CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 230

Gallerie e spazi indipendenti per Exhibi.To 2023

Dedicati all’arte contemporanea aperti al pubblico dal 21 al 23 settembre

 

 

Torna a Torino dal 21 al 23 settembre la rassegna Exhibi.To, manifestazione realizzata con il patrocinio del Comune di Torino, che aprirà le porte di gallerie d’arte e spazi indipendenti dedicati all’arte contemporanea, proponendo anche tour guidati per conoscere i galleristi cittadini, opere e artisti.

Settembre appare il momento perfetto per RI-aprire le porte in un Open Gallery weekend capace di accogliere artisti affermati ed altri emergenti, oltre a visitatori provenienti da tutto il mondo.

Exhibi.To non è solo una manifestazione, ma un’associazione che collabora con una moltitudine di realtà artistiche disseminate sul territorio per valorizzarne la ricerca, l’arte contemporanea e l’educazione culturale.

In questa nuova edizione entra anche il Comune di Moncalieri con la biblioteca Arduino, ricca di un’importante collezione di opere originali e la galleria BI Box Art Space di Biella.

Exhibi.To per la prima volta è anche ascoltabile perché sono stati prodotti per la prima volta dei podcast Gallery per ascoltare la voce dei galleristi, che potranno raccontare in poco più di un minuto cosa hanno scelto di esporre, quali artisti hanno privilegiato, il significato della mostra e i curatori coinvolti.

Cinque tour mapperanno l’intera città conducendo i partecipanti all’interno degli spazi espositivi per conoscerne le opere e i galleristi.

L’opening avverrà giovedì 21 settembre alle ore 15.

Mara Martellotta

Quando Branagh affronta Agatha Christie con grande libertà

Assassinio a Venezia” sugli schermi

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Fedeltà (supina) come pretenderebbero i milioni d’appassionati della giallista inglese o la facoltà (e il piacere senza regole) di prendersi qualche libertà, piccola o grande che sia, da chi decide di trasferire le sue opere dalla pagina scritta allo schermo? Domanda legittima, che coinvolge del resto qualsiasi trasposizione. Giunto al suo terzo appuntamento con Agatha Christie, dopo i due più celebri titoli “Assassinio sull’Orient Express” e “Assassinio sul Nilo”, Kenneth Branagh – che della scrittrice deve aver scoperto un proprio personale smoderato culto – affronta un romanzo del 1969, “Hallowe’en Party”, conosciuto da noi come “Poirot e la strage degli innocenti”, trentanovesima inchiesta del nostro investigatore dalla testa a uovo e dai folti moustaches, ambientato nel tranquillo villaggio inglese di Woodleigh Common: tanto per farci comprendere subito come regista e sceneggiatore (Michael Green) quella libertà abbiano deciso di prendersela bella e buona. Location (ricostruita tutta negli studi di Londra) e tutto quel che ne consegue, ambienti, personaggi, intrecci e soluzioni, l’epoca stessa, che da un più tranquillo 1936 viene posposta ad un immediato dopoguerra.

Per trovarci nella città lagunare del titolo, fatta di maschere (non Hallowe’en, ma un precarnevale da noi) e di scrosciante pioggia, tantissima e inesauribile, di nebbie autunnali, di goldole che scivolano sui canali, i piccoli mercati e i soldati americani che ballicchiano su un ponte, mentre Hercule Poirot davanti a quel panorama è impegnato a curate il proprio giardino, chiuso in se stesso e al mondo, vittima di un’opacità e di un pessimismo che non ha mai conosciuto, scosso dalla tragedia della guerra appena attraversata. S’è posto in pensione, s’è attrezzato di una guardia del corpo che ha i tratti di un pressoché anonimo Riccardo Scamarcio e che lo difende dai tanti che fanno la questua davanti alla sua casa per essere ascoltati dei vari casi che necessiterebbero delle cure dell’investigatore. Non se ne parla, per nessuna ragione. Ma quando un giorno bussa alla porta la vecchia amica Ariadne Oliver, scrittrice di gialli, per invitarlo ad una seduta spiritica, ospiti entrambi della cantante lirica Rowena Drake, proprietaria di un luogo dove un tempo aveva sede un orfanotrofio e chiusa nel dolore per la perdita recente della propria figlia, le cose cambiano. È vero, Poirot è un po’ arrugginito, fatica ad allinearsi con quel mistero che si nasconde tra gli ambienti sontuosi e sinistri che lo accolgono, ma si sa, Poirot è Poirot, buon sangue non mente, basta una minima scintilla, un dubbio che gli attraversi per un attimo la mente, mettere a fuoco certi dettagli, basta rispolverare le cellule grigie, basta mettere a briglia sciolta quell’eterno pizzico di vanità che da sempre lo accompagna e che un primo omicidio abbia luogo perché il maltempo per gli assassini ritorni.

Non dirò di più, come è buona regola, per non divertimento, definiamolo così, che s’allarga lungo l’intero film. Non soltanto un giallo ma un quasi horror quello che Branagh ci presenta, con tanto di apparizioni improvvise, canzoncine infantili in sottofondo e bisbigli incessanti, lampi e luci che si spengono, urla nella notte, Poirot simbolo del metodo e della logica più ferrei deve inaspettatamente, e forse per la prima volta, fare i conti con i fantasmi, con l’irrazionale, con il proprio lato agnostico, con l’aldilà. Tutti sospettati, nessuno escluso, in uno svolgersi di vicende personali che allineano soldati immersi nei traumi della guerra, figli che proteggono i padri, dolori delle madri, fratellastri che cercano e si danno aiuto, figlie morte da ricordare, sofferenze da cui uscire, incubi da cancellare. Forse “Assassinio a Venezia”, per quel suo impianto misterioso, da notte delle streghe, mortifero e rabbuiato, incombente, non è il migliore dei tre appuntamenti del regista con la scrittrice, negli esempi precedenti a farla da padrone era la “lucidità” del racconto, quel fitto realismo a cui sempre la Christie ci mette di fronte. Ma ne consiglio allo stesso modo la visione, per l’innegabile maestria che appartiene a Branagh nel condurre il racconto, la presenza di sé. E poi quei precedenti potevano contare su un cast di maggiore richiamo, su facce ben più riconoscibili, sul peso di una compagine che maggiormente accalappiava lo spettatore. Branagh si circonda di onesti interpreti (Kelly Reilly, Jamie Dornan, Kyle Allen), torna a formare la medesima coppia padre/figlio del successo di “Belfast”, ha al suo fianco l’eccellente, abituale collaboratore Haris Zambarloukos, direttore della fotografia, in tutta la bellezza di quelle immagini sghembe, ossessive, schiacciate nella ricchezza dell’arredamento e delle pareti. E il violoncello dell’islandese Hildur Gudnadóttir (già in “Joker” e in “Tár”), insuperabile nella composizione di atmosfere decisamente, orribilmente macabre. E in primo luogo, proprio l’attore e il regista, a padroneggiare, come è sua abitudine.

“Un pomeriggio di primavera”, i racconti del Novecento di Mauro Franco

Da pochi mesi è stato pubblicato il libro “Un pomeriggio di primavera”. Stilato da Mauro Franco e edito da “Edizioni Tripla E”.

Il libro consta di una serie di racconti ambientati in diversi periodi del Novecento. Il filo conduttore è incentrato sul modo in cui gli avvenimenti storici condizionano le nostre vite e come gli occhi delle persone comuni vedono e giudicano tali vicende. Per approfondire i dettagli abbiamo intervistato l’autore.

Perché ha scritto “Un pomeriggio di primavera”?

Sono sempre stato un grande appassionato di letteratura e di storia. Pertanto, ho cercato di unire queste mie passioni facendo sì che la mia fantasia partorisse dei racconti ambientati in alcuni periodi storici del Novecento. Quali la cosiddetta “Belle Epoque”, le guerre mondiali, il fascismo, il secondo dopoguerra, il boom economico. I protagonisti però sono delle persone assolutamente comuni che vivono questi episodi e, molte volte, animati da sentimenti genuini e sinceri li giudicano. I racconti sono ambienti in alcuni paesi della Valle di Susa, ma potrebbero svolgersi in qualsiasi località.

Lei di che cosa si occupa?

Lavoro nell’ambito tecnologico di un istituto bancario occupandomi di tematiche concernenti l’informatica. Una buona parte del tempo libero però lo dedico alla lettura, principalmente di romanzi e di saggi storici.

Potrebbe descriverci la trama di qualche racconto del suo libro?

Un racconto vuole rappresentare come un misero vagabondo, sempre umiliato e deriso, riesce ad assurgere a un certo prestigio proprio durante i suoi ultimi mesi di vita. Praticamente diventa, in modo involontario, una pedina importante nel gioco politico del comune dove ha vagabondato per decenni. È un racconto ironico, e a tratti anche grottesco, che intende essere una critica nei confronti di una cultura molte volte eccessivamente perbenista.

È il racconto al quale è più affezionato?

Come un buon padre sono affezionato a tutti i miei racconti allo stesso modo. Tutti hanno come protagonisti persone molto semplici. Per esempio, una coppia di umili sposini che all’inizio del Novecento trascorre il viaggio nozze visitando per alcune ore il centro di Torino. Sono nati e cresciuti sulle montagne della Valle di Susa e con occhi ingenui vedono a modo loro alcuni aspetti della città. Per questo racconto mi sono ispirato ai miei nonni materni i quali, viste le ristrettezze economiche tipiche di quell’epoca, ebbero effettivamente un viaggio di nozze che consisteva in una fugace gita di alcune ore a Torino.

Quindi c’è qualcosa di autobiografico nel suo libro?

Questi racconti sono frutto della mia fantasia ma, come è inevitabile che accada, ho voluto inserire, mascherandole, delle mie considerazioni e far riferimento ad alcuni aneddoti vissuti. In un racconto la protagonista è una giovane donna che per anni attende il ritorno del suo fidanzato internato presso un campo di prigionia. In questo caso ho fatto riferimento a una cara persona che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente. Confesso che per scrivere “Un pomeriggio di primavera” ho fatto affidamento alla mia memoria per ricordare degli aneddoti che da bambino mi avevano raccontato delle persone anziane.

Quali sono i suoi scrittori preferiti?

Per quanto concerne la letteratura italiana prediligo Mario Rigoni Stern e Giorgio Bassani. Del primo il mio libro preferito è “Il sergente nella neve”; mentre di Bassani ho letto più volte “Il giardino dei Finzi-Contini”. I miei scrittori preferiti sono il britannico George Orwell e il russo Mikhail Bulgakov. Di Orwell il mio libro preferito è “1984” mentre di Bulgakov ammirò “Il maestro e Margherita”. Probabilmente il romanzo più interessante che abbia mai letto.

Un pomeriggio di primavera” è il suo primo libro?

No, anni fa pubblicai un romanzo intitolato “Elia Luzzati”. Il libro raccontava di un giovane ragazzo di fede ebraica durante il periodo delle Leggi Razziali. Dopo quel romanzo non ho più pubblicato nulla per diversi anni. Finché la casa editrice “Edizioni Tripla E”, la quale ringrazio, ha dato alle stampe “Un pomeriggio di primavera”.

Nella trama del libro come sono collegati tra loro i vari racconti?

Ho immaginato di incontrare, durante una passeggiata, un gruppo di anziani e di sedermi con loro per ascoltare dei loro racconti su alcuni personaggi che hanno conosciuto durante la loro vita.

Che cosa possono fare coloro che stanno leggendo questo articolo e intendono approfondire gli aspetti del suo libro?

Su internet è presente un sito dedicato al libro dove per ogni racconto c’è una dettagliata presentazione. Il link è: https://maurofrancowriter.altervista.org/

 

 

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

Evan Hunter “Le strade d’oro” -Neri Pozza- euro 20,00

Evan Hunter è nato a New York nel 1926 con il nome di Salvatore Albert Lombino, figlio di seconda generazione dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti.

Nel 1952 con un atto legale lo ha cambiato in Evan Hunter, e nel corso della sua vita -conclusa con la morte nel 2005 in Connecticut- ha pubblicato oltre 250 opere, molte firmate con lo pseudonimo Ed McBain e svariati altri “nom de plume”.

I suoi libri hanno ispirato parecchi film e lui è stato anche uno sceneggiatore di rilievo; per dare l’idea, tra le sue incursioni nel mondo del cinema c’è la sceneggiatura de “Gli uccelli” di Alfred Hitchcock.

Stiamo parlando di uno dei più grandi autori di letteratura (gialla) del Novecento, (prolifico al pari dell’altro mostro sacro Georges Simenon), che ha raggiunto la fama planetaria con l’avvincente epopea dei detective dell’87simo distretto.

Nel 1974 scrisse e pubblicò “Street of gold”, ovvero “Le strade d’oro”, ora finalmente tradotto da noi.

Un libro strepitoso in cui rende omaggio alle sue radici italiane e racconta infiniti pensieri, vite, avvenimenti, che danno l’idea delle grandi opportunità offerte dall’America a chi attraversava l’oceano per inseguire un futuro migliore di quello possibile in patria.

Opera a cavallo tra fantasia e storia familiare in cui racconta se stesso attraverso il personaggio di Blind Ike, jazzista cieco cresciuto nella comunità italoamericana newyorkese, diventato famoso e ricco (proprio come Evan Hunter).

L’autore considerava questo il suo libro migliore, una saga familiare lunga 80 anni che attinge sia alla fantasia che ai reali ricordi; una famiglia che anche se non è la sua, le somiglia parecchio.

Per lui fu fondamentale la figura del nonno materno, Giuseppantonio Coppola, che aveva abbandonato la miseria della Lucania per emigrare in America dove trovare riscatto anche morale.
A lui ha dedicato questo romanzo che, attraverso molteplici personaggi, celebra un grandioso affresco degli States dove gli emigrati laboriosi, intraprendenti e più fortunati avevano trovato “strade d’oro” e nuove opportunità.

465 portentose pagine in cui, tra vicende private e miti famosi, Hunter si sofferma e si interroga sul sogno americano e su stesso, a partire dalle sue origini. Un romanzo che ricorda molto la grandezza delle saghe italoamericane del regista Martin Scorsese.

 

Christopher Isherwood “Il mondo di sera” -Adelphi- euro 21,00

Pubblicato nel 1954 è uno dei romanzi meno conosciuti del grande scrittore inglese, eppure racchiude pagine bellissime.

Il romanzo inizia a Hollywood nei primi anni Quaranta del Novecento, con il fastoso ricevimento in una villa di personaggi del cinema e la voce narrante è quella di Stephen Monk, habitué un po’ disadattato di questi eventi. Più che altro è preoccupato per il comportamento della bellissima moglie Jane che si apparta con un corteggiatore. Scoperta la tresca esplode in una scenata di gelosia, poi corre all’aeroporto e sale su un aereo che lo catapulta all’altro capo del continente.

Si rifugia presso la comunità quacchera dove abita Sarah, donna accogliente che lui chiama zia, ma che in realtà è l’amica di famiglia che l’ha cresciuto dopo la morte dei genitori. Poi viene travolto da un furgone e finisce ingessato dalla testa ai piedi. Immobilità che lo obbliga a fermarsi e riflettere sulla sua vita.

Ed è un tuffo nel passato, negli anni Venti e Trenta, quando era giovane, alto, biondo, attraente, senza occupazione se non vivere agiatamente dell’eredità ricevuta, che però altri amministrano per lui. E’ allora che conosce la famosa scrittrice Elizabeth Rydall: lui all’epoca ha 20 anni, lei 12 di più. Si innamorano e si sposano; sarà un matrimonio riuscito e felice per oltre un decennio. Viaggiano in lungo e in largo per il mondo; lei scrivendo e lui battendo a macchina i manoscritti. Vivono in perfetta simbiosi e si adorano. Poi ci sarà un pericoloso aborto spontaneo che la porterà in punto di morte e il progressivo declino della salute di lei.

Un legame che ebbe anche zone d’ombra, come, sul finire della vita di Elizabeth, l’incontro di Stephen con Jane. E’ soprattutto attrazione fisica, ma una volta rimasto vedovo finisce per sposarla, pur se in preda a parecchi rimorsi.

Le pagine più riuscite sono quelle dedicate al legame con la prima moglie, donna matura e comprensiva che seppe superare anche una breve liaison di Stephen con un giovane innamorato di lui.

 

Helga Schubert “Alzarsi” -Fazi Editore- euro 18,00

Helga Shubert, nata a Berlino nel 1940, scrittrice, sceneggiatrice e psicoterapeuta ha vissuto nella Repubblica Democratica Tedesca fino al 1990, e in questo romanzo-memoir incrocia la sua storia personale con quella europea.

Ci sono la seconda guerra mondiale, Berlino e la costruzione del Muro che la trancia in due destini diversi, la Stasi, poi la riunificazione e un nuovo inizio con elezioni libere alle quali la Shubert ha collaborato.

Voce narrante dei tanti frammenti che costellano la sua vita è quella di Helga, e inizia con l’immagine di lei bambina che dondola su un’amaca nel giardino della nonna, nella Germania dell’Est nel 1947. Potrebbe essere una scena idilliaca se non fosse che la piccola è rimasta orfana del padre quando aveva appena un anno.

Il giovane soldato di 28 anni 3 mesi e 1 giorno era stato dilaniato sul Volga da una bomba a mano il 5 dicembre del 1941, ma la notizia sarà comunicata alla moglie solo un mese dopo. E’ il primo trauma devastante nella vita di Helga che quel padre non l’ha mai conosciuto. Di lui, che si era appena laureato in Giurisprudenza e aveva trovato lavoro come praticante presso la Corte d’Appello di Berlino, le restano i racconti di famiglia e le 184 lettere che dal fronte aveva scritto alla giovane compagna di studi diventata sua moglie, rimasta incinta poco prima che il marito fosse arruolato.

Il seguito è il racconto crudo e drammatico della vita della piccola alle prese con una madre fredda, indurita dalla vita, dalla vedovanza straziante, dalla povertà e dall’affanno di sopravvivere in tempo di guerra.

Una madre distante e di indole anaffettiva che la porta con sé durante la fuga durante la Seconda Guerra Mondiale. Pagine toccanti e oneste che assemblano le vicende personali della protagonista con i rivolgimenti storici.

In “Alzarsi”, che Helga riesce a scrivere solo dopo la madre della madre, ripercorre le tappe più significative della sua vita. Il suo crescere tra mille difficoltà nella DDR, dove studia e diventa psicoterapeuta, intellettuale brillante e acuta, controllata dalla temibile Stasi. Autrice di testi teatrali, programmi televisivi e sceneggiatrice, troverà un nuovo promettente inizio con la caduta del Muro, il fatidico 9 novembre 1989, che apre finalmente l’accesso alla libertà.

 

Pierre Lemaitre “Il silenzio e la collera” -Mondadori- euro 23,00

E’ il secondo volume del nuovo ciclo di romanzi che lo scrittore francese 72enne -Premio Goncourt nel 2013- dedica ai “trent’anni gloriosi” di crescita economica e sociale del secondo dopoguerra; che però lasciarono molti francesi in un angolo privo di prospettive. In tal senso l’opera di Lemaitre è anche un grande romanzo sociale che si presta a più registri di lettura e vanta l’accurata ricostruzione storica di una Francia perbenista e ipocrita, tra nostalgie pètainiste e “grandeur”.

Ritroviamo i protagonisti del precedente “Il gran mondo”, i figli Pellettier ormai lontani da Beirut, ognuno per la sua strada. Siamo nel 1952 e la giovane Helene Pellettier aspirante fotoreporter (amante del direttore del prestigioso giornale per cui lavora), viene inviata a Chevrigny. Paesino della provincia francese che sarà sommerso a breve per consentire l’inaugurazione di una diga. Il progetto è quello di spazzare via la vita rurale e lenta dei primi anni cinquanta della valle, per aprire l’accesso a modernità, benessere e progresso.

La distruzione del paese è la metafora portante del romanzo, l’acqua scorrendo dovrebbe sommergere e seppellire segreti e misteri. In realtà la trama converge su tre luoghi emblematici della storia: Parigi, Beirut e Chevrigny.

La narrazione si concentra sui misteri e i conflitti che attraversano le esistenze dei Pellettier.

Il patriarca Louis vive a Beirut e manda avanti con successo il saponificio che ha creato e fatto la sua fortuna; vuole che ogni anno a febbraio i figli, anche se ormai verso altri lidi, partecipino alla cerimonia in onore dell’apertura dell’azienda. La moglie Angèle, solo apparentemente sottomessa, è felice soprattutto di riunire la prole.

Il figlio maggiore Jean è il solito pingue indolente, soprannominato “Bouboule”, che ha investito tutti suoi averi per aprire un grande magazzino. Sempre sposato con l’orribile e perfida Geneviève che lo umilia continuamente; lui sfoga la sua rabbia e i suoi impulsi in modo decisamente borderline che scoprirete leggendo.

L’altro figlio Françoise invece è giornalista presso lo stesso giornale per cui lavora Helene…ed è innamorato della misteriosa Nine. Tutti mentono e ingarbugliano le loro vite nascondendo segreti indicibili. E Lemaitre è abilissimo nel seguire le complicate vite dei personaggi, mentre scrive un romanzo che è anche potente denuncia sociale.

Panariello e Masini sul palco del teatro Colosseo

Stagione 2023-2024

da settembre a maggio a Torino
il meglio della musica, spettacoli italiani e internazionali
danza, teatro, one man show, stand up comedy, danza, i musical più prestigiosi

Con il mese di settembre parte la Stagione 23-24 del Teatro Colosseo.L’anno appena trascorso ha visto il Teatro Colosseo al centro di un grandissimo successo: con quasi 80 titoli programmati e 119 giornate di apertura si sono registrate nella sala di Via Madama Cristina 155.533 presenze per una media di 1.307 spettatori a recita. Sono stati 826 gli artisti che, soli o in compagnie, hanno calcato il palcoscenico del Teatro, 750 i tecnici e le maestranze che hanno permesso loro di andare in scena. E per ogni sera di spettacolo 16 addetti del Teatro hanno aperto le porte, garantito l’accoglienza del pubblico, la biglietteria, la tecnica. In un anno così ricco sono stati 12.600 i caffè e quasi 15.500 le bottigliette d’acquaservite al pubblico! Il sito è stato visitato da 233.000 persone, per quasi 2.000.000 di impressions e ha oltre 52.000 utenti registrati, i profili social sono in costante crescita (oltre 20.000 fan su Facebook e oltre 4.000 su Instagram), così come il senso di una comunità che cresce intorno e dentro il Teatro.

Ecco allora che il Teatro diretto da Claudia Spoto annuncia per il 23-24 un cartellone già ricchissimo che promette di popolarsi ancora: a oggi sono cinquantanove i titoli da settembre a maggio con il meglio della musica, spettacoli italiani e internazionali, danza, teatro, one man show, stand up comedy, danza, i musical più prestigiosi.

“Presentiamo la nuova stagione. – dichiara Claudia Spoto – programmando artisti e titoli che speriamo possano essere, per il nostro pubblico, i prossimi compagni di nuove e appassionate avventure nello spettacolo dal vivo. Il Teatro Colosseo continua nella sua ricerca libera e senza vincoli di quanto di più interessante offra il panorama italiano e internazionale, sempre con un profondo senso di gratitudine per artisti e pubblico che, proprio fra queste mura e sul nostro palcoscenico, si sentono nel posto più giusto per essere sé stessi.”

Il cartellone si apre con un inedito duo fra comicità e grande musica: Giorgio Panariello e Marco Masini sono due grandi amici che hanno deciso di incontrarsi, e sfidarsi fra battute e canzoni, sullo stesso palcoscenico.

Martedì 19 settembre ore 21
GIORGIO PANARIELLO E MARCO MASINI
Lo strano incontro
POLTRONISSIMA 62,00 € | POLTRONA A 57,00 € | GALLERIA 47,00 € | GALLERIA B 42,00 €

Marco, Giorgio, come nasce questo spettacolo?
Giorgio: È da tempo che sentivo l’esigenza di inserire un po’ di musica nel mio nuovo show e sono contento che, fra tanti cantanti a cui ho chiesto di far parte del mio spettacolo, Marco sia stato l’unico che ha detto sì… E questo me lo ricorderò per tutta la vita.
Marco: Ringrazio Giorgio per aver accettato l’invito nel mio spettacolo, così mi dà modo di riposare la voce e fa due battute fra una canzone e l’altra.
Giorgio: Vorrei tranquillizzare il pubblico, in questo mio nuovo spettacolo, durante le canzoni di Marco, organizzerò una tombolata con ricchi premi.

Panariello VS Masini, lo strano incontro fra due amici che non hanno assolutamente niente in comune se non uno sguardo attento sulla vita con due modi diversi di raccontarla. Due artisti che, ognuno con la propria sensibilità, si incontrano e si scontrano in una sfida fra battute e canzoni per inaugurare la nuova stagione del Teatro Colosseo martedì 19 settembre.

I ricordi, l’amore, la morte, l’arte. Panariello e Masini con questo spettacolo, reduce dai successi di un’estate generosa di date prestigiose, portano in scena le gioie e i dolori della vita nello show che hanno intitolato “Lo strano incontro”. Ovvero una strana coppia che sul palcoscenico sa far divertire, ridere ma anche emozionare e riflettere. Forse allora il cantante Masini, tra un brano e l’altro, finirà per vestire i panni del comico mentre lo showman Panariello proverà a cimentarsi col canto, tra il serio e il faceto. Promettono un ritratto intimo e sincero di due amici, prima ancora che di due artisti. Immancabili i personaggi di Panariello (da Mario il Bagnino a Naomo, da Silvano al pr di Orbetello), alternati ai brani più conosciuti di Masini come “Cenerentola innamorata”, “T’innamorerai”, “L’uomo volante” e “Le ragazze serie”. E poi in scaletta anche “Sarà per te”, un omaggio all’amico Francesco Nuti, scomparso a giugno.

Rock Jazz e dintorni a Torino. Morgan e l’Ukulele Turin Orchestra

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Lunedì. Al Cafè Des Arts suona il trio del chitarrista Luks Russo.

Martedì. Al Blah Blah si esibiscono i Downtown Boys. Al teatro Colosseo ad aprire la nuova stagione arriva Marco Masini in coppia con Giorgio Panariello.

Mercoledì. A Nichelino in piazza per la festa patronale è di scena Cristina D’Avena. Al Blah Blah suona il gruppo punk A Giant Dog.

Giovedì. All’Hiroshima Mon Amour si esibiscono i God Is An Astronaut. Al Massimo Midori Takada sonorizza le immagini di “Japan On Film”. A San Pietro in Vincoli per il “Festival delle Migrazioni”, Domenico Castaldo con il percussionista Ady Thioune, presenta “Drums Dreams”.

Venerdì. Al Castello Visconteo di Novara l’Ukuele Turin Orchestra esegue “The Dark Side of The Moon” dei Pink Floyd. Alle Gallerie d’Italia inaugurazione della seconda edizione del festival “To Listen To “con la The Orchestra Of Futurist Noise diretta da Luciano Chessa.

Sabato. A Gozzano il trio del sassofonista Francesco Bearzatti rilegge in chiave jazz la musica dei Led Zeppelin. Alle Gallerie d’Italia si esibiscono gli Esecutori di Metallo con il dj Balli.

Domenica. Chiusura per il “Festival delle Migrazioni” a San Pietro in Vincoli con l’esibizione dei Bandaradan. All’Hiroshima sono di scena Lepre e Makepop. Per “To Listen To” alle Gallerie d’Italia performance di Nicholas Remondino. Al Lambic concerto e cena con Morgan.

Pier Luigi Fuggetta

“I mondi di Mario Lattes #2” nel centenario della nascita

Proseguono alla “Fondazione Bottari Lattes” le celebrazioni dell’eclettico e “visionario” artista torinese

Fino al 3 dicembre

Monforte d’Alba (Cuneo)

Le tante ombre. “Busti” senza volto, neri e tormentati, presagi di terrifiche ambiguità. Le inquietanti oscurità e le smarrite luci. Luci di rossi e gialli, pur intensi, graffiati da segni e memorie che bruciano immagini e anima, cui l’artista affida il compito di inquadrare il dramma de “L’incendio del Regio” (olio su carta intelata del 1983) o di “nudi” indefiniti e contorti (citazione dal viennese Schiele) e “nature morte” fatte di oscure presenze, concreti riflessi di incubi che rincorrono la vita senza mai dare né darsi pace. Eccoci ancora immersi nei “mondi di Lattes” e l’accesso ci pone, come sempre, di fronte alle consuete insidie. “Occorre adeguarsi alle sue luci e alle sue ombre, intuire l’indefinito pur sapendo che esiste un lato oscuro che non può disvelarsi”: così scriveva, a commento di una recente retrospettiva dedicata a Mario Lattes (Torino, 1923 – 2001) – pittore, scrittore, editore e personaggio di spicco nel mondo culturale piemontese, e non solo, del secondo dopoguerra – l’incisore e critico d’arte Vincenzo Gatti, al quale ancora è affidata la curatela de “I mondi di Mario Lattes #2”, realizzata dalla “Fondazione Bottari Lattes”fino al prossimo 3 dicembre, nella sede di via Marconi 16, a Monforte d’Alba. Mostra che si inserisce all’interno delle celebrazioni organizzate per i cento anni dalla nascita dell’artista e che vedono la “Fondazione” e la sua Presidente, Caterina Bottari Lattes, impegnata ormai da mesi in svariate iniziative. La più recente una mostra di grande successo (“Mario Lattes. Teatri della memoria”) tenutasi fino allo scorso maggio alla “Reggia di Venaria” e prima ancora un’altra anticipatrice retrospettiva (“I mondi di Mario Lattes #1”) ospitata, fino a fine gennaio, sempre nelle sale della “Fondazione” di Monforte d’Alba. Oggi sono oltre quaranta, tra cui diverse raramente esposte in pubblico e alcune di recente acquisizione, le opere di Lattes presenti in mostra e datate tra gli anni ’50 e i primi anni ‘90. A coprire cronologicamente l’intera attività artistica del pittore, troviamo anche un buon numero di dipinti precedentemente separati per vicende collezionistiche e ora riuniti e posti in dialogo con quelli già presenti in parete. Il “mondo” di Lattes è un mondo che intriga. Che ti inquieta, senza mai respingerti. In cui, anzi, non puoi “non entrare”. E ciò che più ti spinge a “capirlo”, a “decodificarlo” è proprio quella sorta di “dark side”, di “lato oscuro” che vibra anche nei contesti di più semplice e consueta quotidianità. E’ quella sottile, onnipresente malinconia, quell’“epico senso dell’inconcludenza umana”, forse propriamente legata (anche nei suoi romanzi e racconti pubblicati fra il ’59 e l’85) alle sue radici e alla consapevolezza della propria “frammentata identità ebraica”. Scrive Vincenzo Gatti: “Molti sono i mondi di Mario Lattes, e misteriosi. Con disincantata franchezza si muove tra diverse dimensioni, com’è ovvio per un intellettuale dalla sensibilità fittamente diramata tra parola e immagine, e giustamente insofferente a stringere l’attitudine creativa in schemi artificiosi e convenzionali categorie. Meglio affidarsi, per le immagini, a una singolare e personalissima interpretazione, intrisa di umori visionari (le suggestioni simboliste e surrealiste affiorano, ma quasi velate da una sottile ironia) in un contesto tutto mentale dove la stessa tecnica esecutiva, costantemente inventata e stravolta con indifferenza accostando materiali e procedimenti eterodossi, contribuisce a evocare, piuttosto che a svelare”. E allora ben scriveva anche Marco Vallora nel 2008, in occasione di un’ampia retrospettiva dedicata all’artista dall’“Archivio di Stato” di Torino: “ Mario Lattes è sempre là dove non te lo attendi”. Sfuggente. Espressionista, sì. Surrealista e simbolista, sì. Ma sempre “cavallo solitario”. Anima insofferente ai “recinti”. Vicino a Schiele e a Soutine. Ma libero a inventarsi segni e colori. Libero di cantare dolori, malinconie, ironiche provocazioni, voglie di solitudine e cascate di amara “memoria”. Diceva lui stesso: “I ricordi sono cicatrici di memoria”. Così anche le “marionette”, i “teatrini”, le “teste”, gli “idoli” e i “manichini” (come i pasticcieri o i valletti o i chierichetti di Soutine) “sono icone – conclude Gatti – di un’individualità attonita, consapevoli delle inquietudini che da sempre pervadono l’animo umano … L’artista-profeta ci indica così un percorso e ci invita a riconoscere i nostri fantasmi per esorcizzarli attraverso la fatica di vivere e guadagnare la nostra esistenza giorno per giorno”.

Gianni Milani

“I mondi di Mario Lattes #2”

Fondazione Bottari Lattes”, via Marconi 16, Monforte d’Alba (Cuneo); tel. 0173789282 o www.fondazionebottarilattes.it

Fino al 3 dicembre

Orari: dal lun. al ven. 10/13; sab. e dom. 11/16,30

Nelle foto: “Senza titolo”, olio su tela, 1959; “L’incendio del Regio”, olio su carta intelata, 1983; “Natura morta”, tecnica mista su cartoncino,, s. d.; “Nudo”, tecnica mista su carta intelata, 1991.

 

De Wan e Petralia in mostra al Castello di Piea

Concomitante all’imminente Fashion Week una gara amichevole fra artisti verrà ospitata al castello di Piea d’Asti, già censito come area museale. Le opere di Roberto De Wan (in alto a destra) saranno qui in competizione con i quadri del Maestro Andrea Petralia (in alto a sinistra). Diplomato all’Accademia di Belle Arti a Catania e presso lo IED a Milano, quest’ultimo vince il Compasso d’Oro nel 1994 e si distingue in svariate esposizioni anche all’estero. Sostanzialmente Petralia rappresenta il poeta dell’immagine classica rivisitata dalla quale traspare la saggezza e la profondità del suo animo mediterraneo. De Wan frequenta invece lo studio del pittore surrealista Pontecorvo durante gli studi liceali a Torino dove si laurea in Scienze Politiche. Già docente presso l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e fashion designer, quest’anno il pittore vanta otto diverse esposizioni, fra le quali due personali presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino e la Galleria Lattuada di Milano. Le sue opere sono state in mostra anche a Palazzo Cusani e permangono al Museo Storico dell’Arma di Cavalleria di Pinerolo. Esponente di un’arte informale ma raffinata che secondo la critica di Angelo Mistrangelo rilancia la sfida del movimento CO.BR.A. con una potenza espressiva carica di spiritualità, Roberto De Wan racconta così il suo intimo vissuto, ricco di persone, di luoghi fantastici, di miti.

Mostra visitabile dalle ore 15,30 di Domenica 24 settembre sino al 15 ottobre. Ingresso gratuito. Per informazioni: contessadipiea@icloud.com

Al secondo piano del motel

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60

Management autogestito, ambienti di registrazione improvvisati, “basement” per le prove, 1 dollaro a copia, autoproduzione, dj delle radio amici, spese “extra” ridotte all’osso. Questa era quasi la regola tra le bands di teenagers del rock garage e psych/garage americano degli anni ‘60. Non c’era spazio per errori, dispendio di risorse, passi falsi; era necessario anche mantenere sempre vigile l’attenzione di fronte a talent scout sospetti o sedicenti “emissari” di questa o quella etichetta; nonostante la giovane età c’era bisogno di mantenere i piedi ben piantati a terra, evitare utopie e castelli in aria.

Tra le bands meteora che mantennero un profilo “ragionevole” e realistico si possono annoverare “The Satyrs”, formatisi nella primavera del 1968 nell’area di Haddon Heights (New Jersey), a circa 10 miglia a sud-est di Philadelphia (PA). I componenti erano pressoché tutti quanti residenti in un raggio piuttosto ristretto: Craig Morrell (V, b), Mike Doerr (V, batt), Bob Agnew (chit), Kenny Reibel (org), Andy Madajewski (batt, perc) e il “basement” della famiglia Reibel era il luogo abituale delle prove “domestiche” della compagine. Ovviamente il management era autogestito, con il solo appoggio esterno di un amico con agganci in alcune radio della zona; tutto era rigorosamente autoprodotto, senza spese extra di nessun tipo, soppesando bene qualsiasi occasione ed opportunità, “cum grano salis”. Grazie alla programmazione favorevole di radio locali tra cui WIBG e WFIL, il “sound” della band (con influenze specialmente da The Doors e ? and The Mysterians) divenne familiare specialmente nel giro dei teen clubs e dei licei dell’area (Camden, Deptford, Voorhees, Moorestown, Woodbury); va da sé che le feste di “high school” fossero il pane quotidiano delle bands di qualsiasi angolo degli USA e “The Satyrs” si fecero le ossa in più occasioni proprio in questi contesti. I buoni agganci nelle radio e le congiunture favorevoli tra “Battles of the Bands” (Cherry Hill) e “opening” diedero la possibilità della registrazione dell’unico 45 giri prodotto: “Yesterday’s Hero” [Morrell – Williams] (2668; side B: “Marie” [Doerr – Morrell]), con etichetta Spectrum Records di Greenville [SC]. Qui va precisato che le condizioni di registrazione furono quasi estreme, dal momento che la band si trovò a incidere al secondo piano di un motel sull’Admiral Wilson Boulevard di Camden, con la possibilità di “centrare” un’unica presa di suono e con mezzi di mixaggio parecchio ridotti. La stampa dei 45 giri fu a carico della band ad 1 dollaro a pezzo (400 dollari il prezzo totale) e con incombenze di distribuzione completamente a carico del gruppo. Ma la buona volontà di tutti e l’entusiasmo spensierato ed incosciente fecero il resto e il disco rimase in programma nelle radio (anche alla WCAM di Camden) e ben radicato nella memoria degli appassionati di allora e dei decenni successivi. Ne è prova il fatto che “Yesterday’s Hero” entrò a far parte di numerose compilations degli anni 80, 90 e 2000, tra cui “Pebbles vol. 5”, “Acid Dreams Epitaph”, “The Ultimate Acid Dreams Collection”, “Psychedelic States. New Jersey vol. 1”, “Mindless Teenage Brainrot”, “1960s Fever Diamonds vol. 0009”. L’inevitabile ed ineluttabile chiamata in esercito (come in moltissimi altri casi) tarpò le ali alla band e “The Satyrs” si sciolsero entro l’estate 1969.

Gian Marchisio

Dal Monviso al Moncenisio, le Alpi in cartografia

“Dal Monviso al Moncenisio. Cartografia a stampa dal XVI al XVIII secolo: la mostra è un’occasione da non perdere per gli appassionati e gli studiosi di carte geografiche antiche. Una sessantina di mappe stampate tra il Cinquecento e il Settecento raccontano la storia delle Alpi Cozie e delle valli che si allungano tra il Monviso e il Moncenisio.
È un vero e proprio itinerario storico-geografico attraverso le Alpi Cozie quello che viene presentato alla Biblioteca Nazionale Universitaria, in piazza Carlo Alberto a Torino, fino all’8 ottobre. In vetrina sono esposti una sessantina di esemplari di cartografia a stampa tra quelli più significativi prodotti nei secoli presi in esame nella rassegna per mettere a fuoco un ampio territorio alpino teatro di importanti vicende militari, politiche e religiose. La prima significativa carta regionale a stampa del Piemonte è opera di Giacomo Gastaldi “Piamonte Nova Tavola”e la troviamo inserita nell’edizione veneziana della Geografia di Tolomeo del 1548 e più volte ristampata. L’area geografica alpina compresa tra il Monviso e il colle del Moncenisio e il suo ruolo di cerniera tra la pianura padana e le valli francesi ha rappresentato un elemento assai rilevante nel contesto storico europeo. I valichi del Moncenisio e del Monginevro hanno visto transitare lungo i secoli interi eserciti, gruppi armati, commercianti, pellegrini, pastori con il bestiame, contrabbandieri e ancora predicatori e migranti. La presenza in queste terre dei valdesi, minoranza religiosa fortemente radicata nelle valli pinerolesi, diventa ben presto motivo di contesa tra le potenze europee dell’epoca. C’è da ricordare che le prime rappresentazioni cartografiche del Piemonte compaiono più tardi rispetto ad altre regioni della penisola per la presenza sul terreno di vari eserciti stranieri. Sia l’occupazione di parte del Piemonte da parte dei francesi nel Cinquecento sia le guerre di religione rendono difficile per oltre mezzo secolo individuare confini certi in questi territori.
La mostra dà spazio anche al secolo d’oro della cartografia olandese con le officine locali che sfornano i primi grandi Atlanti nel Seicento, agli editori di mappe francesi, alle carte geografiche con le vallate valdesi per chiudere con il Piemonte e il Delfinato nella cartografia del XVII secolo. Al centro del salone espositivo campeggia il globo terrestre in oro, argento e metalli realizzato nel 1570 per Emanuele Filiberto di Savoia. La mostra, promossa dalla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, è aperta fino all’8 ottobre, dal lunedì al venerdì, dalle 10,00 alle 16.00
            Filippo Re