CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 237

I tre porcellini Favole a merenda

“Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh, una matura opera da vedere

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Una sceneggiatura e una regia perfette, due attori pronti per gli Oscar

C’è un’immagine suggestiva quanto emblematica ad aprire “Gli spiriti dell’isola” di Marrtin McDonagh – nato a Londra ma di origini irlandesi, drammaturgo, cui già lo Stabile genovese prestò negli anni a cavallo del nuovo millennio una precisa attenzione, prima che sceneggiatore e regista ormai consacrato che qui rischia di appropriarsi delle maggiori statuette ai prossimi Oscar (sono ben nove le candidature), ma già premiato per la miglior sceneggiatura originale ai Golden Globe, come era accaduto per “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” ormai cinque anni fa. Una tavolozza dove campeggia un bel verde compatto, una distesa di terreno ripresa dall’alto, immersa in un paesaggio quasi irreale di scogliere e rocce e sentieri impervi, un unicum che potrebbe dare al primo sguardo il senso della singolarità se non fosse per quella spezzettatura, per quei solchi neri e avvallati che la attraversano e che la rendono lo specchio della frammentarietà. Come frammentario è quel minuscolo villaggio sparso a guardare il mare della immaginaria isola di Inisherin, di fronte a quell’Irlanda del 1923 da cui arrivano come una eco le ultime esplosioni e gli spari della guerra civile; come frammentari, disuniti, lontani gli uni dagli altri sono quei personaggi (una bellezza di raffinata scrittura) che vivono nel chiuso delle proprie case, il cui unico ritrovo è il pub per una pinta di birra e un po’ di musica, che aspettano come la proprietaria della drogheria i pettegolezzi e le notizie che possono arrivare dai simili e dal mondo esterno.

C’è in questo rarefatto alveare il mandriano Pàdraic, uomo semplice e buono, che vive con la sorella Siobhàn pronta a sognare la fuga da quell’angolo scomposto di mondo, c’è il violinista Colm pronto a rivelarsi avaro di gesti e di parole, ci sono gli animali che vivono quelle case e quelle stesse strade, l’asina e il cane, le vacche e i vitellini che negli occhi sembrano commentare la stupidità dell’uomo, come pure i gabbiani che arrivano in volo. Senza dispute o fattacci che facciano presagire una tempesta, all’improvviso, Colm cessa quell’amicizia che da sempre nutre con Pàdraic, non vuole avere più a che fare nulla con lui, si chiude in un mutismo assoluto, motivando la decisione con la noia derivata dalle chiacchiere e dall’andazzo superficiale di ogni giorno e il tempo da utilizzare nel migliore dei modi, per esempio nella composizione di musiche nuove. Motivi futili, inspiegabili, che soprattutto non riportano il sorriso. Ci sono i dialoghi scarni, reiterati, le frasi stupidamente raddoppiate ma anche ripronunciate per darsi una ragione se possibile di quanto sta succedendo, le parole calibrate, dette con severità, a tratti rimbalzando contro un’ironia che McDonagh controlla con rara bravura. Colm minaccia di tagliarsi un dito della mano se Pàdraic gli rivolgerà ancora la parola: mentre il racconto, esempio chiarissimo di un assurdo che solo in una Irlanda patria di Samuel Beckett poteva trovare le proprie radici, continua a scavare nei silenzi che soltanto il cocciuto e amareggiato Pàdrain tenta di scardinare. Sino ad avanzare in una tragedia che vede altre mutilazioni, incendi, uccisioni.

Un fatto minimo e un’evoluzione sconcertante, addirittura un’opera quasi concepita e costruita nel nulla ma che al contrario, scena dopo scena, offre una vita più che convincente ai sentimenti, alla ricerca di amicizia e di solidarietà, al rifiuto degli altri e alla noia che con un cammino opposto dà spazio alla solitudine, alla volontà di guardare essenzialmente al presente o di gettare lo sguardo verso un futuro in cui lasciare qualcosa di se stessi: la guerra non è soltanto quella che si combatte là dove si perde l’orizzonte, è qui in mezzo a noi, ormai incapaci – e non è soltanto un discorso morale, parliamo anche di necessità fisica – di costruire rapporti duraturi, lontani del tutto dal rancore e dalla raddolcita franchezza umana.

Colin Farrell e Brendan Gleeson (bravissimi entrambi, per entrambi preparate le candidature che potrebbero portarli alle agognate statuette: del primo da sottolineare il lavoro sul corpo, la poesia e la rabbiosa determinazione, i piccoli gesti del quotidiano, il rapporto con gli animali che lo accompagnano, la perdita di ogni certezza nell’abbandono dell’amico, la scena nel pub con la tirata intorno alla bellezza antica della “gentilezza” per eleggerlo immediatamente a miglior attore dell’anno, dell’altro tutta l’asprezza, contrapposta alla dolcezza delle musiche e delle canzoni che l’attore stesso ha composto per il film) tornano a lavorare con McDonagh a circa quindici anni da “In Bruges”, storia di due sicari diversamente colpiti dalla noia e dai percorsi artistici della città belga. “Gli spiriti dell’isola” è una favola aspra e grottesca da segnare convintamente tra le pellicole da vedere in questo periodo, è una favola di insano realismo ai bordi della magia. Il titolo originale suona “The Banshees of Inisherin”, laddove le “banshees” sono le streghe che circolano tra quella nature, pronte ad apparire quando qualcuno deve morire.

Riscoprire Filippo Burzio protagonista del ‘900

Filippo Burzio è stato uno dei più affascinanti e più complessi intellettuali italiani del ‘900: scienziato del Politecnico di Torino, maestro di balistica alla Scuola di Applicazione e apprezzato nel mondo, narratore, filosofo, giornalista famoso. Direttore della “Stampa” alla caduta di Mussolini, condannato a morte dalla Repubblica di Salò e costretto alla clandestinità, tornò a dirigere il grande giornale di Torino fino alla morte. Prestigioso commentatore politico, europeista, è noto per aver rilanciato in chiave moderna la platonica teoria del Demiurgo.

Giovedì 9 febbraio, ore 18 al Polo del ‘900 il suo maggiore studioso Paolo Bagnoli e Corinna Desole presenteranno il nuovo libro da loro curato Il seminatore solitario. Introduzione al Demiurgo, edito dal Centro Studi Piemontesi per la Fondazione Burzio. Con loro saranno Fulvio Cammarano, storico dell’Università di Bologna, e Piero Polito, direttore del Centro Studi Piero Gobetti.

 

In onore del grande intellettuale e della fondazione che porta il suo nome, Poste italiane presenterà in quell’occasione al Polo del ‘900 un annullo postale speciale.

“Il tour che gira dappertutto”, il nuovo giro musicale d’Italia di Darman

L’artista calabrese, ormai una certezza nel panorama rock e cantautorale italiano, porterà in giro per l’Italia il suo ultimo album “Rifugio”, uscito lo scorso 18 novembre, partito da Firenze il 13 gennaio 2023.

Il tour che gira dappertutto”, il nuovo giro musicale d’Italia di Darman, ha un sapore del tutto particolare. Il cantautore calabrese, infatti, porterà la sua musica nei Club di Progetto Itaca, Fondazione che promuove programmi di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della Salute Mentale e alle loro famiglie. Darman suonerà per loro, in concerti intimi che sfoceranno in veri e propri laboratori musicali, dove la musica sarà il veicolo mediante il quale scoprire il bello che c’è in tutti noi e attorno a noi.

Le prime date confermate:

9/2 Torino

13/2 Bologna

14/2 Parma

15/2 Milano

24/2 Lecce

27/2 Rimini

9/3 Genova

14/3 Napoli

28/3 Palermo

Commenta l’artista il nuovo tour: “Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha regalato un’esperienza unica: quella di condividere la mia esistenza con due persone per me speciali, Zia Nice e Zio Gregorio. Grazie a loro, alla loro gioia di vivere e grazie all’amore che i miei familiari hanno sempre trasmesso loro, ho potuto constatare in prima persona quanto ogni singola esistenza sia importante e quanto ogni storia umana vada vissuta fino in fondo. Il rispetto e l’importanza della vita vanno ben aldilà della semplice e, spesso, superficiale percezione personale. La realtà è soggettiva, e ciascun essere vivente la vive appieno per come percepisce e si muove in quello spazio e in quel tempo. Questa mia esperienza mi ha insegnato quanto sia importante il rispetto e l’amore per la vita, quanto sia bello donare gioia a persone speciali. Spesso ho suonato per i miei zii e da sempre avevo in mente di realizzare un progetto di questo tipo e regalare momenti di gioia e bellezza a più persone possibili. Tutto questo ha preso forma grazie all’energia vitale con cui Leonardo Artini ha risposto alla mia proposta di realizzare il tour al Club Itaca di Firenze. Il nostro entusiasmo è stato talmente contagioso che l’idea si è allargata a tutti gli altri Club della Fondazione, diventando un vero e proprio tour italiano. Sarò onorato di realizzare questi laboratori musicali coi Soci dei Club e vivere momenti di piacere e scambio culturale ed emozionale.”

Spiega Leonardo Artini, responsabile comunicazione di Progetto Itaca Firenze: “Ogni mattina a Club Itaca (nostro progetto di riabilitazione per lo sviluppo dell’autonomia socio-lavorativa) leggiamo tutti insieme le mail e lo scorso maggio siamo stati meravigliosamente colpiti da questa proposta di Darman. Ci ha subito unito la passione per la musica, elemento che ci accompagna in molte fasi della giornata, il suo modo di scrivere e le parole utilizzate ci hanno fatto capire che ci fosse qualcosa di speciale in lui. Proprio come in ognuno di noi. Colpito da questo forte entusiasmo ho coinvolto subito Lorenzo (responsabile comunicazione di Fondazione Progetto Itaca) ed in seguito ad una call con il cantautore calabrese, ci siamo subito attivati per coinvolgere le altre sedi di Progetto Itaca. Le adesioni non hanno tardato ad arrivare. Adesso tutti i Soci (ragazzi con disagio psichico che aderiscono gratuitamente al Club) stanno aspettando il momento di conoscere Darman, le sue canzoni e di condividere piacevoli momenti insieme, ognuno con la sua storia. Tutto questo mi riempie di orgoglio e sono certo che la voce di Darman (con le sue note), da Milano a Palermo, possa amplificare il nostro messaggio a sostegno della salute mentale. Grazie ancora e stay tuned!”

Progetto Itaca nasce nell’ottobre del 1999 con l’obiettivo di promuovere programmi di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della salute mentale e alle loro famiglie. Ciò che ha spinto alla fondazione di Progetto Itaca è stato sperimentare personalmente il dolore che colpisce un’intera famiglia quando una persona, quasi sempre molto giovane, si ammala di un disturbo mentale. Spesso il grave ritardo della diagnosi e della cura porta un danno grandissimo alla sua vita. Per il recupero del benessere, però, accanto alle terapie farmacologiche, altrettanto importanti sono un ambiente favorevole e una società più accogliente, sensibile e informata che possano attivare una forte rete di supporto. È trasversale, inoltre, per tutte le iniziative di Progetto Itaca la sensibilizzazione della comunità per superare stigma e pregiudizio, diffondendo una corretta informazione per favorire la prevenzione e l’orientamento alla cura. Nel corso degli anni, la piccola squadra iniziale di Progetto Itaca adesso conta più di 600 volontari attivi in ben 17 sedi in tutta Italia, e solo nell’ultimo anno ha sostenuto più di 12.300 persone, formandone più di 800 e sensibilizzandone più di un milione.

Rifugio” è il “quarto album di inediti di Darman composto da 9 brani scritti e arrangiati dal cantautore calabrese (ad accezione del testo di “Come la mente sempre più assisa”, di Umberto Alcaro). Darman sorprende ancora una volta con un disco acustico, che si discosta dalle tre precedenti produzioni alternative rock. Con Rifugio siamo in una dimensione più minimale negli arrangiamenti, in cui è preservata l’idea l’anima intima dei brani, impreziosita da scelte stilistiche di finezza e dolcezza.

Il filo conduttore che lega trasversalmente tutti i brani dell’album è la ricerca di un percorso di interiorità che possa condurre agli altri, al mondo. Il vero “Rifugio” è inteso come un senso di apertura e non di chiusura. Nella copertina, infatti, trova spazio un “ossimoro visivo”, è come se il titolo fosse apparentemente contrapposto alla figura iconica del guscio d’uovo. Infatti, molto spesso, il rifugio è interpretato come un luogo nel quale chiudersi ed estraniarsi da ciò che ci circonda; nel significato di Darman, invece, il concetto è stravolto: qui si è davanti a un’apertura totale verso la scoperta del mondo, della vita vissuta a 360°, della conoscenza di sé stessi e, di riflesso, degli altri.

Biografia

Darman, volto nuovo dell’alternative rock italiano prossimo a lanciare il suo quarto album in studio “Rifugio“, è attualmente impegnato con l’Eunomos tour 2022, col quale sta portando in giro per l’Italia la sua musica intima e luminescente.

Il cantautore calabrese di base a Torino ha già all’attivo tre lavori discografici, tutti pubblicati per l’etichetta Ayawasca Sciamani Musicali: “Four-Leaved Shamrock” 10 novembre 2015, “Segale Cornuta”; 20 aprile 2017 e “Necessità Interiore”, 3 aprile 2020.

“Necessità Interiore”, registrato ed editato da Christian Lisi al Not Brushing Dolls di Castel San Pietro Terme (Premio Tenco con “Il Grande Freddo” di Claudio Lolli), mixato da Dirk Feistel allo Studio X Berlin e masterizzato da Kai Blankenberg allo Skiline Tonfabrik di Dusseldorf, (entrambi freschi collaboratori per il live a Berlino dei Black Rebel Motorcycle Club) fa sbarcare Darman nei negozi di dischi grazie alla collaborazione con AudioGlobe.

Sono molti i singoli che Darman ha lanciato in questi primi cinque anni di carriera da solista. Come non citare “Strana Creatura”, attualmente il suo brano di maggior successo, primo singolo estratto da Segale Cornuta e pubblicato in anteprima su Fanpage il 30 marzo 2017 (il videoclip su YouTube ha ricevuto oltre 210.000 views). O “Pubblicità Riflesso”, primo singolo estratto da Necessità Interiore e pubblicato in anteprima italiana su Rockerilla e mondiale su Vents Magazine.

Il nome e il seguito che è riuscito a creare attorno a sé ha portato Darman a realizzare quattro tour italiani e uno europeo (il secondo sarebbe dovuto partire nella primavera del 2020, poi annullato per via della pandemia da Covid-19), oltre che a presenziare su palcoscenici importanti; ne sono un esempio il Concerto del Primo Maggio 2012 in Piazza Maggiore a Bologna, le due anteprime in Expo Milano 2015 e la partecipazione da headliner al festival italiano Musaic-On 2017 e al The Sound Festival 2018 in Olanda.

Anticipato dai brani “Agay” ed “Elle”, venerdì 18 novembre esce il nuovo album “Rifugio” disponibile in tutti i negozi di dischi in versione cd e vinile e su tutte le piattaforme di streaming digitale distribuito da Audioglobe, prodotto dallo stesso Darman per Ayawasca Sciamani Musicali (Edizioni di Riccardo Rinaldi).

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Ufficio stampa Progetto Itaca: BOVINDO – Maria Cira Vitiello (mc.vitiello@bovindo.it)

Al Teatro Astra di Torino “Frankenstein”, la nuova produzione TPE “Buchi Neri”

Dall’8 al 12 febbraio prossimo sarà di scena ,lo spettacolo che indaga il rapporto con la verità scientifica. Previsto un incontro anche con il meteorologo Luca Mercalli al Circolo dei Lettori

 

Dall’8 al 12 febbraio prossimo andrà in scena al Teatro Astra una nuova produzione dal titolo “TPE Buchi Neri”, che si inserisce nell’ambito della tematica che accompagna la stagione teatrale 2022/2023, quella del rapporto con la verità scientifica. Verrà messo in scena il celebre “Frankenstein” di Mary Shelley, scritto da un’autrice ancora adolescente, che anticipa l’ansia climatica contemporanea, dando origine a un nuovo genere letterario: l’horror fantascientifico.

Ad andare in scena sarà l’OHT Office for a Human Theatre, per la regia e scene di Filippo Andreatta, con suoni e musica di Davide Tomat e la performance di Silvia Costa.

Per la prima volta OHT si confronterà con un classico della letteratura occidentale, ovvero “Frankenstein o il moderno Prometeo”.

Pubblicato nel 1816, esso non soltanto rappresenta un’icona letteraria, ma anche una reazione estetica all’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, una delle più potenti mai registrate dall’uomo.

Sorprendentemente vicino alle sfumature politiche della ricerca di OHT, Frankenstein rappresenta un mito in cui i paesaggi esteriori si confondono con quelli interiori. Gli strapiombi del Monte Bianco diventano vertigini intime e personali nell’incontro fra il mostro e il suo creatore; luoghi inaccessibili come le Alpi si trasformano in rifugio determinante per una creatura inafferrabile, che in queste montagne impara a conoscersi, attraverso i fenomeni naturali che vi si manifestano.

La radicalità del lavoro di Mary Shelley si materializza nell’emancipazione della creatura, in quanto il demone e il paesaggio diventano un tutt’uno, mentre Victor Frankenstein non sembra più in grado di controllare ciò che lo circonda. Frankenstein si rivela come un veemente romanzo contemporaneo di formazione; incastrato dai limiti della tassonomia culturale, l’essere – più che-umano per eccellenza della letteratura occidentale non ha avuto una lettura distaccata dal contesto in cui veniva interpretato. Questo ha sempre rappresentato un limite che ha imprigionato il libro tra i lacci di un’interpretazione imbrigliata dai lettori normali. L’immaginario di Frankenstein ha sempre prevalso sulla realtà del libro e è proprio da questo scarto che nasce il lavoro di OHT. Per la prima volta è il mostro a parlare e prendere la parola, non come un soggetto escluso, ma come un concittadino, un nostro pari mostruoso che si rivela neonato della letteratura occidentale e capace di creare un nuovo immaginario.

La nuova produzione di OHT si muove dall’esperimento del Dottor Victor Frankenstein e, scartando la narrazione, opera affondi parziali e verticali nel testo, senza alcun limite di forma, linguaggio e durata. L’opera di Mary Shelley diventa un materiale prezioso da esaminare, da sezionare, ricucire e un corpo disponibile per esperimenti scenici diversi. Una reading session, un radiodramma, un’installazione, una release musicale e un libro verranno generati come parti di una stessa sperimentazione che avanza nel romanzo orizzontalmente per poi indagarne le molteplici ramificazioni.

Mary Shelley, i cui genitori erano filosofi, la madre femminista, il padre un politico anarchico dalle idee illuministe, fu influenzata profondamente da loro nello sviluppo del suo pensiero, e decise di prendere i loro due cognomi fino al matrimonio con il poeta Percy B. Shelley. La sua vita fu segnata dalla perdita dei suoi figli e da un aborto spontaneo che le risultò quasi fatale. Oltre a “Frankenstein” scrisse, tra gli altri, “The last man”, considerato uno dei primi testi post apocalittici e ambientato negli ultimi anni del XXI secolo, che, attraverso la voce dell’ultimo uomo, narra di una pandemia che annienta l’intera umanità e le sue istituzioni sociali.

All’origine del mito di Frankenstein è presente la vulcanologia. Nell’aprile del 1815 il monte Tambora, nell’isola di Sumbawa, in Indonesia, eruttava emettendo circa duecento km al cubo di materiale nell’atmosfera. Il Tambora diventava così il primo Supervulcano, ovvero un vulcano la cui eruzione toccava il valore più alto della Scala VEI (indice di esplosività vulcanica). L’eruzione fu sentita a più di 2500 km di distanza e abbassò la cima del monte Tambora di 1499 metri, provocando un’anomalia climatica chiamata “L’anno senza estate”, nel 1816, che coincideva con l’anno della pubblicazione di Frankenstein. Nelle parole di Mary Shelley, Frankenstein nasce a Napoli, vicino ai Campi Flegrei che, come il Tambora, è uno dei rarissimi Supervulcani del mondo.

 

Sabato 11 febbraio, alle ore 17:30, al Circolo dei Lettori di Torino, sarà presente uno spunto letterario intorno al tema del cambiamento climatico, con “I Dialoghi” con Luca Mercalli, una collaborazione tra TPE Teatro Piemonte Europa e Fondazione Circolo dei Lettori.

Questa lezione, a cura del climatologo, meteorologo e divulgatore scientifico Luca Mercalli, avrà come titolo “Dall’anno senza estate all’anno senza inverno – spunti letterari sul cambiamento climatico”. Lo studioso parlerà della grande anomalia climatica dell’era moderna, avvenuta durante la stesura del romanzo Frankenstein da parte di Mary Shelley, eruzione che coprì di cenere il cielo, causando un oscuramento globale, carestie e un drastico calo delle temperature. Luca Mercalli tratterà anche il tema del surriscaldamento globale dell’epoca contemporanea, per esplorare accadimenti reali e riflettere su spunti letterari nell’ambito del cambiamento climatico.

L’incontro si inserisce nell’ambito de “I Dialoghi”, che accompagnano la stagione TPE “Buchi Neri”.

Ingresso libero

Consigliata la prenotazione, scrivendo a dialoghi@fondazionetpe.it

O tramite form su circolodeilettori.it

Negli spazi del Teatro Astra è anche stata pensata un’installazione, uno scarto architettonico omesso dai disegni esecutivi del teatro stesso. Un affondo nell’architettura del teatro che si manifesta attraverso la sua aporia intellettuale. Si tratta di un luogo precluso, omesso alla vista, capace di evocare la presenza del mostro e di scatenare un dialogo incomprensibile, con la necessità di rimanere nascosti e capace di rendere l’invisibilità. Siamo di fronte a un incontro sentimentale fra l’oscenità architettonica e l’evocazione del mostro di Frankenstein.

Mara Martellotta

Fondazione Teatro Piemonte Europa

Via Rosolino Pilo 6, 10143 Torino

Sede organizzativa: Via Santa Teresa 23, 10121 Torino

 

“Mutamorfosi” al Café Muller

Informazione promozionale

Lo spettacolo ideato e portato in scena dall’artista Sara Lisanti, con un reading di poesia introduttivo del poeta Gian Giacomo Della Porta, il 9 febbraio prossimo alle ore 21

Il 9 febbraio prossimo, alle ore 21:00, presso la sala teatro del Café Muller di Via Paolo Sacchi 18/d, a Torino, verrà portato in scena lo spettacolo “Mutamorfosi”, ideato dall’artista salernitana Sara Lisanti e introdotto da un reading di poesia del poeta torinese Gian Giacomo Della Porta.

La performance avrà inizio col momento poetico denominato “La calma della crisalide”, simbolo dell’imminente trasformazione, un’interpretazione contemporanea della poesia del cambiamento, la forza che precede l’esplosione in bellezza e che prepara lo spettatore alla fase in cui la parola lascia spazio ai colori, al silenzio e, infine, alla musica di un’immagine in movimento interpretata dalla talentuosa artista Sara Lisanti che, partendo da un bozzolo, si troverà rinchiusa all’interno della propria sofferenza, quasi fosse la consapevolezza ultima atta a innescare le fasi della metamorfosi, fino alla nascita, o alla rinascita.

Attraverso una continua stratificazione di suoni che andranno a determinare l’intensità delle varie fasi dello spettacolo, la Lisanti cambierà pelle più volte, prendendo spunto dalla muta tipica dei rettili e armonizzandosi nel più umano concetto di “venire al mondo”, nella fatica che precede il primo vagito del neonato, nella voce liberatoria di una nuova bellezza.

Mutamorfosi”

Café Muller, via Paolo Sacchi 18/d, Torino

Ore 21:00

Info e prenotazioni: 3389357120 – 3899641668

inforadoass@gmail.com

UniTo: quando interrogavano Calvino

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
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Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

9 UniTo: quando interrogavano Calvino

Lo dico subito: tengo molto al tema di questo articolo e non medierò in nulla la mia passione per l’autore che andrò ad affrontare quest’oggi per la mia rubrica sugli studenti torinesi. Si tratta di uno scrittore che purtroppo a scuola non viene approfondito e che rischia, a mio parere, di non essere sufficientemente conosciuto.
Sto parlando di Italo Calvino, nato nel 1923 a Santiago de Las Vegas, (Cuba), da genitori italiani, entrambi docenti universitari di materie scientifiche. In seguito, nel 1925, la famiglia si trasferisce a Sanremo, dove Italo trascorre l’adolescenza e compie il primo ciclo di studi, infine, nel 1941, si trasferisce a Torino per frequentare l’Università di Agraria. Nel 1943 entra nella brigata comunista Garibaldi. Dopo la guerra, nel ’45, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere e nello stesso anno aderisce al PCI. Alla Facoltà di Lettere di Torino si laurea nel 1947 con una tesi su Joseph Conrad. A Torino entra in rapporto con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese a cui sottopone i suoi racconti. Inizia a collaborare con il quotidiano “l’Unità” e con la rivista “Il Politecnico” di Elio Vittorini. Nel frattempo si afferma la celebre casa editrice torinese Einaudi (fondata nel ‘33 da Giulio Einaudi), all’interno della quale collaborano Pavese e Vittorini, di cui Calvino è diventato ormai grande amico. Grazie a Pavese viene pubblicato nel 1947 il primo romanzo di Italo “Il Sentiero dei nidi di ragno”. Le sue doti di scrittore non possono passare inosservate, così due anni più tardi esce una prima raccolta di racconti “In ultimo viene il corvo” (1949), seguito da una moltitudine di altri successi. Nel ‘57 lascia il PCI, e nello stesso periodo collabora con diversi giornali, tra cui “Officina”, rivista fondata da Pier Paolo Pasolini, e dirige con Vittorini la rivista “Menabò”.

Dopo i successi lavorativi, nel 1962, Calvino incontra l’amore, conosce infatti Esther Judith Singer, una traduttrice argentina con cui si sposa – a Parigi- nel 1964. Italo rimane con la compagna nella capitale francese fino al 1980, anno in cui si trasferisce a Roma e pubblica “Palomar”. Nel 1984 lascia Einaudi e passa a Garzanti. Nel 1985 riceve il riconoscente invito da parte dell’Università di Harvard a tenere una serie di conferenze. Italo accetta e inizia a preparare le sue lezioni, ma, purtroppo, viene colto da un ictus improvviso nella sua casa a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena, nella notte tra il 18 e il 19 settembre. I testi tuttavia vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo “Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio.” Per quel che mi riguarda, Calvino l’ho scoperto per caso, curiosando tra i molti libri che a casa ci sono sempre stati, giocando a leggere titoli che mi suggerivano storie elaborate e fantasiose. Ricordo una copertina sul verde, leggermente consunta, avvolgeva delle pagine ingiallite: era la trilogia de “I nostri antenati”. È stata una delle prime opere che ho letto con attenzione e totale trasporto, ho da subito amato lo stile lineare e lucidissimo dell’autore, il suo modo semplice di raccontare con misurato rigore, le parole fluide che si dispongono quasi in automatico a comporre le frasi, come pezzi di un puzzle che per forza così si devono incastrare.

Leggere Calvino è bello. Lasciarsi trasportare dalle trame dei suoi racconti è un’esperienza avvolgente, completa, rilassante, ma anche occasione di riflessione, perché Italo non è solo maestro della narrazione, ma anche uomo di grande cultura e forbito pensatore. Calvino tuttavia, prima di diventare un grande fra i grandi, fu uno studente fra gli studenti, e viene un po’ da sorridere all’idea di immaginarselo di fronte all’Università, intento a rivedere gli appunti e a ripassare per gli esami, mentre sfoglia velocemente i propri libri. E fa ancora più meraviglia immaginarselo lì, forse lievemente impaurito, in attesa di essere interrogato da qualche professore per cui provava magari timore reverenziale. Certamente di professori che incutevano, diciamolo pure, “paura” all’Università di Torino ne sono passati molti, e la storia dell’istituzione è decisamente antica. Le origini dell’Università degli Studi Torino risalgono ai primi anni del XV secolo. Dopo la morte improvvisa di Gian Galeazzo Visconti alcuni docenti delle Università di Pavia e Piacenza proposero a Ludovico di Savoia-Acaia la creazione dello “Studium Generale” di Torino, in quanto sede vescovile e crocevia della rete di collegamenti tra la Francia, la Liguria e la Lombardia. La nuova Università nacque ufficialmente nel 1404 con la bolla di Benedetto XIII, papa di Avignone.
Dal 1443 fino all’inaugurazione del prestigioso palazzo di via Po vicino a Piazza Castello nel 1720, l’Università ebbe sede nel modesto edificio acquistato e ristrutturato appositamente dal Comune all’angolo tra via Dora Grossa, l’attuale via Garibaldi, e via dello Studio (poi via San Francesco d’Assisi).

L’Università torinese, pur non competitiva rispetto alle altre grandi Università italiane, era comunque di grande rilievo, non dimentichiamo che Erasmo da Rotterdam vi conseguì la laurea in Teologia nel 1506. Particolarmente floridi per l’Università furono gli anni delle riforme di Carlo Alberto (1831-1849). Il periodo albertino è caratterizzato dallo sviluppo di alcuni istituti, dalla creazione di nuovi e dalla presenza sul territorio di docenti di prestigio, quali ad esempio Augustin Cauchy, matematico e ingegnere francese, o Pier Alessandro Paravia, letterato e mecenate italiano di grande fama. Nel corso degli anni molte furono le innovazioni e le modifiche che i vari corsi subirono, per esempio, nel 1844 le Facoltà di Medicina e di Chirurgia furono nuovamente riunite e riformate, mentre nel triennio 1846-48 si provvide, tra forti contrasti e resistenze, a riformare la Facoltà di Scienze e Lettere che il 9 ottobre 1848 cessò di esistere. Si istituirono due Facoltà separate, una di “Belle Lettere e Filosofia” e l’altra di “Scienze Fisiche e Matematiche”, quest’ultima tra l’altro poteva vantare nomi di docenti illustri quali Avogadro, Bidone, Plana, Giulio, De Filippi, Sobrero, e Menabrea. Continuando per una più che rapida carrellata storica, è necessario ricordare un altro momento storico cruciale, non solo per la storia della Scuola, ma per la Storia con la “S” maiuscola. La riforma Gentile, varata nella prima metà del 1923, che riconobbe 21 Università e inserì quella di Torino tra le dieci a carico dello Stato. Siamo durante il ventennio fascista, periodo in cui l’Ateneo torinese cercò di mantenere la massima autonomia didattico-scientifica. Quando il regio decreto del 28 agosto 1931 stabilì che i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla monarchia, ma anche al regime fascista, in tutta Italia solo 12 insegnanti su oltre milleduecento rifiutarono di prestare il giuramento, perdendo così la cattedra. Tre di questi erano membri del corpo docente dell’Università di Torino: Mario Carrara, Francesco Ruffini e Lionello Venturi. Nell’ultimo secolo la Facoltà di Lettere ebbe insegnanti come Luigi Pareyson, Nicola Abbagnano, Massimo Mila. A Giurisprudenza insegnarono Luigi Einaudi e Norberto Bobbio. Molti tra i protagonisti della vita politica italiana del Novecento si formarono all’Università di Torino, come Gramsci e Gobetti, Togliatti e Bontempelli.

Alla fine degli anni Sessanta la nuova (e attuale) sede del “Palazzo delle Facoltà Umanistiche”, noto anche oggi come “Palazzo Nuovo”, trovò spazio nella moderna costruzione di Via Verdi. Nel 1998 è stata fondata l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Nel 2012 è stato inaugurato il “Campus Luigi Einaudi”, nuovo polo accademico con funzione di sede unica per i corsi di studio nell’ambito delle Scienze giuridiche, politiche ed economico-sociali. L’identità dell’Università degli Studi di Torino è costituita dal sigillo, il cui primo esemplare risale al 1615. Vi è rappresentato un toro, che indica lo stretto legame dell’Ateneo con la città di Torino, adagiato su tre libri, che alludono alle prime tre Facoltà dello “Studium” torinese: Teologia, Leggi, Arti e Medicina. Il toro ha la testa volta all’indietro verso un’aquila ad ali aperte che poggia sulla groppa dell’animale. L’aquila fissa il sole, simbolo della sapienza, ed è coronata, perché è il re degli uccelli ed è anche insegna dell’imperatore che, con diploma del 1412, aveva confermato la bolla papale di fondazione, risalente al 1404. Sui tre libri sono incise una crocetta, un fermaglio e un altro segno indistinto. Questa la legenda: “SIGILL(um) UNIVERS (itatis) AUGUSTAE TAURINORUM”. Il logo divenne emblema dell’Università dal 1925.

Dopo questo breve “excursus” possiamo focalizzarci nuovamente sul nostro studente per oggi prediletto.
“Gli artisti usano le bugie per dire la verità” dice V, personaggio mascherato da Grey Fox, disegnato da David Loiyd, protagonista di “V per Vendetta”, una serie di fumetti scritti da Alan Moore, allo stesso modo – se mi è permesso l’ardito accostamento tra l’autore italiano e il mondo fumettistico inglese- Calvino usa le sue narrazioni favolistiche come spunto per un’ardita riflessione sull’esistenza e sulla condizione dell’uomo contemporaneo.  L’autore occupa un posto di primo piano non solo nella storia della narrativa ma anche nel nostro panorama culturale italiano, sia per i suoi lucidi interventi di critico militante, sia per la centralità del suo ruolo di collaboratore nella politica editoriale della casa editrice “Einaudi”, dove ha lavorato per trent’anni.
Calvino sostiene una concezione impegnata del lavoro intellettuale e della letteratura, tanto che nel 1955 scrive nel suo saggio “Il midollo del leone”: “Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura come educazione di grado e di qualità insostituibile”.

La produzione di Calvino, per la varietà di innovazioni fantastiche e per le diverse modalità narrative, non trova eguali in nessun altro autore del Novecento. Il tema costante della sua produzione è la condizione storica dell’uomo, il suo stare al mondo, argomentazione a lui cara sia nei primi scritti, fino al suo ultimo libro “Palomar” (1983) in cui porta avanti una lucida e disincantata analisi della condizione dell’essere umano, che si interroga e che vuole capire se stesso e l’universo in cui vive.
La multiforme produzione calviniana è solitamente divisa in “fasi”: “neorealistica”, “allegorico-fiabesca” e “fantascientifica”. È utile però ribadire che tali classificazioni, che sono elastiche e strumentali, non vanno intese come un’ordinata successione cronologica, con modalità narrative specifiche che si concludono definitivamente una dopo l’altra; è infatti caratteristica preminente in Calvino la coesistenza, spesso anche all’interno dello stesso testo, di atteggiamenti contrastanti, che però egli riesce sapientemente a mediare.

Il suo essere narratore peculiare è evidente già dal suo primo romanzo, edito nel 1947, titolato “Il sentiero dei nidi di ragno”, un testo inseribile all’interno del filone neorealistico. Il libro affronta la tematica della Resistenza, argomento caro a molti altri suoi contemporanei, ma che Calvino espone secondo la sua ottica innovativa e inaspettata, così il lettore si trova catapultato non in un “semplice” romanzo storico, ma in una sorta di “favola a lieto fine”. Protagonista del romanzo è Pin, un bambino maturato velocemente, costretto a conoscere la violenza e la durezza della vita per strada. La vicenda ci è raccontata attraverso il suo sguardo di fanciullo cresciuto, che certo si inserisce nelle vicende degli adulti, ma che comunque non riesce a comprendere del tutto.
La dimensione favolosa e fantastica è di certo la più autentica per Calvino, come dimostrano i romanzi “Il visconte dimezzato” (1952), “Il barone rampante” (1957) e “Il cavaliere inesistente” (1959). Tali opere, conosciute come la trilogia de “I nostri antenati”, fanno capo al genere del racconto filosofico, filone letterario che in Italia non ha mai conosciuto particolari apprezzamenti. Va però detto che, se nel racconto filosofico l’intento è dimostrativo e raziocinante, in Calvino dominano il gusto per l’invenzione e il fantastico. In questi testi favolistici vi è però una sorta di “doppio fondo”, un messaggio nascosto, che il lettore accorto scova se si sofferma a pensare tra un capoverso e l’altro. Si tratta di tre romanzi allegorici sulla condizione dell’uomo contemporaneo, “alienato”, impossibilitato a raggiungere la completezza (come dichiara l’autore stesso nella presentazione editoriale de “Il visconte dimezzato”). Oltrepassiamo la gradevolezza della “fabula” e soffermiamoci dunque sul motivo di fondo del racconto di colui che è “dimidiamento dell’uomo contemporaneo, mutilato, incompleto, nemico a se steso”, o sul principio enunciato dal Barone: “chi vuol guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria” oppure sulla vicenda di Agilulfu, che è solamente un’armatura vuota, metafora dell’essere umano deprivato della sua irripetibile individualità, ridotto a “funzione”, usato come mezzo e non pensato come fine. Favole certo, ma con un “Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι” (o mythos deloi oti: “la favola insegna che”, di esopica memoria) da non sottovalutare.

L’interesse per la condizione umana è altresì evidente ne “Le Cosmicomiche” e in “Ti con zero” (1967). Si tratta di opere inscrivibili alla fase “fantascientifica”, in cui l’autore attinge alla fisica quantistica, alla genetica e alla biochimica per sottoporre a discussione una moltitudine di problematiche scientifiche. Qfwfq è l’impronunciabile nome dell’entità protagonista, vecchia quanto il mondo e con la stessa memoria del mondo. È proprio tale improbabile personaggio ad analizzare un microcosmo lontano dal nostro, esistente prima della nascita del concetto di spazio e di tempo, nel quale però sono già presentati i conflitti, le tensioni e le dinamiche interpersonali che si incontrano nel mondo di oggi. Anche in questo romanzo psichedelico vi è una riflessione celata all’interno del tessuto narrativo, e l’interrogativo costante è “L’uomo non cambia e i suoi problemi sono immutabili e insolubili”? Al lettore l’ardua sentenza.
L’autore ci coinvolge continuamente e ci esorta a rimuginare, a trarre le giuste conclusioni, ma da sommo Maestro com’è, intanto che aspetta ne approfitta per darci ancora una lezione, che forse ci spiazza e ci costringe ad ingoiare quella minuscola frase che stavamo faticosamente formulando. Nell’opera “Le città invisibili” egli scrive: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce fatale a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”. E la domanda rimane aperta: “la favola insegna che?”

Alessia Cagnotto

Le 3Chic Atmosfere e sonorità vintage

Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/c, Torino

Mercoledì 8 febbraio, ore 21.30

Le 3Chic

Atmosfere e sonorità vintage per il trio vocale al femminile che si esibisce cantando e danzando coreografie in stile Trio Lescano e Quartetto Cetra

Le 3Chic sono un trio vocale al femminile composto da Marinella Locantore, Martha Umana e Cristina Geremias: cantanti, ma anche ballerine jazz e musical style. Il loro spettacolo è un vero e proprio “vintage show” con un set di abiti, trucco e acconciature progettati ad hoc. Il loro repertorio spazia dagli arrangiamenti vocali anni ’40 in stile Trio Lescano e Quartetto Cetra a quelli americani in stile Andrews Sisters, ai brani degli anni ’50 e ’60 stile The Supremes, The Chordettes, fino ad arrivare alle canzoni odierne riarrangiate in stile vintage, stile Puppini Sisters, o in chiave blues.

Formazione

Marinella Locantore, voce

Martha Umana, voce

Cristina Geremias, voce

Emanuele Olivetti, contrabbasso

Alex Sorel, batteria

Riccardo Chiara, chitarra

Ora di inizio: 21,30

Ingresso:

15 euro (con calice di vino e dolce) – 10 euro (prezzo riservato a chi cena)

Possibilità di cenare prima del concerto con il menù alla carta

Info e prenotazioni

Web: www.osteriarabezzana.it

Tel: 011.543070 – E-mail: info@osteriarabezzana.it

“Video Killed The Radio Star”

MUSIC TALES, la rubrica musicale

“la tv ha ucciso la stella della radio

la tv ha ucciso la stella della radio

sono arrivate le immagini e ti hanno spezzato il cuore”

Per la serie … ci si ricorda di loro per una canzone che resta nel cuore e nelle orecchie del mondo, oggi si parla di: “Video Killed The Radio Star”.

La celebrità di questo brano la si deve soprattutto al fatto che il videoclip, diretto da Russell Mulcahy, andò in onda per inaugurare le trasmissioni di MTV il 1º agosto 1981.

Tale scelta non fu casuale, sia perché all’epoca pochi artisti avevano l’abitudine di realizzare videoclip dei propri brani, e i Buggles erano tra questi; sia perché la canzone e le immagini del video (in cui, tra l’altro, si vedono esplodere delle radio) parlano di una “stella della radio” che perde popolarità con l’avvento dell’era della “musica da vedere”.

Sono certa che ognuno di voi ricordi la canzone, perchè è un vero “cult”della musica di inizio degli anni ’80.

Forse non tutti sanno che la nota versione pubblicata dai Buggles, può essere considerata una cover di un’incisione precedente; infatti, nello stesso anno, una versione diversa fu registrata da Bruce Woolley (autore del brano con Horn e Downes) e dal suo gruppo “Camera Club” (che comprendeva anche Thomas Dolby) e pubblicata nel loro primo ed unico album English Garden.

Ve la linko qui se voleste andare ad ascoltarla

https://www.youtube.com/watch?v=1HLwljnmzR8&ab_channel=puske1990

Sebbene tecnicamente “Video Killed the Radio Star” appartenga per diritto anagrafico agli anni settanta, sul piano puramente musicale esso è di fatto il capostipite degli ottanta, dei quali anticipa lo stile: sofisticata elettronica, accenni di utilizzo del “Wall of Sound” (che verrà poi usato a piene mani per spruzzare di effetti sonori i brani di quel decennio) e quel tono vagamente romantico che fa da ponte sentimentale e cronologico tra il passato e le nuove tecnologie.

Una canzone che, forse al di là di ogni intenzione degli autori, ha costituito praticamente la porta d’ingresso verso un mondo dominato dagli epigoni del sintetizzatore elettronico, e un brano techno-pop ante litteram.

La batteria è suonata da Warren Cann,

co-fondatore e batterista del gruppo new-wave Ultravox.

“La televisione. La televisione è la cosa più sinistra del nostro pianeta. Va’ subito a prendere la tua TV e buttala dalla finestra o vendila e compra uno stereo migliore.”

Kurt Cobain

Oggi vorrei proporvi (so che a molti non piacerà n.d.r.) una versione del brano se fosse stato sulla bocca di Freddy Mercury

Buon ascolto

https://www.youtube.com/watch?v=N26_hRITlsU&ab_channel=PostmodernJukebox

Chiara De Carlo

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!

Da Torino a New Delhi Capita a “Il Grande Vuoto”, la mostra prodotta dal “MAO”

Un grande orgoglio per Torino, per il suo “MAO – Museo d’Arte Orientale” di via San Domenico in primis e per la “Fondazione Torino Musei”, di cui il MAO è la pedina più recente (inaugurazione, nel 2008) di importante e riconosciuto prestigio.

Parliamo del trasferimento, avvenuto il 13 gennaio scorso, di parte della mostra “Il Grande Vuoto” – che ha dato il via (la scorsa primavera) alla direzione del Museo subalpino di Davide Quadrio, curatore della stessa mostra – verso l’India. Destinazione l’“Istituto Italiano di Cultura” di New Delhi. Dove, fino al prossimo 26 febbraio, della rassegna torinese, presentatasi sotto la Mole “come esperienza multisensoriale – parole dello stesso Quadrio – e come segno forte di speranza per un futuro che si rivela incerto e sconfortante”, saranno visibili alcune delle opere più significative presentate a Torino, fra cui una selezione di 40 immagini di “tulku”, realizzate dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri e che ritraggono i cosiddetti “Buddha viventi”, figure salvifiche la cui “mente di saggezza” rinasce in nuovi corpi per condurre l’umanità verso la salvezza e il “Grande Vuoto … verso la buddhità”. Non semplici ritratti fotografici, ma autentici oggetti di venerazione. Una raccolta iniziata oltre una decina d’anni fa dall’artista Paola Pivi che ha raggiunto il numero considerevole di migliaia di immagini e che costituisce quello che è oggi il più grande archivio di “tulku” al mondo. In mostra, da Torino a New Delhi, è arrivata anche la scultura “Dakini rossa”  dell’artista di origini liguri (Loano, 1969) Maurizio Anzeri.

Scultura terrifica a tecnica mista – filo di cotone e capelli sintetici, materiale a suo dire il più scultoreo di tutti, cuciti e tessuti insieme fino a diventare corpo solido – per la quale Anzeri s’è ispirato alla “Na-ro mkha’ – spyod – ma”, la “Dakini” (spiriti femminili dalla natura ferina quasi demoniaca, di tradizione hindu, IV sec. d. C., assistenti della dea Kali) esposta al MAO nella sezione dedicata al Tibet. La rassegna, promossa dall’“Istituto Italiano di Cultura”, prevede inoltre l’inserimento di alcuni contenuti nuovi e, in particolare, della performance “When I think of Her” della danzatrice Antonella Usai, realizzata su musiche di Vittorio Montalti e Park Jiha, in programma il 10 febbraio.

La partitura coreutica sarà in relazione proprio con l’opera “Dakini rossa”, “un dialogo – sottolinea Davide Quadrio – che porta, di rifrazione in rifrazione, dal ‘Grande Vuoto’ alla ‘dakini’ attraverso una gestualità fatta di movimenti pesanti, viscerali o iconici con richiami a una classicità indoeuropea”.

La tappa indiana de “Il Grande Vuoto” fa parte di un progetto di circuitazione internazionale, in collaborazione con importanti partner istituzionali che coinvolgerà tutti i progetti espositivi del Museo. “Il ‘MAO’ sta infatti costruendo – ancora Quadrio – moduli espositivi che possano essere adattabili a un concetto di collaborazione internazionale. Si tratta di un processo che, partendo da questa mostra, deve però e soprattutto coinvolgere le sue ‘Collezioni’, la vera ricchezza del Museo, su cui intendo investire e lavorare per renderle sempre più accessibili e fruibili”.

Per info: “MAO – Museo d’Arte Orientale”, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

 Gianni Milani

Nelle foto:

–       “Tulku” e “Dakini rossa”

–       Davide Quadrio