CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 204

Pietrina Oggianu: “Avrei voluto urlare”

Presentazione del volume autobiografico di Pietrina Oggianu dal titolo “Avrei voluto urlare”, edito da Edizioni del Faro, venerdì 26 maggio alle 19 nei locali di VolTo

 

Venerdì 26 maggio prossimo, alle ore 19, presso i locali di VolTo, in via Giolitti 21, verrà presentato il volume autobiografico di Pietrina Oggianu dal titolo “Avrei voluto urlare”, edito da Edizioni Del Faro.

La protagonista del romanzo, Pitty, viene ben descritta in poche righe in cui si afferma “Sorride come se nulla fosse e invece vorrebbe urlare”. Pitty, trasposizione letteraria di Pietrina, è ferita dall’indifferenza di chi le passa vicino e si chiede come sia possibile spiegare ai colleghi, agli increduli e a tutti coloro che ti circondano qualcosa che non vedi”.

E il ‘qualcosa’ è la fibromialgia, una malattia invisibile e per lo più sconosciuta e ignorata. Si tratta di un morbo che intimorisce e che viene rimosso con un gesto di fastidio, una malattia di cui qualcuno preferirebbe negarne l’esistenza.

La protagonista del racconto, Pitty, è sommersa da fibro fog e, a partire dal momento in cui le viene diagnosticata la malattia, la vita le cambia profondamente sia dal punto di vista dei rapporti umani sia professionali. Viene, infatti, a essere relegata in campo lavorativo in un archivio, quasi che avere la fibromialgia si debba trasformare in una condanna sociale e umana.

Pitty, ovvero Pietrina, è una donna di una tempra eccezionale, sempre pronta ad aiutare il prossimo, anche in situazioni non facili, come nel caso di quell’anziano che rischia di rimanere schiacciato da una scala mobile della metropolitana, in cui è scivolato.

Sfondo di molte vicende di Pitty è la città di Milano, in cui si trova a dover affrontare ritmi che non sono adatti a una persona affetta da fibromialgia. Le sue riflessioni fatte su una panchina, proprio a Milano, coinvolgono emotivamente il lettore e le sue considerazioni riguardano anche l’epoca del Covid 19, di cui l’autrice coglie gli aspetti più difficili e di spaesamento, presente anche tra i giovani. Il distanziamento fisico ha, nel periodo del Covid, accentuato la dipendenza dai computer e reso tutti, soprattutto i ragazzi, un po’ più soli.

La protagonista del racconto ricorda come tutto in lei si confonda, specialmente la notte, ma che, comunque, tra le persone affette da fibromialgia, si crei spesso una rete di solidarietà che rende anche meno difficoltoso il percorso per affrontare questa malattia, come nel caso del gruppo di donne che si è venuto a crearsi su Facebook.

Maggiore condivisione dei problemi legati all’affrontare quotidianamente la malattia rende i soggetti fibro fog più uniti e meno soli.

Mara Martellotta

 

 

Lacrime mute. Storie di donne contro la mafia

lunedì, 29 maggio 21.00

Polo del ‘900, via del Carmine 14
Sala ‘900

La Fondazione Donat-Cattin promuove lo spettacolo Lacrime mute. Storie di donne contro la mafia. Scritto e diretto da Marianna Musacchio e Benedetta Perego.

Con Claudia Bruno, Alessandra Caracciolo, Emanuela Morrone, Benedetta Perego, Claudia Serra e Eduardo Viviani.

In un’afosa Palermo senza tempo ha luogo una mostra fotografica di Letizia Battaglia. Nessuno, però, si presenta all’evento, e la fotografa si trova a interloquire con la donna che sta pulendo la sala, Rosa Balistreri. Le due donne si confrontano sulla loro città, sull’arte, sulla vita e sulla mafia. Una Letizia stanca e demotivata annuncia di voler lasciare la Sicilia. Nello svolgersi degli eventi, per ogni “giustificazione” che Letizia si dà per lasciare la città, assistiamo a un incontro. Sono momenti ancora senza tempo e senza luogo, durante i quali la fotografa si confronta con le storie e i racconti personali di donne straordinarie che prima e dopo di lei hanno lottato, ognuna a suo modo (col sangue del proprio sangue, con la divisa, con la fiducia), contro la mafia. Ogni incontro è accompagnato dalla chitarra e dalla voce di Rosa che, con il suo ruvido canto, le sostiene tutte. Letizia incontra Emanuela Loi, Felicia Impastato, Rita Atria, e grazie a ognuna delle loro testimonianze ritrova pian piano forza. Le storie di queste donne non sono storie felici, ma anche per loro, Letizia, rivedrà la sua posizione e la sua scelta di abbandonare la città.

Sarà presente Elena Ciccarello, Direttrice responsabile della rivista Lavialibera e Docente di Sociologia della devianza presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale.

Ingresso libero con prenotazione al link.

Quando la tv regalava “Una fetta di sorriso”

“Una fetta di sorriso” era la sigla finale che chiudeva a mezzanotte passata, ogni martedì sera, il “Bingoo”, la trasmissione televisiva di Renzo Villa in onda su Antenna 3 Lombardia, l’emittente che negli anni ’70 ha rivoluzionato l’etere. Ed è anche i titolo del libro di Cristiano Bussola che viene presentato, giovedì 25 maggio, alle ore 18, al “Caffè Roberto”, in via Garibaldi 30 a Torino, nell’ambito del “Salotto della Simo”, a cura della giornalista Simonetta Rho.

Ma chi era Renzo Villa? Si dice: se hai un sogno portalo avanti! Ed il “sognatore” Villa, sfidando il Monopolio Rai, riuscì, trascinatore com’era, ad ideare e costruire il suo “giocattolo”, un  palcoscenico, per realizzare il suo vero e proprio desiderio, quello di fare la televisione. E ci riuscì appieno, rivoluzionandola. Ispirandosi alla prima tv via cavo in Italia, la mitica TeleBiella, non fece nulla via cavo, ma inaugurò insieme all’amico Enzo Tortora, il 3 novembre 1977 Antenna 3 Lombardia.

Lo studio Uno di Antennatre: ospitava 1200 spettatori

Il 3 è un numero fatato, un numero che si ripete in questa affascinante storia, perché per l’occasione ci furono ben 3 sere di inaugurazione, tra Legnano e Castellanza, dove venne allestito un incredibile enorme capannone di 5.600 mq. con una capienza di pubblico da far accapponare la pelle, mille persone e passa, il più grande d’Europa! Per questo il grande Enzo Tortora, allora in rotta con la Rai, dichiarò ai giornali che il suo studio sarebbe stato grande come uno stadio. Da lì ed in quegli enormi spazi, ogni sera, per anni andarono in onda gli spettacoli in diretta: “Il Pomofiore” con Lucio Flauto, “La Bustarella” con Ettore Andenna, il Bingoo e tanti altri, tutti ideati e realizzati da grandi personaggi che hanno fatto la storia dello spettacolo e della televisione. I tecnici sapevano a che ora si iniziava ma non quando si finiva… Gli sponsor facevano a gara per accaparrarsi gli spazi pubblicitari e le varie sponsorizzazioni dei programmi, ed anche per questo le dirette erano lunghissime, con la partecipazione del pubblico in studio e da casa attraverso le prime teefonate in diretta. Una leggendaria avventura, da scoprire o ripercorrere, raccontata nel libro di Cristiano Bussola “Una fetta di sorriso”, edito da Paola Caramella Edizioni,  da oltre 40 dei protagonisti di quel “magico” periodo che alcuni di voi ricorderanno di certo.

Igino Macagno

Naufraghi metropolitani, tra prosa e fotografia

 Il nuovo romanzo di Tea Zanetti edito da Paola Caramella editrice

 

“Naufraghi metropolitani”, romanzo scritto da Tea Zanetti, abile fotografa qui nella sua veste di abile autrice, è stato presentato al Salone del Libro di Torino sabato 20 maggio scorso. Edito da Paola Caramella editrice, è qualcosa di più di un semplice romanzo; si tratta, infatti, di un viaggio intimistico in cui Tea conduce il lettore alla conoscenza del suo universo, anche al di là delle rivisitazioni del suo passato.

“La lettura di questo libro rappresenta un’esperienza caleidoscopica – afferma Stefania Tozzi nella presentazione del libro – Man mano che si avanza nella lettura cambia il modo di narrare e di attraversare le pagine da parte dell’autrice e, conseguentemente, si modifica anche la modalità da parte del lettore di porsi di fronte al romanzo.

Molti sono i registri stilistici di cui si serve la narratrice e le tecniche di scrittura che mette in atto. Dalle pagine del romanzo emergono gli aspetti spiritosi di Tea, che è onesta con se stessa al punto di non rinunciare mai alla sua più completa autenticità”.

Tea è una donna che ha lottato contro gli atteggiamenti che si scontrano con la libertà del libero pensiero, tanto da affermare di voler “fare di testa sua”, anche sul piano religioso, in cui in famiglia divergono le opinioni, essendo il padre ateo.

Nelle pagine del romanzo si riflette la purezza compositiva di Tea fotografa, tanto che “Naufraghi metropolitani” risulta il connubio di immagini oniriche che rimandano alla fotografia, di cui sono testimoni dell’originalità della composizione e della lucidità del linguaggio.

Passi di puro intimismo sono quelli che caratterizzano le prime pagine del romanzo, in cui Tea descrive molto efficacemente un incontro amoroso affermando “Potrei dormire nuda solo al tuo fianco. È necessaria una fiducia totale per esporsi così. Non si tratta solo di levare ogni barriera allo sguardo dell’altro sul proprio corpo. In più c’è la rinuncia alla vigilanza. Essere due volte esposti richiede fiducia assoluta”.

Sempre nelle prime pagine del romanzo l’autrice ripercorre i difficili tempi del Covid, ritmati da gesti quotidiani sempre eguali, come la sveglia presto e la colazione, la telefonata alla mamma ultraottantenne che ha vissuto con un pizzico di ironia la quarantena da sola, quindi le fotografie, le pulizie di casa e l’allenamento.

Il romanzo contiene anche pagine molto efficaci di descrizione di Torino, che l’autrice ritiene differente dal resto del Piemonte. La definisce una città “austera, elegante, con strade ampie e piazze ariose”. Con molta precisione descrive al personaggio con il quale dialoga, quindi anche al lettore, la bellezza di via Po, che scende verso il fiume e che grazie alla volontà e capriccio di un re, ha visto costruire i suoi portici via via più alti man mano che ci si avvicinava al fiume. Altrettanto efficace la descrizione dei caffè storici torinesi, da Florio a Pepino, da Baratti a Mulassano, passando per Platti e il Bicerin, dove, in piazza della Consolata, si custodisce l’autentica ricetta del Bicerin che tanto amava Cavour (un terzo di cioccolata amara, un terzo di caffè e un terzo di fiordilatte) o il caffè Elena, dove amava sostare Cesare Pavese. E così descrive il fascino dei cortili nascosti all’interno di austeri palazzi, definiti “autentici gioielli segreti in cui amo intrufolarmi con gran faccia tosta”.

Le persone di Torino, secondo l’autrice, assomigliano alla città, grigie a prima vista, ma di un grigio perla, che fa emergere, a una conoscenza più approfondita, la loro ironia, fantasia e bizzarria.

I torinesi non sono immediatamente amici di tutti, ma chi viene a Torino, in un modo o nell’altro, trova il suo posto.

I passi in prosa si alternano anche a poesie, di cui una molto efficace si intitola “Cimitero di Azul”, un inno alla solitudine ma anche all’angoscia che essa comporta. Quindi alcune pagine sono dedicate al Covid, in cui l’autrice narra la sua disavventura per aver contratto il Covid 19, con pacatezza e un pizzico di ironia.

Molto toccanti le pagine che riguardano il ricordo dei nonni materni, che si cristallizza nell’immagine di loro due abbracciati, mentre li guardavano andare via, verso le vacanze estive ai primi di gennaio. Tra di loro i nonni parlavano in spagnolo, in castellano rioplatense, che è una variante addolcita nella pronuncia che si parla in Argentina. Proprio in Argentina Tea compierà un viaggio iniziatico che la cambierà profondamente.

Le pagine delle poesie si accompagnano ad altre in cui i neologismi si cristallizzano e fanno centro. Parole semplici impreziosite da una acuta indagine psicologica.

Il fil rouge che percorre ogni pagina, ogni virgola del libro rimane la libertà, sognata, desiderata, agognata, cercata e vissuta pienamente.

Mara Martellotta

Tre sorelle nei deserti soffocanti dell’Oklaoma

Agosto a Osage County” al Carignano sino al 4 giugno

Dell’ormai sessantenne Tracy Letts – attore, sceneggiatore e drammaturgo vincitore nel 2008 del Pulitzer e del Tony Award per la migliore opera teatrale – lo Stabile torinese, con la regia di Filippo Dini, propone in questo finale di stagione (repliche sino al 4 giugno al Carignano: andate a godervelo) “Agosto a Osage County”, già approdato sullo schermo mattatrici Streep e Julia Roberts, per l’ente di casa nostra penultima tappa di un calendario felice di produzioni e coproduzioni (Miller, Pirandello uscito con divertimento dai vecchi binari, la resurrezione di Raffaele La Capria con il suo “Ferito a morte”, i miei soliti dubbi su Kriszta Székely, la potenza tirata a sorte sera dopo sera di “Maria Stuarda”: in attesa di “Lazarus” a riproporre il mito di David Bowie).

È un groviglio di vipere quella famiglia Weston, tre generazioni che si urlano, si azzuffano e si sbranano, uomini e donne a buttarsi in faccia ricordi acidi, le speranze e le delusioni, i rimorsi che ognuno s’è tenuto dentro per anni, le frustrazioni, tutta la violenza e la rabbia e l’aggressività, le parole che non si sono mai dette e che a un certo punto della vita esplodono, coinvolgendo il passato e il presente soprattutto, e chiudendo per sempre la porta in faccia al futuro. Al termine della tragedia, rimarrà soltanto Violet a sbattersi attraverso la casa come una farfalla impazzita: Dini, nella sue note di regia, cita il mondo di Cecov; certo, qui sembrano restare come sospese Violet e la figlia Barbara, nello “Zio Vanja” Sonia incitava ad andare avanti, a lavorare, a vivere. Il mondo di oggi è più crudele, Barbara fugge e chissà se tornerà, l’ultima nostra immagine è Violet, con tutto il suo terrore, come il vecchio Firs del “Giardino” abbandonato e rinchiuso dopo la partenza di ognuno. C’è stato un periodo in quella famiglia che si potrebbe definire con facilità felice, l’esistenza del capofamiglia Beverly, il ragazzo povero che s’è fatto poeta di successo, vincitore di tanti premi. Poi qualcosa s’è rotto. C’è solo aridità e solitudine, come quel deserto che circonda la casa laggiù nell’Oklaoma, in quel territorio rubato ai nativi, c’è soltanto un emblematico caldo soffocante in quelle stanze, sono finiti, oggi, se mai hanno trovato posto in quelle vite, i tentativi di dialogo e di sghemba riconciliazione. Si urla, si corre da una parte all’altra, si alzano le mani, ci si butta a terra, la lingua non ha freno, ogni cosa s’inacidisce e marcisce. È arrivata l’ora di fare i conti, di guardare in faccia quella famiglia disfunzionale, di gridare ai quattro venti quello che finora non s’è mai detto. Arriva il giorno e l’occasione, è il suicidio di Beverly, che s’è allontanato da una vita che non è più sua, dalle sue poesie.

S’abbrutisce quella famiglia come Violet, la madre e la vedova, come quel suo cancro in bocca che le fa ingurgitare manciate di pasticche e nuvole di fumo, caparbia, senza un attimo di serenità e di dolcezza, che gioca con la cattiveria verso chiunque le capiti a tiro, che spruzza secche risate e ironia quanto basta, lasciando intravedere nella sua ferocia quel che di grottesco stagni in quel groviglio, tra quelle stanze, tra gli affetti che forse un tempo vi hanno trovato un qualche spazio, una donna che della casa e dei suoi ospiti sa tutto, a cui nulla è mai sfuggito. S’abbrutiscono le figlie, Barbara soprattutto, arrivata per il funerale di papà con marito imbelle e figlia vegetariana e ribelle al seguito, lei in odore di chi vuole senza mezzi termini prendere in mano le redini del comando; e Karen, in un’altalena continua di ocaggine e disperazione, e Ivy, che s’è sempre vista scarsamente apprezzata dalla famiglia e sempre più isolata e che ora pare aver trovato un affetto verso il cugino Charlie piccolo se non arrivassero le parole della zia Mattie con la loro crudele verità. Una famiglia, che si potrebbe comodamente definire al femminile, considerato il peso nullo degli uomini, una famiglia dissestata e incancrenita che Letts traccia con una maestria feroce e singolarissima: e durante lo spettacolo tornano inevitabilmente alla mente certi momenti del film, magari qui negati, ma poi ti accorgi che la regia di Filippo Dini ha fatto assai di più, ha scavato, ha rintracciato momenti e battute e leggerezze che descrivono ancor meglio quel vociante gruppo, ha saputo tirar fuori da ogni personaggio le tante sfumature, le parole che ti arrivano chiare e disturbanti, i piccoli come i grandi gesti, quella nube da tragedia greca che s’allarga su tutto e su tutti, con le scene di Gregorio Zurla ha mosso l’azione (direi, ricordandosi del cinema) con pareti movibili e con ambienti parcellizzati che spezzano ogni immobilità.

Una commedia triste, di ingombrante tristezza, che è non soltanto una bomba a orologeria, fatta di deflagrazioni ad ogni istante, ma altresì un meccanismo perfetto che avvince lo spettatore, fatto di un dialogo sporco e di azioni malconce, di entrate e di uscite definite al millimetro, di una vita vera in cui certi grovigli di oggi potrebbero forse riconoscersi. Dini ha avuto con sé nel compito difficile di bisturizzare persone e cose un gruppo d’attori davvero eccezionali. Lasciati nell’ombra, ma certo non per personali difetti, i signori uomini, ritagliato per sé il ruolo del molliccio Bill, ha dato fiato alle trombe con le sue attrici. Ha trovato in Giuliana De Sio una Violet che è una tigre malata, che cerca di appigliarsi agli ultimi sprazzi di vita con una grinta e una bravura come raramente si vedono nello spettacolo, aspra, incendiaria, una zampata dietro l’altra; Manuela Mandracchia, che è Barbara e che si ritaglia delle intere scene davvero da grande attrice, la sempre incisiva Orietta Notari, pronta a catturare la scena al momento giusto. Come le giovani Stefania Medri, Valeria Angelozzi (una bella scoperta) e Caterina Tieghi. Non ultima Valentina Spaletta Tavella, il coro all’interno della tragedia, a cui è affidato l’abbraccio e la protezione finali: “è questo il modo in cui finisce il mondo / non già uno schianto ma con un lamento”, dice da “Gli uomini vuoti” di Eliot. Un successo.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma. La Compagnia con al centro in primo piano Giuliana De Sio; Manuela Mandracchia e Giuliana De Sio; da sinistra Filippo Dini, Giuliana De Sio, Orietta Notari, Manuela Mandracchia e Andrea De Casa

Art FLaw dove l’arte si sposa con il collezionismo e la divulgazione artistica

Nasce un nuovo progetto artistico 

 

Art FLaw è il nome del progetto conduttore sia della mostra di arte contemporanea promossa da FolLaw Avvocati a Torino, studio legale multidisciplinare operativo nel settore del diritto dell’arte, sia il titolo della mostra di arte contemporanea da loro promossa.

Legalità e diritto, unito alla passione dell’Avvocato Maurizio Marangon, collezionista, amante dell’arte e studioso dello stesso mercato, sono sfociate e confluite in un progetto di divulgazione artistica.

Le opere di questa prima edizione di Art FLaw sono state selezionate dalla curatrice Giulia Turati e sono di altissimo livello, avendo la peculiarità, che taluni forse considerano un difetto, di essere nuove.

Presentano il pregio della fatalità verso un futuro promettente e quotazioni calibrate rispetto al percorso di Art Market intrapreso dagli autori.

Con Art FLaw diventa fruibile l’arte, rimane intatta, pulita e non speculativa.

Pittura, grafica, scultura e installazione sono i linguaggi interpretati da Alma Gianarro, nella pittura contemporanea e grafica, Bianca Mancin artista grafica e Graphic Designer editor di Art FLaw Massimiliano Salvi, scultore, pittore, titolare e creatore delle opere all’interno del laboratorio d’ingegno “Lo Yeti felice”, e Orma il Viandante, alias Manuele Mannisi, street artist unico nel suo stile per la realizzazione di opere da esposizione oltre che di murales, Sara Francesca Molinari, artista multidisciplinare e accademica, pittura, performance e installazione, e 7 Apo, Fabio Desantis, pittore con la peculiarità di realizzare tele artistiche con la resina per pavimenti spatolata.

Le opere sono presentate al vernissage da esperti d’arte come la dottoressa Vanessa Carioggia, la professoressa Patrizia Scaglia e hanno tra i loro sponsor Italia Arte, Museo MIIT, Madama srl, Howden- Assiteca, lo Studio Srl, 4 house, Sax the bit e lo Yeti Felice Laboratorio.

La mostra viene presentata il 22 maggio e sarà visitabile, previo appuntamento, presso la sede FolLaw Avvocati, tramite gli artisti stessi e attraverso gli avvocati Marangon, Federica Cresto e la curatrice d’arte Giulia Turati.

MARA MARTELLOTTA

San Paolo Solbrito: il ritorno del Crociato

Un tuffo nel Medioevo nel weekend a San Paolo Solbrito. Il cavaliere sta per tornare a casa dopo una lunga assenza.

Messaggeri, araldi e giullari si recano nelle borgate del paese per annunciare il ritorno in patria del nobile Crociato. Sono i giorni che precedono la festa a cui il paese lavora tutto l’anno provando più volte le scene in costume. San Paolo Solbrito, nell’astigiano, 35 chilometri da Torino, è pronto ad accogliere calorosamente Andrea Riccio, Signore di Solbrito, che apparteneva ad un’antica famiglia nobile di Asti, proprietaria del castello. Come cavaliere templare prese parte alla IV Crociata nel 1204 a Costantinopoli. È lui il personaggio principale della rievocazione storica che si svolgerà sabato sera 27 maggio e domenica 28 per iniziativa del Gruppo storico San Paolo Solbrito. Il Medioevo torna in questo piccolo paese di 1200 abitanti con un banchetto medioevale (sabato sera) che sarà seguito nella giornata di domenica da una solenne cerimonia religiosa (ore 9,30) e dal tradizionale corteo storico (ore 17.00) a cui partecipano nobili e popolani. Vestito da cavaliere templare Andrea Riccio farà il suo ingresso in paese e si recherà in chiesa per ringraziare Dio dello scampato pericolo.
La cena inizierà con l’arrivo del crociato. Un banchetto abbondante, con ricette del Duecento, verrà consumato alla presenza dei personaggi più influenti dell’aristocrazia astese dell’epoca. Poco lontano, nella “taverna della plebe”, il popolo festeggerà il ritorno del Crociato. La sfilata del corteo storico si terrà domenica per le vie del paese partendo dai due antichi castelli di Solbrito e di San Paolo con dame e cavalieri e un centinaio di figuranti divisi in gruppi, con la propria corte e la servitù. Non mancheranno sbandieratori e spadonari che si esibiranno al termine della sfilata nella piazza principale. La festa consolerà il cavaliere dalle fatiche della Quarta Crociata, ahimè, una carneficina terribile nella capitale imperiale sul Bosforo, che non vide scontrarsi cristiani e musulmani ma cristiani contro cristiani in un orrendo bagno di sangue. È la storia del sacco di Costantinopoli che cadde non sotto il segno della Mezzaluna ma della croce latina. Il templare astigiano Andrea Riccio fu uno dei tanti crociati che diedero l’assalto alle mura di Bisanzio come si vede nei grandi quadri di Tintoretto e di Palma il Giovane. Ma che la festa continui. Domenica mattina il nobile cavaliere arriverà in paese accompagnato da signorie e sbandieratori. Dopo la Messa gli onori al Crociato e la presentazione di una copia della Sindone.        Filippo Re

Medioevo e Templari in Piemonte

C’è la Dama del Lingotto, ci sono le prime monete dei barbari invasori, c’è Carlo Magno che attraversa la bassa valle di Susa, ci sono i grandi artisti che illustrano il Piemonte medievale e soprattutto spicca la storia dei Templari nella nostra regione con la loro presenza a Saliceto, nel cuneese, a Moncalieri, Chieri, Casale, Asti, Alessandria.

“I Templari in qualche modo c’entrano sempre” fa dire Umberto Eco a un personaggio di un suo romanzo. In effetti, a nove secoli di distanza dalla fondazione dell’Ordine del Tempio, quei Cavalieri con il manto bianco su cui svetta una grande croce rossa, rappresentati magistralmente nelle incisioni di Gustave Dorè, restano il più importante Ordine religioso-militare. Nel nuovo libro di Pierluigi Baima Bollone “Medioevo e Templari in Piemonte” edito da Priuli & Verlucca, c’è gran parte della storia del Piemonte, dai Goti ai Franchi e ai Longobardi fino al Novecento. Professore emerito di Medicina legale all’Università di Torino, autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sulla Sindone, Baima Bollone indaga sulla formazione dell’ambiente medioevale nei territori piemontesi e sulla presenza dell’Ordine templare nel nord-ovest della penisola e in particolare nella nostra regione con le tracce monumentali che ne sono rimaste e ne documentano l’esistenza. Le pagine del suo volume sono una cavalcata impetuosa attraverso i secoli, al fianco del re dei Franchi e di tanti altri personaggi che hanno fatto la storia della terra subalpina, come la nobildonna longobarda del VI secolo sepolta nella zona del Lingotto insieme ai suoi monili e ad altri preziosi reperti, ritrovata nel 1910 durante lo scavo di un pozzo in via Nizza a tre metri di profondità, oppure i primi vescovi di Torino Massimo e Landolfo, i barbari e i saraceni e tanti altri ancora. Accanto a loro si stagliano i grandi artisti che illustrarono il Piemonte medioevale con le celebri abbazie della Novalesa e di San Benigno di Fruttuaria, la canonica di Santa Maria di Vezzolano, l’Abbadia di Stura, la Sacra di San Michele e il santuario della Consolata con il campanile eretto dai monaci della Novalesa fuggiti a Torino all’arrivo dei mori. Un intero capitolo è dedicato all’iconografia del Piemonte medioevale con opere e immagini di Pelagio Palagi e Alfredo d’Andrade, il Bellotto, nipote del Canaletto, e Pietro Palmieri, Bagetti e Cignaroli, Clemente Rovere e Francesco Gonin. Tra le curiosità del libro, la scoperta che alcune persone residenti nelle nostre valli alpine hanno un’origine araba. Dopo essere stati cacciati dalle valli piemontesi molti saraceni invasori si sono integrati nelle popolazioni locali. Moderne ricerche genetiche, spiega Baima Bollone, provano la persistenza di Dna nordafricano in soggetti nati nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Spagna. Il castello templare della Rotta a Moncalieri? Tutte fake news, secondo l’autore, le presunte apparizioni notturne di fantasmi nel maniero. Vestiti i panni del detective privato Baima Bollone ha constatato di persona che si tratta semplicemente dei fari di auto e camion che viaggiano sulla vicina autostrada. “Ho sorvolato anche l’edificio per una ricognizione dall’alto e il pessimo stato del tetto pareva facilitare i giochi di luce”. Chapeau! C’è poi un piccolo gioiello in val Bormida, nel paese di Saliceto. Memorie templari emergono nella locale chiesa rinascimentale di San Lorenzo con un rarissimo Bafometto, un idolo pagano della cui adorazione furono accusati e condannati i Templari. Una presenza che ricorda la cappella di Rosslyn in Scozia. La chiesa di Saliceto può essere definita a tutti gli effetti una piccola Rosslyn piemontese. “Resta da chiarire, annota lo studioso torinese, come nel Quattrocento, quindi ben oltre la soppressione dell’Ordine, un cardinale potesse volere sulla facciata di una chiesa una simbologia templare. La domanda resta senza risposta”.
Filippo Re

Sempre Verdi con le voci del Trio Lirico del Teatro Regio di Torino

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Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/c, Torino

Mercoledì 24 maggio, ore 21.30

Paola Lopopolo, soprano, Andrea Antognetti, tenore e Marco Tognozzi, baritono, le voci del Trio Lirico del Teatro Regio di Torino, accompagnati al pianoforte dal M° Andrea Turchetto presentano mercoledì 24 in Osteria Rabezzana “Sempre Verdi! (Opere, non fiori!)” arie, romanze, duetti, terzetti e cori tratti dalle più belle opere di Giuseppe Verdi: La Traviata, Rigoletto, Don Carlo, Otello, Un Ballo in Maschera, Giovanna d’Arco e, per finire, l’immancabile Nabucco.

Mercoledì 24 maggio

Sempre Verdi! (Opere, non fiori!)

Paola Lopopolo, soprano

Andrea Antognetti, tenore

Marco Tognozzi, baritono

Maestro accompagnatore: Andrea Turchetto

Ora di inizio: 21.30

Ingresso:

15 euro (con calice di vino e dolce) – 10 euro (prezzo riservato a chi cena)

Possibilità di cenare prima del concerto con il menù alla carta

Info e prenotazioni

Web: www.osteriarabezzana.it

Tel: 011.543070 – E-mail: info@osteriarabezzana.it

Torino Soprannaturale. Tra sensitivi, faccendieri della magia e il Santone delle Vallette

«Torino Soprannaturale. Tra sensitivi, faccendieri della magia e il Santone delle Vallette» (Intermedia Edizioni), scritto dai torinesi Andrea Biscàro, saggista, e Livio Cepollina, giornalista e autore radiotelevisivo, consente l’accesso a una Camera del Tempo squisitamente subalpina, dagli anni Trenta ai Novanta del Novecento, con atmosfere in bilico tra realtà e fascinazione. Un percorso insolito lungo vie, portici, appartamenti, personaggi noti e meno noti legati alla magia, alla chiromanzia, alla sensitività. Il tutto condito con qualche storiella “esoterica” collaterale, non di rado ai limiti della legalità, in grado di trasmetterci profumi e battiti d’antan.

In questa inedita corsa nelle notti torinesi, l’accenno a Rol è intenzionalmente fugace, tant’è la sua fama all’ombra della Mole. Di Rol si è detto e scritto ampiamente. In «Torino Soprannaturale»è invece presente il resto di una Torino notturna – in penombra anche quando il sole è allo zenit – che gli autori hanno recuperatoda vecchi e polverosi articoli di giornale e da una serie di interviste esclusive ai protagonisti di quegli anni.

I Lettori scopriranno che un certo Carlo Bustico è stato fra noi, sui divani della buona società subalpina in cerca di mistero. Su di lui poco sappiamo, malgrado le tracce recuperate qua e là dal baule del Tempo, incluso il rapporto intercorrente tra il nostro e la Torino occulta dagli anni Quaranta ai Settanta, attirato com’era dal mondo salottiero che strizzava l’occhio all’esoterismo.

Dopo l’incontro iniziale con Bustico, il viaggio prosegue con una serie di personaggi un tempo noti e sui quali non può calare il sipario: Germana Grosso, Giorgio Pontiglio, Maria Pia Daleth, Luciano Proverbio, il pittore Alessandri, Giuseppe Trappo e altri ancora.

Ciò che emerge da questo saggio sulla Torino esoterica del tempo che fu, va in controtendenza con l’immagine stereotipata che vuole il capoluogo subalpino come opaco. Torino è stata una fucina di umanità tutt’altro che fredda, men che meno grigia seppur caratterizzata da tratti sfuggenti che l’hanno resa una città crepuscolare che sapeva sorprendere senza far baccano.

In chiusura, una storia mai raccontata: la biografia del Mago Gabriel, al secolo Salvatore Gulisano. Con lui si accede a una dimensione unica, bizzarra e magica. Il mago Gabriel è stato un personaggio unico nel panorama televisivo, inizialmente sulle emittenti locali torinesi, poi nazionali grazie a Mai dire TV, dove veniva preso di mira dalla Gialappa’s Band per via del suoitaliano sconquassato, per non parlare degli improbabili esperimenti Eso e Terici. Ma Gabriel non è stato soltanto questo: prima del successo televisivo, Torino lo ricorda come il Santone delle Vallette, popolare quartiere cittadino, dove il mago ha saputo raccordare, a modo suo, tradizioni della terra d’origine, superstizione e magia. Grazie ai ricordi familiari si è andati oltre il personaggio, così da incontrare l’uomo nella sua storia di vita.