CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 34

La Sacra di San Michele: la chiesa più alta che c’è

Avete presente quando Po, morbido protagonista del film d’animazione “Kung fu Panda”, guarda in alto e dice: “Il mio antico nemico, le scale!” Ecco, questa è stata la mia reazione non appena giunta ai piedi della Sacra di San Michele.

 

E dire che un po’ ho barato, poiché non sono partita a piedi da Sant’Ambrogio, come si dovrebbe fare, ma sono salita con la macchina ancora un pochino, fino ad uno spiazzo a circa quaranta minuti di distanza. Non c’è che dire, più in alto non potevano costruirla: l’Abbazia è proprio arroccata sulla vetta del monte Pirchiriano, a ben novecentosessanta metri di altitudine.

Il complesso architettonico si trova all’imbocco della Val Susa, poco sopra la borgata San Pietro, il suo aspetto è maestoso e poetico, imponente e romantico. Apprezzo molto il fascino di questo luogo, soprattutto in alcune giornate autunnali, quando la nebbia avanza e la Sacra sembra sporgersi da tutto quel bianco fumoso, come fosse il soggetto di un quadro di Caspar David Friedrich.

L’atmosfera è senza dubbio coinvolgente,  non per niente il grande Umberto Eco, per il suo celebre romanzo “Il nome della rosa”, si era deliberatamente ispirato alla misteriosa bellezza di questo sito architettonico.
Ho scelto comunque un giorno di sole  settembrino per la mia passeggiata in salita.
Scesa dalla macchia ho imboccato il sentiero che serpeggia nel bosco e porta dritto in cima al monte: una leggera brezza mi ha addolcito la fatica, il verde delle foglie è ancora intenso e l’odore del legno dei tronchi ha sempre qualcosa di magico.

Il vero nome della Sacra è Abbazia di San Michele della Chiusa, essa si erge su un imponente basamento di ventisei metri, appartiene alla diocesi di Susa ed è la prima tappa italiana che si incontra lungo la via Franchigena.
Come ogni complesso architettonico che si rispetti, anche la Sacra ha i suoi misteri.
Leggenda vuole che l’ex arcivescovo, Giovanni Vincenzo (955-100), ritiratosi a vita da eremita proprio tra le nostre montagne, fosse stato incaricato  dall’arcangelo Michele  “in persona” di costruire il santuario. Non solo, ma degli angeli avrebbero poi provveduto a consacrare la cappella, che, infatti, la stessa notte della cerimonia, fu vista dagli abitanti come “avvolta da un grande fuoco”.

Secondo tale versione l’edificio risalirebbe al X-XI secolo, data probabile ma non certa, vi sono tuttavia molti documenti che trattano dell’edificazione della Sacra e che fanno risalire i lavori in quello stesso periodo.
Dove oggi sorge l’Abbazia c’era un tempo un castrum, utilizzato dai Longobardi come presidio militare; proprio tale popolazione iniziò a diffondere il culto micaelico, che si propagò ampiamente nell’Alto Medioevo, come dimostrano i numerosi edifici dedicati a San Michele che sorsero dopo l’anno Mille in Europa.
L’antico insediamento longobardo si trovava dunque alla base del progetto architettonico iniziato da Giovanni Vincenzo, il quale, con o senza l’aiuto dell’arcangelo, diede inizio all’edificazione di un’architettura maestosa e complessa: accanto al sacello più antico ne fece realizzare un secondo che oggi è l’ambiente centrale della cripta della Chiesa. Le nicchie e le colonnine richiamano motivi bizantini, all’epoca largamente diffusi a Ravenna.
Sul finire del X secolo, il conte Hugon di Montboissier, per riscattarsi dai suoi peccati, finanziò ulteriori lavori di ampliamento e fece aggiungere anche un piccolo cenobio per pochi monaci e qualche pellegrino.

In seguito fu l’abate Adverto di Lezat ad amministrare lo stabile. Egli chiamò l’architetto Guglielmo da Volpiano, a cui si deve il progetto della “chiesa nuova”, che sarebbe sorta sulle fondamenta della primitiva chiesetta.
A metà dell’XII secolo la Sacra venne affidata ai Benedettini, che costruirono l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, per accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Franchigena, passavano per il Moncenisio. Risale a quest’epoca la parte denominata “Nuovo monastero”, che comprendeva alcune celle, una biblioteca, delle cucine, un refettorio e diverse officine.
La lunga e articolata vicenda sembra concretizzarsi nel percorso impervio che il visitatore percorre, avanzando guardingo per la Sacra.

Io stessa ho passato la visita un po’ con la testa in su, incuriosita e ammaliata dagli archi rampanti e dalla grandiosità dell’insieme, e un po’ a guardarmi indietro, come fossi un Pollicino a corto di briciole.
La spettacolare chiesa odierna è dunque il formidabile risultato di più di un secolo di interventi.
Nella zona più antica, quella eretta sul castrum, priva di finestre e sormontata da volte a crociera, è evidente lo stile romanico di stampo normanno.

Influenze del linearismo della scuola scultorea di Tolosa emergono dal così detto scalone dei Morti, anticamente fiancheggiato da tombe e si evidenziano nella splendida porta dello Zodiaco. La porta ha destato più che mai la mia attenzione, e mi sono soffermata a guardarla nei minimi dettagli: le creature zodiacali risaltano pur consunte dalla pietra bianca, sembrano intrecciarsi le une alle altre, accatastate in una complessa composizione caratterizzata da un evidente  “horror vacui. Cerco l’Ariete, il mio segno zodiacale, l’animale si distingue per le possenti corna e il corpo muscoloso, ovviamente mi sembra che tale rilievo sia più bello degli altri. C’è un’altra motivazione per cui il portale mi colpisce, ed è il significato allegorico dello scorrere del tempo, tale significazione tramuta una semplice porta intarsiata in un poetico memento mori.

Risalgono al XII secolo gli interventi che riprendono lo stile del “romanico di transizione”. Tali lavorazioni sono riscontrabili dalla presenza di bifore, di pilastri cilindrici e polistili e dalle arcate con pilastri a fascio e archi acuti.
Nel XVI secolo la volta della navata centrale crollò e venne sostituita con una pesante volta a botte, che però esercitava una forza eccessiva sulle pareti laterali;  per ovviare alla pericolosità architettonica, nell’Ottocento si decise di intervenire sostituendo tale volta a botte con una triplice volta a crociera, ultimata nel 1937.
Vi sono poi elementi in stile “gotico francese” risalenti al XIII secolo.

Il visitatore, me compresa, si perde ad osservare i molteplici stili artistici che convivono armoniosamente. Molto suggestivi sono anche le terrazze, visitabili lungo il percorso: dall’ambiente poco illuminato tipico dei luoghi di culto, mi sono ritrovata ad osservare la vallata verdeggiante ai piedi delle montagne, illuminata dall’ancora caldo sole di settembre.
Eppure, distratta dalle minuzie interne alla Chiesa e dalla vista mozzafiato, stavo per non fare caso a quella che è una straordinaria peculiarità della costruzione: la facciata.
Essa si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello scalone dei Morti, è sotto l’altare maggiore ed è sovrastata dalle absidi con la loggia dei Viretti.
Potremmo dire che, se si pensa ad un’altra qualsiasi chiesa o abbazia, la facciata della Sacra è in posizione opposta rispetto a quella che la tradizione architettonica religiosa richiederebbe.


In tempi recenti, i lavori ancora non terminano. Tra il XIX e il XX secolo ci furono degli interventi voluti da Alfredo d’Andrade e durante gli anni Ottanta e Novanta si resero necessarie ulteriori modifiche.
Ciò che non cambia, nonostante il trascorrere dei secoli, è il fascino del luogo, reso ancora più prorompente dai misteri che accompagnano queste mura antiche. Si pensi alla vicenda della “Bell’Adda”. Adda era una giovane fanciulla che per sfuggire ai soldati nemici si buttò giù nel precipizio, gli angeli misericordiosi ebbero pietà di lei e la salvarono; Adda raccontò l’accaduto ai compaesani, i quali ovviamente non le credettero, così lei compì nuovamente l’insano gesto. Alcuni la definirebbero “hybris”, altri semplicemente “vanità”, resta il fatto che questa volta Adda non tornò a farsi vedere. Ma neppure il suo corpo venne mai più rinvenuto.

Non sappiamo cosa accadde ad Adda, ma sappiamo che ancora oggi numerosissimi visitatori si inerpicano per la collina per visitare la Sacra e tutti rimangono folgorati dalla bellezza di quel che vedono finita la faticosa salita.
Nel 2017, l’Abbazia è stata candidata a far parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco, nel quadro del sito seriale “Il paesaggio culturale degli insediamenti benedettini dell’Italia medievale”.
Sulla meraviglia del sito non si discute, ma possibile che in tutti questi secoli di interventi architettonici, nessuno abbia ancora pensato all’inserimento di un semplice ascensore?

Alessia Cagnotto

 

Duecentomila Lire per Alfonso Ferrero della Marmora in piazza Bodoni

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento equestre si erge fiero ed imponente nel centro della piazza. Il generale Alfonso Ferrero della Marmora viene rappresentato con indosso la sua divisa militare, il mantello sulle spalle ed il capo calzato di feluca voltato verso sinistra, mentre è in sella ad un elegante cavallo con la zampa sinistra sollevata in segno di forza ed autorevolezza

Eccoci di nuovo pronti ad accompagnare i nostri lettori alla scoperta delle meravigliose opere d’arte presenti a Torino. Oggi vogliamo soffermarci sulle maestosità equestri, prendendo come soggetto della nostra usuale passeggiata “con il naso all’insù”, il monumento dedicato ad Alfonso Ferrero della Marmora. (Essepiesse)

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Il monumento equestre si erge fiero ed imponente nel centro di Piazza Bodoni. Il generale Alfonso Ferrero della Marmora viene rappresentato con indosso la sua divisa militare, il mantello sulle spalle ed il capo calzato di feluca voltato verso sinistra, mentre è in sella ad un elegante cavallo con la zampa sinistra sollevata in segno di forza ed autorevolezza. Il generale ha gli stivali infilati nelle staffe e mentre con la mano sinistra stringe le briglie, con la destra impugna la spada puntandola in avanti, di fianco alla gamba. La statua poggia su un piedistallo lapideo quadrangolare arricchito da importanti volute angolari e ornato con elementi in bronzo, foglie d’acanto e teste di leone. Nel gennaio 1878 morì a Firenze Alfonso Ferrero della Marmora, tenente generale e comandante dell’esercito, ministro della Guerra nei governi Pinelli, Gioberti, D’Azeglio e Cavour, governatore di Milano, prefetto di Napoli nel 1861 e primo ministro a Torino dal 1864 al 1866. Due giorni dopo la città di Torino, con una delibera della Giunta, decise di rendere onore alla memoria del generale erigendogli un monumento pubblico, mettendo a disposizione 20.000 lire e aprendo una sottoscrizione di ampiezza nazionale. 

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Il proposito era quello di realizzare un’opera di particolare rilevanza sia dal punto di vista artistico che dimensionale, un “Monumento Nazionale” per l’appunto, il cui costo fu stimato intorno alle 200.000 lire. Al finanziamento dell’opera partecipò anche il capitano Luigi Chiala, deputato al Parlamento e amico intimo di La Marmora, che inviò le 9.011 lire ricavate dalla vendita delle sue memorie, intitolate “Ricordi della giovinezza di Alfonso La Marmora” e “Commemorazione di Alfonso La Marmora”. La raccolta di fondi, nonostante la notevole partecipazione, riscontrò una notevole difficoltà nel raggiungere la cifra necessaria, tanto che il Municipio di Torino dovette mantenere aperta la sottoscrizione per ben dodici anni. Visto l’evolversi della situazione il marchese Tommaso della Marmora, nipote del generale e suo erede, preoccupato per il protrarsi dei tempi e per l’insufficienza dei fondi fino ad allora disponibili (nel 1890, anno della chiusura della sottoscrizione, si era raccolta la cifra di 73.639 lire) propose alla città di occuparsi direttamente della realizzazione dell’opera, integrando la somma raccolta con capitali propri. Tale proposito, che evidentemente aveva in mente da qualche tempo, l’aveva portato ad affidare il disegno del bozzetto di “una statua equestre in bronzo, grande circa due volte il vero, con proporzionato piedistallo” al conte Stanislao Grimaldi, aiutante in campo del generale e Regio disegnatore del re Vittorio Emanuele II che, si presume, portò a compimento l’opera senza ricevere alcun compenso. Nell’ottobre del 1886 Tommaso della Marmora, in accordo con lo scultore Grimaldi, propose al Municipio di collocare la statua al centro della nuova piazza Bodoni. Su richiesta del Sindaco di Torino, nel 1889 il Ministero della Guerra venne coinvolto nella realizzazione dell’opera equestre, rendendosi disponibile a fornire il bronzo necessario; la fusione del monumento venne eseguita nel 1891 nel Regio Arsenale di Torino, a spese del Ministero.Per la protezione del monumento si ebbe l’idea di realizzare una cancellata su disegno dell’Ing. Lorenzo Rivetti, già ideatore dell’elegante piedistallo su cui poggia la statua, ma fotografie di Mario Gabinio del 1924, testimoniano invece la presenza di una delimitazione costituita da catene poggianti su pilastrini in pietra, che venne in seguito rimossa. 

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Finalmente il 25 ottobre 1891, alla presenza di numerose autorità politiche, civili e militari, venne inaugurata l’opera dedicata a Alfonso Ferrero della Marmora; per l’occasione il Municipio di Torino “vestì a festa” piazza Bodoni addobbando i balconi delle case, allestendo alcuni palchi e studiando una “illuminazione straordinaria”.Va ricordato e fatto notare che il monumento a La Marmora è l’unico monumento equestre, presente a Torino, dedicato ad un militare e uomo politico. Per quanto riguarda un piccolo accenno alla piazza che ospita l’opera, va ricordato che Piazza Bodoni (inserita nel cosiddetto Borgo Nuovo), ha origini ottocentesche ed è stata realizzata frammentariamente nel corso di oltre un secolo. Il primo intervento edilizio risale al primo decennio dell’Ottocento ma, per giungere alla conformazione attuale della piazza, bisognerà attendere fino al 1928, anno nel quale venne realizzato l’edificio che accoglie l’Istituto Musicale Giuseppe Verdi, diventato dal 1936 Conservatorio di Stato.Nel 2002 piazza Bodoni è stata interessata da un intervento di riqualificazione: è stata pedonalizzata e ripavimentata con lastre in pietra poste secondo un disegno a cerchi concentrici che hanno come fulcro il monumento a Alfonso Ferrero della Marmora.

 

 

Simona Pili Stella

(Foto: www.museotorino.it)

 

Torna il Moon Festival a San Raffaele Cinema Alto

Per due giorni, venerdì 5 e sabato 6 settembre prossimi, il piccolo borgo di San Raffaele Cimena Alto si trasformerà in un suggestivo palcoscenico diffuso a  cielo aperto illuminato da luci soffuse e candele, per accogliere il Moon Festival,  promosso da Dnart e curato dalla regista Patrizia Besantini. Il piccolo borgo alle porte di Torino si trasformerà in una località magica con laboratori, talk e spettacoli.

Il Moon Festival rappresenta un evento basato sull’inclusività. È,  infatti, accessibile a tutti, queer friendly, aperto ad ogni persona. Gli allestimenti e le installazioni sono realizzate con materiali di recupero forniti dalla comunità.  Diversi gli obiettivi che si pone  il Moon Festival,  tra i quali quello di incentivare il 10 per cento del pubblico a raggiungere il borgo a piedi, organizzando passeggiate lungo i sentieri che conducono alla collina, per ridurre l’impatto ambientale.

Il Moon Festival è  nato quattro anni or sono per ripensare la tradizionale festa patronale ed è  cresciuto un’edizione dopo l’altra, coinvolgendo un  numero sempre maggiore di artisti/e, che quest’anno hanno raggiunto quota duecento, cui si sono affiancati sessanta volontari  e volontarie tra i 14 e i 29 anni, e un numero sempre maggiore di comunità locali.
I principi che animano il festival sono l’inclusività, la sostenibilità  e la qualità artistica per offrire un’esperienza unica, accogliente e immersiva, in grado di comunicare magia e stupore.
Il festival si richiama nel nome alla luna intesa non soltanto come corpo celeste, ma come simbolo di un altrove immaginifico che fa tornare lo spettatore un poco bambino.
Per due giorni verrà spenta l’illuminazione pubblica artificiale del borgo , lasciando spazio alle candele e alle luci soffuse, dense di poesia e capaci di trasportare il pubblico in un’atmosfera ricca di magia e di ricordi lontani.

Installazioni e strutture sono create partendo da materiali di recupero forniti dalla comunità  e l’edizione di quest’anno del Moon Festival può contare anche sul supporto di un brand torinese dell’outdoor, Ferrino, che ha fornito tende e materiali per staff, artisti e artiste, volontari e volontarie, e sul sostegno di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta con cui verrà sviluppato un laboratorio sul tema dell’impatto ambientale del festival, rivolto ai volontari  e allo staff.
Sabato 6 settembre sarà facile raggiungere il borgo a piedi,  alle 15 e alle 17, lungo i sentieri, grazie al supporto di Knauf Insulation e Camminare lentamente.
Il paese si trasformerà in un palcoscenico diffuso e a cielo aperto con installazioni site specific, esperienze immersive, spettacoli che si faranno portatori dei più diversi linguaggi, dal teatro di strada al nuovo circo e alla musica classica, dalla pittura alle installazioni.
La scelta da parte degli artisti delle performance nasce da un’attenzione meticolosa al paesaggio urbano e all’architettura del paese. Ogni intervento è,  infatti,  pensato in dialogo  con il luogo dove avviene, sia esso un cortiletto, un terrazzino, un tetto, un piccolo anfratto.
Tutto risulta realizzato nel pieno rispetto della ricerca di armonia, di quell’armonia capace di trasformare il borgo in teatro e dimora per l’arte. A curare la proposta artistica del Festival sarà Patrizia Besantini. Gli artisti e le artiste selezionati parleranno un linguaggio prevalentemente non verbale,  in grado di superare le barriere artistiche  e di offrire una comprensione capace di abbracciare la dimensione sensoriale, intuitiva e profonda del pubblico.

Il Moon Festival prenderà ufficialmente il via venerdì 5 settembre alle ore 16, alle ore 18 è previsto l’incontro di inaugurazione aperto al pubblico dei media, alla presenza del sindaco di San Raffaele Cimena, Ettore Mantelli , delle autorità e partner dell’evento.
Il weekend sarà preceduto, a partire dal 31 agosto,  da una settimana di residenza artistica a Moncucco Torinese dove artisti, staff e volontari vivranno un momento di formazione.

Venerdì 5 settembre, dopo l’apertura ufficiale del festival alle 16, dalle 17 alle 19 si susseguiranno i laboratori esperienziali , tra cui spicca la costruzione di una pista per biglie lunari. Dalle 21 alle 24 andranno in  scena spettacoli a cielo aperto con performance ogni mezz’ora.
Nella giornata di sabato 6 settembre i laboratori esperienziali saranno seguiti alle 17 da un talk pubblico dal titolo ”Festival partecipativi“ presso palazzo Atelier. Alle 19.30 sarà dato spazio alla musica con il concerto degli Hamburgo, al secolo Nicola Martini, performer e musicista torinese, che si esibirà insieme agli spettacoli a cielo aperto dalle 21 alle 24.

“Il Moon Festival è  nato dalla chiamata della Pro Loco di San Raffaele che voleva ripensare la festa patronale, a cui è  seguita l’intuizione di unire arte, cultura e formazione in un unico movimento di civismo attivo che metta al centro le persone, il territorio,  le relazioni – spiegano Alessia di Pietro, Patrizia Besantini e Simone Dipietro, curatori del festival – Abbiamo voluto così trasformare una festa paesana in un evento atteso, partecipato, riconosciuto, che cresce di anno in anno grazie al coinvolgimento del territorio “.
La partecipazione agli eventi è gratuita con offerta libera. Le navette avranno un costo di 2 euro per gli over 15, mentre per gli under 15 saranno gratuite.

Mara Martellotta

Veronesi, l’odore del sole e l’estate che sta finendo

“C’era un odore, in quelle estati, che non ho mai più trovato altrove. L’odore così com’era non lo ricordo, ovviamente, e tuttavia accompagna la memoria di ogni singolo momento vissuto in quelle estati, io e mia sorella quell’odore lo abbiamo chiamato l’odore del sole”. Questo pezzo non è una recensione ma un consiglio di lettura all’insegna della nostalgia delle estati che furono e che non sono più. Quelle trascorse sulla stessa spiaggia e nello stesso mare, quelle che per noi torinesi iniziavano con la chiusura della Fiat e finivano con la riapertura dei cancelli a Mirafiori. Il libro da leggere in questo epilogo estivo è «Settembre nero» di Sandro Veronesi (La nave di Teseo). Non perché l’ultimo romanzo del due volte Premio Strega non sia adatto a tutte le stagioni ma perché nel raccontare l’estate deldodicenne Gigio Bellandi, Veronesi descrive le atmosfere, i colori, i suoni e gli odori che hanno segnato le estati di noi boomers.

Siamo nel 1972: la famiglia di Gigio lascia Vinci per trasferirsi a Fiumetto, in Versilia. Gigio è un ragazzino “che non sa ancora niente di niente”, vive in un mondo minuscolo, intento a coltivare passioni adolescenziali come ciclismo, automobilismo, calcio e scacchi. A vegliare sulla serenità sua e della sorellina Gilda, sono il padre avvocato penalista, uomo di luminosa superficialità”, e l’affascinante madre irlandese. Gigio trascorre le sue giornate allo stabilimento balneare “Bagno Stella”, immerso nell’odore del sole. Un odore onnipresente e pervasivo, artificiale, chimico. Odore di plastica, di gomma, di nylon, di sapone e di shampoo. Odore di crema solare.

Per Gigio Bellandi l’estate del 1972 segna la scoperta della musica, del fumetto adulto (Linus, L’Eternauta) e del desiderio per Astel Raimondi, la ragazzina dalle treccine “nere come onice nera”. Mentre alle Olimpiadi di Monaco si consuma il massacro commesso dai terroristi palestinesi di Settembre Nero, anche nella vita di Gigio si abbatte una tragedia: la confessione del padre del tradimento con la vicina d’ombrellone (e madre di Astel) manda in frantumi la famiglia. Un romanzo di formazione, certo, un romanzo sul potere evocativo delle parole e su quello seduttivo e salvifico della lingua, ma soprattutto un racconto capace di restituirci una precisa fotografia di un’epoca perduta, quella delle estati italiane dagli anni Sessanta fino ai primi anni Novanta, quando i consolidati copioni delle nostre abitudini vacanziereverranno rivoluzionate dai low cost e dalla globalizzazione. L’estate del ’72 di Gigio Bellandi era identica a quella di Jerry Calà e Marina Suma in quel “Sapore di mare” uscito nella sale nel 1983 ma che i Vanzina ambientarono nella Forte dei Marmi di vent’anni prima, immortalando nello stesso tempo una stagione passata e una contemporanea. Identica all’estate che stava finendo cantata dai Righeira nel 1985. Identica alle mie estati degli anni Ottanta. Trascorse prima sotto l’ombrellone di mia madre (sempre lo stesso ombrellone nella stessa fila della stessa spiaggia, con immancabile raccomandazione al bagnino di riservarla per l’anno dopo), leggendo “L’Uomo Ragno” e gli altri fumetti super-eroistici pubblicati in Italia dalla Corno; quindi con quelli della “compagnia”, il gruppo di amici ed amiche che si ritrovavano anno dopo anno con appuntamento fisso allo stesso posto e alla stessa ora per lo struscio serale sul lungomare. Per poi sciogliersiquando in “spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più (cit. Righeira) e l’odore del sole si trasformava solo in un ricordo.

Emanuele Rebuffini

De Amicis, il monumento grazie a un amico

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I monumenti di Torino    Ecco un nuovo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Quest’oggi vorremmo parlarvi del monumento dedicato a Edmondo De Amicis, conosciuto da tutti per essere l’autore del libro Cuore

Situata in piazza Carlo Felice, all’interno dei Giardini Sambuy, l’opera è formata da due elementi su un’ampia piattaforma con scalini. In primo piano si erge la statua della “Seminatrice di buone parole”, rappresentata dalla “bella figura di una popolana dal largo gesto che diffonde la semente”(cit.), mentre sullo sfondo è situato un muro a esedra (incavo semi-circolare), decorato da un fitto altorilievo nel quale sono raffigurate scena di vita quotidiana, narranti episodi di “amor figliale, amor materno, amicizia, studio, amor di patria, carità e lavoro”(cit.). Sul piedistallo della statua è invece scolpito un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis.

 

Edmondo De Amicis nacque ad Oneglia il 21 ottobre 1846 da una famiglia benestante di origine genevose. Nel 1848 la sua famiglia si trasferì in Piemonte, dapprima a Cuneo e poi a Torino, dove Edmondo frequentò il liceo. All’età di 16 anni entrò al Collegio Militare Candellero di Torino, ma fu subito trasferito all’Accademia militare di Modena dove divenne ufficiale sottotenente. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma, l’anno dopo, decise di abbandonare l’esercito per dedicarsi alla carriera di giornalista. Divenne quindi giornalista militare e trasferitosi a Firenze, assunse la direzione della rivista “L’ Italia Militare”. Nel 1868, all’età di 22 anni, venne assunto dal giornale “la Nazione” di Firenze, dove continuò come inviato militare assistendo così, nel 1870, alla presa di Roma.

Dal 1879 (ma più permanentemente dal 1885) De Amicis si stabilì a Torino, andando ad abitare presso il palazzo Perini, davanti alla vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa; qui (ispirato forse dalla vita scolastica dei suoi figli Ugo e Furio), terminò quella che fu considerata la sua più grande opera. Il 17 ottobre 1886 (primo giorno di scuola di quell’anno), venne infatti pubblicato Cuore, una raccolta di episodi ambientati tra dei compagni di una classe elementare di Torino, provenienti da regioni diverse, costruito come finzione letteraria di un diario di un ipotetico ragazzo: l’io narrante Enrico Bottini.

Il romanzo (nato come libro per ragazzi), ebbe subito un grande successo e venne molto apprezzato sia per il suo carattere educativo-pedagogico, sia perché ricco di spunti morali riguardanti i miti affettivi e patriottici del Risorgimento italiano. Il libro Cuore fece conoscere Edmondo De Amicis in tutto il mondo e lo suggellò autore attento alle problematiche della borghesia, del popolo e dell’educazione. Alcuni avvenimenti spiacevoli della sua vita, come ad esempio la morte suicida del figlio maggiore Furio (nel 1898 si sparò al Parco del Valentino), lo portarono ad abbandonare definitivamente la città sabauda. In seguito scrisse numerosi racconti nel corso dei suoi viaggi in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Costantinopoli e Marocco. Morì a Bordighera l’11 marzo del 1908 a causa di una improvvisa emorragia celebrale. Su iniziativa della Gazzetta del Popolo, per onorare la memoria di Edmondo De Amicis ad un anno dalla sua scomparsa, un Comitato propose di erigere un monumento a lui dedicato, che ne onorasse la memoria e ne esaltasse le “doti di educatore e autore immortale”(cit.) del libro Cuore.

L’esecuzione dell’opera venne affidata direttamente (non si proclamò nessun concorso) allo scultore e disegnatore Edoardo Rubino, caro amico di De Amicis, che si propose di realizzare il monumento a titolo gratuito come suo personale contributo. Ad un anno di distanza dall’iniziativa, nel 1910, Rubino presentò il bozzetto del progetto che trovò il consenso e l’approvazione di tutti. Il monumento venne terminato già nel 1914, ma la posa in opera con l’ufficiale inaugurazione, avvenne una decina di anni più tardi a causa di alcune questioni riguardanti la scelta del luogo. Su richiesta della commissione, l’inaugurazione avvenne il 21 ottobre 1923, volutamente dopo l’apertura delle scuole, in modo che “gli potesse essere intorno come aureola gloriosa l’affetto di centinaia di bimbi” (cit.).

Simona Pili Stella

“Terrazza Monferrato”, seconda tappa

Secondo imperdibile appuntamento a Moasca, con “ART SITE FEST”, che porta fra le colline del Monferrato astigiano l’arte della giapponese Fukushi Ito

Sabato 30 agosto, dalle 17 alle 22

Moasca (Asti)

Dopo il successo della tre giorni di inizio luglio (prima tappa di “Terrazza Monferrato”), nel borgo astigiano di Moasca, incastonato fra le lievi colline del Monferrato “Patrimonio Unesco”, fervono ormai gli ultimi preparativi per salutare l’estate con un nuovo appuntamento del Progetto “Phanes Ets”, in collaborazione con il Comune di Moasca e che vedrà la nuova seconda “ospitata” di “ART SITE FEST” portare nei luoghi iconici del territorio una vera e propria festa per salutare in compagnia la stagione estiva.

Giunto alla sua undicesima edizione  e nato dalla brillante idea del critico d’arte (in passato anche Funzionario del “Ministero della Cultura”) Domenico Maria Papa, il Festival vanta la presenza nel tempo in prestigiose sedi del territorio, che vanno dai torinesi “Palazzo Madama”, “Chiablese” e “Museo Egizio”, alla “Reggia di Venaria” e alla “Palazzina di Caccia” di Stupinigi”, fino agli storici Castelli di Racconigi, Masino, Gamba e a dimore storiche, quali “Casa Martini” e “Casa Cavour” a Santena.

“Continuiamo a far dialogare – spiega oggi il curatore Domenico Maria Papa – l’arte con la natura e la storia. Il tema di questo secondo momento nella sognante cornice del Castello di Moasca è la ‘parola’. Quella scritta, sussurrata o declamata. Perché con le parole si costruiscono immagini e racconti”. Momenti chiave dell’evento saranno dunque, in quest’ottica, una mostra dedicata all’artista giapponese Fukushi Ito (Nagoya, 1952), oggi residente a Milano – la cui proposta artistica vuole essere una “riflessione sulla scrittura, sulle lingue dimenticate, nonché sulle parole nella letteratura” – e un reading dell’attore e regista chivassese Ivan Fabio Perna“L’oste di Babele” (testo di Klaus Linden e adattamento di Domenico Maria Papa) teso ad accompagnarci “alla scoperta del potere evocativo delle storie”. E proprio con l’esibizione di Perna (che con sagace ironia affronta il tema della condivisione di storie e tradizioni nel racconto di un oste al tempo della costruzione della “Torre di Babele”, sinonimo dell’incomunicabilità e castigo divino per la superbia dell’uomo) si apre alle 17,30 la giornata del Festival all’interno della Chiesa di “San Rocco”, autentico gioiello dai tipici caratteri settecenteschi, di recente restaurato grazie all’intervento del Comune di Moasca.

A seguire, troviamo in agenda uno sfizioso “aperitivo musicale” condotto dal giovane chitarrista classico torinese Giulio Paternoster, con una scaletta musicale che parte dal repertorio per “chitarra romantico-impressionista”, in particolare spagnolo, per approdare al “contemporaneo” con interpretazioni originali di composizioni vicine a Roland Dyens e Dušan Bogdanović. Il percorso scelto da Paternoster mette in mostra le qualità evocative del linguaggio chitarristico, che sconfina fino al jazz e alla musica latino-americana “con un approccio intimista, attento a valorizzare il carattere introspettivo del suono”. Per partecipare all’“aperitivo musicale”, è gradita la prenotazione al 379/1418431.

E, infine, in gradevole chiusura della giornata, l’inaugurazione, alle 21, nella Sala espositiva “Davide Lajolo” (sita nella Torre del Castello) della Mostra “Lingue perdute” dell’artista nipponica Fukushi Ito, insignita nel 2014 dal governo giapponese della “medaglia con nastro blu”, fra le maggiori onorificenze concesse dall’imperatore a quanti si siano distinti per concreti meriti sociali. “Per me – scrive la stessa Fukushi Ito – l’indagine artistica e la sperimentazione dei materiali rappresenta una ricerca umana, antropologica e spirituale capace di spiegare la nostra esistenza nel mondo, così come i modi in cui l’umanità si rappresenta e si modella. In particolare, per Moasca, propongo insieme ad alcune opere recenti, una ricerca inedita sul tema delle lingue dimenticate e sulle scritture mai completamente decifrate, che custodiscono storie mai narrate”. In mostra, a firma dell’artista, si trovano soprattutto “sculture luminose” dedicate a Yukio Mishima (Tokio, 1925 – 1970), scrittore fra i più significativi, ma anche figura politicamente fra le più controverse del XXI secolo (fondatore della “Tatenokai”, milizia civile nata con il dichiarato scopo di restaurare la “dignità” dell’antico Impero giapponese, dopo la ricostruzione post-bellica), che seppe coniugare la tradizione letteraria giapponese con la contemporaneità. E perfetta sintesi di materiali antichi e contemporanei, artisticamente miscelati in plastiche installazioni di grande e suggestiva armonia, sono anche le “sculture luminose” di Fukushi. Sculture poetiche, altamente evocative “in cui proprio l’utilizzo della luce si fa elemento unificante”. Il percorso espositivo è inoltre completato da immagini digitali (“computer drawings”) realizzate su tela.

Gli eventi di sabato 30 agosto sono tutti a ingresso gratuito. Si consiglia di prenotare scrivendo a: info@artsitefest.it

g.m.

Nelle foto: Il Castello di Moasca (credit Donatello Lorenzo); Fukushi Ito; parte allestimento

Enrico e Leonor, artisti a confronto

Il 30 agosto nello splendido anfiteatro della Cantinetta Resort di Roberto Imarisio, raffinato collezionista ed egli stesso versatile artista, avverrà il confronto tra il particolare Surrealismo di Enrico Colombotto Rosso e Leonor Fini, legati da forte amicizia alimentata dalla affinità elettiva.

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 Interverrà nella presentazione la nostra collaboratrice e critica d’arte Giuliana Romano Bussola.

Seguirà la lettura della silloge poetica di Carlo Guglielmero e Silvia Oppezzo “Testo a fronte”.

Il 31 agosto visite alle dimore storiche del Pinerolese

Con la fine dell’estate e le prime giornate d’autunno torna il desiderio di gite fuori porta che, seppure a pochi chilometri da casa, possano offrire spunti di visita originali ed adatti a tutta la famiglia.

A breve distanza da Torino, domenica 31 agosto (orario indicativo dalle 10 alle 12.30 e  dalle 14.30 fino alle 17.30 )alcune Dimore Storiche del Pinerolese  iscritte all’ A.D.S.I (Associazione dimore storiche Italiane) aprono le porte al pubblico per visite accompagnate dagli stessi proprietari (a pagamento). Ville, palazzi ed antiche proprietà di epoche e stili diversi fra loro che preservano il fascino e le suggestioni tramandate e custodite da generazioni. Attraverso testimonianze ed aneddoti sarà possibile ricomporre momenti di arte, economia storia pubblica e privata del Piemonte. L’itinerario intende valorizzare sotto un profilo turistico – culturale una zona del Piemonte che fu strategica per la storia,l’arte e l’economia della regione e della stessa Capitale.

Ecco l’elenco delle dimore aperte domenica 31 agosto

Bricherasio                                  Palazzo dei Conti di Bricherasio                                 

Pinerolo                                       Villa Le Peschiere (ultima apertura di stagione)

                                                      Cascina Losetta – Tenuta del Colombretto

                                                      Parco Storico il Torrione

Piobesi T.se                                 Villa La Paesana

Piossasco                                    Casa Lajolo

San Secondo di Pinerolo          Castello di Miradolo

Villafranca Piemonte                Castello di Marchierù

                                                    Castello dei Conti Piossasco

Volvera                                       Palazzotto Juva

Oltre alla abituale visita guidata, da segnalare che Cascina Losetta propone nel pomeriggio letture per bambini seguita da merenda per tutti con gelato e Palazzotto Juva di Volvera invita alla visita di una mostra d’arte.

L’ultimo romanzo di Cesare Pavese

Il 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si toglieva la vita nella stanza 346 dell’hotel Roma in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino. Il suo ultimo romanzo La luna e i falò, uno dei capolavori della letteratura del ‘900 e libro di formazione per intere generazioni, rappresentò per più versi il viaggio dello scrittore alla ricerca di se stesso e delle proprie origini. Fu il suo testamento letterario, composto in meno di due mesi, tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949, e dato alle stampe nell’aprile del 1950. Pavese scrisse in proposito: “È il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. E non solo gli dei, se Pavese scelse di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero”, come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza era posata una copia dei Dialoghi con Leucò su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione: “Non fate troppi pettegolezzi”.
Un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. Settantaquattro anni dopo la sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.

Marco Travaglini

Gli intellettuali nella storia d’Italia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

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Qualche sera fa ad Alassio di fronte ad una domanda del pubblico, ho improvvisato una risposta sugli intellettuali italiani e la loro storia. Qualche osservazione merita forse di essere ripresa. Per secoli dall’età delle Signorie in poi e anche in parte del Medio Evo (pensiamo alla scuola poetica attorno a Federico ll) se si esclude Dante, gli intellettuali  italiani sono stati dei cortigiani destinati a servire un principe, fosse quello di Machiavelli o di altra signoria.  Il grande Ariosto dovette porsi al servizio degli Estensi che non apprezzarono neppure la sua opera. Pochissimi furono vittime del potere come Bruno, Campanella, Galilei. Per trovare esempi di poeti che non si piegarono nella” genuflessioncella “come era tenuto a fare il Metastasio alla corte di Vienna , bisogna attenendere l’abate Parini fustigatore dei privilegi, gli illuministi milanesi e quelli napoletani. Anche Goldoni cittadino della Repubblica di Venezia andò alla corte francese. E poi l’aristocratico Alfieri che odiò “ le muse appigionate “e seppe tenere la schiena dritta. Ma è soprattutto da Foscolo che nasce una poesia civile capace di opporsi ai potenti fino alla scelta dell’esilio, come i piemontesi Baretti e Radicati di Passerano. Foscolo morì povero a Londra. Anche gli aristocratici Leopardi e Manzoni  seppero non piegarsi mai al potere. Nell’800 ci furono tanti intellettuali e scrittori che furono patrioti e conobbero il carcere e l’esilio a partire da Francesco De Sanctis. Anche Carducci fu poeta libero, malgrado la nomina a senatore. Nell’800 incomincia ad insinuarsi anche nel mondo della cultura la Massoneria che non fu protagonista, come molti sostengono, del Risorgimento. Molti poeti e scrittori scelsero il sostegno della Massoneria. A determinare  un cambiamento fu il graduale riconoscimento in Italia e all’estero dei diritti d’autore che li liberò dalle edizioni pirata delle loro opere.

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Con i diritti d’autore dovrebbe cessare il mecenatismo. Ma in effetti non è così perché la politica diventa una seduzione irresistibile per tanti intellettuali. D’Annunzio ne è un esempio alto anche se a volte confuso. Sarà soprattutto di fronte al fascismo che gli intellettuali si schierarono pro o contro nel 1925 con i manifesti di Gentile e di Croc, tema che ho affrontato nella mia lectio iniziale. Ma il banco di prova fu il Ventennio. Mussolini, che conosceva bene le ambizioni degli intellettuali italiani, creò la Reale Accademia d’Italia con appannaggi , feluche , titoli di eccellenza. In pochi resistettero alla tentazione, ma molti furono fascisti per convinzione a partire da Pirandello e Ungaretti.  Gli intellettuali an tifascisti furono pochi : obbligati all’esilio , condannati al carcere e al confino. I loro nomi vantano il sacrificio di Gramsci , dei fratelli Rosselli e di pochi altri uomini di cultura. Croce seppe opporsi restando in Italia , ma il suo prestigio internazionale e il fatto che fosse senatore lo preservarono dalla persecuzione. Analogamente accadde per il grande economista Luigi Einaudi. Caduto il fascismo il 25 luglio 1943, molti intellettuali che furono fascisti quasi fino al giorno prima, si riposizionarono, trovando la sponda nel partito comunista che accolse i convertiti senza particolari problemi.  Anche durante la Repubblica sociale ci furono Fo, Albertazzi e persino il giovane Spadolini che scelsero di stare dalla parte di Mussolini e di Gentile, assassinato sotto casa nel 1944.

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Togliatti era un politico di razza e accolse tutti  i voltagabbana che diventarono i più devoti comunisti per farsi perdonare il passato. Ha così inizio il sogno dell’egemonia culturale gramsciana che l’intellettuale sardo sperava con radici più nobili. Gramsci concepiva il partito comunista  come il nuovo “Principe“ di Machiavelli, un partito compatto e disciplinato, un partito pronto a fare la rivoluzione bolscevica. Togliatti era più realista di Gramsci e pensò ad accaparrarsi  posti nelle università , nelle case editrici , nei giornali , nel cinema da affidare ai suoi militanti. Quella egemonia non è più quella di un tempo, ma continua a resistere. La maggioranza degli uomini di cultura  con Marchesi, Russo  e tanti altri nel 1948 scelse il fronte popolare . Una minoranza scelse la libertà: i Silone, i Pannunzio, i Longanesi, i  Guareschi. Per fortuna dell’Italia vinse il fronte raccolto attorno a De Gasperi, a Croce, ad Einaudi, a Saragat, la cultura restò un monopolio degli sconfitti e non fu certo un premio di consolazione.