CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 239

La gara di scrittura per aspiranti scrittori

CREA INCIPIT a ORBASSANO

Giovedì 9 febbraio, ore 18

 

 

Pubblicare un libro, grazie a un incipit: il primo talent letterario itinerante è alla ricerca di aspiranti scrittori a Orbassano. Crea Incipit, l’appuntamento di giovedì 9 febbraio alle ore 18, è una vera e propria gara di scrittura. Partendo dalle parole chiave indicate dalla giuria, i concorrenti dovranno ideare un incipit in 3 minuti, leggerlo ad alta voce in 60 secondi per poi essere giudicati dal pubblico presente nella sala della biblioteca civica Carlo Maria Martini di Orbassano. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti, esordienti e non, di tutte le nazionalità. La vincitrice o il vincitore si aggiudicherà un buono spesa in libri del valore di 100 euro.

Tutti i concorrenti di Crea Incipit potranno inoltre partecipare a una delle tappe di Incipit Offresi, il primo talent letterario itinerante dedicato agli aspiranti scrittori, ideato e promosso dalla Fondazione ECM – Biblioteca Civica Multimediale di Settimo Torinese, in sinergia con Regione Piemonte. Incipit Offresi è un vero e proprio talent della scrittura, lo spazio dove tutti gli aspiranti scrittori possono presentare la propria idea di libro. Fino ad oggi sono stati decretati 7 vincitori, uno per ogni edizione, e sono stati pubblicati circa 60 libri dagli editori aderenti all’iniziativa, a dimostrazione che gli scrittori hanno speranza di vedere pubblicato il proprio libro indipendentemente dall’esito della gara. Incipit Offresi è un’occasione innovativa per diventare scrittori e promuovere la lettura e la scrittura, una scommessa basata su poche righe, un investimento sulle potenzialità dell’autore. La vera chance dell’iniziativa è la possibilità offerta agli aspiranti scrittori di incontrare e dialogare direttamente con gli editori coinvolti nelle varie fasi del progetto, farsi conoscere e raccontare la propria idea.

Il Premio Incipit e il campionato sono dedicati a Eugenio Pintore, per la passione e la professionalità con cui ha fatto nascere e curato Incipit Offresi.

 

INFO E ISCRIZIONI

Giovedì 9 febbraio 2023, ore 18

Crea Incipit

Biblioteca civica Carlo Maria Martini, Strada Piossasco 8, Orbassano (TO)

www.incipitoffresi.it – info@incipitoffresi.it

Congo Italia. Ripensare il passato

In mostra a Palazzo Madama, gli scatti in bianco e nero realizzati in Congo, nei primi decenni del Novecento, dall’ingegnere-fotografo Carlo Sesti

Fino al 27 febbraio

Una laurea in ingegneria civile acquisita a Padova con l’idea di impegnarsi da subito nell’ambito delle costruzioni ferroviarie, un covare da tempo quel sottile irrequieto “mal d’Africa” (condiviso, a inizi Novecento, da tanti illustri e meno illustri personaggi) e una passione “ribollente” per la fotografia: c’è indubbiamente tutto questo nella decisione di Giuseppe Carlo Sesti (Modena, 1873 – Torino, 1954) di lavorare, dal 1900 al 1919, alle dipendenze della “Compagnie du chemin de fer du Congo”, dal 1902 “Compagnie du chemin de fer du Congo supérieur aux Grands Lacs africains” .

E’ lui stesso a raccontare nella biografia “Pioniere d’Africa”, scritta da Riccardo Gualino nel 1938 per i tipi di “F.lli Treves Editori”, la sua decisione di partire per il Congo: “Le ombre di Livingstone e degli altri grandi pionieri turbavano da anni i miei pensieri. Che cosa c’era laggiù in quei luoghi misteriosi? Oh, poter evadere dal nostro piccolo mondo per andare in quell’Africa sconfinata e tenebrosa, a ricercarvi emozioni impensate e ignote avventure!”. Ed è proprio da quell’Africa (prima “Stato libero del Congo” e poi, dal 1908 al 1960, “Congo belga”) esplorata – macchina fotografica, sempre, fedele compagna di strada – in vaste zone, dal Kivu al Russisi ai territori intorno al lago Albert-Edwuard, che arrivano le immagini impresse su oltre trecento lastre, di cui sedici esposte oggi in mostra (fino a lunedì 27 febbraio) al primo piano di “Palazzo Madama” a Torino. Seguendo i modelli di una certa fotografia colonialista dell’epoca , le immagini, stampate in sale d’argento in occasione della mostra, sono parte di un nucleo di 343 lastre realizzate da Sesti e conservate oggi al “Museo di Antropologia ed Etnografia” dell’“Università di Torino”, recentemente restaurate grazie al progetto “Strategia Fotografia 2020” del “Ministero della Cultura”. In esse ritroviamo frequenti stereotipi di altri fondi fotografici dello stesso periodo: paesaggi, popolazioni indigene, compagni di lavoro, i nudi di donna molto in voga fra i colonizzatori dell’epoca, così come i ritratti in divisa bianca e caschetto. L’occhio indugia sui particolari cristallizzati con rigore e curiosità, documentando una realtà non facile ma, tutto sommato, ben accetta e senza mai una palese critica (che, se possibile, non avrebbe guastato!) allo sfruttamento coloniale. La rassegna in “Palazzo Madama” si inserisce nell’ambito della seconda edizione (ispirata al tema delle “Radici”) del “Black History Month Torino”, dedicato alla storia e alla cultura afrodiscendente, promossa dall’ “Associazione Donne Africa Subsahariana e Seconda generazione”. Accanto alle  foto di Carlo Sesti, nel “Museo” di piazza Castello,  troviamo esposte anche alcune “figure di potere” realizzate in legno dalle popolazioni Luba e Songye, che furono acquisite da un altro ingegnere, Tiziano Veggia (1893-1957), durante il suo soggiorno in Congo e donate nel 1955 al “Museo Civico di Torino – Palazzo Madama”.


“L’interesse dell’Italia
– ricordano al Museo – per l’immenso territorio congolese si manifesta a fine Ottocento, quando numerosi lavoratori italiani (medici, ingegneri, tecnici, magistrati e militari) furono impiegati dallo ‘Stato Indipendente del Congo’ di Leopoldo II del Belgio nel sistematico sfruttamento delle risorse della regione. Ai primi del Novecento una campagna internazionale denunciò le atrocità subite dalle popolazioni, inducendo il Belgio a istituire la colonia”.

Un passato troppo spesso e ingiustamente dimenticato e che oggi, nel contesto di una società profondamente multiculturale, è quanto mai necessario ripensare. A questo dovrebbero servire anche le quattro settimane di eventi, laboratori, mostre, convegni e occasioni di riflessione sulla storia africana, il colonialismo, la migrazione e la contemporaneità in diversi luoghi del territorio, organizzate fino a domenica 26 febbraio – in occasione del “Black History Month Torino” – nella “Sala Feste” e nella “Corte Medievale” di “Palazzo Madama”.

Prenotazione obbligatoria: blackhistorymonthto@gmail.com

Gianni Milani

“Congo Italia. Ripensare il passato”

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, piazza Castello, torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 27 febbraio

Orari: lun. merc. giov. ven. sab. e dom. 10/18; mart. chiusura

 

Nelle foto:

–       “Ritratto di famiglia”, 1900 – 1919

–       “Passaggio del treno”, 1900-1919

–       “Maniema”, Villaggio a nord del lago Alberto Nyanza, 1904-1906

–       “Sculture raffiguranti figure protettrici (Mankishi), Popolazione Songye, ante 1951. Dono Tiziano Veggia, 1955. Torino, Palazzo Madama

Una vita in prima linea: la storia di Ada Gobetti

Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan.  Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  

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8. Una vita in prima linea: la storia di Ada Gobetti

Dopo l’annuncio dell’armistizio, l’ 8 settembre 1943, le donne aprono le porte delle loro abitazioni ai soldati allo sbando, stravolti dal conflitto bellico. È il primo atto di resistenza femminile. Secondo i dati ufficiali dell’epoca, le donne partigiane sono state 35mila e le stime successive arrivano a contarne almeno 2 milioni. Eppure le partigiane non sfilano nei cortei insieme agli uomini, le foto mentre imbracciano i fucili per molto tempo rimangono nascoste, così come il loro coraggioso operato. È una strana contrapposizione di pensiero immaginare sul campo uomini e donne sulla stessa linea, spalla a spalla, e veder riconosciuto il valore più degli uni che delle altre, eppure, alla fine, al di sopra di ogni cosa valgono le azioni, l’unico modo che l’essere umano ha per dimostrare quanto vale. Ada Gobetti ha agito e combattuto tutta la vita e nessuno potrà mai mettere in ombra il suo mirabile e costante impegno. Ada Gobetti nasce a Torino il 23 luglio del 1902, da un commerciante di frutta svizzero originario della Valle di Blennio e da una casalinga torinese. Brillante studentessa al liceo classico Vincenzo Gioberti di Torino, collabora attivamente alle riviste “Energie nove”, “la Rivoluzione liberale” e “il Baretti” di Piero Gobetti. Con quest’ultimo si sposerà nel 1923 e da lui avrà nel 1925 il figlio Paolo. In quegli anni con Piero, Ada è testimone delle rivolte operaie del biennio rosso torinese, alle quali guardano entrambi con vivo interesse e per cui esprimono fin da subito una appassionata solidarietà. Nel 1925 Ada si laurea in Filosofia e in seguito si dedica all’insegnamento, continuando ad approfondire studi letterari e pedagogici. Nello stesso anno la rivoluzione liberale viene soppressa dal regime mussoliniano. Nel 1926 Piero Gobetti è costretto a emigrare a Parigi, dove morirà nel febbraio dello stesso anno, in un ospedale di Neuilly sur-Seine, a causa di problemi di salute aggravati da una violenta aggressione squadrista, che aveva subito due anni prima a Torino, mentre usciva dalla sua abitazione, che era anche sede della sua casa editrice. Di grande esacerbato dolore le parole vergate da Ada sul suo diario per la morte del marito: «Non è vero, non è vero: tu ritornerai. Non so quando, non importa, non importa. Ritornerai e il tuo piccolo ti correrà incontro e tu lo solleverai tra le tue braccia. E io ti stringerò forte forte e non ti lascerò più partire, mai più. È un vano sogno, tutto questo, una prova di fronte a cui hai voluto pormi: tu mi vedi, mi senti: e io saprò mostrarmi degna del tuo amore. Quando ti parrà che la prova sia durata abbastanza, tornerai per non più lasciarmi. Saranno passati molti anni ma immutati splenderanno i tuoi occhi e ritroverò le espressioni di tenerezza della tua voce. Mio caro, mio piccolo mio amore, ti aspetterò sempre: ho bisogno di attenderti per vivere». 

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Nel 1928 Ada vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese, insegna per alcuni anni a Bra e a Savigliano. Dal 1936 è docente presso il ginnasio del Liceo Cesare Balbo di Chieri (TO). In quegli anni rafforza la propria amicizia con Benedetto Croce, che la sprona a proseguire gli studi e a compiere le prime traduzioni dall’inglese, con le quali introdurrà in Italia gli scritti di Benjamin Spock. Negli anni precedenti l’8 settembre 1943, la casa di Ada Gobetti costituisce un punto di riferimento per l’antifascismo intellettuale e per gli ambienti legati al movimento Giustizia e Libertà. Nel 1937 si risposa con Ettore Marchesini, tecnico dell’ EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche). Ada continua ad essere una donna forte e decisa, politicamente attiva e schierata; nel 1942 è tra le fondatrici del Partito d’Azione (PdA), mentre nel 1943, durante la Resistenza, coordina le Brigate Partigiane e fa la staffetta in Val Germanasca e in Val di Susa, dove è attivo il figlio Paolo. Mai stanca di battersi anche su più fronti, nel 1943 è fondatrice dei Gruppi di Difesa della Donna e si prodiga per la nascita del Movimento Femminile. Terminata la guerra, il suo coraggio viene formalmente riconosciuto e viene insignita della medaglia d’argento al valore militare. Dopo la Liberazione è la prima donna a venire nominata vicesindaco di Torino, designata dal CLN, (Comitato di Liberazione Nazionale), in rappresentanza del PdA. Ricopre la carica sino alle elezioni del 1946, interessandosi e occupandosi particolarmente di istruzione e assistenza. Negli anni Cinquanta scrive su molte testate comuniste, tra cui l’Unità, sempre negli stessi anni affianca al costante impegno letterario l’interesse per la pedagogia e nel 1955 entra nella redazione di “Riforma della Scuola”. Nel 1957 fa parte della prima delegazione femminile italiana nella Repubblica Popolare Cinese. Nel 1959 fonda e dirige la rivista “Il giornale dei genitori” a cui collabora, tra gli altri, Gianni Rodari. Dopo una lunga vita avventurosa e dai molteplici interessi politici e culturali, Ada Gobetti muore il 14 marzo del 1968 nella sua casa nella frazione torinese di Reaglie È sepolta nel cimitero di Sassi a Torino, città per cui si è sempre impegnata, che ha tanto amato e che, di rimando, la ringrazia, proteggendola nel suo grembo di terra.

 

Alessia Cagnotto

Made in Ilva con gli Instabili Vaganti il 4 febbraio a Piossasco

Sabato 4 febbraio, alle ore 21,00, il Teatro Cinema Il Mulino di Piossasco (To) ospiterà la compagnia degli Instabili Vaganti, un duo artistico composto da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola che opera da anni a livello internazionale, con lo spettacolo “Made in Ilva”.

 

L’evento fa parte della rassegna teatrale Mulino ad Arte. La trasposizione artistica, di grande suggestione e attualità, fa riferimento alla vicenda ILVA di Taranto, acciaieria che condiziona la vita dell’intera città pugliese a causa del disastro ambientale che sta provocando e delle continue morti bianche che si verificano nel complesso siderurgico più grande d’Europa. Il punto di vista espresso nello spettacolo è quello degli operai, intervistati dalla compagnia dal 2009 ad oggi, e dei cittadini, intrappolati tra il desiderio di fuggire per le condizioni di lavoro dannose e la necessità di continuare a lavorare per la sopravvivenza quotidiana. La compagnia ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali per la sua capacità di trattare temi di scottante attualità attraverso un linguaggio poetico e di forte impatto emotivo, in grado di veicolare importanti messaggi a livello globale, grazie all’universalità del linguaggio fisico dei performer e alla drammaturgia originale tradotta o creata direttamente in più lingue.

M.Tr.

Richard Strauss, la “Burleske” e la sua “Sinfonia delle Alpi”

Sono le protagoniste dei concerti dell’Orchestra Nazionale della RAI in programma giovedì 2 febbraio e venerdì 3 febbraio prossimi all’Auditorium RAI di Torino

 

È interamente dedicato alla musica di Richard Strauss il concerto che l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI ha in programma giovedì 2 febbraio, alle 20.30, all’Auditorium RAI “ArturoToscanini” di Torino, con trasmissione in live streaming sul portale di RAI Cultura e in diretta su Radio 3. Replica della serata a Torino venerdì 3 febbraio alle ore 20:00.

Protagonista il pianista veneziano Alessandro Taverna che, per il suo ritorno con l’Orchestra RAI,  dopo aver proposto la prima esecuzione italiana del Concerto per pianoforte e orchestra di Thomas Ades nel gennaio 2022, ora interpreta la “Burleske” in re minore per pianoforte e orchestra composta da Richard Strauss all’età di soli 21 anni.

Strauss compose questo pezzo intitolandolo inizialmente “Scherzo” il 24 febbraio del 1886. Era allora secondo direttore, a rincalzo del grande Hans Von Bülow dell’Orchestra del Duca di Meningen, dove si esibiva anche come pianista in concerti per pianoforte e orchestra. Questa vicenda lo stimolò a comporre un pezzo per questo organico che lo stesso Bülow giudicò pianisticamente ineseguibile, tanto che Strauss lo accantonò. Più tardi, però, fu indotto da un altro virtuoso famosissimo, Eugene D’Alebert, a riprenderlo in considerazione, lasciandolo com’era, solo cambiando il titolo e aggiungendo una dedica all’amico.

Così il pezzo fu eseguito allo Stadttheater di Eisenach, con l’autore sul podio e la persona a cui era dedicata al pianoforte, il 21 giugno 1890. Burleske risulta di assunto brillante, sostenuto da un impegno compositivo di gran lena e concepito in forma di Allegro di sonata, con l’esposizione di due gruppi tematici (re minore e fa maggiore), sviluppo-ripresa (re minore e re maggiore), cadenza del solista, coda. Il tutto risulta disteso in dimensioni assai ampie, con le ambiguità formali che, già a partire dalla sonata di Liszt, avevano iniziato a farsi strada. La scommessa da parte di Strauss consisteva nell’affrontare i temi strettamente imparentati tra loro, facendo procedere il discorso in ritmo ternario. Risulta ben raffinato lo stacco con cui il solista attacca il secondo tema senza sostegno orchestrale, facendo apparire il fantasma di un valzer, senza mutare né il ritmo né il tempo.

Un’altra uscita si incontra più tardi, una “cantabile”, che suonerà nel contesto nuova, mentre altro non è che il primo tema in valori raddoppiati. La trovata più originale del pezzo consiste nell’impiego dei timpani, che espongono il leitmotiv da cui deriveranno gli altri temi, sussurrando nel silenzio dell’orchestra. Il pezzo approderà al suo sorriso finale sul “re” del timpano.

Alessandro Taverna ha conquistato Lorin Maazel durante unrecital a New York ed è stato l’ultimo solista a esibirsi col grande direttore d’orchestra pochi mesi prima della sua scomparsa, affermandosi a livello internazionale dopo aver vinto il concorso di Leeds nel 2009. Da allora ha collaborato con orchestre quali la Filarmonica della Scala, i Muncher Philarmoniker e la Royal Philharmonic Orchestra. Nel 2012 è stato insignito dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del Premio “Sinopoli”.

Sul podio è impegnato il direttore onorario dell’Orchestra Nazionale della RAI, Fabio Luisi, che ricopre prestigiosi incarichi presso l’Orchestra della Radio Danese, la Dallas SymphonyOrchestra e la NHK Symphony Orchestra di Tokyo.

La seconda parte del programma vedrà protagonista un altro capolavoro di Strauss, “La Sinfonia delle Alpi”, composta nel 1915, dodici anni dopo la “Symphonia domestica”. La partitura chiude la grande serie dei lavori di ispirazione extramusicale di Strauss.

Richard Strauss tenne in serbo a lungo il nucleo d’ispirazione di questa sinfonia già a partire dalla prima giovinezza, nucleo  he coincide  on una ferma convinzione della sua vita e della sua arte, che si esprimono nel concetto ultraromantico del primato dell’eroe e dell’artista nella civiltà umana. Dopo il successo  mondiale di “Salomé” del 1905, di Elektra del 1909 e del RoseinKavalier del 1911, Strauss sembrava deciso a lasciare il sinfonismo puro per il teatro d’opera.

La vita interiore di Strauss, un uomo in apparenza sicuro, fermo, cordiale e loquace, come testimoniano le sue centinaia di lettere, è rimasta tuttavia un segreto inespugnabile. La sua “Sinfonia delle Alpi” rappresenta un ripensamento contraddittorio, un segno, forse, di crisi personale o l’espressione di un timore sui tempi e sulle sorti della cultura; il pessimismo di Strauss, antidemocratico, era ben fermo. La sua fu una definitiva e estrema dichiarazione di fede romantica e tedesca, e di panteismo anticristiano. Può anche essere vero che, per raccontarci una sua gita in montagna, Strauss abbia messo all’opera un’orchestra gigantesca, maggiore di quella dell’Elektra. Sicuramente Strauss amava scrivere autobiografie musicali e la “Symphonia domestica” ne era stata una dimostrazione. In questa “Sinfonia delle Aalpi”, al di là del compiacimento del magistero tecnico, non vi sono molte tracce di divertimento o di ironia. Occasione esterna del lavoro fu l’amore che Strauss nutriva per la montagna e, in particolare, per le Alpi bavaresi.

Come ne “L’oro del Reno”, la sinfonia prende avvio con un’oscurità primigenia ma, diversamente da quest’opera, non si approda nella luce, ma il punto finale risulta il buio. L’idea di eroismo esistenziale e estetico che aveva Strauss proviene dall’eredità del Romanticismo tedesco di Schopenhauer e di Nietzsche, sorretta dal significato che egli attribuiva all’arte di Beethoven e di Wagner. Al primo progetto della Sinfonia, Strauss diede per titolo “L’Anticristo”, a significare una rappresentazione dionisiaca della natura, che sarebbe concessa solo all’uomo superiore, al filosofo e all’eroe artista.

Nella “Sinfonia delle Alpi” la musica di spettacolare magnificenza sembra contare meno di quello che si dovrebbe vedere, vale a dire un’immagine oscura del mondo nato dalla piena vitalità. L’ascesa e la successiva discesa campestre vogliono essere un viaggio iniziatico in questa forza del mondo, nella notte della notte, attraverso 22 “stazioni”, che si possono anche considerare figure o esperienze, che presentano tre momenti culminanti o punti provvisori d’arrivo, il primo del quale è “il sorgere del sole”, il secondo “sulla cima”, il terzo quello “del temporale e della bufera”.

La tecnica musicale e drammatica è quella della “stegerung”, la crescita di tensione verso un vertice, che Strauss adopera con virtuosismo. La fecondità immaginativa e tecnica dei mezzi musicali consente a Strauss di descrivere paesaggi e emozioni, i boschi e i ruscelli, le cascate d’acqua, il vento, le bufere, gli entusiasmi e le paure, mettendo in musica, con scrupolosa evidenza, il fatto che i suoni possano essere testi esplicativi di se stessi. In questa forma di accentuato realismo rimangono intatte la volontà e la capacità  costruttiva di Strauss, tipiche del grande musicista, in grado di calibrare molto bene i rapporti di durata e di impianto tonale delle diverse sezioni.

Con la “Sinfonia delle Alpi” Strauss ha voluto dare un’autocelebrazione e un compendio del suo genio, della sua fedenaturale pagana e della sua dottrina.

MARA MARTELLOTTA

 

Biglietteria dell’Auditorium RAI di Torino

Info: 0118104653

biglietteria.osn@rai.it

Ex nihilo nihil fit, nulla si genera dal nulla

Raccolta di poesie di Alessia Savoini

Era maggio, giorno 16. Da qualche tempo il passo mi fu ostile, pochi metri si ridussero nella massima distanza di sopportazione, un’estorsione dalla colonna ripiegava nell’osso, come una lacerazione improvvisa. Non potevo stanziare sul fianco destro, ma fu l’unica legge dei ‘non’, quando qualcosa vuole ucciderti non si preannuncia, è un tuffo sordo. Ex nihilo nihil fit, nulla si genera dal nulla, per quel principio di conservazione e ostinata presenza, per la necessità inespugnabile di giustificarla, la presenza.
Depongo la mia parola al valico, oggi è il giorno in cui si fa materia, pietra bianca, e livida. Ho raccolto i semi e le scorie, umiliato la forma e rinnovata la grazia, con l’alba ho patteggiato una piccola zolla, imparando a dimenticare tutti i nomi con cui invocare il sole. Il 2022 è stato per me un anno che ne ha contenuti dieci, districati tra la cura e la spina, ricurva nell’incavo di una fessura contingente, malattia come rivelazione della misura.
Questa breve raccolta, che ha preso forma nei mesi di chemioterapia, vuole essere il riassunto di un processo ancora in fase di inseminazione, la parola che svela la parola e ne osserva il dispiegamento, la paura, l’accettazione, l’abbandono, il ritrovamento. È il resoconto finale di un piccolo parto, perché se tutti gli eventi sono neutri, allora questa piccola morte è stato il processo di una seconda incarnazione, certamente più consapevole, doloroso come ogni nascita.
Alessia Savoini
Da oggi è acquistabile al link https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/poesia/649521/ex-nihilo-nihil-fit/#commenti e nei vari punti Feltrinelli.
Illustrazione: Sara Buffoni
Fotografia: Alessia Savoini

San Sebastiano, un gioiello d’arte a Pecetto

Domenica 5 febbraio è un’occasione per visitarla perché è quasi sempre chiusa tranne la prima domenica di ogni mese grazie agli alpini di Pecetto che aprono le porte dell’edificio religioso ai turisti. È la chiesetta del cimitero di Pecetto Torinese, la chiesa di San Sebastiano, davanti al mercato delle ciliegie e dei prodotti agricoli, nella parte meridionale del paese, su un poggio da cui parte la strada per Revigliasco.
Si passa spesso in auto da quelle parti, lungo le colline tra Chieri e Moncalieri, un saliscendi continuo ma sono pochi quelli che si fermano, tranne che nel periodo delle ciliegie. Ai lati della chiesa due enormi cipressi sembrano proteggerla.
Vista dall’esterno non emoziona un granché ma lo spettacolo è tutto all’interno. Superato il portone ci si trova di fronte a un ciclo di affreschi del Quattrocento mozzafiato che ricopre gran parte delle pareti. Un gioiello dell’arte del ‘400, quasi una cappella Sistina in miniatura, tornata all’antico splendore dopo un accurato intervento di restauro degli affreschi finanziato dal Comune di Pecetto, proprietario della chiesa, situata nella parte meridionale del paese, a fianco del cimitero, su un poggio da cui parte la strada per Revigliasco.
La chiesa risale al Duecento ma fu totalmente ricostruita nella prima metà del Quattrocento. L’interno, a tre navate, è illuminato da due rosoni. Tra le molte scene affrescate spiccano sulla volta del presbiterio l’incoronazione della Vergine e il martirio di San Sebastiano trafitto dalle frecce (1440-1450), opere del pittore chierese Guglielmetto Fantini, seguace di Giacomo Jaquerio, l’imponente crocifissione dipinta sulla parete di fondo da Antonius de Manzaniis e l’affresco raffigurante la Natività, di Jacopino Longo, allievo della scuola di Macrino d’Alba.
Nella volta del presbiterio si ammirano anche alcuni episodi della Passione di Cristo e momenti della vita di San Sebastiano, di Sant’Antonio e degli Evangelisti. Per vedere la chiesa il primo appuntamento è domenica 5 febbraio dalle ore 10                                Filippo Re

Due grandi attrici, la eccellente e moderna regia di Livermore

Sino a domenica 5 febbraio, al Carignano, “Maria Stuarda” di Friedrich Schiller

C’è un angelo, due grandi ali bianche sulle spalle, al convergere delle due scale che monumentalizzano l’allestimento scenico della “Maria Stuarda” schilleriana proposta – in un ibrido persuasivo di classicismo e di rockettaro – da Davide Livermore, produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale e Centro Teatrale Bresciano. Una macchina teatrale all’apparenza schematica e semplice, firmata da Lorenzo Russo Rainaldi, ma altresì poggiante su tre piani di rappresentazione, dura, coinvolgente, immersa in quel colore rosso che è simbolo del sangue e della violenza, come rosso è il sipario che scende dall’alto come la mannaia di un boia. Quell’angelo è la fatalità, è il Caos e il caso, è la Storia che ogni cosa mescola e ogni cosa decide, è la mente arbitraria degli uomini. È la occasione improvvisa e cieca che ogni sera, al cadere di una piuma sulla destra o sulla sinistra del palcoscenico, decide quale delle due attrici rivesta il ruolo della regina scozzese e quale quello di Elisabetta d’Inghilterra.

Due leonesse che si fanno la guerra e che tendono a sbranarsi, uno scontro frontale dove l’una è obbligata a soccombere e l’altra a prevalere, un rinfacciarsi assassinii e invidie, affrontare rivalità e supplizio, esprimere durezza e preghiere, due regine e due attrici di rango, si usa dire quando ti trovi davanti una simile bravura, Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni. La mia serata al Carignano ha “previsto” Pozzi/Elisabetta e Marinoni/Maria, pronte a calarsi in un attimo nei gesti e nelle parole e nella psicologia del ruolo capitato; e in quel contesto rutilante, in quella impronta modernamente feroce impressa da un regista che sinora forse mai ti ha lasciato con l’amaro in bocca (anche negli allestimenti lirici scaligeri si è respirata un’aria di vitale rivoluzione) è stato necessario immediatamente e inevitabilmente dimenticare le austere coppie del passato, Ferrati/Zareschi, Brignone/Proclemer, Cortese/Falk, Lolliée/Bonaiuto e forse altre ancora che hanno abitato i palcoscenici e la vecchia tivù in bianco e nero. Siamo lontani secoli, le sonorità che invadono la scena (le musiche sono di Mario Conte, Giua con la voce bella ed efficace accompagna una chitarra elettrica che si pone a lato della scena ma che si fa anche personaggio in mezzo agli altri attori) tendono a quasi impoverire le parole forti del testo, a sovrastarle, ma poi sopraggiunge il peso delle due attrici a reimporsi e a rovesciare ogni attimo di incertezza.

Nell’avvicendarsi dei personaggi della corte elisabettiana, maschili e femminili, dentro gli abiti e le palandrane e le uniformi firmati da Anna Missaglia – mentre per le due sovrane si sono scomodati Dolce&Gabbana, ma per un gran bel vedere, visto che lamé e stoffe e colori, ed eleganza e ricchezza, la vincono alla grande -, Livermore come non ti aspetteresti mescola le carte, ogni cosa all’insegna ancora una volta del caso e del disordine (“in questo tempo così fluido a livello di gender, possiamo vedere con occhi diversi personaggi  che normalmente tenevamo sospesi in teche di vetro, dandoli per scontati”: ma è proprio soltanto una moderna fluidità a generare simili cambiamenti? Livermore è troppo intelligente per affidarsi alle scelte del momento), andando ad affidare a tre attrici ruoli maschili, del resto precisi, scavati, tesi e duramente resi, a partire da Linda Gennari che è un ottimo Mortimer e da Gaia Aprea che è Talbot conte di Shrewsbury (ma è pure una umanissima quanto attenta nutrice, con la bravura di sempre) e da Olivia Manescalchi che attraversa il Cavaliere Paulet e l’Ambasciatore di Francia e il Segretario di Stato, in una lodevolissima trasformazione. Forse rimangono più imprecisi nella loro unicità Giancarlo Judica Cordiglia e Max Nicosia, quest’ultimo dibattuto per pura ragion di stato, avventuriero e calcolatore, diviso tra i due cuori regali e artefice di un angolo erotico sfacciatamente buttato da Livermore in palcoscenico e che il vecchio Schiller, sin dalla prima rappresentazione a Weimar, nel gennaio del 1800, manco si sarebbe sognato.

Della bravura delle due protagoniste s’è detto, Marinoni nei toni sofferti di Maria e Pozzi in quelli regalmente feroci di Elisabetta: su di lei e sulla sua solitudine e forse anche sulla sua sconfitta si chiude la vicenda. E quei lamenti che si fanno rantoli belluini sono l’ultimo lampo di un’attrice che ammiriamo da sempre. Tutto è un attimo, mi pare voglia dirci Livermore con quella sarabanda finale, con quel finale con tanto di passerella e di ammiccamenti al pubblico caricatissimo d’applausi, con quell’allegria obbediente che ci riporta a Poli o a Trionfo: anche quella vicenda è un grumo ormai dissolto nel fluido della Storia, e noi oggi siamo qui a guardare in faccia altre malvagità.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Alberto Terrile

“Il tempo sospeso” di Martellotta e Granchi, seconda edizione

A poco più di un anno dalla sua pubblicazione, la giornalista e scrittrice Mara Martellotta presenterà la seconda edizione della sua opera, scritta a quattro mani con l’artista fiorentino e già docente presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze Andrea Granchi, “Il tempo sospeso”(Gian Giacomo Della Porta Editore, 2021).

La presentazione avverrà venerdì 10 febbraio prossimo, presso la sede del Centro Servizi Vol.To, in Via Giolitti 21, in occasione di un DF Talk organizzato dall’associazione stessa, nell’ambito di un dialogo con il giornalista Eugenio Giannetta.

La scrittura di Mara Martellotta, semplice e incisiva, vera nel condurre con estrema sincerità tutte quelle analisi sociali e sensazioni che hanno coinvolto tutti noi durante l’emergenza Covid, dialoga e trova armonia con le opere dell’artista fiorentino Andrea Granchi, autore di tutti i lavori presenti all’interno del libro, collegati visivamente e tematicamente agli scritti della giornalista, creando nel lettore una sorta di realtà emotiva aumentata dall’intensità che la parola acquisisce attraverso l’immagine, e viceversa.

Un libro che, oggi, assume la funzione storica della memoria, della testimonianza che aiuta una società a metabolizzare meglio eventi del passato, soprattutto se traumatici come quello appena trascorso.

Un’opera attuale, proprio perché attuale è la Storia.

Il vero contributo di queste pagine risiede nell’utilità che la buona letteratura, e l’arte in generale, devono assumere nei confronti di una società: quello di elevarne la consapevolezza attraverso la parola scritta e la rappresentazione, attraverso la condivisione, anche emotiva, di aspetti soggettivi che devono diventare oggettivi nell’universalità dei sentimenti e di ciò che più ci accomuna.

 

I libri più letti e commentati del mese

La rassegna letteraria de il Passaparola dei Libri

Libri dei quali è bello discutere, come ogni mese sul gruppo FB Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei libri; primo in classifica, per letture e critiche, Spare – Il Minore (Mondadori), il libro che Henry di Windsor, il principe Harry, ha scritto per raccontare i retroscena di una vita non sempre “da favola”.

Cambiando argomento, per non dimenticare, vi proponiamo un articolo in collaborazione con il sito Novità in libreria, che nella settimana del Giorno della Memoria mette a confronto due uscite recenti, sul tema dei Giusti: Il Campione E La Bambina (Raffaello, 2022), di Paolo Mirti e Il Nazista Che Salvò Gli Ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca (Le Lettere, 2022) di Andrea Vitello.

Incontri Con Gli Autori

Abbiamo intervistato alcuni scrittori e scrittrici, emergenti o affermati, per dare voce alle nuove leve della narrativa e offrire ai nostri lettori un più ampio panorama di proposte di letture fuori dal coro o comunque lontane dai consueti canali di promozione e distribuzione.

Questo mese abbiamo incontrato: Cristiana Vigliaron è l’esordiente autrice di Non Chiamarmi Sorellina (Pathos Edizioni, 2022), una drammatica storia ambientata negli anni Settanta, che racconta le tensioni all’interno di una famiglia e offre uno spaccato di un complicato periodo storico; Giovanni Sacchitelli, il creatore di un progetto di meta-narrativa che potete trovare sul sito https://www.direaesthetica.com/ ; Luigi Antonio Greco, autore de La Promessa A San Francesco, nel quale riesamina, con gli occhi del presente, una delle pratiche di devozione più antiche e universali, il pellegrinaggio ex voto; Martina Carbutti autrice de Un Filo Invisibile (Auto-produzione, 2022) che, sull’onda emotiva nata dalla perdita del padre, racconta momenti di vita quotidiana e fornisce spunti di riflessione sul tema del lutto; Sylvia Zanotto è una delle voci più interessanti della poesia contemporanea e torna in libreria con Tatuaggi E Farfalle (Kanaga Edizioni, 2021) libro vincitore del Premio Internazionale di poesia L. S. Senghor per la sezione inediti.

Per questo mese è tutto, vi invitiamo a venirci a trovare sul nostro sito ufficiale per rimanere sempre aggiornati sul mondo dei libri e della lettura! unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it