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Chi l’ha detto che non si può, per un attimo, nell’esistenza dell’intramontabile Sherlock Holmes, tralasciare gli spazi chiusi e drammatici dello “Studio in rosso” o le distese oscure e nebbiose del “Mastino dei Baskerville”, per addentrarsi nelle strade più semplici, ma per questo non meno insidiose, del divertimento e della comicità, rigirando il famoso detective in un alter ego che stia a metà tra la dabbenaggine dell’ispettore Clouseau e le punte schizofreniche del Kranz del televisivo Paolo Villaggio?
È quel che hanno fatto Valerio Di Piramo e Cristian Messina (in triplice veste, aggiungendovi pure quella di veloce regista e interprete di uno spassosissimo Joseph Lastrada, più o meno capace di risolvere ogni intrigo, quanto presuntuoso, nelle sue vesti di Vice ispettore capo aggiunto di Scotland Yard) nel costruire i due atti di “Sherlock Holmes e il mistero di Lady Margaret”, sino a domani pomeriggio sul palcoscenico del Gioiello, con una raffica di tutti esauriti.
Negli ultimi mesi del 1899, il detective e il suo fidato assistente Watson sono stati chiamati a Old Artist, non lontano da Londra, un luogo di soggiorno per artisti a riposo, dalla proprietaria Miss Elizabeth, al fine di garantire la sicurezza di Miss Margaret Flower, carattere esuberante e imperioso, possessiva nei confronti della povera Scarlet, sua preziosa collaboratrice, invitata a trascorrere là alcuni giorni. Una sicurezza rivolta sì alla sua persona, quanto più alla preziosissima collana di smeraldi, di inestimabile valore, regalatale dalla regina Vittoria personalmente, che la grande attrice porta sempre con sé. Alloggiano a Old Artist pure sir Henry, vecchio attore, e Oliver Plum, vanaglorioso cantante lirico, ambedue in un passato ormai piuttosto lontano frequentatori delle scene e della vita e delle stanze della diva, con gli antagonismi necessariamente d’obbligo. A cui s’aggiungono quelli di Clarissa Glimmer, eterna rivale in più di una occasione. Lettere anonime, flaconi di medicine, perlustrazioni notturne, smemoratezze, piccoli indizi sparsi qua e là in bella costruzione, soluzioni a portata di mano e improvvise sorprese, morti annunciate e rinascite inspiegabili, travestimenti per mescolare meglio le acque. Chiaramente, nella divertente scrittura, pronta a tener d’occhio uno humour tutto britannico, battute glaciali immancabili ma ben piazzate, la soluzione finale è assicurata e il divertimento per il pubblico ricco di applausi non può non mancare.
Certo non è soltanto l’impianto a farti trascorrere quel paio d’ore allegre di cui il pubblico oggi sente il sacrosanto bisogno, lasciando a casa i problemi di vario tipo. Gli attori tutti, negli eleganti abiti di Linda Lingham e nella scena fissa d’antan di Monica Cafiero, macinano divertimento, dall’eccellente Holmes di Mauro Villata al Watson di Mario Bois, dal trio pettegolo e vendicativo Alfonso Rinaldi, Angelo Chionna (sue anche le spiritose musiche dello spettacolo) e Anna Cuculo, viperina antica collega che sa mettere un bel po’ d’esperienza nella sua Clarissa, Maria Occhiogrosso, direttrice dell’Old Artist in cattive acque finanziarie. Last but not least Margherita Fumero (un fan all’uscita continuava a ripeterle “grande grande grande”, quasi le cantasse Mina) che sa benissimo come si fa ad appropriarsi di un personaggio, a metterlo in primo piano, a far suo l’intero pubblico, a guardare negli angoli di lady Margaret per scoprirne appieno tutte le risorse di spessore e allegria.
Elio Rabbione
Nelle immagini di Nicola Casale, alcuni momenti di “Sherlock Holmes e il misteri di lady Margaret: Margherita Fumero con Gina Perrucci e Maria Occhiogrosso; Mauro Villata e Mario Bois; Maria Occhiogrosso e Mauro Villata.
Allievo del grande illustratore Emanuele Luzzati e influenzato dal fumetto di denuncia sociale di Andrea Pazienza, anche lui suo maestro, dopo un breve esordio come scenografo, la passione totalizzante per il fumetto lo porta a Bologna, alla scuola di Vittorio Giardino, Marcello Jori e dello stesso Pazienza ‘enfant prodige’ del fumetto italiano dalla breve vita, dissipata e geniale:
questa la formazione artistica e intellettuale di Andrea Ferraris, genovese, mio amico da una vita. Eclettico, levantino giramondo, mette a frutto questa esperienza didattica nelle storie ideate e illustrate per il Topolino della Disney, in quindici anni di attività professionale, svolta in lunghe permanenze lavorative a Parigi e a Barcellona, scelte come città cosmopolite e d’ispirazione artistica e ideale.
Mantenendo ferma questa sua fonte principale di reddito (oggi per l’azienda americana collabora soprattutto per i paesi del nord europa) da alcuni anni a questa parte si è dedicato in parallelo alla realizzazione di graphic novels. In frequente collaborazione con la moglie Daniela, anche lei cartoonist, soggettista e inchiostratrice. Divenuto per questa via, forte innovatore sul piano della creatività narrativa, sperimentatore nel disegno, sul piano del contenuto espressivo. Entrambi attualmente insegnano l’arte seriale del fumetto all’Accademia Albertina di Belle Arti qui a Torino, ultimo loro approdo di vita e lavoro e dove la figlia adottiva Sarvari ha studiato al Liceo Gioberti. Andrea Ferraris ha così iniziato la sua attività di graphic noveler, raccontando in balloons, con la consulenza dell’ etnologo e giornalista Giacomo Revelli, la vita agonistica del ciclista italiano dei primi novecento Ottavio Bottecchia. Muratore in Francia e dissidente durante la dittatura racconta anche della sua misteriosa morte, avvenuta durante il ventennio, si disse proprio per mano di squadristi fascisti. Fu ritrovato cadavere accanto alla sua bicicletta, nei pressi di una strada sterrata, nelle sue campagne friulane nel 1927. Il mistero sulla reale causa della sua scomparsa permane ancora oggi. ( Andrea Ferraris – Giacomo Revelli ”Bottecchia” edizioni Tunuè, €. 12 in libreria e online ). L’ ipotesi del decesso per un pestaggio subito che fu fatta in quegli anni tra le molte altre, mai trovò conferma ufficiale, certa e definitiva. Ma fu ventilata negli anni recenti, anche da giornalisti specializzati nella storia del ciclismo, come il noto e compianto Gianni Mura di Repubblica, che scrisse su quel caso di «morto scomodo» al regime mussoliniano. Successivamente spinto dal suo impegno sociale, politico e culturale mai appagato, il fumettista ligure, si è recato sul campo con il regista cinematografico e sceneggiatore Renato Chiocca durante l’estate di alcuni anni fa, al confine tra lo stato del Messico e quello del Texas. Ne trasse un reportage a fumetti vissuto dall’interno e descritto come in ‘presa diretta’ sulla condizione sociale e di vita dei migranti messicani. Costretti dalla fame e dagli stenti e a rischio della vita a scavalcare il muro di cemento e filo spinato innalzato dagli americani tra i due paesi. Moltitudini in cerca di lavoro e opportunità di sopravvivenza, al seguito delle famiglie e del sogno americano, divenuto un vero e proprio incubo e una tragedia umanitaria.Demonizzati e vilipesi dalle politiche autarchiche trumpiane, divenuti reietti e pretesti politici, anche per larga parte delle opinioni pubbliche liberal delle nostre opulente, egoiste e indifferenti democrazie occidentali. ( Andrea Ferraris – Renato Chiocca, ” La cicatrice” , edizioni Oblomov € 9.35 in libreria e disponibile su Amazon).
Concludo citando l’ ultima fatica di Andrea Ferraris: ” Una zanzara nell’ orecchio, Storia di Sarvari’’ ( Einaudi, Super ET 2021, 128 pgg. € 14.50). Fumetto autobiografico della felice vicenda di adozione, integrazione e paternità della figlia Sarvari. Costruzione famigliare condivisa con la moglie Daniela da Mumbai in India all’Italia, in un arco temporale molto ampio. Storia dell’ ottenimento dell’ adozione attraverso viaggi, intoppi burocratici e difficoltà di ogni genere. La lingua universale dell’ amore si conclude idealmente con l’ultima strip del testo. Ma prosegue anche nel qui e ora del nostro accidentato, caotico e avventuroso presente.
Aldo Colonna
Dal 29 ottobre all’8 dicembre
Monforte d’Alba (Cuneo)
Arte e musica. Blues e Jazz, quelli delle radici, in particolare. La musica che trova voce nell’arte. E viceversa. Nel “Corpo” e nell’“Anima”. “Body and Soul”. Come recita il titolo della mostra di Bruno Zoppetti, artista di sopraffino mestiere e grande sensibilità, ospitata, da sabato 29 ottobre fino a giovedì 8 dicembre, con una buona trentina di ritratti a tecnica mista e acrilici, ma anche disegni (di quelli che t’appagono gli occhi ma sanno anche metterti in piacevole agitazione cuore mente e anima) negli spazi espositivi della “Fondazione Bottari Lattes” di Monforte d’Alba. Progetto inedito realizzato dall’artista bergamasco per la “Fondazione”, presieduta da Caterina Bottari Lattes, e l’Associazione “Giulia Falletti di Barolo”, la rassegna già nel titolo “Body and Soul” (esplicito omaggio al noto brano degli anni Trenta interpretato da voci e cantanti indimenticabili, da Ella Fitzgerald ad Amy Winehouse) racchiude, nel suo più profondo significato, tutta l’opera ritrattistica di Zoppetti. Esposte in parete troviamo una sapiente selezione di opere grafiche e pittoriche realizzate nell’arco di dodici anni: un ricco e suggestivo campionario di musicisti Blues e Jazz (ma anche grandi protagonisti della scena Soul, Folk, Country e Rock) del passato e contemporanei.
Americani soprattutto: dall’ “imperatrice del Blues” Bessie Smith, al cantautore – poeta canadese Leonard Cohen con cappello e volto ingrigito gravato dagli anni, fino a Billie Holiday (fra le prime cantanti di colore ad esibirsi con musicisti bianchi), a Georges Brassens con pipa fra le labbra e micio in braccio e al mitico pensieroso Miles Davis con la fedele tromba tenuta alta in primo piano. Ciò che più colpisce, in questi ritratti, è la capacità davvero grande di raccontare, attraverso una vigorosa e rapida grafia, l’eccellenza del talento nella fragilità di corpi spesso dolorosamente segnati dalla vita. Zoppetti scava nei cuori tormentati dei “suoi” musicisti, traccia rughe, volti maltrattati dal tempo, capelli scompigliati e sguardi vuoti su malcelati tormenti, per raccontare la persona prima dell’artista, l’anima (soul) attraverso una “resa pittorica” di forte fisicità (body). Con tratti di segno e colore che sembrano accompagnarsi perfettamente all’improvvisazione talentuosa delle afroamericane “blue note”. Un’esposizione, dunque, che cade a pennello (è proprio il caso di dirlo!) in un Comune come quello di Monforte d’Alba, dove si svolge uno dei Festival Jazz più importanti d’Europa: “Monfortinjazz”. “L’invito – afferma Marta Rinaldi, presidente dell’Associazione ‘Giulia Falletti di Barolo’ – in questo percorso fatto di magnifici ritratti è di cogliere e accogliere le sollecitazioni attive tra l’arte pittorica e quella musicale; questa chiave vi condurrà ad altri piaceri: collegare dei volti a nomi, cercare la storia di un album, di un musicista, la data di una registrazione, sino a prendervi cura dei dischi, cercare e istruirvi, bervi un bicchiere di Nebbiolo godendovi la familiare bellezza di un grande pezzo blues”.
L’inaugurazione della mostra sarà accompagnata da un momento musicale con il concerto di Boris Savoldelli, amico del pittore che riprodurrà una selezione di brani dei musicisti ritratti. E sono proprio di Zoppetti le cover di due dei dischi del musicista, che è inoltre docente di “Canto Jazz” al “Conservatorio Luca Marenzio” di Brescia.
Gianni Milani
“Bruno Zoppetti. Body and Soul”
Fondazione Bottari Lattes, via Guglielmo Marconi 16, Monforte d’Alba (Cuneo); tel. 0173/789282 o www.fondazionebottarilattes.it
Da sabato 29 ottobre a giovedì 8 dicembre
Orari: lun.-ven. 10,30/12,30, sab. e dom. 15,30-18,30
Nelle foto:
– “Leonard Cohen”
– “Bessie Smith”
– “Miles Davis”
È un film letterario, con le citazioni di Tennyson e di Auden, è un film musicale, con i tocchi al pianoforte estenuanti e precisi e con le note e le voci dei gruppi di quegli anni. È soprattutto un omaggio al cinema, quello di sapore ormai antico, quello con il luminoso pulviscolo che volteggia nel fascio di luce che fuoriesce dal proiettore, che gioca dentro quella cabina di proiezione con le immagini disordinate della Masina e di Brando e di tutto un universo in bianco e nero (un allontanarsi dal mondo, una sorta di “Nuovo cinema Paradiso” inglese, un mestiere trasmesso ad altri), che getta un ponte verso la felicità nella nostra personale esistenza. “La pellicola sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio. Il nostro nervo ottico ha un piccolo difetto e se riproduco la pellicola 24 fotogrammi al secondo si crea l’illusione del movimento, l’illusione della vita, non percepiamo il buio. Il mondo vede solo un raggio di luce e nulla avviene senza luce”, dice il vecchio proiezionista Norman (Toby Jones), che dopo anni sogna ancora a occhi aperti la propria maestria a collegare bobine e il suo mestiere fatto di movimenti perfetti.
“Empire of Light”, visto al 40° TFF fuori concorso, uno dei titoli più attesi della rassegna, è scritto e diretto da Sam Mendes (il regista che esordì con “American Beauty”, che ci ha dato due capitoli di 007 e che ha affrontato le trincee del primo conflitto mondiale con “1917”). Lo ha scritto in tempo di lockdown, uno di quei periodi oscuri che sembra al contrario essere stato fatto apposta per certi autori cinematografici (leggi anche Spielberg, Natale si porta appresso il suo autobiografico “The Fabelmans”) a raccogliere i ricordi della giovinezza, a costruire storie in cui la loro passione per l’immagine in movimento la potesse fare da padrone e reinventare. Reinventare il tempo, i colori, le atmosfere, i gusti, le macchie oscure. È il suo documento d’amore al cinema, come medicina, come supporto salvifico, la sua affermazione di “grande magia”. È il finire del 1980, i fuochi artificiali visti dalla terrazza dell’Empire – curvilinea sala art déco posata sul litorale di una piccola città della costa del sud britannico, con i suoi tappeti colorati e un po’ démodé, la grande vasca dei popcorn e le confezioni colorate di caramelle, le scale che salgono sinuose e gli ottoni ben lucidati, velluti rossi, i clienti che pretendono di portarsi dell’unto cibo in sala – annunceranno il nuovo anno. Si proietta “All that jazz” e “Gregory’s girl” e l’annuncio di una grande première con “Momenti di gloria”, con tanto di sindaco e autorità varie, sottratta alla catena di cinema Odeon, sul suo grande schermo mostra tutto l’orgoglio del proprietario Mr. Ellis, che ha l’occhio sinistro e arraffatore di Colin Firth. È la storia di Hilary (un ruolo di responsabile di sala ideato per Olivia Colman, premio Oscar e un paio di altre candidature: forse anche quest’anno tra le candidate?), bravissima, perfetta nel rendere appieno la solitudine, la voglia di rivolta, le frustrazioni, i sentimenti anche rabbiosi e sfatti, una donna di mezz’età che ha trovato tra i colleghi quella famiglia che non ha mai costruito, che tenta di buttarsi alle spalle un passato ferito da una condizione di malattia mentale, che sottostà ad una squallida relazione con Mr. Ellis, con tanto di masturbazioni in ufficio. Troverà in Stephen (l’emergente Michael Ward), origini caraibiche, giovanissimo ragazzo nero, ultimo arrivato nel gruppo, con sogni universitari e una carriera di architetto buttata verso il futuro, quegli affetti che sinora le sono stati negati, quella grande sala polverosa all’ultimo piano, chiusa da tempo (“una volta erano quattro sale”), è il loro rifugio e quel colombo che ha un’ala spezzata e che il ragazzo prende a curare è il simbolo, forse un po’ scontato ma altrettanto delicato, dell’amore che si fa dedizione completa.
È anche l’Inghilterra con la politica di quel periodo, i riferimenti al razzismo di Enoch Powell, sono le intimidazioni e le immagini degli skinheads che scorrazzano in moto davanti all’ingresso del cinema e, una volta entrati, s’avventano su Stephen.
Forse è cosa facile il versante razzista, forse è cosa più che facile l’unione tra lo sconquassato animo femminile e la gioia verso la vita del giovane ragazzo di colore: ma quegli attimi in cui Hilary, sempre vissuta al di fuori della sala, vi entra per la prima volta, tutta sola, a godersi “Oltre il giardino” di Ashby con il superbo Peter Sellers (“La vita è uno stato mentale” dice il giardiniere Chance, mentre immerge i piedi nell’acqua del laghetto), ecco che allora s’azzerano quelle piccole pecche che stanno nel tessuto cinematografico di Mendes. Altro capolavoro di interni (certi luci tiepide, certi chiaroscuri) e di esterni (il lungomare, la spiaggia, la luce della costa) per Roger Deakins (Oscar 2017 per “Blade Runner 2049” e nel 2019 per “1917”), un maestro geniale. Il film sarà sui nostri schermi il 23 febbraio 2023: e ne riparleremo, perché lo merita. Per intanto attendiamo i premi del 40° TFF.
Elio Rabbione
Consueto appuntamento mensile con i libri più letti e discussi a novembre nel gruppo FB Un Libro Tira L’Altro, Ovvero Il Passaparola Dei Libri.
Tasmania, ultimo romanzo di Paolo Giordano che si cimenta con una complessa storia a più voci; Gli Scorpioni, di Giuliano Pavone ambientato in un’estate mediterranea piena di luce ma anche piena di una sottile inquietudine; Dove Non Mi Hai Portata, di Maria Grazia Calandrone dove ripercorre le sue origini, quando a otto mesi è stata lasciata su una coperta, sotto un albero, in un parco, a Roma. Senza un biglietto. Ma una lettera inviata ad un giornale in cui sono scritti i dati anagrafici della piccola, e la volontà suicida dei suoi genitori.
Segnaliamo il sito www.direaesthetica.com sito fondato da Giovanni Sacchitelli che ha scelto questa originale forma di comunicazione per condividere racconti, articoli, scritti vari su tematiche diverse, nel nome di un confronto su parametri estetici delle parole dei contenuti. Lettura impegnative per lettori impegnati.
Incontri con gli autori
Mese ricchissimo di interviste! La nostra redazione ha incontrato Paolo Vinotto, ligure trapiantato a Milano è l’autore emergente che conosciamo questa settimana: già collaboratore di importanti riviste digitali, è l’autore del romanzo storico L’Hurrita (Arpeggio Libero, 2022) primo volume delle Cronache Di Akkad e suo esordio letterario.
Questo mese abbiamo fatto due chiacchiere con Alessandro Quadri di Cardano, autore del thriller La Verità Non Conta (NeP, 2022) il suo primo romanzo, un perfetto mix di giallo, storia familiare e giornalismo d’inchiesta.
Abbiamo incontrato Paolo Mirti, giornalista e scrittore, torna in libreria con Il Campione E La Bambina (Raffaello Editore, 2022) nel quale racconta la vicenda umana e sportiva di Gino Bartali che, durante la Seconda Guerra Mondiale, collaborò alla salvezza di molti cittadini di religione ebraica.
Nicola Ricciardi, giovane autore maddalonese, è un noto e prolifico creatore di aforismi e autore di saggi e poesie: oggi torna in libreria con Pensieri Di Luce (auto-pubblicazione, 2022 ) e noi l’ abbiamo intervistato per farlo conoscere ai nostri lettori.
Per novembre è tutto: vi ricordiamo che se volete partecipare ai nostri confronti, potete venire a trovarci su FB e se volete rimanere aggiornati sulle novità in libreria e gli eventi legati al mondo dei libri e della lettura, visitate il nostro sito ufficiale all’indirizzo www.unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it
Buone letture!
Con una certa convinzione, credo che con “Palm trees and power lines”, opera prima della statunitense Jamie Dack, siamo entrati in zona premi anzi nella precisa zona “del” premio massimo che la giuria del concorso dovrà assegnare. I presupposti ci sono tutti, appieno. È la storia di Lea, diciassettenne, carina ed esile, a trascorrere vuote giornate di fine estate prima che gli studi riprendano, studi di cui non sa bene quale sarà lo svolgimento. Gli svaghi preferiti sono le chiacchierate con l’amica del cuore Amber, il sole a prendere il sole a bordo piscina, il gossip sul cellulare, carino questo, adesso stai con quello, e le serate a bere con i ragazzi della compagnia, con il boy friend di turno avventurarsi in qualche incursione erotica di nessuna soddisfazione. A casa, il padre se n’è andato altrove a formare un’altra famiglia e con le madre, tutta presa dal lavoro e dai diversi spasimanti che la prendono e la scaricano in continuazione, il dialogo non esiste, soltanto cene mute, rimproveri e insoddisfazione.
Le pare di toccare il cielo con un dito quando casualmente incontra Tom, ragazzo dal viso indecifrabile, muscoli al punto giusto, che di anni ne ha trentaquattro: il doppio, esatto esatto. Lea non vede la differenza d’età, vede a poco a poco la fiducia che quel ragazzo le offre, i tramonti che le mostra, il suo atteggiamento protettivo, le tenerezze e i piccoli gesti con cui la conquista giorno dopo giorno, i semplici cibi con cui si prende cura di lei: e Lea – come noi spettatori -, con l’avanzare del tempo, guarda con affetto e poi con passione a questa inaspettata risorsa della propria vita, fino a quel punto in fondo banale. Qualche parola con una cameriera all’interno di una caffetteria, qualche telefonata di Tom tenuta appartata, piccoli segnali di cauta attenzione che Lea non teme mentre al contrario dovrebbero aprirle gli occhi – anche noi spettatori lo abbiamo fatto, ma da non troppo tempo -, farle scorgere l’autentica realtà del ragazzo premuroso. Che un giorno le dice di un suo amico che vorrebbe conoscerla, lei dovrebbe accettare ed essere carina con lui. La dolcezza di Lea si fa cupa, ma a suggerirci quanto la mente e i sentimenti umani possano essere quanto di più inspiegabili esista, la ragazza non può fare a meno del suo Tom.
Perché “Palm trees” (premiato al Sundance di quest’anno) ci pare così convincente? Per la scrittura del racconto e per la regia sempre “sofferta”, estremamente partecipe della Dack, il suo camuffare il comportamento maschile (un convincente Jonathan Tucker) con grande attenzione, il suo cadenzato accompagnare i due protagonisti attraverso l’affettività iniziale sino al momento di svelare le carte e far piombare ogni attimo in una tragedia che chissà quale futuro avrà. Sono i tempi giusti, i gesti di ognuno, le forzature sempre tenute lontane, le parole scelte per formare i due personaggi, a convincerci; come assai sensibile è l’interpretazione della giovanissima Lily McInerny, sicura promessa da tener d’occhio.
Crudo, violento, schermo di una cultura che non penseresti dietro le violenze di oggi, “Pamfir”, opera prima del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk esce dal gruppo di pellicole selezionate per la Quinzaine quest’anno a Cannes, pensato sei anni fa e portato a compimento tra mille difficoltà, non ultima la guerra, con il contributo del TorinoFilmLab. Tratteggia un convincente ritratto del protagonista, Leonid soprannominato appunto Pamfir, lo segue con asprezza, illumina le sue azioni di colori rossastri che rimandano con immediatezza alla violenza, sostiene un eccellente ritmo nello svolgersi della storia. La storia di un uomo e del suo ritorno a casa, in un piccolo paese ai confini con la Romania, dopo un lungo tempo d’assenza. Ritrova la moglie e il figlio, la vecchia madre e il padre con cui non ha rapporti da anni, e una comunità che continua a vivere tra riti antichi, pressoché pagani, e l’occupazione che meglio e da più tempo viene svolta tra quei luoghi: il contrabbando. Quando Pamfir sarà costretto a risarcire i danni dell’incendio che ha coinvolto la piccola chiesa del paese e di cui il figlio Nazar è responsabile, la necessità di denaro lo vedrà costretto a riprendere le vecchie strade del trasporto delle merci attraverso i boschi: non certo in autonomia, dal momento che il boss del luogo, un rappresentante governativo, vuole tenere ogni cosa sotto il proprio controllo. In una rischiosa operazione in cui dovrebbe essere ingaggiato il figlio, Pamfir si sacrifica per l’ultima volta.
Elio Rabbione
Nelle immagini, scene tratte da “Palm trees and power lines” di Jamie Dack (USA) e da “Pamfir” del regista ucraino Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk, entrambi in concorso.
Giovedì primo dicembre alle 20.30 e venerdì 2 alle 20 all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Pablo Heras-Casado e con Frank Peter Zimmermann al violino, eseguirà musiche di Debussy, Stravinskij e Mahler. Sabato 3 alle 18 al teatro Vittoria, il quartetto vocale Ensemble Polifonic, presenta il terzo episodio di “Uno, Due, Tre e Oltre” con Antonio Valentino. Lunedì 5 alle 18 nell’aula magna del politecnico per Polincontri Musica, Carlo Guaitoli al pianoforte eseguirà un programma dal titolo “Battiato tra arte e impegno”.
Martedì 6 alle 20 al teatro Vittoria per l’Unione Musicale, Paolo Serazzi voce, Tommaso Santini e Rossella Tucci violino, Giorgia Lenzo viola e Lucia Sacerdoni violoncello, eseguiranno “The Juliet Letters” , suite per voce e quartetto d’archi di Elvis Costello. Mercoledì 7 alle 20.30 e venerdì 9 alle 20, all’auditorium Toscanini, l’ Orchestra Rai diretta da James Conlon, eseguirà musiche di Mozart e Sostakovic. Lunedì 12 alle 20 al conservatorio, per l’Unione Musicale, Le Consort eseguirà musiche di Vivaldi, Reali, Uccellini, Bach. Sempre lunedì 12 alle 18, nell’aula Magna del politecnico per Polincontri Musica, Massimo Macrì violoncello e Roberto Prosseda pianoforte, eseguiranno un programma tutto dedicato a Mendelssohn. Mercoledì 14 alle 20.30, al Conservatorio per l’Unione Musicale, Mikhail Pletnev al pianoforte eseguirà musiche di Brahms e Dvorak. Giovedì 15 alle 20.30 e venerdì 16 alle 20, all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da James Conlon, eseguirà musiche di Britten e Sostakovic. Lunedì 19 alle 18, nell’aula magna del politecnico per Polincontri Musica, danzatori e danzatrici del Balletto Teatro di Torino, con le coreografie di Viola Scaglione e con Bastian Loewe violino e Stefano Musso pianoforte, eseguiranno musiche di Debussy, Faurè e Prokofev. Venerdì 23 alle 20.30, all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Fabio Luisi, eseguirà il “Concerto di Natale” con l’esecuzione della Sinfonia n.9 di Beethoven.
Pier Luigi Fuggetta
In corso al MAUTO, a Torino, la mostra intitolata “The Golden Age of Rally” un viaggio nell’epoca d’oro di questa disciplina sportiva.
Si tratta di un’esposizione inedita nel panorama internazionale, che porta alla ribalta, fino al 2 maggio prossimo, una delle collezioni più importanti al mondo, appartenente alla “Fondazione Gino Macaluso” per l’auto storica,che è stato un imprenditore, designer e pilota di rally. Si tratta di una figura preminente nel mondo dei motori e l’esposizione da poco inaugurata vuole celebrare il suo cinquantenario dalla miticadata del 27 ottobre 1972, quando la Rally Race, con Raffaele Pinto, vinse il campionato europeo.
“The Golden Age of Rally – dichiara il presidente del MAUTO Benedetto Camerana – è una celebrazione spettacolare, completa e rigorosa della storia del rally, che conferma l’impegno e la vocazione del Museo nel mondo del motor sport. Questa mostra per la prima volta è anche un tributo a Torino e a tutta l’area del Piemonte che, in questo periodo storico così particolare, ha saputo scoprire automobili e talenti capaci di arrivare fino alle posizioni di vertice del ranking internazionale.
Le squadre e le aziende locali, come FIAT, Lancia, Abarth e Martini, ma anche designer come Gandini, Giugiaro e Pininfarina, sono i creatori dei simboli più rilevanti nel mondo automobilistico che noi tutti abbiamo il piacere di mostrare al pubblico”.
I protagonisti di “The Golden Age of Rally” sono le auto selezionate e collezionate personalmente da Gino Macaluso. Automobili mitiche che, dagli anni Sessanta agli anni Novanta,hanno vinto le più importanti gare del campionato, dal Rally Montecarlo al Safari Rally, passando attraverso il Rally finlandese dei 1000 laghi e il Rally Sanremo. Si ricorda con piacere uno dei più grandi piloti della storia di questo sport quale è stato Miki Biasion, l’unico italiano ad aver vinto due volte il campionato del mondo di rally nel 1988 e nel 1989.
“A Torino – dichiara Monica Mailander Macaluso – è stata fatta la storia motoristica italiana, di cui questa mostra non vuole soltanto rappresentare il prestigioso lato sportivo, ma anche gli studi approfonditi di una vera e propria cultura umanistica. Di questa mostra si possono ammirare l’innovazione tecnologica e la bellezza di un design d’avanguardia”.
L’esposizione, curata da Stefano Macaluso in collaborazione con Federica Ellena, è concepita come un viaggio esperienziale attraverso un contatto fisico con i diversi “set up” delle automobili e delle piattaforme specifiche che simulano le superfici della strada, che vanno dalla sabbia del Sahara fino alla neve di col de Turini. Sono inoltre previste proiezioni delle gare iconiche che hanno fatto la storia di questo sport e quella dei leggendari protagonisti come il sopracitato Biasion, Mäkinen, Kankkunen,Mouton, Pinto e Sainz, le cui imprese possono essere lette in una speciale Hall of Fame creata per l’occasione di questa mostra, che vuole attrarre e coinvolgere pubblici differenti, offrendo anche nuovi punti di vista per coloro che hanno sempre amato questo sport.
I protagonisti di queste sfide, che sono diventati leggenda, sono diciannove esemplari iconici tra i quali, a partire dagli anni Sessanta, la BMC Mini Cooper S (1966), la Ford Cortina Lotus (1966) e la Ford Escort RS Miki (1969), passando poi in una sala successiva che vede esposte le automobili degli anni Settanta, tra cui la Porsche 911 ST, la Lancia Fulvia Coupé HF 1.6 (1970), la Fiat 124 Spider (1971) e la Fiat 131 Abarth GR.4 (1978). La mostra prosegue con le protagoniste delle grandi sfide effettuate tra gli anni Ottanta e Novanta, tra cui la Lancia Rally 037, diversi modelli di Lancia Delta, con le loro antagoniste Audi Quattro (1981), la Renault R5 Turbo (1981), la Peugeot 205 Turbo 16, proveniente dal Museo L’Aventure Peugeot a Sochaux (Francia) e la Toyota Celica GT – 4 ST 165.
Una outsider della mostra è la Fiat Punto S 1600, vincitrice del Rally di Sanremo nel 2001, punta di diamante del Racing Team creato da Gino Macaluso per partecipare al campionato mondiale di Rally junior.
MARA MARTELLOTTA
Hanno in passato, ricevuto il premio Pannunzio, tra gli altri, Giovanni Spadolini, Nicola Abbagnano, Piero e Alberto Angela, Enzo Bettiza , Giorgio Bocca, Paolo Conte, Giorgio Forattini, Claudio Magris, Igor Man, Paolo Mieli, Massimo Mila, Indro Montanelli, Enrico Paulucci, Marcello Pera , Mario Rigoni Stern , Sergio Romano, Alberto Ronchey, Barbara Spinelli, Giampaolo Pansa, Antonio Ricci, Stefano Zecchi, Piero Ostellino, Antonino Zichichi, Arrigo Cipriani, Allegra Agnelli, Dacia Maraini, Gianfranco Ravasi, Ernesto Ferrero. Nel 1982 il premio fu ideato da Mario Soldati, cofondatore con Arrigo Olivetti e Pier Franco Quaglieni e presidente del Centro “Pannunzio” per oltre vent’anni. Dal 2005 è stato creato il Premio Pannunzio Alassio che rappresenta il fiore all’occhiello della nostra sezione ligure che ho personalmente contribuito ad organizzare. Rileggendo il nome dei premiati possiamo individuare personalità anche molto diverse tra loro, ma c’è un filo rosso o meglio tricolore che tiene insieme donne e uomini anche distanti tra loro nel corso del tempo. Di ognuno di questi premiati si potrebbe dire qualcosa di particolare ,ma l’elemento che li accomuna tutti è il loro livello culturale e il loro spirito di libertà. In tempi plumbei di conformismo il Centro “Pannunzio” ha tenuto alta la bandiera della libertà, del libero dissenso , senza lasciarsi stordire ,per dirla con Aron, dall’ oppio delle ideologie che hanno avvelenato la cultura novecentesca. Come sentiremo dalla lettura della motivazione, Ugo Nespolo, Premio “Pannunzio” 2022, si inserisce perfettamente nel quadro dei suoi predecessori.
ANNA RICOTTI