CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 191

Art Nouveau Week  tra Torino e Biella

Giunta alla quinta edizione e quest’anno presente a Torino con un ricco e vario programma di
appuntamenti, Art Nouveau Week 2023 si prepara ad accogliere centinaia di partecipanti iscritti alle
dieci iniziative previste nel capoluogo subalpino e ai due inconsueti itinerari guidati in programma a
Biella, che per la prima volta partecipa alla manifestazione internazionale ideata e curata dal
presidente di Italia Liberty, Andrea Speziali, e organizzata dal suo staff dall’8 al 14 luglio di ogni
anno.

L’edizione torinese si avvale del Patrocinio della Città di Torino e della collaborazione con il
Conservatorio Statale di Musica “G. Verdi”, il Centro Culturale “M. Pannunzio”, la Fondazione “T.
di Barolo” – MUSLI e Daniela Piazza Editore. Mentre quella biellese si avvale del Patrocinio della
Città di Biella e della collaborazione con l’Archivio di Stato di Biella, la Fondazione Cassa di
Risparmio di Biella e il DocBi – Centro Studi Biellesi.

Da tempo sono esauriti i posti per la conferenza-concerto inaugurale di pianoforte e arpa su note Art
Nouveau che si terrà l’8 luglio presso il Conservatorio Statale “G. Verdi” di Torino, dove gli
intervenuti avranno anche il privilegio di visitare la straordinaria Galleria degli Strumenti, prezioso
documento della vita musicale della Città e della storia del Conservatorio. La collezione conta 156
esemplari firmati da grandi nomi della liuteria piemontese e celebri costruttori di strumenti a fiato
subalpini e, tra i suoi molti gioielli, vanta lo Stradivari Mond del 1709 appartenuto alla celeberrima
violinista torinese Teresina Tua, educatasi al Conservatorio di Parigi, vincitrice a quattordici anni del
Grand Prix bandito nella capitale francese, elogiata da Verdi, Liszt e Wagner, insegnante presso
l’Accademia di Santa Cecilia di Roma, acclamata nei maggiori templi della musica europei e
newyorchesi e deceduta a novant’anni come suor Maria del Gesù.


Complice l’anima proteiforme e marcatamente interdisciplinare dell’affascinante corrente di gusto
che in Italia chiamiamo Liberty, le edizioni subalpina e biellese dell’imminente settimana dell’Art
Nouveau concentreranno infatti la loro attenzione su tutte le arti con digressioni, in gran parte inedite,
fra coinvolgenti storie di persone – committenti, progettisti, artisti, maestri artigiani o semplici fruitori
– restituite attraverso puntuali ricerche documentali, così da tracciare un connotante e parallelo fil
rouge che caratterizza tutte le iniziative.

Le storie di persone e famiglie sono tema imprescindibile quando si tratta della città silente nel
Cimitero Monumentale di Torino, divenuta nell’arco di pochi decenni vero e proprio spazio
espositivo di opere d’arte e, via via, autentico e vasto museo a cielo aperto, visitato durante le
ricorrenze autunnali come occasione per scoprire la più recente produzione scultorea. Quale stile
specifico e caratteristico della borghesia tardo-ottocentesca e veicolo figurativo privilegiato delle sue
fortune e della sua affermazione come classe dominante, il Liberty ha infatti trovato applicazione
elettiva nei luoghi e nei monumenti che appunto rappresentavano o intendevano simboleggiare ruolo
e destini di questa stessa borghesia, con un’accentuazione dei suoi tratti espressivi nei grandi cimiteri
urbani. Tale fenomeno toccò nel profondo anche Biella e soprattutto Oropa e Rosazza, questi due
ultimi suggestivi cimiteri-giardino, che saranno meta di futuri itinerari volti all’ulteriore scoperta del
Liberty nel capoluogo e nelle valli biellesi.

Circostanza non trascurabile, sia a Torino che nel biellese, protagonista delle svolte stilistico-culturali,
rispettivamente in direzione simbolista d’intonazione spiritualista e floreale in sintonia con la teoria
delle correspondances, è stato Leonardo Bistolfi, casalese di nascita, formatosi tra Brera e l’Albertina,
che esordì nella scultura cimiteriale subalpina con un intenso Angelo della morte a tutto tondo, in
primo piano, che personifica la riflessione sul mistero dell’estremo commiato dall’esistenza terrena,
e sullo sfondo una culla vuota, quasi a “stiacciato”, pressoché impercettibile incipit della dolorosa
narrazione.

Poco dopo, negli anni Novanta, Bistolfi convalidò una produzione che reca una particolare
componente pittorico-floreale destinata, con la complicità della grafica di analogo ductus, a passare
dalla scultura alla decorazione plastica, a fresco e nel parato per interni. Il già notissimo scultore e
pittore casalese era anche valente violinista e amava trascorrere lunghi periodi di vacanza a
Camburzano, nella villa del famoso soprano Cesira Ferrani, Mimì nella prima della Bohème al Regio
di Torino sotto la bacchetta di Arturo Toscanini, anch’egli assiduo frequentatore del vivace cenacolo
culturale che, allo scadere del secolo, era nato nella bella dimora camburzanese, animato da Lidia,
sorella di Cesira e apprezzata pianista, e dallo zio Luigi Ferraria, compositore e avvocato. Negli stessi
anni sono state numerose le opere plasmate dall’artista casalese per i suoi amici biellesi; non deve
perciò sorprendere la profusione fitomorfica posatasi su decine di costruzioni nel capoluogo e nelle
sue valli, giungendo a connotare soprattutto Casa Ripa a Biella, autentico catalogo di essenze
bistolfiane, distribuite con raffinata eleganza in abile coerenza con la valorizzazione funzionale e
simbolica delle diverse parti dell’edificio, commissionato nel 1906 dall’avv. Paolo Ripa, funzionario
presso la Regia Conciliatura biellese e anche scrittore satirico sul noto settimanale milanese «Il
Guerin Meschino».

È questa un’altra storia che merita di essere raccontata, come quella che, a torto, si presume ormai
scontata della Prima Esposizione internazionale di arte decorativa moderna, allestita nel 1902 a
Torino, che vide il trionfo dell’Art Nouveau. In realtà l’architettura torinese e di alcune vicine località
di villeggiatura aveva già intrapreso la via dell’Arte Nuova al di fuori di questa grande kermesse. Lo
dimostrano, tra gli altri, Riccio e Velati Bellini con Casa Florio in via Bertola, Benazzo con Casa
Tasca in via Beuamont, Dolza con la scuola oggi Istituto Avogadro in corso San Maurizio, Rigotti
con la perduta Palazzina Lavini-Toesca in via Tiepolo, Gribodo con Villa Antonietta a Cozze e lo
prova soprattutto Pietro Fenoglio che aveva espresso la sua originale e altissima interpretazione
dell’Arte Nuova sin dal 1900 nell’ormai snaturata palazzina della Società Finanziaria Industriale
Torinese di via Beaumont. Dopo aver declinato l’incarico nel comitato artistico espositivo,
accampando motivi di salute, Fenoglio giunse a una revisione strutturale dell’architettura nella
palazzina-studio per sé e i fratelli in via Principi d’Acaja, 11. Il maggior vessillifero del Liberty
torinese e i suoi familiari con molta probabilità non abitarono mai in questa casa, subito divenuta
manifesto e pubblicità implicita dell’avanzata progettualità fenogliana e già alienata nel 1904 a
Giorgio Lafleur, come avremo modo di sottolineare quando ne varcheremo la pregevole bussola
d’ingresso durante Art Nouveau Week.

A margine della strada reale di Francia Fenoglio ha così soggettivato con singolare coerenza istanze
di matrice franco-belga, mostrandosi in linea con il più profondo naturalismo Art Nouveau, di cui è
emblematica generazione il serramento ad ali di farfalla, caro ai maestri di Nancy, forse da leggersi
come risposta ai “tedeschizzanti” padiglioni espositivi che Raimondo D’Aronco stava erigendo in
quello stesso 1902 al Valentino. Tra i progettisti e gli intellettuali torinesi era infatti risaputa l’aspra
polemica generata dalla vittoria dell’architetto friulano nel concorso per la regia distributiva e
stilistica degli edifici per l’esposizione, se pure la stampa ufficiale si fosse affrettata a spiegare tale
scelta come opzione di tendenza e decisione di campo tra le due scuole ritenute più originali: «la
belga, illustrata dai nomi del defunto Hankar e del vivente Horta, e l’austriaca, che, sbocciata sotto
l’insegnamento di un illustre architetto, il quale dall’accademismo più puro passò grado grado alla
modernità più libera, fu detta Wagner Schule… A quest’ultima scuola si può riannodare il
D’Aronco», formatosi a Graz e all’Accademia di Venezia e allora impegnato presso la corte di
Costantinopoli, dove si era trasferito nel 1891 come architetto del governo ottomano e personale del
sultano Abdül Hamit II, svolgendo la parte più importante della sua attività progettuale in un paese
crocevia di molteplici esperienze. Non potendo pertanto seguire in modo continuativo i lavori
dell’esposizione torinese, gli furono affiancati il giovane arch. Annibale Rigotti, torinese e autore del
progetto secondo classificato, l’ing. Enrico Bonelli, anch’egli torinese e docente di Meccanica
Industriale al Regio Museo del capoluogo subalpino e il prof. Giovanni Vacchetta, cuneese di nascita
e Professore di Ornato Superiore al Museo Industriale di Torino, tentando in questo modo di supplire
all’assenza di D’Aronco e di contenere le critiche limitando il rischio di eccessiva “tedeschizzazione”
dei padiglioni espositivi. Di fatto, gli edifici effimeri daronchiani erano principalmente ispirati alla
Wagnerschule e all’opera di Olbrich nella colonia da lui fondata a Darmstadt, verso le quali
l’architetto friulano nutriva un’affinità mutuata dall’interesse per l’architettura bizantina e ottomana,
maturata attraverso la conoscenza diretta durante la lunga permanenza a Costantinopoli. Memorie di
Santa Sofia si coniugavano in perfetta armonia con tali istanze, soprattutto nella Rotonda d’onore e
un po’ ovunque nei numerosi padiglioni, dove la sontuosità, la luce, le bucature, le mosse decorazioni
lineari e la cura del dettaglio prezioso emergevano in variazioni raffinatissime.

Chiusa l’esposizione con un buon successo di visitatori, limitati plausi e pesanti strascichi polemici,
proseguì verso D’Aronco l’ostilità di alcune altisonanti voci torinesi, riaffiorata con veemenza quando
nel 1907, rientrato da Costantinopoli, pensò di stabilirsi con la famiglia nel capoluogo subalpino. Sin
dal 1902, egli aveva infatti avviato le trattative per l’acquisto di un terreno di fronte alla Fontana dei
Mesi, sul quale costruire la sua “casetta” che divenne presto una confortevole e funzionale abitazione
con due alloggi e piccolo fabbricato per il custode, edificati “per corrispondenza” come la città
effimera in riva al Po. Mentre proseguiva il suo momento magico di fertilità creativa, Palazzina
Javelli, dal cognome della moglie cuneese Rita, sorgeva semplice e raffinata, connotata da un partito
decorativo che si conclude in pure linee geometriche, da bucature diversificate nel taglio e nella
tipologia a seconda delle diverse destinazioni d’uso e da un linguaggio dei volumi variato in relazione
alle attività al loro interno. In questa palazzina D’Aronco ha quasi mai abitato e oggi, varcandone
l’ingresso, sorprendono l’avanzata modernità del pensiero compositivo, l’elevato pregio di materiali
e manufatti, la cura dei dettagli e l’integrità generale, nonostante la turnazione di proprietari e i
cambiamenti di destinazione d’uso. Al confronto di tanta qualità costruttiva, ancora più stupisce
leggere nelle lettere a Bonelli e a Rigotti, preposti a seguire i lavori di costruzione, la forte e assillante
preoccupazione economica di D’Aronco, che sosteneva di aver sempre fatto «il signore coi soldi
contati», quasi presagendo una morte tra ristrettezze, sofferenza e solitudine.

Ancora altre storie meriterebbero di essere raccontate, fra le quali l’amore non corrisposto di Ernest
Hemingway per Bianca Maria Bellia, incontrata durante una vacanza a Stresa. Era il settembre 1918
e lo scrittore americano giunse presto a Torino per chiedere la mano dell’avvenente diciassettenne,
ma il padre Pier Vincenzo, noto costruttore di molte case Liberty torinesi, oppose un fermo veto,
ispirando così il personaggio del conte Greffi in Addio alle armi.

Programmi: www.italialiberty.it. Iscrizioni e informazioni sul sito di Italia Liberty, allo +39 320 044
5798, o inviando una mail a torino@italialiberty.it oppure a info@italialiberty.it.

Maria Grazia Imarisio

Nelle immagini:
Particolare decorativo di Palazzina Javelli, progettata da Raimondo D’Aronco nel 1903, in via Petrarca 44 a Torino
Particolare del coronamento di Palazzo Ripa, eretto nel 1906 a Biella, in viale Matteotti 14

La neve di Mariupol

Paesi Edizioni è una casa editrice il cui nome ricorda posti di esotici e sperduti. E’ specializzata nelle pubblicazioni internazionali di qualità che “abbracciano idealmente tutti i paesi del mondo”, senza però tralasciare l’Italia. I testi di spaziano dalla saggistica ai romanzi e riviste, con una predilezione per il taglio giornalistico e le tematiche d’attualità. Le proposte di Paesi Edizioni comprendono un vasto settore che va dalla geopolitica alle relazioni internazionali, dallo spionaggio al terrorismo, dall’economia alla finanza, dalla sicurezza alla storia politica, dalla sociologia alle arti. Una vera ricercatezza italiana che abbiamo l’onore di scoprire e, di conseguenza, di valorizzare con una proposta degna di grande considerazione.

La neve di Mariupol- Monica Perosino a cura di Valeria Rombolà

«Alle 4:11 del 24 febbraio, ora italiana, faccio la telefonata più surreale della mia vita. Compongo il numero di Monica Perosino, sapendo di doverle dare una notizia devastante, assurda, impossibile. E poi riesco a pronunciare l’impronunciabile, l’incredibile, l’insopportabile: «Stanno bombardando. È iniziata la guerra». L’annuncio della guerra tra Russia e Ucrania ha segnato la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova era ed è stato uno spartiacque tra un prima e un dopo definitivo. A raccontare i retroscena dell’atrocità della guerra del nostro secolo è Monica Perosino, giornalista de La Stampa, che con sensibilità e coraggio è riuscita a trasmettere un racconto crudo e profondo di quanto ha vissuto come inviata sul campo. La Perosino è in grado di narrare gli strazi, le fughe, i bombardamenti ma anche la lotta per la vita di un popolo che non si arrende e resiste a costo di soffrire, a costo di morire. L’autrice vive la paura dell’attacco affianco ai più deboli e si interroga dell’insensatezza di una guerra che devasta e spazza via quello che c’è. La Persoino riesce nell’arduo compito di trasformare il giornalismo in letteratura, grazie alla capacità di non banalizzare avvenimenti e storie. Racconta come a fare più male “non sono le note più basse di mortaio”, ma i “poveri resti di quelli che un tempo erano persone o quel che resta di una vita sparpagliata sull’asfalto; è piuttosto l’incredibile dolore in cui un milione di persone sono precipitate per sempre. Queste sono le cose brutte, il supplizio e la disperazione dei sopravvissuti”. Capitolo per capitolo Perosino racconta l’Ucraina che ha conosciuto attraverso le storie di persone autentiche che le restituiscono una visione reale di un Paese: un esempio è la storia delle babushke. Le anziane di un remoto villaggio, attraverso i loro modi antichi e intrisi di tenerezza, le permettono di avere la sua “personale epifania, un momento in cui ho capito cos’è l’Ucraina, o meglio, ho sentito cos’è l’Ucraina”. Questo libro è un viaggio attraverso gli occhi e le sensazioni dell’autrice che ci mette di fronte una realtà imbarazzante ovvero il fallimento dell’Europa tentativo di mettere fine alle guerre per sempre.

LASCIATE CHE I GAY (non) VENGANO A ME  a cura di Francesca Bono

Lasciate che i Gay (non) vengano a me è un’indagine giornalistica fondata su una tematica, più che insolita, certamente complessa e di non semplice trattazione: l’omosessualità negli ambienti ecclesiastici. Se ne occupa, con uno stile preciso e che rispecchia a pieno il taglio giornalistico del pubblicatore Paesi Edizioni, Luciano Tirinnanzi, autore del volume nonché direttore della casa editrice. Se una persona è gay e cerca il signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla? Con questa citazione da Papa Bergoglio ha inizio la pubblicazione, lasciando intendere, in poche righe, sia il filo conduttore che lo stile con cui esso viene approcciato. Un tema delicato, quello dell’omosessualità interna alla Chiesa, che come tale viene trattata, pur non tralasciando un’esposizione fedele di fatti e informazioni. Coinvolgenti i riferimenti documentali ed epistolari, accompagnati da una lettura in una chiave volta a porre in luce l’effettiva diffusione, nel tempo e nello spazio, dell’omosessualità in ambito chiericale. Nessuna forma di giudizio trapela, né nei confronti di chi nel tempo e nello spazio, ha censurato, né dei diretti protagonisti dei fatti esposti, che al contrario ne escono, invece, umanizzati. Eppure, questa esposizione professionale e diretta, si chiude aprendo al lettore l’interrogativo: per quanto, ancora, gli ultimi resteranno ultimi?

Venezia nel Settecento. In mostra alla Fondazione Accorsi – Ometto

Dal 6 luglio al 3 settembre 2023

Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, Torino

Per tutta l’estate, in occasione della mostraVENEZIA NEL SETTECENTO. Una città cosmopolita e il suo mito (a cura di Laura Facchin, Massimiliano Ferrario eLuca Mana | Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto | Fino al 3 settembre 2023), la Fondazione Accorsi-Ometto propone una serie di visite guidate e di incontri per approfondire le vicende più affascinanti e gli aspetti più curiosi della società lagunare, nell’ultimo periodo della sua fulgida storia.

Nelle visite guidate con i curatori, Laura Facchin e Luca Mana parleranno degli artisti e delle opere esposte, approfondendo l’idea del mito di Venezia, come tappa irrinunciabile del Gran Tour, e la storia dei grandi eventi del calendario annuale, come il celeberrimo Carnevale o l’emozionante festa della Sensa(Ascensione), sottolineando, inoltre, il legame tra Venezia e Piemonte, a cominciare dai numerosi artisti veneziani che nel Settecento lavorarono per la corte sabauda.

Durante la visita a tema L’ALTRA VENEZIA, verranno approfondite la vita, le opere e lo stile degli artisti in mostra, con letture tratte da testi scritti dagli stessi pittori o da brani dell’epoca; non mancheranno, poi, insoliti aneddoti sulle usanze e sui costumi dei personaggi noti e meno noti che popolavano la Venezia del Settecento, da Vivaldi a Casanova al cardinale François-Joachim de Pierre de Bernis.

SPEED ART, invece, una visita di mezz’ora circa, sarà dedicata ai mobili e alle principali manifatture veneziane di porcellana che tanta fortuna ebbero nel Settecento, con un rimando alle opere esposte in mostra e nelle collezioni permanenti del Museo Accorsi-Ometto.

In UN POMERIGGIO IN GONDOLA, attività per famiglie con laboratorio, i bambini “saliranno in gondola” per attraversare i canali di Venezia nel Settecento, ammirando i suoi bellissimi palazzi e vivendone la magica atmosfera tra feste in maschera, musiche e passatempi dei ricchi signori dell’epoca. Al termine della visita, i bambini comporranno la propria veduta veneziana.

Per tutta l’estate continueranno anche le visite guidate alla mostra con gli storici dell’arte della Fondazione Accorsi-Ometto (sabato e domenica, alle 11.30 e alle 17.30, e giovedì, alle 18.30) e le visite guidate alla collezione permanente (da martedì a domenica, alle 10.30 e alle 16.30).

Infine, lunedì 14 agosto e martedì 15 agosto il Museo Accorsi-Ometto sarà aperto dalle 10 alle 19, con visite guidate alla mostra e visite guidate alla collezione permanente.

Alla scoperta di reperti longobardi mai visti

Appuntamento di assoluto rilievo storico-archeologico nel “Museo Civico” di Cuneo in “Palazzo Santa Croce”

Venerdì 7 luglio

Cuneo

Andranno in bella mostra e in visione, per la prima volta, al pubblico gli antichi reperti ritrovati negli scavi della necropoli longobarda di Sant’Albano Stura, la più grande d’Italia, e da poco trasferiti da Torino a Cuneo, nei depositi delle Collezioni Museali cuneesi di “Palazzo Santa Croce”, al civico 6 di via Santa Croce. L’appuntamento, con visita guidata (condotta dall’archeologo Gian Battista Garbarino, funzionario della “Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio” delle province di Alessandria, Asti e Cuneo) è per venerdì 7 luglio, in tre fasce orarie, alle 15,30, 16,30 e 17,30.

 

Per partecipare è d’obbligo la prenotazione  telefonando allo 0171/634175 o scrivendo una mail a museo@comune.cuneo.it. L’iniziativa si inserisce nel programma dell’“ArcheoDay”, che prevede anche alle 11,30, nel “Salone d’onore” del “Municipio di Cuneo” (via Roma 28), la presentazione della prima edizione del “Cuneo Archeofilm” (“Festival Internazionale del cinema di Archeologia Arte Ambiente”) e degli stessi ritrovamenti archeologici longobardi.

Mai finora esposti, e ritrovati nelle 842 “scavate” condotte a Sant’Albano Stura, tutti i reperti sono stati consegnati nell’autunno 2022 in deposito al “Museo Civico” di Cuneo dalla Soprintendenza, che ha oggi autorizzato il Comune di Cuneo a trasferire i ritrovamenti e i beni culturali civici e statali dislocati in vari magazzini della città, al terzo piano di “Palazzo Santa Croce”, inaugurato nel 2017, dopo un intervento di ristrutturazione e restauro volto a creare un “Centro Culturale Polifunzionale” al fine di accogliere non solo il deposito delle collezioni museali ed alcuni fondi archivistici, ma anche una “biblioteca” (0-18) appositamente studiata per sperimentare nuove modalità di fruizione culturale.

Oggi i depositi delle “Collezioni Museali” cuneesi accolgono una notevole quantità di beni culturali e già dal 2016, nel Salone al primo piano del “Museo Civico” di via Santa Maria 10, una selezione dei “corredi” meglio conservati di età longobarda, provenienti dagli scavi condotti a Sant’Albano fra il 2009 e il 2011, esposti attraverso un allestimento originale, innovativo e inclusivo verso i nuovi pubblici dei musei e al passo con le più moderne tecnologie, realizzate grazie a risorse civiche e della “Fondazione CRC”. Nell’estate 2021, inoltre, presso la “Cappella di Sant’Antonio” a Sant’Albano Stura, è stato aperto al pubblico uno “spazio espositivo”dedicato ad altri corredi longobardi provenienti da una necropoli scoperta in frazione Ceriolo, sempre a Sant’Albano Stura.

g.m.

Nelle foto:

–       Reperti longobardi nel deposito del Museo Civico di Cuneo

–       Scavi della necropoli longobarda di Sant’Albano Stura

“Tecnosofia” il farmaco più potente

Maurizio Ferraris e Guido Saracco

presentano “Tecnosofia”

il farmaco più potente

Mercoledì 5 luglio, ore 17.30

Polo del ‘900, Piazzetta Antonicelli, Palazzo San Daniele

Tre grandi personaggi al Polo del ‘900 per esplorare l’alleanza tra tecnologia e scienze umane: sono Maurizio Ferraris, professore di filosofia teoretica e Guido Saracco, rettore del Politecnico di Torino con il loro nuovo libro Tecnosofia: tecnologia e umanesimo per una scienza nuova (Laterza, 2023, 185 pagine, 20 euro) in collaborazione con Laterza. In dialogo con gli autori Piero Bianucci, scrittore e divulgatore scientifico. Ingresso libero, mercoledì 5 luglio, ore 17.30 Piazzetta Antonicelli (ingresso Via del Carmine,14).

VIDEO PRESENTAZIONE FERRARIS-SARACCO AL LINK https://drive.google.com/file/d/1oEE51L-GUlWli1jIlczxU1u4N90BWIhW/view?usp=sharing

SCHEDA DEL LIBRO

Il farmaco più potente a disposizione della scimmia nuda è la tecnica, e la tecnica più potente è il capitale. L’alleanza tra tecnologia e umanesimo può potenziare questo capitale a beneficio di tutti, trasformandolo in un patrimonio dell’umanità. Quanto più la tecnologia e l’umanesimo sapranno interagire, tanto più l’umanità solcherà positivamente la strada del progresso. È questa l’idea che ispira questo libro, frutto della collaborazione tra un filosofo e un tecnologo. Entrambi, infatti, promuovono un giudizio positivo sulla tecnologia perché se è vero – seguendo l’etimo greco – che è insieme un veleno e un rimedio, è innegabile che la capacità tecnologica appartiene all’umanità sin dalle sue origini. E risiede in essa la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei suoi beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future.

Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

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Torino e le sue donne

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. 

Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.  (ac)

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2. Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza

Nell’articolo precedente ho voluto ripercorrere, per sommi capi, la storia delle “Venusiane”, (se vogliamo seguire la leggenda secondo cui le donne vengono dal pianeta “Venere” e gli uomini da “Marte”), e sottolineare le numerose battaglie e inauditi sforzi che esse hanno coraggiosamente affrontato in passato e che continuano a fronteggiare a testa alta nell’eterna sfida della vita quotidiana. Moltissime sono state le protagoniste femminili che hanno dato il loro contributo rivoluzionario per modificare il mondo negli ambiti più svariati, dalla politica alla cultura, dalla letteratura alla scienza.  Anche Torino ha avuto le sue paladine coraggiose, le quali hanno lasciato una forte impronta nel tempo, si pensi, ad esempio, a quanto hanno contribuito le Madame Reali per lo sviluppo delle arti e la magnificenza della città, promuovendo costruzioni di chiese, palazzi e residenze. In tempi più recenti le donne torinesi si sono messe in luce anche per il loro intelletto, infatti proprio di Torino era Maria Fernè Veledda, seconda donna laureata del Regno d’Italia in Medicina, nel 1878, e, sempre torinese, è stata la brillante Rita Levi Montalcini, nota per le scoperte nel campo delle neuroscienze, ma che ci ha lasciato anche pensieri profondi e illuminanti sulla condizione femminile, su cui, forse, dovremmo soffermarci a meditare ogni tanto. Un’ultima considerazione in chiave poetico-esoterica sulla nostra città, da sempre divisa in due, in cui alla sfera maschile rappresentata dal Po, ha sempre fatto da contraltare una lunare sfera femminile, silenziosa ma non meno importante, rappresentata dalla Dora. Non a caso a Torino è una delle poche città in cui sorge una chiesa specificatamente dedicata alla Grande Madre: ognuno ne tragga le proprie conclusioni. Le vicende sono molte e bisogna pur scegliere e da qualche parte iniziare. Con piacere mi accingo a raccontare la storia di alcune donne torinesi, con l’intento che le loro vicende possano ispirare la nascita di altre storie. 
Gina Lombroso nasce a Pavia nel 1872 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso. La famiglia appartiene ad una alta e colta borghesia legata alle tradizioni ebraiche, in cui è centrale la figura del padre, Cesare, celebre antropologo, sociologo e filosofo, padre della moderna Criminologia. Già da adolescente Gina partecipa al lavoro scientifico del padre in veste di segretaria e collaboratrice, seguendo la corrispondenza e affiancandolo nel lavoro redazionale della celebre rivista l’“Archivio di psichiatria”, fondata nel 1880. Fondamentale per la crescita di Gina è la figura di Anna Kuliscioff, ospite frequente del salotto di casa Lombroso. E’ grazie all’influenza di Anna che Gina si avvicina agli ideali socialisti, che si concretizzeranno poi in alcuni studi svolti insieme alla sorella Paola, su temi quali la condizione di vita degli operai, il problema dell’analfabetismo e gli scioperi. Sempre nello stesso periodo Gina collabora alle riviste “Critica sociale” e “Il socialismo”. Nel 1895 Gina si laurea in Lettere presso l’Università di Torino e, successivamente, si iscrive alla Facoltà di Medicina. Pubblica poi alcuni saggi, tra i quali “L’atavismo nel delitto” e “L’origine della specie”. Nel 1901 conclude gli studi di medicina a pieni voti discutendo una tesi intitolata “I vantaggi della degenerazione” davanti ad una commissione che includeva l’igienista Luigi Paliani e il Fisiologo Angelo Mosso. L’argomento della tesi si dimostra estremamente rilevante per il dibattito scientifico dell’epoca, tant’è che verrà approfondito in un volume dallo stesso titolo pubblicato nel 1904. La giovane Lombroso affronta il tema della degenerazione in modo nuovo, avvicinandosi all’ottica biologica con una prospettiva sociologica. I caratteri della degenerazione vengono letti non tanto come un progressivo deterioramento dell’umanità, quanto come la capacità di adattamento dell’uomo alla conseguenze dell’industrializzazione, con particolare attenzione alla relazione uomo-ambiente.

 

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Dopo la laurea prosegue la sua attività di ricerca con il ruolo di assistente volontaria nella clinica psichiatrica dell’Università di Torino, tale incarico verrà portato avanti fino a i primi anni del matrimonio avvenuto nel 1901 con Guglielmo Ferrero, collega di Cesare Lombroso, con cui egli aveva collaborato per scrivere nel 1893 la monografia “La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”. Sempre in questo periodo Gina svolge studi clinici sulla pazzia morale, sull’epilessia e sulla criminalità, non tralasciando mai l’intensa collaborazione con la rivista del padre. Nel 1907 segue il marito in un viaggio in sud America, visitando carceri, scuole e manicomi. Le sue riflessioni su tale esperienza verranno stampate l’anno successivo in un volume intitolato “Nell’America meridionale (Brasile Uruguay Argentina)”. Gina, per non farsi mancare nulla, è anche studiosa di lingue straniere, e, grazie a tale competenza, rimane a stretto contatto con l’ambiente scientifico internazionale oltre che italiano. Alla morte del padre, nel 1909, Gina si dedica con affetto alla risistemazione e ripubblicazione delle opere paterne, nell’intento di mantenerne vivo il pensiero nella comunità accademica. Nel 1916 lascia Torino e si trasferisce con la famiglia a Firenze, qui la sua casa diviene sede di incontri e scambi con l’ambiente intellettuale cittadino. Tra i frequentatori più assidui i Salvemini e i Rosselli. In questi anni la Lombroso si dedica allo studio della condizione femminile, teorizzando l’“alterocentrismo” della donna, cioè un innato altruismo fondato biologicamente e legato alla “missione” della maternità. Nei numerosi scritti su tale argomento, Gina intende negare la convinzione imperante dell’inferiorità femminile, in nome di una forte differenziazione dei sessi, che dovevano essere concepiti non in un rapporto gerarchico ma in uno di “complementarietà”. Nel 1917 pubblica l’“Anima della donna”, testo che vede diverse traduzioni e ristampe in Italia e all’estero; nello stesso anno fonda con Amalia Rosselli e Olga Monsani la “Associazione divulgatrice donne italiane”(ADDI) con lo scopo “indurre la donna italiana a prendere parte allo sviluppo scientifico, sociale, politico, filosofico del paese”. A seguito delle persecuzioni politiche da parte del Regime, nel 1930 Gina e il marito Guglielmo sono obbligati a trasferirsi a Ginevra, rimanendo però in contatto con l’ambiente antifascista. Durante l’esilio, Gina approfondisce la problematica del rapporto uomo-macchina, affrontando gli sviluppi della nuova epoca industriale in una prospettiva sociologica. In “Le tragedie del progresso” e “Le retour à la prosperité”, di fronte alle profonde trasformazioni introdotte dalla industrializzazione, viene messa in discussione la fiducia positivista in un progresso indefinito. 
La storia di Gina non ha un lieto fine, l’amore per la scienza che dalla giovinezza l’accompagna non riesce a salvarla né a riportarla a casa. Gli anni dell’esilio vedono la morte del figlio Leo Ferrero, giovane poeta e intellettuale. Gina Lombroso morirà nel 1944 due anni dopo il marito, assistita dalla sorella Paola che l’aveva raggiunta nella città Svizzera. L’ignoranza violenta della guerra ogni tanto vince e l’oscurantismo allarga di un po’ la sua ombra, ma non dobbiamo dimenticarci che “senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla.” (Albert Camus). Gina ha contribuito a estirpare le erbacce, anche da lontano.

 

Alessia Cagnotto

Il Modigliani dei miei ricordi

Di Amedeo Modigliani (Livorno, 12.7.1884 – Parigi, 24.1.1920) scrissi una prima volta quarant’anni fa, ma a quelle pagine val la pena aggiungere qualcosa e queste ultime me lo permettono. Infatti, (a differenza di altri lavori, che, dalle prime ricerche fino alla definizione di una loro veste editoriale, hanno richiesto soprattutto il mio impegno), per ben due volte mi è stato chiesto di occuparmi del “Pittore delle figure dai colli lunghi e gli occhi vitrei”…

Nel 1983, a Rio de Janeiro, dov’ero arrivato, trasferito d’ufficio per la chiusura dell’Istituto Italiano di Cultura di Brasilia, il direttore, che aveva già lavorato con me all’Istituto di Brasilia, era Salvatore Amedeo Zagone (La Spezia, 13.2.1931 – 25.10.2016), docente di materie letterarie nelle scuole superiori e giornalista che, sul dinamismo vivace della sua professione, aveva impostato tutta la vita, gestendo e promuovendo, anche in Brasile, ogni attività. con quel dire diretto, che era del suo carattere, mi chiese se non volevo scrivere un pezzo, per il centenario della nascita di Modì “naturalmente in portoghese” per la rivista che aveva iniziato a pubblicare proprio in quell’anno. Certamente l’invito era motivato dalla stima, soprattutto, perché sapeva della mia attività artistica, infatti aveva apprezzato le mie tavole a fumetti per la Storia di un Burattino di Collodi, tanto che, già nel marzo del 1983, aveva promosso a Rio l’esposizione del mio Pinocchio, e, dopo averla presentata, la fece circolare per il Brasile da San Paolo al Nord Est. Ora, tornando a quel mio scritto, aggiungerò che, ridotto in cinque pagine a stampa, fu pubblicato nel numero di marzo del 1984 di Quaderni di Studi italo brasiliani, con il titolo Modigliani che gli avevo dato io. In Brasile, dove la pittura del Novecento spesso ha le forme e i colori dei quadri di Candido Portinari (San Paolo, 1903 – Rio de Janeiro, 1962), Emiliano Di Cavalcanti (Rio de Janeiro, 1897 – 1976) o di Alfredo Volpi (Lucca, 1896 – San Paolo, 1988), diversi lettori trovarono nelle mie parole le prime notizie del pittore di Livorno (alcune opere del quale sono al MASP – Museu de Arte de São Paulo, il grande museo dell’America Latina, voluto, e creato si può dire dal nulla, da un altro spezzino di vaglia, Pietro Maria Bardi). Poi chiuderò quel ricordo dicendo che, in assoluto, quelle furono le pagine di saggistica da me pubblicate e che non solo esse furono lette nel Quaderno che le aveva accolte ma, di recente, quando le ho riversate sulla rete, tanti, non solo tra i lusofoni, hanno continuato ad apprezzarle.

Negli studi successivi, le mie ricerche hanno approfondito altri temi storici, ma, come anche gli argomenti artistici che ho affrontato, erano riferiti a momenti più lontani nel tempo; tuttavia. Solo verso la fine del Novecento, decisi di studiare i pittori presenti ad Agliè durante l’ultima guerra. Questo lavoro partiva dal ricordo di chi, avendo vissuto quel periodo, lo ricordava ancora. Tra i pittori che là erano sfollati, ebbi modo di indagare meglio i bolognesi Gheduzzi, intorno ai quali s’era formato un alone di leggenda, perché scenografi del Teatro Regio di Torino … L’ultimo loro discendente, Ugo Gheduzzi (Torino, 30.11.1925 – Pianezza / TO, 5.9.2014), a Torino aveva studio di architetto. Lo cercai e mi ricevette nella sua casa di Piossasco, dove con l’amabilità, usuale della gente d’Emilia (terra d’origine della sua famiglia paterna), mi raccontò tutto quello che allora mi bastò per scriverne e, nel 2002, pubblicai ad Ivrea («Bollettino ASAC – Associazione di Storia e Arte Canavesana») Novecento pittorico in Macugnano di Aglié – Annotazioni per due capitoli di storia e… passai ad altro. Se non che, non molto tempo dopo, Ugo Gheduzzi mi cercò per chiedermi di visitarlo a Rivoli, dove nel frattempo si era trasferito, e là, nell’ultima casa che aveva costruito per sé, mi propose di scrivere una storia dei suoi (nonno, padre e zii), pittori della “scenografia” del Teatro Regio di Torino. Così, per un periodo di quattro o cinque anni almeno, lavorai anche a quel progetto. Lo lasciai a un buon livello di redazione, ma, purtroppo, la malattia prima e la morte poi, impedirono all’erede interessato di farlo pubblicare e io non trovai altri sbocchi, se non di intervenire con un contributo al catalogo della mostra antologica dei Gheduzzi che si realizzò a Crespellano / Bologna, nel 2010 e, soltanto negli ultimi tempi, ho pensato di riprendere quel materiale per una memoria che rettifichi le vistose inesattezze che negli ultimi anni furono pubblicate sugli scenografi tosco-emiliani attivi a Torino intorno al Regio. Vedremo se queste intenzioni avranno seguito…

Una delle ultime volte che incontrai il collega Gheduzzi, forse nel 2007, però, con quello sguardo accattivante che gli era proprio, porgendomi le fotocopie di due dattiloscritti (una lettera, su due facciate dalla quale era stata tolta la firma, e un biglietto affatto anonimo) e di alcune immagini, mi disse: “se vuoi dilettarti, fa un buon uso tu di queste cose!” … Non mi ricordai di avere pensato più a quelle carte, anche se, nel frattempo, c’è stato il centenario della nascita di quell’artista, ma so che finalmente è giunto il momento di prenderle in considerazione (almeno il biglietto e alcune delle immagini a cui esso allude), per ritornare nel tempo ai miei trent’anni, quando, con Modigliani, iniziavo a scrivere il mio primo saggio perché scriverne ancora, mi permette di ricordare alcune vivacità della mia gioventù e due amici che non sono più tra noi.

La lettera (che qui non presento) porta è datata Rosta 20 giugno 2007, per questo penserei vicino nel tempo ad essa anche l’appunto (che di seguito trascrivo). I due scritti non sono omogenei tra loro, soprattutto da un punto di vista formale, e il biglietto rivela anche alcune incertezze tanto che chi l’ha scritto sembra essere più preoccupato di seguire un protocollo (che neppure conosce e che, perciò, può anche tradire) e non nasconde neppure qualche imbarazzo.

Tavoletta di cm. 25×18 circa di legno (pioppo?) dello spessore di cm. 2 raffigurante figura umana a mezzo busto, probabile autoritratto, di uomo di età molto giovanile. Abbigliamento, pettinatura e fazzoletto al collo, possono rappresentare le caratteristiche di un artista del primo novecento. In basso a sinistra vi è una scritta “MODIGLIANI” che pare eseguita con un oggetto appuntito che raschia la sottostante tinta.

Guardando la figura trasversalmente ed orizzontalmente si nota come l’autore abbia delimitato i tratti essenziali che contornano la figura, come fossero stati incisi sulle tinte di fondo per delinearne la figura.

Questa tavoletta è sempre appartenuta a mia suocera (nata nel 1903) e che l’ha ereditata dalla propria nonna paterna. La detta nonna Colonna Eufrasia ved. Barberis abitava a Torino in via Mazzini e negli ultimi anni (1910) faceva l’affitta camere.

Da memorie raccontate da mia suocera pare che la suddetta sua nonna avesse trattenuto quest’opera quale remunerazione di pigione non pagata. Altra fumosa rimembranza, la tavoletta fosse stata trattenuta a rifusione di un piano di un armadio segato senza autorizzazione? Fino agli anni ‘960 la tavoletta rimase tra le cianfrusaglie di famiglia ma, in occasione di un trasloco, venne rinvenuta dal sottoscritto. Ultimamente i miei figli la confrontarono con le poche fotografie del Modì giovane, le sottoposero a rifotografarle e sovrapporle uniformandone le dimensioni, e vennero nella convinzione che in effetti può trattarsi dell’immagine e riproduzione di una stessa persona.

Ai tempi in cui era ancora vivo il gallerista Giovanni Bottisio, tra l’altro cugino di mio cognato, si era parlato di una visita a Parigi dove, a suo parere, si poteva trovare chi potesse, eventualmente, autenticare la cosa. Ma, come spesso avviene, non se ne fece nulla ed ora mi ritrovo con gli stessi interrogativi d’allora.

Conoscendo la sua cultura in materia e forse la conoscenza di coscienziosi esperti, mi permetto di sottoporle quanto sopra e chiedere il suo autorevole giudizio. Le allego la fotocopia a colori dell’originale ed alcuni rilievi fotografici tratti da numerosi volumi che ritraggono il Modigliani proprio in quegli stessi anni in cui la tavoletta finì nelle mani dell’ava di mia moglie.

Si tratta di osservazioni spicciole, talora minute e, volutamente, imprecise, le parole sono usate ingenuamente, quasi a dissimulare il motivo vero per cui sono state scritte e questo non nasconde l’impressione, anzi l’illusione, di essere in possesso di un quadro di un certo valore, che può anche essere una “cifra importante”! Non si pensa neppure che, più del valore commerciale, varrebbe avere qualche dato in più per la biografia di Modigliani, un pittore morto, poco più che trentacinquenne, in Francia, nel 1920… Ma che fare? L’appunto non aggiunge nulla: non accenna al periodo in cui, a Torino, Modigliani avrebbe dipinto questo suo autoritratto e, anche se nomina i Bottisio (interpellati come galleristi di un certo nome vicini e conosciuti), manca di considerazioni sulla tavolozza del pittore (che sembrerebbero ancora priva dell’influenza dei fauves, che poi avrebbero influenzato i suoi quadri del periodo parigino), né si rilevano altri altri dettagli (come gli occhi, che nel quadro sono dipinti diversamente che in tante altre sue opere famose). Insomma esso potrebbe veramente dire molto di Modigliani in un periodo precedente al trasferimento in Francia … e questo, tenendo conto che Jeanne, la figlia di Modigliani, nei suoi scritti aveva rilevato la poca attenzione che ci fu per l’opera di suo padre del periodo italiano, quasi ci fosse stato un piano per creare il mito che “Modigliani era diventato artista in riva alla Senna”, lascia pensare comunque che la vita di questo artista non fu mai oggetto di indagini scrupolose da parte degli storici. Non mi accollerò questo incarico io, se mai renderò pubbliche alcune mie considerazioni che, da storico, posso fare su quello che i documenti potrebbero dire, (o, meglio, anche solo se dei documenti qui ricordati, se avessero copie conformi agli originali, cioè se si sapesse il nome dell’autore dalla lettera e se il quadro in questione fosse riprodotto in una buona fotografia) perché, senza approssimazioni, si potrebbe fare una lettura più corretta di tutto…

Se davvero a Torino, c’era una tavoletta dipinta (che potrebbe essere di Modigliani) e se davvero essa fu dipinta, in una camera ammobiliata nei dintorni di Porta Nuova, intorno al 1906 (?), potremmo avere l’opportunità di sapere qualcosa in più di quel pittore ventiduenne, cioè in un momento vicino al suo (per ora poco noto) trasferimento a Parigi! Infatti queste sarebbero le prove minime per rilevare una sua presenza torinese e, forse, potrebbero dirci di chi egli incontrasse, o volesse incontrare, nella nostra città. Insomma: chi cercava a Torino Modigliani? Un parente, un possibile finanziatore o qualcuno che potesse aprirgli la strada a Parigi? Sono argomenti che sfuggono alla storia e, se, la vita di Modigliani non è tutta scritta da scrivere, certamente un suo passaggio per Torino lo sarebbe ancora … per questo, ancora una volta, chi ne dovesse parlare, dovrebbe farlo per lui che non è più, e, per farlo, dovrebbe conoscere bene le cose che attengono la “sua” vita, per poterle diffondere senza tradire la sua memoria. Infatti c’è un dovere morale che pesa sullo storico perché i personaggi del passato non hanno più diritto di replica personale, dunque essi vanno intesi bene attraverso i documenti e compresi correttamente, rispettando la verità storica, e questo non è cosa da poco! Qualcuno si farà carico di tanto impegno per indagare un ipotetico soggiorno torinese di Amedeo Modigliani? Nel rispetto del passato e della vita, noi lo auspichiamo.

Carlo Alfonso Maria Burdet

Stupinigi, Sonic Park: Dal 4 luglio 8 straordinari concerti

MUSICA SENZA TEMPO E GRANDI EMOZIONI

la prima settimana di concerti!

Dopo il concerto-anteprima degli INTERPOL nella Sala Fucine delle OGR Torino si aprono finalmente i cancelli del giardino storico della Palazzina di Caccia di Stupinigi – patrimonio mondiale Unesco – e Fondazione Reverse, con la produzione di Fabio e Alessio Boasi, inaugura la quinta edizione di Sonic Park Stupinigi, promosso da Città di Nichelino e Sistema Cultura Nichelino.

Un programma ricchissimi che ospiterà a partire dal 4 luglio grandi nomi del panorama italiano e super star internazionali per concerti unici, con posti a sedere o in piedi, sempre organizzato con attenzione alla sostenibilità attraverso l’eliminazione delle plastiche monouso a favore di bicchieri riutilizzabili che danno diritto ad acqua gratuita e illimitata, l’utilizzo di materiali compostabili e la distribuzione gratuita di posaceneri portatili.
L’area concerti, situata all’interno del giardino storico sarà allestita anche in questa edizione tra esemplari di querce e carpini dove si aprirà un vero e proprio villaggio di servizi food and beverage. Lo spettacolare palco di 300 mq che si affaccia sulla Palazzina di Caccia crea un immaginario unico capace di ammaliare, un’edizione dopo l’altra, tutti i big della musica che sempre più scelgono Sonic Park per una delle tappe dei loro tour nel nostro paese.

Il programma, che si sviluppa lungo nove giorni per sette concerti esplosivi, si apre nella prima settimana con il primo grande nome internazionale del cartellone il 4 luglio con il concerto dei SIMPLY RED del “rosso” Mick Hucknall per festeggiare l’uscita del nuovo album della band, ‘Time’, prevista il prossimo 26 maggio. Anche il 7 luglio Sonic Park Stupinigi regala agli appassionati un grande ritorno al live con il concerto di BIAGIO ANTONACCI, da oltre trent’anni uno dei cantautori più amati, forte di un pubblico trasversale che abbraccia diverse generazioni di estimatori. Dopo l’opening della torinesissima GINEVRA l’8 luglio, per una serata tutta al femminile, arriva sul palco di Sonic Park Stupinigi MADAME: la giovane cantautrice, dopo la seconda partecipazione al Festival di Sanremo, sta riscuotendo un grandissimo successo di pubblico e critica con il nuovo album L’amore. Una serata davvero da non perdere è quella del 9 luglio: sul palco, insieme, GUÈ e EMIS KILLA per un doppio concerto con due fra i più importanti rapper della scena hip hop nazionale.

MARTEDÌ 4 LUGLIO 2023 ORE 21.30
apertura porte ore 18
SIMPLY RED
platea numerata da 51 a 95 euro + diritti di prevendita
Dopo un 2022 stellare che ha visto la band esibirsi in 73 spettacoli davanti a oltre 600.000 persone in tutta Europa, i Simply Red concluderanno la tournée italiana di cinque date proprio alla Palazzina di Caccia di Stupinigi per Sonic Park dove inaugureranno la quinta edizione del festival.
Il concerto sarà anche la prima occasione per i fan per brani dal nuovo album «Time», uscito lo scorso 26 maggio.
A quattro anni di distanza da Blue Eyed Soul, i Simply Red sono tornati un nuovo album di studio, uptempo e ricco di vibrazioni positive, spesso anche legate all’Italia – dove per esempio Hucknall ha incontrato la moglie.
Soul, funk, R&B e blues sono gli elementi costitutivi della musica dei Simply Red che con una carriera di 12 album in studio, di cui cinque numeri uno, due premi ASCAP Most Performed Song (1987 e 1988) per Holding Back The Years, due Brit Awards consecutivi (1992 e 1993) come Best British Group, un Brit per Best British (1993), il MOBO nel 1997 per Outstanding Achievement, due Ivor Novellos (1992 Songwriter of the Year; 2002 Outstanding Song Collection) e circa 60 milioni di album venduti, sono pronti a regalare a Sonic Park un concerto inaugurale indimenticabile.
La musica è un meraviglioso mezzo di comunicazione. Ogni persona può dare un’interpretazione di un brano a seconda di ciò che significa per lei. Essere in grado di creare qualcosa che poi viene condiviso con milioni di persone in tutto il mondo, che gioia. Come può esserci qualcosa di più gratificante e appagante di questo?”.

Il cieco di Gianluigi De Marchi, come un quadro di Chagall

Gianluigi De Marchi, noto scrittore di finanza, ha dato alle stampe alcuni volumi di carattere economico dal titolo “Sopra il Banca il bancario campa”, “Tanto va il cliente in banca che ci lascia il capitale” e “Cattive compagnie”, editi da Stampe Alternative, che hanno avuto un buon successo con 25 mila copie vendute in soli tre anni.

Negli ultimi tempi si è dedicato alla stesura di testi umoristici e di un romanzo in chiave in parte autobiografica, dal titolo “Il cieco”, in cui ha ripercorso la storia della famiglia De Marchi giunta a Camogli, splendida cittadina del litorale ligure di Levante.

“Gianluigi De Marchi – spiega Riccardo Baracco – mi ha offerto di leggere le bozze del suo ultimo romanzo. Mi sono coinvolto nella lettura una sera, senza interruzione, fino alla fine. La storia ambientata in quel lembo di Liguria in cui l’autore ha le sue radici familiari è interessante anche per chi non conosce Camogli”.

“Se fosse stato possibile trasporre l’opera in pittura paragonerei – prosegue Riccardo Baracco – il nostro testo a un quadro di Marc Chagall”.

In realtà il romanzo, incentrato nella storia di Francesco il protagonista che, improvvisamente, perde la vista e poi ritrova gli occhi della fede più che la vista stessa, della moglie Teresa, della loro famiglia molto unita e del sacerdote amico d’infanzia Gio Batta, ha una sua dimensione onirica. Si potrebbe definire un romanzo corale, in cui certo è presente la matrice religiosa, la conversione di Francesco, ma non questo non rappresenta l’unico fattore. Ne emerge un ritratto di Camogli del passato molto suggestiva, che invita il lettore a scoprire la Camogli di oggi, che non è stata invasa dal turismo di massa, a differenza di altre località della Liguria.

MARA MARTELLOTTA

 

Il Cieco di Gianluigi DE Marchi Raineri

Vivaldelli Editore Torino

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

 

Rachel Cusk “La seconda casa” -Einaudi- euro 16,50

La scrittrice 56enne anglo-canadese Rachel Cusk (autrice della fortunata trilogia “Outline”) torna con un nuovo romanzo nel quale indaga l’ambigua relazione tra arte ed ego. Declina i suoi temi prediletti: relazioni di coppia, maternità, e dinamiche di potere. Pagine intriganti in cui miscela creatività, cattiveria, amore.

Al centro della storia c’è M., scrittrice 50enne che scrive all’amico Jeffers raccontandogli una pagina della sua vita.

M. ha in parte accantonato le sue ambizioni di scrittrice. Tra un libro e l’altro, che le hanno fruttato scarsi guadagni e ancor meno fama, ha svolto diversi lavori, inanellato due mariti e messo al mondo una figlia ora 21enne.

Insieme al secondo marito Tony si è ritirata a vivere in una sorta di paradiso terrestre sulla costa oceanica, vicino ad una palude che regala anche lo spettacolare fenomeno della luminescenza. Una proprietà in cui, oltre alla casa in cui abita, ha sistemato un cottage adibito a residenza per ospitare artisti alla ricerca di pace e ispirazione. Ad occuparsi di tutto (dai lavori manuale alla pesca) è Tony, uomo silenzioso, forte e affidabile.

Nella dependance arriva un pittore non meglio definito che con l’iniziale L. Era cresciuto con i genitori proprietari di un mattatoio, non esattamente un luogo idilliaco in cui crescere. Aveva dato sfogo alla sua arte e raggiunto velocemente la fama, poco più che 20enne, con misteriosi quadri capovolti. Poi la fortuna era andata via via scemando quando la critica aveva puntato il dito contro la violenza delle sue opere. In seguito aveva arrancato tra alterne fortune e una delusione rancorosa tenuta a freno a stento.

M. in passato aveva visitato una sua mostra retrospettiva ed era rimasta ammaliata dalla passione che traspariva dai suoi ritratti femminili, ed è da allora che ha sempre desiderato conoscerlo.

Si sente particolarmente legata all’artista e gli scrive offrendogli ospitalità. Lui dapprima declina l’invito, poi accetta.

M. lo attende carica di aspettative, ma quando lui si presenta insieme alla giovane Brett -di sfolgorante bellezza e qualche prima difficoltà di adattamento nello spartano cottage- le cose andranno diversamente dalle aspettative. Scatta immediata la competizione tra M. e Brett. Preparatevi al confronto tra la sensibilità e le illusioni di M. e l’ego smisurato di L. che, arrogante e umorale, non risparmia colpi bassi e durezza.

 

Kiran Millwood Hargrave “L’albero della danza” -Neri Pozza- euro 19,00

Dopo il successo di “Vardø. Dopo la tempesta” (nel 2020) ora la scrittrice e poetessa 30enne inglese Kiran Millwood Hargrave ci immerge nell’incanto del romanzo storico ambientato nel lontano 1518 a Strasburgo.

L’albero della danza” riporta alla luce una vicenda realmente accaduta, ai tempi del sacro Romano Impero, durante un’estate caldissima che toglie il respiro, aggravata da carestia e siccità che già pesano sulla popolazione in lotta perenne per la sopravvivenza.

Sullo sfondo storico del medioevo, si staglia una storia antica e moderna al tempo stesso, che amalgama temi portanti.

La maternità, il predominio maschile sulle donne (declinato spesso in soprusi e maltrattamenti), la paura del diverso, l’amore proibito, tutto condito da superstizione ed ignoranza. Se eri uomo, bianco, cristiano e ricco, le cose andavano ancora bene; per gli altri, per lo più, invece la vita era grama.

Protagonista è la giovane Lisbet: vive nella fattoria dei Wiler con il marito Henne che dopo 12 dolorosi aborti spontanei sembra non desiderarla più e con la suocera Sophey. Lisbet è nata il giorno in cui una cometa era caduta sulla terra e a 12 anni era rimasta orfana della madre che aveva perso la ragione e si era suicidata.

Nella famiglia del marito -dove è poco considerata e niente amata- ha il compito di occuparsi delle api e degli alveari, fondamentali per il sostentamento. E’ diventata un’abilissima apicultrice che difende le sue arnie dalle mire del monastero che vorrebbe sequestrarle.

Ora Lisbet è incinta per la tredicesima volta e vuole questo bambino con tutte le sue forze.

Nel corso dell’estate torrida, nella piazza del paese, una donna inizia a danzare in modo scomposto e inusuale, agitando testa e corpo forsennatamente. A lei si uniscono via via altre figure femminili di varie età, che continuano a crescere di numero. Le autorità non sanno spiegarsi il fenomeno di centinaia di femmine che battono freneticamente i piedi feriti su un apposito palco. E’ il fenomeno della coreomania, in un primo tempo tollerato dalle autorità che lo interpretano come rito di espiazione e purificazione.

Ma le spiegazioni di cosa possieda quelle donne che danzano per giorni, fino allo stremo e alla morte, si sprecano. Deriva psicopatologica legata ai tempi in cui i fenomeni erano interpretati come azioni del divino o del diabolico, follia scatenata dall’ingerimento di funghi allucinogeni, o ancora, misticismo, espiazione, fenomeni di un periodo maledetto e disperato. Una follia del dolore.

E’ in questo contesto che, dopo 7 anni di forzato allontanamento dalla comunità, torna la sorella di Henne. E’ Nethe, cognata di cui Lisbet sapeva solo che era stata cacciata in una sorta di esilio per espiare una colpa di cui nessuno vuole parlare.

Ed ecco che il romanzo prende quota conducendoci in una storia intrisa di amore, amicizia; ma anche relazioni proibite, condanne a morte e soprusi di ogni tipo. Una lettura appassionante che ci riporta in un passato perfettamente ricostruito con i suoi chiaroscuri e ombre.

 

Antonio Monda “Il numero è nulla” -Mondadori- euro 19,00

E’ il numero 9 dei romanzi che Antonio Monda dedica alla sua amata New York del XX secolo; un progetto titanico per descrivere la città capitale del mondo nell’arco del Novecento, ogni libro dedicato a un decennio diverso. Il risultato è un lavoro imponente che ci offre una magnifica mappatura dei cambiamenti declinati nell’arco di 100 importantissimi anni.

Monda è esperto di cinema, docente alla New York University, profondo conoscitore della città dove vive ormai da quasi 30 anni, amico di registi e scrittori, collettore del mondo culturale americano e ci avvolge in romanzi che scorrono come film accattivanti.

La storia è ambientata negli anni Trenta: terribili, segnati dalla fine del proibizionismo, violenza e criminalità. Protagonista è un personaggio immaginario di cui non viene mai svelato il nome, solo quello dei suoi genitori. Alfonso e Luciana, originari di Lercara Friddi, piccola cittadina siciliana dove nacquero anche Lucky Luciano e il padre di Frank Sinatra.

Del protagonista sappiamo solo che viene soprannominato il “Vescovo”, perché il padre, che era un uomo devoto, per il figlio sognava una carriera ecclesiastica convinto che «….ai Vescovi si deve grande rispetto». Niente di più lontano dalla vita che invece il “Vescovo” si è scelto, nella quale il rispetto se lo è conquistato come killer spietato ed efficientissimo.

E’ un sicario al soldo del gangster realmente esistito, Bugsy Siegel, il criminale che inventò Las Vegas e uno dei più famosi mafiosi sulla torbida scena criminale degli anni Trenta. Da lui il “Vescovo” prende ordini su chi deve uccidere, poi si muove silenzioso e mortale portando a termine ogni incarico senza il minimo tentennamento. Compiti eseguiti alla perfezione, perché lui nel suo lavoro è davvero bravo.

Nel romanzo racconta le sue azioni criminali come se fossero un normalissimo mestiere, è privo di morale ed empatia, ed è un uomo perdutamente solo. Declina i suoi omicidi con precisione e freddezza.

Così come narra l’entusiasmo con cui Bugsy Siegel si vantava dei moltissimi cadaveri fatti seppellire sotto il Rockefeller Center nel cuore di Manhattan; un cimitero privato della mafia che mieteva le vite di chi osava contrastarla. Cadaveri che non verranno mai più ritrovati, occultati anche sotto la pista di pattinaggio sulla quale la gente volteggia inconsapevole di stare pestando la morte.

Eppure il “Vescovo” ad un certo punta incontra una donna, Eimear: onesta, fragile, enigmatica. Lei crede nella vita e porta una ventata nuova nell’anima del sicario. In fondo uccidere era facile, questione risolvibile in un secondo con un proiettile, nulla che implicasse lo sforzo interiore necessario invece ad agire secondo il bene.

L’incontro con Eimear e l’amore che nasce tra i due sono la svolta. Il “Vescovo” inizia a capire che la vita non è solo una sfida inutile; scatta la molla che porta alla redenzione e regala nuovi sbocchi all’eterna lotta degli uomini tra male e bene.

 

Marco Drago “Innamorato” -Bollati Boringhieri- euro 16,00

Questo libro potrebbe essere definito un lungo monologo interiore che rimanda anche all’autobiografia, in cui l’autore racconta il travaglio adolescenziale del protagonista per un amore a lungo covato in silenzio e mai dichiarato, almeno fino a un certo punto in cui la storia svolta decisamente.

L’ossessione per quel primo prorompente innamoramento è di quelle che segnano gli anni giovanili di molti di noi; anni in cui si idealizzava, si sognava e si era timidi quel tanto da esplodere solo dentro se stessi per desideri casti e importantissimi.

L’ossessione per la ragazza dura 40 anni, e Drago inizia a pensare di scriverne dal 6 agosto 1988 quando la storia finisce.

Un libro veloce, a scatti, tanti sipari agili che si aprono su un sentire che lo scrittore mette a nudo. La memoria ripercorre i travagli amorosi di un quindicenne nella provincia degli anni Ottanta. E’ a scuola che vede quella che diventa il suo primo grandissimo amore. Più sognato e vagheggiato che realmente consumato, almeno non durante i 4 anni di liceo in cui il suo cuore batte per lei, ma in segreto, senza neanche conoscerla.

Una somiglianza con Diane Keaton che lui trova irresistibile… e poi la svolta, in quinta liceo quando finalmente si mettono insieme.

Di lei ama tutto –voce, dolcezza, colori, odore, movenze, espressioni e modi di dire- e tanto altro che nel libro viene raccontato con dovizia di particolari. I contorni sono quelli di una straripante passione.

La loro storia dura 2 anni e mezzo e in queste pagine viene narrata fin nei minimi dettagli con un’onestà e un’introspezione a cui sono più avvezze le scrittrici che non i colleghi uomini.

Dopo la fine del loro rapporto non si sono mai più rivisti né sentiti, eppure lei è rimasta ancorata nei suoi pensieri molto a lungo.

E questa sorta di memoir -lungo monologo privo di dialoghi, in cui rimugina su quel sentimento intriso di emozioni, ricordi e pensieri- sembra essere stato anche terapeutico per chiudere un sipario definitivamente.