è inesorabile. L’arte ha quel sacro ruolo di cristallizzare il tempo e renderlo eterno, facendo si che nulla sia perduto. In questa nuova mostra, Ciro Palumbo propone una serie di circa 20 opere dedicate alle città e alle periferie a confronto con due opere di Mario Sironi dal titolo “Figure”, della seconda metà degli anni ’40, e “Composizione”, del 1948. La scelta di queste due opere di Sironi non è casuale poiché Palumbo, ispiratosi alle periferie, grande tema del Novecento, usa, come Sironi, la prospettiva come un artificio che crea l’illusione dello spazio attraverso la combinazione di rapporti di proporzioni, forme geometriche e riferimenti minimali al costruito e alla presenza umana, creando un’impressione di sospensione che interpella il fruitore portandolo a interrogarsi su questioni di natura esistenziale e metafisica. Le città di Palumbo sono città silenti, rigide, spigolose, dove la luce è timida e artificiale. L’artista avverte il bisogno di rifugiarsi nelle inquietudini ombrose, e le sue vedute sono luoghi da dove è possibile spiccare il volo per uno spazio dove fermarsi sospesi.
“Sironi fa parte di quegli artisti del Novecento che studio, approfondisco e con i quali dialogo naturalmente – spiega l’artista Ciro Palumbo – mi hanno da subito colpito la potenza del suo segno, il suo essere figurativo e la sua capacità di giocare con la materia, arrivando a creare opere enormi e visionarie. L’ispirazione al tema delle periferie, tipico del Novecento e estremamente attuale oggi per il periodo storico che stiamo vivendo, fatto di guerre, desolazioni e solitudini, è stata alla base del mio lavoro inerente a questa mostra e del dialogo con lo straordinario artista Mario Sironi. La contemporaneità e gli eventi attuali mi hanno portato anche a rappresentare lo spirito della solitudine attraverso il simbolo della maschera e attraverso gli spazi urbani vuoti, delimitati da edifici, al cui centro compare un albero che simboleggia la vita”.
I paesaggi urbani di Sironi, pur essendo definiti metafisici, hanno già insite le caratteristiche del suo ritorno all’ordine classicista. Le linee rette, case, poligoni perfetti in spazi perfettamente equilibrati, richiamano un classicismo enigmatico, ricco di presentimenti e ripropongono la monumentalità della desolazione delle periferie e il doloroso senso di isolamento.
La poetica di Palumbo inizia con la scuola metafisica di Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, per reinventarne i fondamenti secondo un’interpretazione personale e originale, ed è in questo contesto che si inserisce “Nulla è perduto nonostante l’oblio”, le opere di Ciro Palumbo in connessione con un grande maestro del Novecento, Mario Sironi, che al capoluogo piemontese ha dedicato parte del suo percorso creativo. Entrambi rappresentano la sospensione, la tensione emotiva del ritrovare un senso alle azioni e alla vita umana. Catturano tra i segni e i ritratti dell’inafferrabilità del tempo la solitudine individuale di un mondo affollato da dubbi e incertezze. Sironi e Palumbo si cibano degli equilibri inquieti del loro presente che condividono umanamente ma non artisticamente. Il silenzio è ciò che ricerca Palumbo, il terribile e innaturale vuoto dell’afonia umana, dato dalle urla del passato, che è ciò che lo affascina in Sironi. Questo punto d’incontro racconta come un percorso artistico prosegua nel tempo e si modifichi, prenda vie e linee differenti, si contamini con nuovi immaginari e ambienti, ma con la stessa necessità artistica: rappresentare un mondo che, seppur affollato, porta l’essere umano a sentirsi solo e a ricreare spazi altri per poter ritrovare una realtà maggiormente a sua misura. Palumbo è mosso da una riflessione che tenta di coniugare metafore pittoriche, la transitorietà del tempo e la profondità dello spazio, dando vita a rappresentazioni immaginifiche che tentano di articolare insieme memorie e materiale iconografico tratto dalla nostra storia culturale e dal nostro immaginario collettivo. La sua ricerca è caratterizzata da un continuo approfondimento del gesto pittorico e dal dialogo costante con poesia, letteratura, filosofia, mito e storia dell’arte, e prende le forme di un tentativo di rendere ragione dell’umano e della sua forza creativa, indagando le possibilità di dare forma a un’alternativa spirituale alla precarietà e al senso d’angoscia dell’uomo.
Mara Martellotta
È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.
L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare. Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”. Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso. (ac)
In seguito all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative del 1902 a Torino, gli artisti e i professionisti presenti ebbero l’opportunità di conoscere e visionare i più rappresentativi esempi di Art Nouveau, firmati proprio dai migliori esponenti della corrente artistica di tutto il mondo. Successivamente a tale avvenimento e grazie alla presenza sul territorio di abilissimi architetti e assai preparati ingegneri, che potevano contare su una ricca classe borghese e imprenditoriale, la città sabauda si trasformò in un immenso cantiere di sperimentazione stilistica, che in circa trent’anni portò alla realizzazione di un gran numero di edifici appartenenti alle più svariate tipologie, sia industriale che residenziale, dai palazzi destinati all’istruzione o al culto, fino ad alcuni esempi di arte funeraria. Gli artisti torinesi interpretarono il Liberty con originalità e maestria, rivisitando le scuole dell’Art Nouveau, da quella franco-belga a quella austro-tedesca, con occhio personale e mai scontato. Torino, ancora oggi nota per le grandi architetture barocche dei palazzi nobiliari e delle celebri residenze sabaude, vede affermarsi dunque, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, una nuova corrente artistica, meglio conosciuta come “Liberty”. Di questo stile, Torino presenta numerose testimonianze di pregio, al punto da essere considerata la capitale del Liberty italiano.
Sul piano prettamente estetico il Liberty affronta l’eterno problema del “bello”, ovvero l’ideale di un “socialismo della bellezza” inteso come diffusione e messa a disposizione di prodotti artistici presso una sempre più vasta porzione di cittadinanza, nelle più disparate applicazioni, verso un’unica adesione ad un’estetica condivisa, che ha nella natura il suo inizio e la sua fine. Grazie allo sviluppo industriale e agli interventi urbanistici in varie zone della città, il Liberty si impose elegantemente nelle linee architettoniche di interi quartieri, dalla Crocetta alla Gran Madre, da Cit Turin a San Donato. In ogni spazio edificato all’inizio del secolo scorso su impulso della nuova borghesia industriale, vi è la chiara impronta dell’originale stile artistico europeo, di cui ancora oggi possiamo ammirare l’elegante armonia architettonica.Passeggiando per Torino, con lo sguardo attento ai palazzi più rappresentativi, che si stagliano netti ed eleganti per le vie della città, non si può fare a meno di rimanere estasiati e ammirati di fronte alla raffinatezza espressiva di alcuni edifici, dalle linee flessuose e curve, dai tratti “morbidi” delle facciate, che ancora ci sorprendono per la loro piacevole bellezza architettonica. Osserviamo tetti insolitamente ricchi, vetrate che catturano la luce riflessa in colori pastello, tettoie con strutture in ferro-vetro, dettagli di balconi dalla ringhiera incurvata, dove l’alternanza vuoto-pieno sottolinea vitalità e dinamismo. E poi portoni, mancorrenti, finestre con finezze di particolari, festoni e fregi che richiamano la grazia della natura mediante la riproduzione di piante, foglie, tralci, fiori, tutta una leggiadria di forme che sembrano quasi nascondere e tacitare il peso del litocemento. E poi ancora la riproduzione di rampicanti che, sviluppandosi in altezza, sanno dare un tocco di levità ai palazzi, arricchiti anche da conchiglie, sirene, animali araldici, curiosi ghirigori. Ogni edificio mantiene una propria impronta particolare, ma, nel richiamarsi alla nuova linea floreale, la sa esaltare in strutture di spettacolare bellezza, come il flessuoso e morbido bovindo, bow-window, che nell’inglese antico significa “finestra ad arco”, ed è, nell’edificio, la parte di un ambiente aggettante verso l’esterno, come un balcone chiuso da vetrate.
L’ingegnere Pietro Fenoglio, il più grande architetto torinese di questo stile, ne ha realizzati numerosissimi in città, e in forme assai diverse, rettangolari, ovali, quadrate, circolari, cilindriche. A mezza altezza tra la strada e il tetto, il bovindo, anche solo di un metro quadrato o poco più, è una magnificenza costruita sulla facciata, dove la fantasia creativa ben si accompagna al tratto fluido e morbido, alla varietà e all’inventiva. E così, nella malinconica Torino gozzaniana che mi piace ricordare (Come una stampa antica bavarese/vedo al tramonto il cielo subalpino…/Da Palazzo Madama al Valentino/ ardono l’Alpi tra le nubi accese…/ E’ questa l’ora antica torinese,/ è questa l’ora vera di Torino…), trovano spazio architetture quasi gioiose, dove il rosso del mattone ben si accorda al grigio chiaro del litocemento. In una perfetta costruzione armonica, ogni più piccolo particolare è studiato con cura, e i ferri battuti delle ringhiere dei balconi a volte differiscono volutamente per qualche minimo dettaglio, che solo una disamina attenta riesce a cogliere, e anche gli androni, le scale, i mancorrenti sono originali e costruiti ad arte. Nello stile floreale gli ornamenti fanno parte della costruzione complessiva, non sono elementi puramente accessori, quasi in aggiunta, al contrario prendono, per così dire, vita dalla bellezza dell’insieme. Improntati allo stile Liberty, Torino presenta non solo un gran numero di case e villini, ma anche stabilimenti industriali, uffici pubblici e scuole, disseminati nei vari quartieri della città, la Crocetta, San Donato, il Centro, San Salvario, la Gran Madre, Cit Turin.
Di certo è stata troppo breve l’ingenua e ottimistica stagione Liberty, ben presto l’abilità tecnica si concretizzò negli orrori della guerra e la realtà drammatica che si andò delineando portò a una diffusa sfiducia nei confronti dell’arte come materia salvifica. La bellezza dunque non è più né ricercata né indagata, la “funzione” prevale sulla “forma” e la violenta modernità si manifesta con canoni antitetici rispetto agli ideali dell’Art Nouveau. Il tempo della natura e dei suoi mirabolanti ghirigori viene schiacciato dal suono devastante delle bombe e delle grida del primo conflitto mondiale.
Alessia Cagnotto
E’ di nuovo in libreria, per i tipi di “Capricorno Edizioni”, il “romanzo postumo” di Giovanni Arpino “La trapola amorosa”
“Se non avrai nemici, significherà che hai sbagliato tutto”. Così scriveva, sornione e l’eterna sigaretta in bocca o gironzolante fra le dita, Giovanni Arpino che, di certo qualche “nemico” (forse più d’uno) avrà dovuto avere nell’ambito della radical-chic “intellighenzia letteraria” novecentesca, se si vuole in qualche modo spiegare l’inspiegabile oblio a lui – autore di ben sedici romanzi, quasi duecento racconti e vincitore di vari Premi (dallo “Strega” al “Campiello”) – riservato dalla critica e dalla “grande” editoria di fine ‘900 e primi Duemila. Oblio riservato del resto ad altri grandi scrittori e “outsider di genio, autori di romanzi imperdibili, ma da tempo non più disponibili sugli scaffali delle librerie” se non su quelli dell’usato o “ripescati dalle mensole di casa da lettori particolarmente voraci”. Parte da queste constatazioni e dalla volontà di ripescare opere letterarie vergognosamente lasciate, per anni, a galleggiare nello stagno della dimenticanza, l’impegno della Collana “Capolavori ritrovati della letteratura” ideata e proposta da tempo dalla torinese “Capricorno Edizioni”. Obiettivo, per l’appunto, riscoprire i “classici” della letteratura fra Otto e Novecento, “riportati nel posto che loro compete, il ‘Gotha’ della grande letteratura senza tempo”. Così, dopo Cesare Pavese (“Ciau Masino”), Guido Gozzano (“L’altare del passato”), Edmondo De Amicis (“Amore e ginnasica”) e Carolina Invernizio (“Nina la poliziotta dilettante”), è proprio Giovanni Arpino (di cui il prossimo 27 gennaio ricorrerà il 97° dalla nascita) ad essere riproposto dall’Editrice indipendente subalpina, con sede in corso Francia a Torino, attraverso le pagine de “La trappola amorosa”, con postfazione di Bruno Quaranta. Romanzo postumo (1988), certamente fra i più riusciti ma anche fra i meno conosciuti dello scrittore giornalista e poeta istriano-piemontese, Arpino (nato a Pola, all’epoca ancora italiana, nel 1927 e scomparso a Torino nel 1987) lo concluse “in gara febbrile con la morte” (Lorenzo Mondo) pochi giorni prima di lasciare questo mondo, “perché – parole dello stesso Arpino – non si può morire con un romanzo tra le costole”.
La trama, in estrema sintesi. La vicenda si svolge nel 1986 in una “città di portici che è l’innominata Torino” (Lorenzo Mondo) e racconta la storia di Giacomo Berzia, solitario attore sessantenne, ormai privo di ambizioni, che da una radio, ogni settimana, invia “Lettere impossibili” a un politico, a una diva, a un regista e perfino a Dio (“So di non doverLe scrivere più. Ho finalmente capito la lezione: la Sua risposta è il silenzio”). Un bel giorno, la routine di Berzia è sconvolta dall’apparire di una serie di messaggi che gli palesano l’“interesse amoroso” di una misteriosa corteggiatrice: lettere, biglietti, scritte vergate con il gesso sul tavolo della radio, doni natalizi, velate minacce… Una “caccia all’uomo” incalzante e al contempo ironica, una “trama blandamente appesa a un filo giallo raccontata con il piglio robusto e istintuale dell’ultimo Arpino” (Lorenzo Mondo).
Storia modernissima, in certo senso precorritrice dei tempi, un “romanzo giocoso – scrive Roberto Marro, curatore della Collana ‘Capolavori ritrovati’ – felice, malinconico eppure pieno dʼuna tiepida, confortevole speranza, di una giocosità beffarda e tranquilla, scritto con una maestria linguistica che non abita più sulle pagine dei libri del nostro tempo: un libro, se è lecito il gioco surreale degli accostamenti, che sta tra Pirandello e Paolo Conte, Gozzano e Hammett. Oppure no: semplicemente un libro di Giovanni Arpino, scrittore grande anche al passo dʼaddio. Intramontabile. Forse è davvero ora di tornare a leggerlo”. E riscoprirne, attraverso pagine di perenne contemporaneità, quello slancio umano, un po’ sacrilego e di costante piacevole bizzarra ironia, e quell’inarrestabile valanga di satirica passionalità che fece dire a Indro Montanelli (con cui Arpino collaborò dal 1980 scrivendo su “Il Giornale” di cronaca, costume e cultura): “Un’ora con lui era un bagno d’osservazioni, ricordi, aneddoti, confessioni, sembrava che ti avesse spiattellato su un tavolo tutto sé stesso”.
Per info: “Capricorno Edizioni”, corso Francia 325, Torino; tel. 011/3853656 o www.edizionidelcapricorno.com
Gianni Milani
Nelle foto: Cover “La trappola amorosa”, Capricorno Edizioni e Giovanni Arpino, Premio Campiello, 1980 (Fotocronache “Olympia” Milano)
“The Opera – Arie per un’eclissi”, registi Davide Livermore e Paolo Gep Cucco
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Ama l’opera lirica, ama il teatro, adesso il cinema lo pensa – con ricchezza di idee, di mezzi e di compagni di strada – e lo fa. Caso certamente unico – il raro è davvero del tutto inesistente -, a lui la Scala ha in epoca recente affidato l’inaugurazione della propria stagione per quattro anni consecutivi, con passione e per passione cura le sorti da sempre del Baretti torinese, per due anni ha assunto la direzione del Palau de les Arts Reina Sofia a Valencia per andarsene di brutto quando l’amministrazione comunale gli ha negato un sostegno, si è ribaltato su Genova del cui Teatro Nazionale è direttore dal 2020.
Cinema, che passione! allora e Davide Livermore, con la immaginifica collaborazione di Paolo Gep Cucco (ideatore e regista di manifestazioni, ha curato progetti video per Tiziano Ferro, è stato responsabile dei tour di Cremonini e Mengoni, per il mai troppo lodato “A riveder le stelle”, spettacolo televisivo che ha sostituito complice la pandemia la prima della Scala anno 2020, ha raggiunto il 14% di share che contato sulle dita sta ad arrivare a 2 milioni e 600.00 spettatori soltanto in Italia), afferra le “Metamorfosi” di Ovidio, innaffia il mito di Orfeo ed Euridice (le voci e i volti sono quelli di Valentino Buzza e Mariam Battistelli, tenore e soprano d’eccezione) con un Monteverdi e un Gluck d’annata, allarga il suo sguardo di raffinato melomane tutt’intorno e con validi quanto sonorissimi esempi musicali dà vita a “The Opera – Arie per un’eclissi”, ovvero viaggio agli inferi – presto hotel Hades a cinque stelle raccomandato dal tristo proprietario Pluto, il basso Erwin Schrott – e ritorno per la bella ninfa che nella allegria di un gioco venne morsa da una serpe e mandata laggiù salvo che poi il suo inguaribile innamorato non tentasse con ogni forza di riportarla in terra. Così il mito caro agli antichi, considerato qui con lo sguardo e la quotidianità di vita e di morte rivisti con gli occhi di oggi, quello sguardo verso un mondo infetto dove uno sparo improvviso, dove la pallottola di una P38 colpisce il cuore di Euridice, in un supermercato, il carrello e la spesa rovesciati a terra. In una piazza di sapore e di ampiezze dechirichiane, dove trovano richiami a Nervi e Mollino, già attende Caronte con le sembianze di un Vincent Cassel disincantato che guida vecchi autobus e taxi sulle acque dell’Acheronte, che sbarca lo sposo infelice tra le grinfie di Proserpina (una flautata Fanny Ardant posata nel buio di quel luogo dal cielo immenso della Tour Eiffel) e di una concierge (Caterina Murino, bravissima), più guardia carceraria che dedita all’accoglienza. Come pure l’almodovariana Rossy De Palma, tra un cruciverba e una stirata in tintoria a sostenere confronti tra Vivaldi e Händel, e la visione da parte di Orfeo dei suoi genitori, una madre (Angela Finocchiaro) su un letto d’ospedale e un padre in canottiera che in una cucina anni Sessanta confessa quel rapporto padre e figlio che non c’è mai stato. Tra i corridoi del Regio torinese e i ruderi di una Parigi semisommersa, in mezzo a teatri da futuribile scavo archeologico, nello spazio della hall dove viaggiano valige e camerieri ballerini a cui Daniel Ezralow ha dato la sua benedizione, s’avventura la vicenda e il suo immancabile e funesto ritorno: mentre tutt’intorno s’inseguono arie, sotto la direzione di Plàcido Domingo e Fabio Biondi, con tantissimo Puccini e un po’ di Verdi (brindisi lieto e la donna ch’è mobile), Ravel e Bizet e Bellini con i numi citati sopra e ancora e ancora molti sino a lambire i Frankie Goes to Hollywood, dove alle altezze di quelle note serpeggiano molteplici quanto modernissimi sound design elettronici.
La consacrazione della “storia di tutte le storie”, la storia dei due infelici amanti e del fato crudele, un giardino fiorito che scenograficamente e fotograficamente accompagna il viaggio al di là della morte con l’espressione completa di ogni perfezione. Non più un’opera per palati legati con nastri forti alla tradizione, ma l’esperimento condotto in punta di cervello, una girandola di invenzioni e di suggestioni, una prova raccomandabile di opera-musical (un vero peccato che la visione sugli schermi abbia avuto tempi estremamente ridotti), una strada avvincente “dove la parola, l’opera, il pop, la moda e le arti visive si fondono”: una visione contemporanea a cui hanno contribuito gli apporti di Dolce&Gabbana e l’alta tecnologia del virtual set allestito presso i Prodea Led Studios di Torino. “Questo film porta il carattere dell’opera a un nuovo livello, straordinariamente moderno e al tempo stesso assolutamente antico”: capace di incrociare come due vasi comunicanti, senza tentennamenti, gli appassionati della settima arte e quanti si stringono al cuore un’arte più antica, calate entrambe in una narrazione senza slabbrature, in un tempo-non tempo sospeso e coinvolgente, all’interno di una classicità e di un oggi che viaggia per le strade di Torino, dove si può parlare comodamente di “ibrido” senza che quel termine, in troppi momenti delle nostre giornate, cominci a far rizzare i capelli sulle nostre teste.
Il Museo Nazionale del Cinema di Torino rende omaggio alla storia straordinaria della Mostra Internazionale di Arte cinematografica della Biennale di Venezia con i Leoni di Venezia, ripercorrendo i film vincitori delle edizioni del festival più antico del mondo.
Con la collaborazione dell’archivio Storico della Biennale, il Cinema Massimo 3 proiettori due film che hanno ricevuto il Leone d’Oro. Il primo appuntamento è per lunedì 3 febbraio 2025, alle ore 20.30, al Cinema Massimo, con Rashomon di Akira Kurosawa, premiato nel 1951. A presentare la rassegnare e introdurre il film ci saranno Carlo Chatrian e Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra del Cinema di Venezia.
“Come Museo Nazionale del Cinema ci sembrava giusto omaggiare il festival più antico del mondo e il ruolo fondamentale che ha avuto e ha nel promuovere la settima arte – sottolinea Enzo Ghigo, Presidente del Museo Nazionale del Cinema – l’idea di presentare i film vincitori nasce dalla convinzione che, in quanto testimoni esemplari del loro tempo, raccontano l’evoluzione del cinema e del festival che l’ha ospitati. Siamo molto grati alla Biennale di Venezia per aver accettato il nostro invito a condividere la sua storia, preziosi in quanto capaci di intercettare per tempo le tendenze del futuro e che hanno lasciato tracce nel presente”.
“Siamo felici di accogliere la proposta del Museo Nazionale del Cinema di celebrare la straordinaria avventura dei Leoni d’Oro della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, molti dei quali sono pietre miliari della storia del cinema mondiale, quindi del nostro immaginario – dichiara Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale di Venezia – Siamo certi che anche grazie alla collaborazione del nostro Archivio Storico il Museo Nazionale del Cinema appronterà una bellissima rassegna che offrirà, con una rilettura unica, una nuova occasione di riflettere sui classici riconosciuti e di gettare la giusta luce sui capolavori meno noti”.
Il Leone d’Oro della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia è considerato uno dei riconoscimenti più prestigiosi al mondo, e ha premiato film che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, grazie alla lungimiranza delle giurie dei direttori artistici che si sono avvicendati negli anni, e al fatto che la mostra faccia parte della Biennale. Nella sua storia quasi centenaria, il Leone d’Oro è diventato qualcosa di più di un premio, ma un vero e proprio simbolo della stagione e, di volta in volta, è andato a film che hanno anticipato i tempi e certificato mode, che sono diventati pietre miliari della storia del cinema. Innovazione, coraggio e qualità artistica sono tratto distintivi della programmazione della mostra, che spesso ha contribuito alla nascita dei grandi autori, dando all’universo cinematografico ogni volta un nuovo stimolo e nuovi elementi di riflessione.
Il secondo appuntamento del mese sarà il 17 febbraio 2025, alle 20.30, presso il Cinema Massimo 3, con la proiezione di Ordet- La Parola, del 1954, di Carl Theodor Dreyer, premiato nel 1955.
Mara Martellotta
dal 23 al 25 maggio 2025
RITROVARSI
è il tema della quattordicesima edizione
Il borgo di Dogliani, nel cuore delle Langhe, torna a essere il palcoscenico privilegiato per uno degli eventi più attesi della primavera: il Festival della TV. Dal 23 al 25 maggio 2025, le piazze, il cinema-teatro e gli spazi del centro ospiteranno la quattordicesima edizione con tre giornate dedicate al mondo della televisione, del giornalismo e dei media in un programma ricco di incontri, dibattiti e spettacoli.
ll tema scelto per questa edizione, “Ritrovarsi”, nasce dall’urgenza di riscoprire il valore della connessione reale in un’epoca in cui le tecnologie digitali sembrano aver amplificato, anziché ridotto, il nostro isolamento. “Ritrovarsi” significa mettere al centro il dialogo autentico, la comunità fisica, e il bisogno di una narrazione più profonda e consapevole, capace di andare oltre la superficialità e la velocità che dominano il racconto contemporaneo.
Viviamo tempi contradditori. Mai come prima siamo interconnessi, possiamo comunicare tra noi ad una velocità impensabile solo pochi anni fa, condividere momenti, luoghi, emozioni. Abbiamo costruito strumenti eccezionali per stare sempre insieme, inventato piattaforme che, nel nome stesso, hanno la dimensione della socialità come presupposto e ci permettono di partecipare alla vita altrui e rendere partecipi gli altri della nostra. Tutto straordinario in apparenza, la cura definitiva alla solitudine. Eppure. Sembra che, di questi meravigliosi giocattoli, quasi nessuno di noi conosca davvero le istruzioni d’uso. Queste praterie infinite di socialità apparente, troppo spesso, sembrano avere paradossalmente acuito il nostro individualismo, il nostro isolamento, contribuendo a costruire degli avatar di noi stessi, o di come vorremmo apparire, ad uso e consumo di una platea virtuale di altri avatar. È tempo di recuperare il senso della realtà. Ribaltare la scala dei valori, rimettendo al centro la comunità reale rispetto a quella virtuale. Vivere queste opportunità tecnologiche come strumenti per incidere ancora meglio sulla realtà, e non ridursi, noi, a strumenti di una tecnologia che prenda il sopravvento sulle nostre vite. C’è bisogno di vita vera, di contatto fisico, di contradditorio. C’è bisogno di ritrovare una profondità che si sta perdendo nel racconto e nell’informazione, oggi il più delle volte sopraffatta dalla superficialità e dalla velocità, che ne è spesso la premessa. Abbiamo l’opportunità di vivere tempi tecnologicamente straordinari e destinati ad evolvere, in maniera ancora più dirompente, verso scenari che richiederanno una consapevolezza sempre più forte, proviamo a non sprecare questa opportunità.
Il Festival della TV, organizzato da IL Idee al Lavoro con la direzione artistica di Federica Mariani, la direzione organizzativa di Simona Arpellino e quella tecnica di Mauro Tunis, si conferma come un punto di riferimento per comprendere le evoluzioni e i cambiamenti di un settore in continua trasformazione. Non solo una celebrazione dei protagonisti e dei successi della televisione, ma anche l’occasione di riflettere sulle sue sfide attuali, sull’impatto sociale e culturale che genera e sul ruolo fondamentale che continua a rivestire nell’era digitale.
Per l’edizione 2025 la manifestazione si rinnova con una proposta ancora più ampia e articolata. Sul palco saliranno i volti più amati del piccolo schermo, insieme a giornalisti, autori, registi e nuove voci che stanno plasmando il futuro della narrazione mediatica. Al centro del Festival temi attualissimi: dalla televisione come strumento di informazione e intrattenimento al rapporto con i social media, fino alle sfide legate alla pluralità e alla qualità dei contenuti.
Dogliani, con il suo fascino unico, si trasformerà ancora una volta in un laboratorio a cielo aperto dove il dialogo tra protagonisti e pubblico sarà motore di un appuntamento fatto di incontri straordinari, dialoghi sorprendenti e occasioni speciali. Tra le strade del borgo si intrecceranno storie, esperienze e visioni in un’atmosfera di condivisione e scoperta. La magia del Festival non si limiterà solo agli incontri ufficiali: da sempre la tre giorni di Dogliani è un’occasione per vivere appieno la bellezza delle Langhe tra cultura, enogastronomia e un’accoglienza calorosa, un’esperienza in cui il racconto della televisione si intreccia con le storie dei suoi protagonisti e quelle di un pubblico sempre più consapevole e curioso.
Venerdì 24 gennaio, a Torino, nella corte medievale di Palazzo Madama, si apre la mostra “Giro di posta-Primo Levi, Le Germanie, l’Europa”, promossa dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e curata da Domenico Scarpa. “Giro di posta” è realizzata da documenti per gran parte inediti e offre una vasta rete di carteggi privati che soltanto oggi diventano pubblici, e che raccontano l’Europa e la Germania divise in due. A tessere la trama sono gli interlocutori tedeschi e germanofoni di Levi, ma non soltanto loro. Le corrispondenze esposte, messaggi scarabocchiati a matita su fogli di fortuna o impeccabili lettere battute a macchina su carta intestata, attraversano quasi mezzo secolo di storia europea.
Auschwitz, esperienza di cui Levi non smise mai di indagare segreti e significati, rappresenta il fulcro geometrico della vicenda. “Se questo è un uomo” suonava, fin dal titolo, con una domanda rivolta al lettore, ma i fatti del libro erano avvenuti in tedesco e per mano dei tedeschi, e quindi quella domanda doveva arrivare necessariamente a loro. Nel 1959 fu avviata finalmente la traduzione del libro in tedesco, che uscì nel 1961, lo stesso anno in cui fu costruito il muro di Berlino. Da quel momento in poi una “intricata rete epistolare” mise Primo Levi in contatto con un gran numero di interlocutori di spessore, lettrici e lettori comuni, lettori che erano anche scrittori, ex compagni di lager e qualcuno che in Auschwitz stava dall’altra parte. Conoscendo Levi, non c’è da meravigliarsi che tra i suoi corrispondenti lo attraessero i più lontani per mentalità e geografia. Negli 80 anni della liberazione di Aushwitz (27 gennaio 1945-27 gennaio 2025) il giro di posta del titolo si presenta come una ampia discussione sulla Shoah e sul suo posto in Europa da ricostruire dopo la guerra, ma ben presto divisa in due blocchi contrapposti. Si presenta come una rete per molte ragioni: perché ci sono circuiti di posta dove una stessa lettera viene spedita a più destinatari, per sollecitarli a dire la loro; perché copre come un reticolato aree della Germania Est e Ovest, sconfinando in ulteriori Paesi; perché vi si intrecciano quattro lingue, l’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco adoperate da Levi. La mostra, promossa dal Centro Internazionale Studi Primo Levi, medaglia del Presidente della Repubblica, è curata da Domenico Scarpa e sarà aperta fino al 5 maggio 2025. Con ingresso incluso nel biglietto del museo, è stata realizzata con il progetto LeviNeT, coordinato presso l’Università di Ferrara da Martina Mengoni, curatrice del volume “Primo Levi – il carteggio con Heinz Riedt”, edito da Einaudi. Il progetto, finanziato dalla European Research Concil prevede, da qui al 2027, la pubblicazione progressiva in open access delle corrispondenze tedesche di Levi. Il progetto di allestimento è a cura di Gianfranco Cavaglià e Anna Rita Bertorello, Ars Media per il progetto grafico di comunicazione visiva.
La mostra comprende 5 sezioni: 1- Primo Levi. Un precoce pensiero europeo; 2- Hermann Langbein. Un uomo formidabile; 3-Heinz Riedt. Un tedesco anomalo; 4- Giro di posta. Che dà il titolo all’intero allestimento; 5- Le lettrici e i lettori. L’allestimento prevede un percorso di accessibilità per il pubblico con disabilità visiva: saranno presenti mappe e qr code tattili tramite i quali sarà possibile accedere dal proprio dispositivo mobile a contenuti audio per ciascuna sezione.
In occasione dell’inaugurazione della mostra, il Centro Internazionale di Studi Primo Levi, in collaborazione con Poste Italiane, ha realizzato un annullo filatelico dedicato: per il giorno d’inaugurazione e il successivo giorno di apertura al pubblico, presso Palazzo Madama, due ufficiali di Poste Italiane saranno lieti di apporre il timbro sulle cartoline filateliche, anch’esse realizzate per l’occasione con francobollo selezionato a tema.
Info: Palazzo Madama-Museo Civico d’arte antica, Piazza Castello, Torino – 24 gennaio/5 maggio 2025. Telefono 011 4433501. Sito www.palazzomadamatorino.it
Lunedì e da mercoledì a domenica dalle 10 alle 18. Martedì chiuso.
Mara Martellotta