CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 321

Cinema nel Parco del Castello di Miradolo 

La figlia oscura

 

“Cinema nel Parco” è un’immersione totale nella natura, al centro di un’arena di oltre 2.000 metri quadrati disegnata da 7 maxi-schermi, nel parco centrale del Castello di Miradolo (TO). Per non disturbare l’equilibrio del parco, l’audio è udibile solo attraverso cuffie silent system luminose. In programma 7 appuntamenti, fino all’11 agosto, tutti i giovedì alle ore 21.30. Non ci sono sedie, né posti assegnati: ogni spettatore dovrà portare da casa un plaid per sedersi sul prato e assistere alla proiezione dal proprio angolo preferito.

Giovedì 4 agosto è in programma la proiezione de La figlia oscura. Tratto dal libro omonimo di Elena Ferrante, “La figlia oscura” è il film diretto da Maggie Gyllenhaal, per la prima volta dietro la macchina da presa, che ha ottenuto 3 candidature agli Oscar, 2 ai Golden Globes, 2 ai Bafta ed è stato premiato al Festival di Venezia. La protagonista è Leda Caruso, una docente universitaria americana di letteratura italiana, in vacanza presso una località di mare vicino a Corinto. Sulla spiaggia dove si reca ogni giorno arriva come un uragano una numerosa e rumorosa famiglia di Queens che ha origini greche e probabilmente qualche legame con la malavita organizzata. Dopo la reazione di fastidio iniziale, Leda comincia ad osservare con interesse Nina, la giovane madre che fa parte del gruppo degli “invasori”, e il rapporto fra Nina e la sua bambina riporta alla memoria della docente la propria relazione con le due figlie, ormai ventenni, quando erano ancora piccole. Una relazione complessa e per certi versi conflittuale che è venuta inevitabilmente a cozzare con il legittimo desiderio di Leda, brillante linguista, di avere una carriera nel mondo dell’accademia.

La figlia oscura (2022) è diretto da Maggie Gyllenhaal, con Olivia Colman, Jessie Buckley, Dakota Johnson, Ed Harris, Peter Sarsgaard. Titolo originale: The Lost Daughter.

Brachetti “deus ex machina” di un trionfale Barbiere di Siviglia a Salisburgo

Dal 4 al 16 agosto al festival estivo di Salisburgo diretto da Cecilia Bartoli e con la regia di Rolando Villanzon

 

Il barbiere di Siviglia 2022: Arturo Brachetti, Cecilia Bartoli (Rosina) | © SF / Monika Rittershaus

Una nuova, insolita trasformazione per Arturo Brachetti, leggenda del quick-change e artista a tutto tondo, che questa volta approda nel mondo dell’opera in uno speciale Barbiere di Siviglia al Festival di Salisburgo, il più importante al mondo.

 

La messa in scena dell’opera è diretta da Rolando Villanzon che per Brachetti ha ideato un nuovo personaggio, muto, un deus ex machina, presente in scena per tutta la durata dello spettacolo: Arturo, come il nome del suo interprete. Insieme a lui nei panni di Rosina troviamo Cecilia Bartoli, che è anche direttrice del Festival, Nicola Alaimo (Figaro), Alessandro Corbelli (Don Bartolo), Edgardo Rocha (il Conte), Ildebrando d’Arcangelo (Don Basilio).

È stata proprio Cecilia Bartoli a chiedere a Villanzon di dirigere l’opera cercando di ritrovare la tradizione italiana della commedia dell’arte, espressa pienamente da Brachetti che riveste un ruolo centrale in tutta l’opera.

 

Il regista ha trasposto l’azione dell’opera rossiniana agli anni ’30. La produzione gioca sul confine tra realtà e finzione cinematografica, ispirandosi ad altre contaminazioni famose come l’in and out del film di Woody Allen La rosa purpurea del Cairo e la poetica naif di Cinema Paradiso.

 

Brachetti impersona un magazziniere impacciato di uno studio cinematografico dove si girano film muti, un mondo che lui sogna quotidianamente. Ma la sua fantasia viene travolta da una storia ancora più surreale: il film prende vita sul palcoscenico e lui si trova catapultato in esso.

Il regista ha ripescato per questo spettacolo decine di routine comiche, lazzi e pantomime tipiche dei Fratelli Marx, di Buster Keaton e del cinema muto.

 

Questo originale allestimento si è posto sin da subito all’attenzione del pubblico e della critica internazionale in occasione dell’edizione di Pentecoste del Festival, tanto che le repliche in programma dal 4 al 16 agosto sono totalmente sold-out.

 

Arturo Brachetti, leggenda del trasformismo e tra gli artisti di teatro italiani più celebri nel mondo racconta “Cecilia Bartoli voleva fare il Barbiere il Siviglia con me e ha chiesto al regista Villanzon di creare un’idea originale. Lui ha avuto questa trovata incredibile che porta l’opera di Rossini direttamente nel XX secolo con un personaggio aggiunto, quello di Arturo, una specie di Mr. Bean artefice, complice e vittima di un sogno che sta tra l’opera, il cinematografo e la Commedia dell’arteAmmetto che non è stato facile, perché l’opera è diversa dal varietà, ma la commistione finale è unica ed eccezionaleIl Barbiere di Siviglia non è un’opera semplice perché è fatta di sottintesi, travestimenti, bigliettini scambiati, coincidenze e attimi brevissimi ma fondamentali per la dinamica comica della scena. Ho dovuto portare il mio knowhow in un mondo che non conoscevo ma che mi ha trasmesso un’energia straordinaria e un bagaglio di esperienza importante”.

 

Non si tratta tuttavia del “vero” debutto di Brachetti nell’opera. In realtà, ancora ragazzo, interpretò uno dei toreri al seguito di Escamillo in occasione di una Carmen in scena al Teatro Regio di Torino.

La strage di Bologna e la ricerca della verità

Sono passati quarantadue anni dal 2 agosto 1980.

Quel giorno, alle  10.25 di un caldo mattino di sabato, avvenne uno degli atti terroristici più
gravi del secondo dopoguerra, il più sanguinoso e criminale degli anni
della strategia della tensione. Nella sala d’aspetto di seconda classe
della stazione ferroviaria di Bologna Centrale esplose un ordigno a
tempo, nascosto in una valigia abbandonata. Ottantacinque persone
persero la vita e oltre duecento riportarono ferite molto serie. La
violenta esplosione venne avvertita nel raggio di parecchi chilometri.
Un’intera ala della stazione crollò come un castello di carta,
investendo il treno Ancona-Chiasso che sostava sul primo binario e il
parcheggio dei taxi antistante l’edificio. Tra le ottantacinque vite
innocenti che furono spezzate quel giorno quattro erano piemontesi.
Mauro Alganon, 22 anni, era di Asti e viveva in casa con i genitori
pensionati. Ultimo di tre figli lavorava come commesso in una libreria
ed era appassionato di fotografia. Era partito molto presto quella
mattina con un amico per andare a Venezia. A Bologna dovevano cambiare
treno, ma, a causa di un ritardo, persero la coincidenza. Faceva caldo
e
cercarono ristoro nella sala d’aspetto, uscendo a turno a prendere un
poco d’aria. L’esplosione lo uccise mentre stava leggendo un giornale.
L’amico che era uscito dalla stazione riuscì a salvarsi. Rossella
Marceddu aveva 19 anni e viveva con i genitori e la sorella a Prarolo,
piccolo comune a sud di Vercelli. Studiava per diventare assistente
sociale e aveva appena trascorso alcuni giorni di vacanza con il padre
e
la sorella al Lido degli Estensi. Stava rientrando a casa per
raggiungere il fidanzato. Inizialmente, con l’amica che l’accompagnava,
avevano pensato di fare il viaggio in moto, poi scelsero il treno
ritenendolo più sicuro. Quella mattina si trovavano sul marciapiede del
quarto binario in attesa del treno diretto a Milano. L’aria era afosa e
così decise di andare a prendere qualcosa da bere. La bomba scoppiò
mentre la ragazza stava andando al bar e la uccise. L’amica rimasta sul
quarto binario si salvò. Il cinquantaquattrenne Amorveno Marzagalli
viveva ad Omegna sul lago d’Orta, con la moglie Maria e il figlio
Marco.
Lavorava come dirigente in una ditta produttrice di macchine da caffè.
In quell’estate dell’ottanta aveva accompagnato la famiglia al Lido
degli Estensi, in provincia di Ravenna e, poi, avrebbe dovuto
raggiungere il fratello a Cremona con il quale aveva programmato una
gita sul Po. Erano dieci anni che il fratello lo invitava, ma solo
quella volta Amorveno acconsentì, anche per non lasciarlo solo dopo la
morte della madre avvenuta in giugno. La mattina del 2 agosto si fece
accompagnare alla stazione di Ravenna e di lì, dopo vent’anni che non
saliva su un treno, si mise in viaggio alla volta di Bologna dove lo
attendeva una coincidenza in partenza alle 11.05 che però non riuscì
mai a prendere. La quarta vittima aveva 33 anni, si chiamava Mirco
Castellaro ed era nato a Frossasco in provincia di Torino. Nel paese a
due passi da Pinerolo, dove il padre Ilario era stato sindaco, aveva
vissuto a lungo per poi trasferirsi a Ferrara dove risiedeva con la
moglie e il figlio di sei anni. Capoufficio presso la ditta Vortex
Hidra
a Fossalta di Copparo, nel ferrarese, aveva da poco acquistato
un’imbarcazione in società con un amico, accarezzando il progetto di
avviare una attività rivolta ai turisti. In quell’estate del 1980
l’obiettivo era di sistemare il natante ormeggiato in Sicilia e di fare
alcuni piccoli viaggi di rodaggio. Una serie di imprevisti costrinse
Mirco a ritardare la partenza. E l’appuntamento con il destino lo colse
quel maledetto sabato di agosto alla stazione di Bologna.
L’individuazione delle responsabilità della strage di Bologna
rappresenta una delle vicende giudiziarie più complicate, lente e
discusse della storia contemporanea del nostro Paese. Una vicenda che
ha
conosciuto tentativi di depistaggio e che, viceversa, nella ricerca
della verità, ha visto l’impegno dell’associazione tra i familiari
delle vittime della strage, costituitasi il 1° giugno dell’81. Dopo
vari gradi di giudizio si giunse a una sentenza definitiva di
Cassazione
solo quindici anni dopo la strage, il 23 novembre 1995: vennero
condannati all’ergastolo come esecutori dell’attentato i neofascisti
dei
NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (che si sono sempre
dichiarati innocenti, pur avendo apertamente rivendicato vari altri
omicidi di quegli anni). Per i depistaggi delle indagini furono
condannati l’ex capo della P2 Licio Gelli, l’ex agente del Sismi
Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro
Musumeci e Giuseppe Belmonte. Il 9 giugno del 2000 la Corte d’Assise di
Bologna emise nuove condanne per depistaggio e sette anni più tardi
venne condannato a trent’anni per l’esecuzione della strage anche Luigi
Ciavardini (minorenne all’epoca dei fatti). Altri due imputati,
Massimiliano Fachini (anch’esso legato agli ambienti dell’estrema
destra
ed esperto di timer e inneschi) e Sergio Picciafuoco (criminale comune,
presente quel giorno alla stazione di Bologna, per sua stessa
ammissione), vennero condannati in primo grado, ma poi assolti in via
definitiva, rispettivamente nel 1994 e nel 1996. Nel 2017 venne
rinviato
a giudizio per concorso nella strage di Bologna l’ex terrorista dei Nar
Gilberto Cavallini. Nell’ambito di questo procedimento venne richiesta
una nuova perizia sui reperti della stazione ancora conservati. La
perizia segnalò il ritrovamento di quello che poteva essere
l’interruttore che fece esplodere l’ordigno. Nuovi e recenti scenari si
aprirono due anni fa: il 9 gennaio del 2020 Cavallini, sulle cui spalle
pesavano già otto ergastoli, fu condannato con sentenza di primo grado,
per concorso nella strage. A maggio la Procura generale del capoluogo
emiliano chiese il rinvio a giudizio dell’ex militante di Avanguardia
nazionale Paolo Bellini, in quanto esecutore dell’attentato alla
stazione mettendo in rilievo che avrebbe agito in concorso con Licio
Gelli, con l’ex capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale
Federico
Umberto D’Amato, con l’imprenditore e finanziere piduista Umberto
Ortolani e col giornalista Mario Tedeschi, tutti morti nel frattempo e
tutti coinvolti come possibili mandanti o finanziatori dell’eccidio.
“_La giustizia non ha fine_”, disse un giorno Paolo Bolognesi,
presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime del 2 Agosto.
Ma in questo 2022, esattamente nell’aprile scorso, una parola fine
almeno per quanto riguarda il nuovo processo della strage alla stazione
è arrivata, 42 anni dopo: ergastolo per Paolo Bellini, ex di
Avanguardia Nazionale accusato di concorso nella strage, con un anno di
isolamento diurno. Quello che venne definito come ‘”_l’uomo nero_”, è
stato riconosciuto da questa sentenza come il quinto attentatore, in
concorso con i Nar condannati in definitiva, Giusva Fioravanti,
Francesca Mambro e Luigi Ciavardini e, in primo grado, Gilberto
Cavallini. Si è giunti finalmente a gettare luce sui mandanti? E’ stata
messa la parola fine a questa interminabile vicenda? E’ augurabile che
sia così per dare finalmente dei volti e dei nomi a chi decise di
colpire al cuore la nazione, stroncando la vita e i sogni di tanti
innocenti e delle loro famiglie.

Marco Travaglini

La Palazzina di Caccia di Stupinigi apre le porte dei suoi spazi segreti chiusi al pubblico

/

Sabato 3 settembre 2022

Le stanze chiuse del re

 

“Le stanze chiuse del re” è il nome della visita guidata straordinaria, in programma sabato 3 settembre, all’appartamento di Ponente di Carlo Felice con le sue particolari decorazioni a tema marino. Opposto allo speculare appartamento di Levante, l’appartamento in attesa di restauro è l’insieme delle stanze appartenute al Re Carlo Felice e alla duchessa Cristina di Borbone.

Gli spazi vennero ampliati sotto la direzione di Benedetto Alfieri nel XVIII secolo per accogliere le stanze di Vittorio Emanuele, duca d’Aosta e figlio di re Vittorio Amedeo III. L’appartamento si apre all’ingresso con un atrio contraddistinto da due statue in marmo dei fratelli Collino rappresentanti rispettivamente Meleagro e Atalanta. Le due anticamere successive sono contraddistinte da una decorazione della seconda metà del XVIII secolo ascrivibili alla scuola del Cignaroli con scene di caccia e di vita agreste. Tutte le sovraporte degli ambienti raffiguranti Marine, datate 1755, sono riconducibili alla maniera di Francesco Antoniani. Nelle camere da letto i lampadari in vetro di Murano con bracci a cornucopie, risalgono alla fine del XVIII secolo così come i letti intagliati e laccati. I camini di tutto l’appartamento sono in marmo di Valdieri, il pavimento in seminato alla veneziana.

La visita rientra nel programma di Passepartout, le visite guidate straordinarie alla (ri)scoperta degli spazi segreti, normalmente chiusi al pubblico, della Palazzina di Caccia di Stupinigi. L’appartamento di Ponente, gli ambienti della servitù e la cupola juvarriana sono gli spazi della corte, in alcuni casi aperti per la prima volta ai visitatori, che raccontano la storia della Palazzina nelle sue diverse fasi abitative e il progetto architettonico alla base della sua costruzione.

 

INFO

Palazzina di Caccia di Stupinigi

piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi – Nichelino (TO)

Le stanze chiuse del re – Visita all’appartamento di Ponente

Sabato 3 settembre, ore 10.30, 12, 14.30 e 16

Durata: un’ora circa.

Prossimi appuntamenti: 1 ottobre, 5 novembre, 6 novembre, 12 novembre

Costo del biglietto: 17 euro.

Per partecipare alle visite guidate è obbligatoria la prenotazione.

Prenotazione obbligatoria al numero: 011 6200633, dal martedì al venerdì 10-17,30, entro il venerdì precedente la visita.

www.ordinemauriziano.it

“Gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo”

Music Tales, la rubrica musicale 

Non devi credere, no, vogliono far di te

Un uomo piccolo, una barca senza vela

Ma tu non credere, no, che appena s’alza il mare

Gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo”

Il brano di cui voglio scrivere oggi è “ragazzo mio” di Luigi Tenco. Il brano è uscito per la prima volta nel ’64 mentre la versione che vi proporrò a fine articolo è di quarantaquattro anni dopo. La canzone è un invito a non distruggere i propri sogni dando retta alle persone senza idee, che giudicano senza sapere o, spesso, per l’incapacità di realizzare cose.

 

Luigi Tenco, uno dei maestri cantautori della canzone italiana ed esponente di spicco della scuola genovese, pubblicava quindi nel 1964 il brano da lui scritto “Ragazzo mio” sul lato A del 45 giri che comprendeva sul lato B “No, non è vero”. Il pezzo veniva inserito l’anno successivo nell’LP “Luigi Tenco”. Il pezzo avrà diverse cover eccellenti, tra le più famose ricordiamo quella di Loredana Bertè e di Ivano Fossati.

“Ragazzo mio”, è dedicata da Tenco al giovane Alessandro, figlio dell’amico Roy, come quest’ultimo affermerà nel suo libro (Caso Tenco. È stato un suicidio?). Il cantautore rivolge paternalmente al ragazzo, che in questa canzone rappresenta la generazione futura, preoccupato che da grande potrebbe non capire l’impegno da lui e da quelli come lui profuso per combattere il conformismo della società. È da prediligere un’interpretazione che vede Tenco impersonare direttamente le sembianze del padre del ragazzo e, dunque, riferire la locuzione “tuo padre” a se stesso. L’autore non nasconde al figlio di sentirsi giudicato dalla società per essere un sognatore ed idealista. Tuttavia, coloro che giudicano sono parte di quella società fatta di piccoli uomini che alla prima difficoltà si arrendono perchè senza ideali.

 

Ancora una volta Tenco dimostra di essere avanti. Ma dalle sue parole già traspare una solitudine. Probabilmente proprio quella solitudine degli idealisti che lo perseguiterà per tutta la vita e che potrebbe aver giocato un ruolo importante in quell’ albergo durante il Festival di Sanremo del 1967, quando avvenne la sua morte, tutt’oggi avvolta nel mistero.

 

Ad otto anni dalla sua scomparsa, vorrei ricordarla sulle corde di Giuseppe Mango, altra gran voce tolta a questa nostra vita terrena. Mango mai interessato alla musica italiana (se non qualche brano di Lucio Battisti n.d.r.) nel 2008 pubblica “Acchiappanuvole”, un album che ho acquistato e consumato.

L’album contiene le cover di alcuni famosi brani di artisti artisti italiani quali Claudio Baglioni, Fabrizio De André, Lucio Battisti, e Francesco De Gregori. Tra le canzoni incluse vi sono Senza Pietà di Anna Oxa e anche alcuni successi degli anni 2000, come Luce (tramonti a nord est) di Elisa e La disciplina della Terra di Ivano Fossati.

 

A voi Ragazzo mio …

 

 

buon ascolto, vi piacerà ne sono certa

 

https://www.youtube.com/watch?v=8BMJziuGtcA&ab_channel=Mango-Topic

Chiara De Carlo

 
 

 

Sì: sono un sognatore. Un sognatore è colui che riesce a trovare la sua strada solo al chiaro di luna, e la sua punizione è che vede l’alba prima del resto del mondo”

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!
 
GIOVEDI 04 AGOSTO CONAD DI RIVOLI ORE 20.00 ….NON POTETE MANCARE!!

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Joël Dicker “Il caso Alaska Sanders” -La nave di Teseo- euro 22,00
Sembra quasi impossibile che questo scrittore svizzero 37enne, con l’aria dolce e sorridente da ragazzino simpaticissimo, possa anche solo lontanamente concepire trame come quella del suo ultimo romanzo, dove precipitiamo affascinati in un labirinto di: omicidi efferati, menzogne, segreti, ricatti, invidie devastanti, false piste, colpi di scena continui e rutilanti che spalancano le porte su un orrore che ha dell’indicibile.
“Il caso Alaska Sanders” è l’ultima parte della trilogia con al centro Marcus Goldman, iniziata con “La verità sul caso Harry Quebert” (2013) –che ha ispirato la serie tv interpretata da Patrick Dempsey- e proseguita con “Il libro dei Baltimore” (2016).
Joël Dicker, al successo planetario – con oltre 12 milioni di copie vendute- è arrivato dopo una serie di rifiuti, che per fortuna non l’hanno fermato. Ha continuato a scrivere ed è così che è nato il best seller che l’ha catapultato nell’Olimpo degli scrittori più amati e letti.
Se avevate nostalgia della provincia americana e delle atmosfere che avevano avvolto la vicenda dello scrittore Harry Quebert, scagionato da un’accusa infamante dal giovane collega Marcus Goldman; ora “Il caso Alaska Sanders” lenisce quel vuoto e vi rimette sulle tracce di Marcus.
10 anni dopo aver raggiunto la fama con il libro in cui raccontava il caso Quebert, Marcus -in crisi di ispirazione, irrequieto e alla ricerca del suo mentore di cui ha perso le tracce- si rifugia ad Aurora, nel New Hampshire. Lì ritrova Perry Gahalowood, burbero e bravissimo poliziotto con cui aveva già collaborato.
Perry non si dà pace perché è convinto di aver commesso una serie di errori 10 anni prima, nel 1999, quando aveva indagato su un caso che aveva sconvolto la tranquilla cittadina di Mount Pleasant. L’omicidio della bellissima 22enne Alaska Sanders, vincitrice di “Miss New England”, trovata morta in riva a un lago.
Una serie di biglietti anonimi fa pensare che le indagini siano state troppo sbrigative, inoltre tanti altri dettagli non tornano e aprono voragini su ulteriori dubbi.
Gahalowood decide di riprendere in mano il “cold case”, e Marcus lo aiuta a ricostruire i fatti, rivedere le prove, capire se l’uomo finito in carcere dopo aver confessato il delitto sia il vero colpevole.
Della trama vi anticipo solo che vi afferrerà dall’inizio alla fine, con calibrati flash back che permettono di mettere a fuoco il passato difficile di alcuni personaggi le cui vite sono fuori norma. Perché conta non solo quello che i personaggi fanno, ma soprattutto perché lo mettono in atto, e Dicker ve li fa conoscere meglio, pagina dopo pagina.

Sullo sfondo c’è l’America della provincia descritta magnificamente e nei minimi particolari; Dicker la conosce bene perché per 20 anni ha trascorso le vacanze nel Maine, a casa di uno zio.
Poi dialoghi serrati, saliscendi narrativi, amore e morte che si amalgamano e finiscono per distruggere giovani vite, segreti torbidi e da nascondere a qualsiasi costo…e tantissimo altro ancora che scoprirete leggendo.
Insomma, Joël Dicker ha nuovamente fatto centro; ma mantiene saldamente i piedi per terra, non si è montato la testa, anzi, ha affermato di sentirsi ancora agli inizi della carriera.
Consapevole che il successo può sempre voltare le spalle, oggi Dicker, padre di un bambino di 3 anni, ha lanciato la sua casa editrice “Rosie & Wolfe” e “Il caso Alaska Sanders” è il primo titolo che pubblica. E c’è da credere che avrà un occhio molto attento nei confronti di giovani scrittori in cerca di fama e tutti da scoprire.

 

Eric-Emmanuel Schmitt “Paradisi perduti” -Edizioni e/o- euro 19,00

Questo prolifico scrittore francese, nato a Sainte-Foy-lès-Lyon nel 1960, membro dell’Académie Goncourt, è anche un importante autore teatrale le cui opere sono rappresentate in tutto il mondo. Da alcuni suoi romanzi sono anche stati tratti film di successo, tra cui “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” e “Piccoli crimini coniugali”.
“Paradisi perduti” è il primo dell’ambiziosa saga in 8 volumi sulla storia dell’umanità “La traversata dei tempi”, alla quale Schmitt lavora da oltre 30 anni. Un progetto titanico in cui ricostruisce in forma romanzata la vita sulla terra e ce la racconta attraverso le storie di vari personaggi a cavallo dei tempi.
Diciamo subito che ha sapientemente miscelato la sua abilità di romanziere di alto livello con una messe di conoscenze storiche, scientifiche, religiose, sociologiche, religiose, mediche, filosofiche e tecniche.
Il risultato è strabiliante per la capacità di affascinare il lettore, senza mai annoiarlo; anzi si procede pagina dopo pagina con la curiosità di sapere cosa sta per accadere. Una magia che riesce solo ai grandi scrittori.

Come si può intuire l’opera è monumentale e ogni capitolo si affaccia su un’epoca importante per la storia dell’uomo.
Il primo, “Paradisi perduti” racconta la fine del Neolitico e il diluvio che spazzerà parte dell’umanità. Il romanzo scorre per 487 pagine di immensa bellezza che ci riportano all’alba della vita terrestre, quando la Natura imperava sovrana consentendo la sopravvivenza dei più forti e più combattivi.
Protagonista è Noan, uomo del Neolitico nato 8000 anni fa in un villaggio costruito sulla riva di un grande lago. Un mondo in cui, immersi in una natura libera e rigogliosa, uomini e donne vivevano di caccia, pesca e raccolta; ospiti di passaggio, che alla Natura si inchinavano, conoscendola a fondo e rispettandola.

In riva al lago la tribù di Noan era dei Sedentari che si ritenevano superiori alla razza dei Cacciatori che razziavano ed erano disprezzati. A capo del villaggio c’era un leader che doveva agire per il bene della comunità. La morte era all’ordine del giorno, soprattutto quella infantile, e superare l’anno di vita era già un miracolo.
Gli uomini misuravano il tempo «…meno di oggi, non c’erano date di nascita né battesimi né atti di nascita né feticismo intorno ai compleanni, solo qualche ricordo condiviso…..Una mattina qualcuno nasceva e si faceva festa, una sera qualcuno moriva e si organizzava un’altra festa».

Noam era il figlio del capo Pannoam, al quale ubbidiva in tutto, anche sposando una donna che non amava; poi quando nel villaggio arriva un guaritore con l’affascinante figlia Nura, le cose si complicano. Molte cose accadranno e scopriremo che, nonostante il villaggio fosse un abbozzo di struttura sociale, anche allora al centro della convivenza e della vita c’erano i rapporti umani. Intrisi (come oggi) di amore, invidie, rivalità, bontà, generosità oppure cattiveria, vendetta, sete di potere ….

Poi nel romanzo irrompe la furia delle acque del lago e un immenso diluvio vi terrà ancorati alle pagine. Scoprirete la sorte che attende i vari personaggi, però quello che ci presenta Schmitt è la prima grande rivoluzione nella storia umana.
Quando «L’ uomo era arrivato a credersi superiore alla Natura che stava trasformando. Ormai c’erano due mondi, quello naturale e quello umano. E il secondo invadeva il primo senza vergogna». Tema oggi di stringente attualità……

Natasha Solomons “Io, Monna Lisa” -Neri Pozza- euro 18,00
E’ semplicemente geniale l’idea di dare voce al ritratto femminile più osannato della storia dell’arte mondiale; nessuno ci aveva pensato prima e ora la Solomons fa parlare la Monna Lisa di Leonardo.
E’ lei la protagonista di questo romanzo che è anche storico e frutto di una sapiente ricostruzione. Inizia nella Firenze del 1504 con Leonardo che all’epoca aveva 51anni, e da Milano era arrivato in uno studio fiorentino. Poi si avvicendano vari scenari: le corti francesi di Versailles e Fontainebleau, le rivoluzioni, le guerre del 900 per finire ai giorni nostri.
Tutto raccontato attraverso l’enigmatico sguardo di Monna Lisa, imprigionata dietro una teca di vetro, ma che ha visto e provato di tutto; e, al di là del mistero che la circonda, sente, formula giudizi, ha una sua visione del mondo.
La donna osannata e ammirata -da re, imperatori, ladri, amanti, conoscitori dell’arte e gente comune- è Lisa del Giocondo. Moglie di un mercante di stoffe (insensibile e dall’animo gretto), che commissionò il ritratto al grande artista, e non è affatto muta come sembra. Natasha Solomons le dà voce, pensieri, emozioni e sentimenti che rivela a chi la sa ascoltare.

Leonardo ne fu ossessionato, perché in quel quadro aveva infuso non solo le sue rivoluzionarie tecniche pittoriche, ma anche buona parte di se stesso, le sue idee e la sua filosofia di vita. Adorava la Gioconda, che nel romanzo di Natasha Solomons ricambiava l’affetto.
Il libro però non si limita alla vicenda privata, ha un ampio respiro storico e nelle sue pagine compaiono molti grandi personaggi con le loro dinamiche, sfide e rivalità; da Leonardo da Vinci a Macchiavelli, Michelangelo, Raffaello e il re di Francia Francesco I.

La 43enne Natasha Solomons, che ci ha fatti innamorare dei suoi precedenti romanzi (raccontando le vicende dei Goldbaum e di casa Tyneford), è da sempre abilissima nel dare voce a chi non la possiede.
Forse perché il suo vissuto di ragazzina dislessica le ha offerto una chiave di lettura in più, e ha forgiato la sua particolare sensibilità nell’immedesimarsi nei suoi personaggi.
Profonda l’empatia con cui si è avvicinata al ritratto della Gioconda, della quale ha avvertito la profonda solitudine, in cui si è in gran parte riconosciuta.

 

Claudio Visentin “Luci sul mare” -Ediciclo editore- euro 13,50

Soprattutto per chi avverte il misterioso fascino dei fari -sentinelle dei mari che guidano viandanti marinai- sarà irresistibile questo libro scritto da Claudio Visentin, docente di Storia del Turismo all’Università della Svizzera italiana e studioso dei nuovi stili di viaggio.
In 105 pagine -arricchite anche da disegni- racconta il suo peregrinare alla scoperta dei principali fari scozzesi e le loro storie in cui, mare, tempeste e naufragi hanno reso le acque che lambiscono le coste un immenso cimitero di uomini e relitti.

E’ un percorso affascinante dalla prima all’ultima pagina. Tanto per cominciare scopriamo che nel mezzo di una tempesta, c’è più possibilità di salvezza in mare aperto che non in prossimità delle coste, perché è proprio contro gli scogli che si sono schiantate centinaia di navi nel corso dei secoli. La costa della Scozia è particolarmente infida con rocce sommerse, secche e correnti improvvise. Per questo, armatori, mercanti e capitani di lungo corso chiesero con insistenza di costruire dei fari.
Nel 1786 fu fondato il Northern Lighthouse Board con il gravoso compito di trovare finanziamenti, tracciare strade per raggiungere punti strategici dove costruire i fari e altre mille complicazioni; eppure nonostante le difficoltà in un paio di anni ecco svettare le prime sentinelle.
In Scozia furono edificati oltre 200 fari nel corso degli anni; i principali sono 84, in origine erano sorvegliati da guardiani che potevano anche rischiare la vita quando onde gigantesche e infuriate si abbattevano su quelle torri facendo tremare tutto sotto l’urto di tonnellate di acqua sui muri. «Si racconta che al faro di Fair Isle North, tra le Orcadie e le Shetland, due guardiani furono portati via dal vento». C’era un preciso regolamento da rispettare; prescriveva che almeno uno dei custodi restasse sempre all’interno, persino quando vi erano naufraghi in pericolo.
Il viaggio di Visentin inizia vicino a Edimburgo e ci conduce (su traghetti, aerei vetusti che volano a vista e senza moderna strumentazione) alla scoperta dei mitici fari della costa scozzese. Da lì si spinge fino alle isole Orcadi per arrivare all’ultimo faro in punta alle isole Shetland, quello di Burrafirth affacciato sull’immensità di un orizzonte sconfinato.

I celebri fari scozzesi furono costruiti dagli Stevenson, si, proprio la famiglia del famoso scrittore Robert Louis Stevenson che entrò in rotta di collisione col padre quando scelse invece la strada della letteratura.
La loro fu una gloriosa dinastia di ingegneri geniali, grazie ai quali molte navi poterono seguire la rotta giusta, guidati dalle luci delle loro costruzioni, spesso appoggiate su speroni rocciosi.

Dei fari che visita, Visentin, racconta le storie e gli aneddoti; uno più affascinante dell’altro, epici e tragici con mille naufragi nel corso dei secoli, ma anche la salvezza di tante navi e curiosità poco note.
Come la storia di Fresnel che nel 1822 inventò la lente che era «..l’anima del faro, l’occhio del gigante. La luce è quella di una normale lampadina…..è merito della lente moltiplicarne all’infinito la potenza e concentrarla in un unico raggio attraverso un’iride di cristallo».

Dopo oltre due secoli, è nel 1998 che, a Fair Isle South, si estingue l’onorato mestiere di guardiano del faro con l’ultimo di loro che lascia la torre. Da allora una lunga fase di transizione verso l’automazione è stata gestita con cura; eppure la magia resta.

“Pietro J.” Il nuovo libro di Patrizia Valpiani medico-scrittore

Lunedì 1 agosto alle ore 17,30 nel salone delle feste di Bardonecchia il medico- scrittore Patrizia Valpiani presenterà il suo nuovo libro “Pietro J.” in parte ambientato a Torino ed edito da Readacrion . Abbiamo intervistato l’autrice.

D. Dottoressa Valpiani, Lei e’ medico scrittore e presidente di A.M.S.I.; ci dice qual è il legame
tra queste due attività cui ha dedicato la sua vita.

R. L’etica della professione medica porta a scacciare il dolore ma ben sappiamo che non bastano i farmaci, ci vuole quello che definisco il supplemento dell’anima e della verbalizzazione; i medici in genere cominciano a scrivere per questo. Attraverso l’uso sensibile della parola, che tanto rassicura, razionalità e creatività si fondono, ben vengano di conseguenza anche le parole scritte: per molti di noi parte integrante della vita. Spesso valgono anche per lenire le nostre personali inquietudini e mantenere un equilibrio, funzionano meglio di una dose massiccia di benzodiazepine. Sappiamo bene che la mente del medico è sempre all’erta. Anche la mente dello scrittore lo è. Potrei citare tantissimi esempi anche a livello internazionale e in tutti i tempi. Basti ricordare comunque che oltre all’ Associazione italiana ne esistono simili in tutto il mondo e fanno capo a U.M.E.M. ( Union Mondiale Ecrivains  Médécins).

D. Lei scrive poesia e narrativa, come spiega questa duplice scelta?

R. Non si tratta di una scelta, ma della manifestazione della natura letteraria profonda. Lo scrittore di narrativa ha bisogno di nutrirsi di parole sentimenti e vite altrui. Non basta la propria di vita! La poesia è pregna di humus: i poeti ballano nella mente senza alcun freno inibitorio, liberano eserciti di mondi interiori e danno come frutti le più varie emozioni. Quale miglior campo, quando si scrive, dove attingere storie di uomini?. La mia scelta narrativa è diretta in primis verso il genere noir. Proprio per le caratteristiche intrinseche del noir, posso affermare che cerco di scrivere le mie storie con una larga componente poetica. Innanzitutto ci vuole l’atmosfera, che fa da regina: alla Scerbanenco, intanto per portare un esempio. L’ambiente prescelto deve essere fumoso, caotico, inquietante, misterioso. Da non sottovalutare che nei miei romanzi viene fuori anche il lato oscuro della mente,  scandaglio le profondità psicologiche.

D. Ci parli dell’ultimo libro uscito, Pietro J, per Readaction editrice- Roma, 2022.

R. L’idea originaria è nata anni indietro, con altri due romanzi ( Chiaroscuro e l’Ombra cupa degli ippocastani, firmati allora con il nom de plume Tosca Brizio, perché scritti a quattro mani con Gianfranco Brini, medico legale, scomparso a gennaio 2019). Il protagonista di quest’ultima pubblicazione, in cui ho ripreso il mio nome come autrice, è sempre lui: Pietro Jackson. Si tratta di un artista italo inglese,  personaggio enigmatico e affascinante che unisce quanto di magico e misterioso c’è nel mondo dell’arte. Ci conferma come il cervello sia un organo stupefacente ed ancora misterioso in tanti suoi relais: Pietro, durante i suoi momenti di creatività o durante il sonno, percepisce suo malgrado le negatività che lo circondano, spesso con enorme sofferenza. Così si trova coinvolto in eventi drammatici e cerca di essere d’aiuto nella risoluzione. Vicino a lui troviamo personaggi ricorrenti: una madre medico di famiglia, un padre commerciante e giramondo, un medico legale, un amico giornalista, una fidanzata…

D. Insomma, si tratta di una serie. Quale il suo modo di scrivere e quanto tempo dedica a questa attività.

R. Sì, una serie, appunto. Sono già all’opera per un ulteriore romanzo con gli stessi protagonisti. Da quando, per sopravvenuti limiti di età ho allentato la professione medica, dedico molte ora allo scrivere, è una grande passione. L’idea iniziale a volte nasce improvvisa, poi i personaggi mi prendono la mano e posso cambiare direzione  strada facendo. Devo trasfondere le mie idee e renderle coerenti e verisimili con i protagonisti della storia che mi si forma nella mente. Ci vuole poi, quando il lavoro sembra finito, un lungo impegno di cesello. Bisogna avere il coraggio di tagliare qualche frase, di modificare qualche concetto. In ultimo, ma non per importanza, ci vuole rispetto: per la letteratura in genere, per i lettori, per i protagonisti delle storie e per la vita in genere.

Rock Jazz e dintorni: Mario Biondi e Fiorella Mannoia

GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Martedì. Al Jazz Club suona il duo del sassofonista Fuat Sunay.

Mercoledì. Sempre al Jazz Club, blues con il duo formato da Paolo De Montis e Vincent Petrone.

Giovedì. A Verbania per “Sconfinando” si esibisce Giorgio Contecon orchestra. Al Blah Blah suonano i californiani Nebula.

Venerdì. A Vercelli canta Fiorella Mannoia. Chiusura di “Monfortinjazz” con Mario Biondi.

Sabato. Al Jazz Club suona lo ZTL Duo. A Bagnolo per “Occit’amo” si esibisce il trio di Laura Parodi. Al Blah Blah sono di scena gli Hollywood Killerz. Al Forte di Exilles si esibisce il cantautore australiano Nic Cester .

In agosto concerti nelle province e valli del Piemonte. A Ferragosto a Castelmagno si esibiscono i Lou Dalfin. Il 26 a Bra arriva Alice. Il 27 a Castagnole Lanze suonano i Nomadi. Sempre il 27 la Banda Osiris è a Lesa. Il 28 a Montegrosso Grana arriva Enrico Ruggeri. Chiusura d’agosto con protagonista il weekend dal 26 al 28 con “Todays” . Suoneranno tra i tanti, Primal Scream, Squid, Hurray For The Riff Raff. FKJ.

Pier Luigi Fuggetta

Il pittore astratto Demarchi ritorna con una mostra monografica al Museo Diocesano

Il pittore astratto Roberto Demarchi ritorna con una mostra monografica ospitata al Museo Diocesano di Torino presso il Duomo, dal titolo “Origine’, di carattere veterotestamentario, visitabile dal 15 settembre prossimo

 

Atteso ritorno del pittore torinese Roberto Demarchi con una mostra che sarà visitabile dal 15 settembre al 14 novembre prossimi presso gli spazi del Museo Diocesano, allestito nella cripta del Duomo di Torino, la cattedrale di San Giovanni Battista, nell’omonima piazza.
Roberto Demarchi torna, così, protagonista di una mostra monografica a Torino, dal titolo ‘Origine’ e di tema veterotestamentario. Si tratta dell’esposizione di sedici tavole su legno dedicate alla prima parte “Origine” del tema sconfinato del viaggio dell’essere umano “Dall’origine alla salvezza”.
Le tele sono dedicate a episodi e personaggi dell’Antico Testamento: ”La caduta di Lucifero”, “La creazione di Adamo”, “La creazione di Eva”, “L’ albero della conoscenza”, “Cacciata dall’Eden”, “Caino e Abele”, “La riconciliazione dopo il diluvio”, La torre di Babele”, “Abramo e la Fede”, “Abramo sotto le stelle”, “Il sacrificio di Isacco”, “La scala di Giacobbe”, “Mosè e il roveto ardente”, Mosè e le tavole della Legge”, La morte di Mosè”, “Il profeta Elia”.
La seconda antologica, ideale prosecuzione della prima, sarà organizzata negli stessi spazi del Museo Diocesano nel 2023, in data ancora da definire, e avrà quale titolo “Salvezza”, dedicata ai temi neotestamentari.
“È quella di Demarchi – spiega il professor Claudio Strinati nella presentazione – un’astrazione quale fattore visivo germinale della vibrazione luminosa e della configurazione di figure geometriche, cariche di senso recondito, ma non inattingibile; e quel senso va ricercato proprio nell’intento dell’artista di conferire una forma congruente a questioni di carattere etico, determinanti per il nostro essere e per il nostro vivere”.
Il percorso artistico di Roberto Demarchi, nato a Torino nel 1951, città dove ha compiuto studi classici e di architettura, inizia piuttosto precocemente, perfezionandosi, a partire dal 1966, sotto la guida del pittore torinese Riccardo Chicco. La sua prima mostra ebbe luogo nel 1969 presso la galleria Cassiopea di Torino, con la presentazione da parte del critico e storico dell’arte Angelo Dragone.
Demarchi è stato docente di storia dell’arte contestualmente all’esercizio della professione di architetto, coltivando, nel corso degli anni, anche un attento studio della filosofia, della letteratura e della musica.
All’inizio degli anni Novanta a Torino fu protagonista di una mostra dal titolo “Alogia”, un “percorso nel buio della coscienza e della memoria”, che segnò il passaggio da un linguaggio figurativo, attento alla potenzialità espressiva di materiali e tecniche inusuali, all’astrazione, che ebbe la sua espressione nel successivo ciclo “Peri Physeos” del marzo 2001. Qui, con un linguaggio pittorico binario rigorosamente ridotto all’uso di quadrati e rettangoli, l’artista riflette sul momento aurorale del pensiero occidentale e, in particolare, su quello dei filosofi presocratici. Su questo suo lavoro pittorico viene presentata un’ampia monografia a Roma, in Campidoglio, nel 2003, e a Torino a palazzo Bricherasio (editore Concetti). Alla stesura di questa monografia hanno contribuito alcuni tra i massimi esponenti europei della letteratura, poesia e filosofia, tra cui Zanzotto, Bonnefoys, Kunert, Raboni, Patrikios e Severino.
Da allora in poi la ricerca di Demarchi si è declinata sulle opere del poeta tragico Eschilo e sull’interpretazione e rappresentazioni veterotestamentarie e tratte dal Nuovo Testamento. Nel 2007 si tenne presso l’Archivio di Stato di Torino la mostra “Genesi”, curata da Enrico Paolucci, già direttore degli Uffizi di Firenze e già direttore dei Musei Vaticani, che avrebbe poi curato, tra il 2008 e il 2009, la mostra di Demarchi intitolata “Genesi del Mondo e Genesi dell’Arte”, nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Nell’aprile 2011 Claudio Strinati presentò, alla Biblioteca Ambrosiana a Milano, il trittico dedicato alla Passione secondo Matteo, riflessione in astrazione sull’omonima opera di J.S. Bach.
Una interessante pubblicazione dell’artista è stata quella risalente al 2013, per i tipi Allemandi, del volume sulla Tempesta, in cui Demarchi ha proposto un’innovativa lettura cronologica del noto dipinto del Giorgione, accompagnata da una sua interpretazione in astrazione.
Una successiva mostra, tenutasi nel 2014, inaugurata presso l’Istituto Italiano di Cultura, Ministero degli Esteri a Tokyo, è stata quella intitolata “Haiku”, comprendente 17 dipinti capaci di restituire, con un linguaggio pittorico astratto, altrettanti componimenti poetici giapponesi.
Dal 9 luglio al 17 settembre 2016 la Fondazione Bottari Lattes organizzò una triplice mostra delle opere dell’artista, dal titolo Forma, materia e spirito”, a palazzo Tovegni a Murazzano, nello spazio Don Chisciotte a Torino e nella sua sede di Monforte. Nel luglio 2018 veniva pubblicato il libro di Demarchi intitolato “La moneta di Caravaggio “, con la prefazione di Claudio Strinati, disvelamento di un’inedita scoperta da parte di Demarchi di un particolare della “Vocazione di Matteo” di Caravaggio.
Le ultime esposizioni dell’artista sono state, nel novembre 2018, presso l’Archivio di Stato di Torino, dal titolo “Alle radici”, e la successiva mostra antologica dal titolo “Il Rinascimento ritorna”, nella storica sede fiorentina del Convitto della calza.

Mara Martellotta

Ne è valsa la pena?

Faceva freddo in quella stalla abbandonata. Dai muri tirati su a secco entrava un’aria gelida, sibilata dal vento che quella notte di fine inverno del 1944 turbinava neve. Attorno a quel tavolo di fortuna, combinato da due vecchie assi poggiate su malfermi cavalletti di legno ci trovammo a parlare del futuro, di ciò che ci attendeva. Eravamo in tre: io, Giorgio e Renato.

La cera liquefatta della candela si era rappresa in pallide lacrime e le parole scorrevano veloci. Quando sarebbe finito l’incubo della guerra, dell’occupazione dei tedeschi, dell’arroganza dei fascisti della repubblica sociale con quei ghigni e i simboli delle teste da morto? L’Italia sarebbe tornata come prima del fascismo o sarebbe cambiata davvero? Certo, volevamo la libertà ma non si combatteva solo per questa ragione. “Il nostro obiettivo è tenere insieme, come una cosa sola, libertà e democrazia”, diceva Giorgio. “ Non è possibile che le cose rimangano come ai tempi dello Statuto Albertino. Non basta che ci sia un sovrano che conceda di sua iniziativa, che bontà, i diritti al popolo. Anzi. Non va nemmeno bene che ci sia un Re, la monarchia, i Savoia a decidere e comandare. Quelli sono scappati all’8 settembre lasciandosi alle spalle un paese dilaniato, distrutto, occupato. Prima hanno aperto le porte al Duce, poi all’avventura della guerra, lasciando l’esercito in rotta, e ora dovremmo accoglierli ancora, perdonando tutto? Nemmeno per idea!”. Picchiò un pugno sul tavolaccio, facendo tremare la candela che prontamente presi al volo. Su quel punto eravamo tutti d’accordo: non avevamo preso le armi per cacciare fascisti e tedeschi e poi tornare ad essere sudditi. C’erano giornate in quel duro inverno dove si aggiravano gli occupanti armati fino ai denti, e non era il caso di uscire allo scoperto; altri ancora dove si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare.

Nei lunghi periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni dove si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea su cosa avrebbe dovuto essere il domani, anche per istinto, non era certo riflessa dalle immagini del passato, di prima del fascismo, ma autorizzava ad immaginare l’avvento di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. A volte penso a quella sera e alle altre passate a discutere, quando l’inattività era obbligata dal bisogno di attendere o dalle pessime condizioni del tempo, e  vedendo quest’Italia piatta, meschina, ignorante mi scopro a pensare chi ce l’avesse fatto fare. Poi, superato lo scoramento, mi vengono in mente le parole di Renato quando diceva che non bisognava illudersi, che le cose sarebbero sì cambiate ma che non c’era conquista che sarebbe stata ottenuta una volta per tutte, che per noi che volevamo cambiare la società, che aspiravamo a cambiare il mondo non ci sarebbe mai stato congedo.  Quante volte ci siamo ritrovarti da anziani in tutti questi anni. Noi, i sopravvissuti, con i capelli bianchi e le ossa stanche. Noi che avevamo fatto saltare i ponti; con queste mani tremanti che un giorno avevano lanciato bombe a mano. Condividendo paure, ansie e speranze con quelle ragazze dallo sguardo deciso che da signore, madri, nonne e bisnonne è diventato più dolce e mite, capaci  in quei tempi da lupi di nascondere pistole, portare messaggi, ospitare e nutrire partigiani, prendere parte ai combattimenti con coraggio. Oggi facciamo fatica a camminare, sorretti da un bastone o una stampella. Attraversiamo lentamente le vie che un tempo ci videro muoverci con rapidità, colpendo e fuggendo. Vecchi, un po’ malandati. Faremo anche tenerezza ma a quel tempo sbaragliammo interi battaglioni,  rischiammo la vita, ci battemmo per garantire quella libertà della quale oggi tanti fanno cattivo uso, abusandone, senza immaginare quanto ci sia costata perché non ne sono mai stati privati e non hanno dovuto battersi per riconquistarla. Non c’è retorica in questi pensieri. Abbiamo imparato a nostre spese che non serve indulgere in nostalgie. C’è piuttosto la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto e che tutto quanto è accaduto non deve essere dimenticato perché quei semi di giustizia e libertà non inaridiscano mai. E a quella domanda c’è una sola risposta possibile: sì, ne è valsa la pena.

Marco Travaglini