CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 183

Nasce RADIO LISCIO, la nuova emittente per chi ama la musica da ballo

 

Il progetto editoriale comprende anche un sito di informazione del settore

Una nuova radio interamente dedicata alla musica da ballo. Partirà il prossimo 2 maggio la nuova emittente radiofonica che avrà tra i suoi protagonisti Ettore Andenna, Clara Taormina, Genio dei Pierrots, Alessio Molla e Wilmer Modat.

RADIO LISCIO promette un’iniziativa editoriale che rivoluzionerà il modo in cui viviamo e godiamo della musica da ballo. Non solo una radio quindi, ma un vero e proprio hub multimediale che pone al centro la produzione delle orchestre di musica da ballo, declinando contenuti unici e coinvolgenti su diverse piattaforme di distribuzione, tra cui DAB+, app e web.

RADIO LISCIO nasce dal lavoro di un gruppo di esperti del settore radiofonico e della musica da ballo, desiderosi di creare uno spazio dedicato a un genere musicale che ha radici profonde nella cultura italiana. Un segmento che ha accompagnato generazioni di italiani nelle loro feste e balli, diventando parte integrante del tessuto sociale e culturale del nostro paese.

Intanto ha fatto il suo esordio il sito radioliscio.it che sarà un portale di informazione del mondo della musica da ballo. Ogni giorno tanti nuovi contenuti live e on demand, condivisi, per raggiungere tutto il pubblico della radio e non solo. Il progetto si propone infatti di offrire ai suoi ascoltatori un’esperienza completa, arricchendo la programmazione con contenuti editoriali originali, tramite interviste esclusive ad artisti del settore, approfondimenti sulla storia e l’evoluzione della musica da ballo, racconti di protagonisti, eventi dal vivo e tanto altro ancora.

RADIO LISCIO propone un palinsesto in diretta, dalle 6 del mattino per tutto il giorno, con un cast di primo piano: da Ettore Andenna, che torna in radio dopo aver debuttato su Radio Monte Carlo nel 1967, a Clara Taormina, conosciuta dai telespettatori del nord Italia per i suoi numerosi programmi televisivi; dall’animatore e creatore di contenuti Alessio Molla a Wilmer Modat, musicista e conduttore televisivo su Primantenna; Dario Maria Dossena sarà la voce ufficiale, mentre la direzione artistico-musicale è affidata a Eugenio Zanni, conosciuto dal grande pubblico del ballo come Genio dei Pierrots.

Con una programmazione curata e innovativa, una presenza su diverse piattaforme e un gruppo di lavoro appassionato e competente, RADIO LISCIO si candida a diventare un punto di riferimento per tutti coloro che amano ballare e vivere la musica in modo autentico, coinvolgente e live!

COME ASCOLTARLA

RADIO LISCIO sarà fruibile in “multipiattaforma” (DAB+, DTT, App, Web Streaming, Smart Speaker, aggregatori di flussi streaming radiofonici) 7 giorni su 7, 24 ore al giorno.

  • in DAB+ in Lombardia, Piemonte e Liguria.
  • su DTT e SMART TV
  • scaricando l’APP disponibile su Play Store e Apple Store con possibilità di ascolto su smartphone, tablet, Android Auto, Apple Car Play, Android Tv
  • in streaming sul sito radioliscio.it
  • attraverso gli Smart Speakers Google Home e Alexa
  • attraverso i principali aggregatori di flussi streaming radiofonici
  • sulle piattaforme di streaming on demand per podcast e catch up radio 

IL PALINSESTO

Un lungo flusso in diretta accompagnerà gli ascoltatori nei diversi momenti della giornata.

Un intrattenimento intelligente e leggero per coinvolgere gli ascoltatori di ogni età e area geografica.

dalle 6 alle 8: ENERGIA CONTAGIOSA con Alessio Molla

La carica giusta per iniziare la giornata. Con ALESSIO MOLLA un’iniezione di buonumore con tanta musica, curiosità e personaggi. E ogni giorno un giro per l’Italia alla scoperta di fiere, sagre, eventi. Gli appuntamenti più divertenti della settimana raccontati dai protagonisti.

dalle 8 alle 10: PIU’ CLARA DI COSI’ con Clara Taormina

Ogni mattina la padrona di casa è CLARA TAORMINA per un buongiorno in diretta tra amici. Canzoni, notizie, curiosità e… un caffè con gli artisti. Il garbo, la classe e la simpatia di Clara per iniziare la giornata con ritmo e allegria, ascoltando i successi di ieri e di oggi delle più grandi orchestre di musica da ballo.

dalle 11 alle 13: CANZONI SENZA FRONTIERE con Ettore Andenna

In questo spazio la nostra musica non ammette frontiere e consente di spaziare dai grandi classici di sempre al meglio della musica italiana, con un’incursione negli anni 60-70-80.

La trasmissione segna il ritorno alla radio del mitico ETTORE ANDENNA che per questo progetto porterà in dote la sua inconfondibile voce, il ritmo e il timing che da sempre lo contraddistinguono.

Due ore in diretta, tutti i giorni, a contatto con i radioascoltatori che hanno la possibilità di dialogare, partecipare e… giocare (e da lui c’era da aspettarselo)!

Alle 15: ROMAGNA CHIAMA ITALIA con Genio dei Pierrots

In diretta da Rimini GENIO e i suoi ospiti portano la Romagna in tutta Italia. Il Direttore Artistico di Radio Liscio Eugenio Zanni (Genio dei Pierrots) al grido di “Facciamo baracca” è un vulcano di idee: personaggi, ricordi e novità discografiche. E ogni giorno un collegamento con i luoghi dove tutto è partito per festeggiare i 70 anni di Romagna Mia.

Alle 16: AIAIAI – NIENTE DI ARTIFICIALE con Wilmer Modat

Una rubrica giornaliera di musica dal vivo in compagnia della voce e della chitarra di WILMER MODAT. In ogni puntata l’eclettico artista si trova a fare i conti con la fredda e a tratti irriverente assistente virtuale. Un dialogo sulla musica e i suoi interpreti in cui a rispondere è l’intelligenza artificiale. Ne nascono spunti curiosi che portano alla riscoperta delle più belle canzoni di tutti i tempi riproposte in chiave acustica e rigorosamente live. Nessun algoritmo, ma solo improvvisazione, simpatia e creatività.

e inoltre:

I SIMPATICI ITALIANI i miti di ieri e di oggi

QUELLI ERAN GIORNI monografie sulle grandi orchestre

MA COS’E’ QUESTO PALCO? I protagonisti si raccontano

ROMAGNA MIA 70 e la storia continua

PEZZI DA BALERA selezione musicale non stop

RADIO LISCIO LIVE le serate delle orchestre dal vivo

“Il Mandala della prosperità” al MAO dal 26 al 28 aprile

Da venerdì 26 a domenica 28 aprile, dalle 10 alle 18, il MAO ha il piacere di presentare l’evento “Il Mandala della prosperità”, a cura dell’Associazione Fedinsieme e della Casa della Cultura del Tibet. Per tre giorni consecutivi si potrà assistere alla creazione di un Mandala di sabbia ad opera di un gruppo di monaci buddisti della tradizione tibetana Geluk. Quella del Mandala, fonte di bellezza e perfezione, che rappresenta una delle più alte rappresentazioni della cultura spirituale buddista, è una pratica che prevede la costruzione di un complesso disegni composto da forme geometriche iscritti in un cerchio, mediante l’utilizzo di sabbia di vari colori, ciascuno con la sua valenza simbolica.

Frutto di una tradizione risalente a oltre 2500 anni fa, questa pratica è legata ai concetti di prosperità, pace, armonia e, soprattutto, all’idea di impermanenza e di distacco dalle cose materiali. Dopo aver lavorato per giorni alla composizione dell’opera, i monaci autorizzati allo svolgimento della pratica celebrano la cerimonia di dissoluzione, durante la quale la sabbia che compone il Mandala viene dispersa in acqua o distribuita alle persone presenti al rito. Durante l’evento al MAO, le fasi di creazione del Mandala si alterneranno a momenti di recita di Sutra e Mantra propiziatori, per culminare nella distruzione del Mandala domenica 28 aprile alle ore 17.

I visitatori del museo potranno assistere a tutte le fasi del processo, avvicinandosi così alla tradizione di riti nati sotto altri cieli. La partecipazione è inclusa nel biglietto d’ingresso al museo.

 

Mara Martellotta

In scena al teatro Gobetti “David Copperfield Sketch Comedy”

Un carosello dickensiano per l’adattamento e la regia di Marco Isidori con i Marcido Marcidorjs e Mimosa Famosa

 

 

Debutta martedì 30 aprile, alle 19.30, al teatro Gobetti, per la stagione del teatro Stabile di Torino, la pièce teatrale “David Copperfield Sketch Comedy. Un carosello dickensiano”, tratto da Charles Dickens per la riscrittura, adattamento drammaturgico e regia di Marco Isidori. Saranno in scena Paolo Oricco, Maria Luisa Abate, Valentina Battistone, Ottavia della Porta, Alessio Arbustini, Vincenzo Quarta e Marco Isidori. Scene e costumi sono di Daniela Dal Cin, le luci di Fabio Bonfanti.

Lo spettacolo è prodotto da Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e verrà replicato fino a domenica 5 maggio prossimo.

La Compagnia affronta le tematiche del romanzo ottocentesco, trasformandolo per il palcoscenico in una iperbolica narrazione dal ritmo verticale, che procede sostenuta da una serie di sketch dove la prevalenza del passo comico non impedisce la notazione di costume pungente, l’affondo nella contraddizione primaria del tempo storico in cui è collocato il romanzo, l’avvento della società industriale, permeata, tuttavia, da modelli comportamentali antecedenti, ricchi di un’ambiguità favorevole alla drammatizzazione teatrale. Tutto ciò avviene in un tono molto vicino a quello del vaudeville che si è scelto di assumere per far vivere al meglio la natura prismatica di quella giostra teatrale e sentimentale ideata da Dickens.

La scenografa Daniela Dal Cin anche per questo spettacolo si è espressa con una delle sue mirabolanti invenzioni e la chiave di volta di questa riduzione del romanzo di Dickens si colloca nella lotta mortale tra l’esasperazione iconica e la tramatura sonora della recitazione, portata verso una vivificante astrazione. Risulta evidente il tentativo di una rappresentazione segnata integralmente da quella tensione verso il teatro totale che, da sempre, caratterizza la specificità artistica della compagnia.

“David Copperfield Sketch Comedy – spiega il regista Marco Isidori – vuole essere la riproposta in chiave satirico grottesca del capolavoro di Dickens. Lo spettacolo ha una struttura drammaturgica dove le singole situazioni della “novella”, agganciandosi le une alle altre, si concatenano in una sarabanda teatrale di stupefacente rilievo spettacolare, in questo aiutate e servite dall’impianto scenografico di Daniela de Cin, andando così a instaurare una giostra veloce e incalzante, in cui il dinamismo è duplice, sonoro e iconografico, capace di comporre quel corpo drammatico che giustifica oggi la riproposizione teatrale di un testo di tale natura. Lo scandagliare scenico diventa lo strumento più adatto ad individuare nelle pieghe della narrazione ottocentesca quei temi universali che da sempre sono appannaggio della vicenda umana e che il teatro soltanto sa specchiare con verità completa”.

MARA MARTELLOTTA

Giorgio Griffa. Una linea, Montale e qualcos’altro

La colorata, poetica “visionarietà” dell’ artista torinese in mostra al “Castello di Miradolo”

Fino al 25 dicembre

San Secondo di Pinerolo (Torino)

Molti anni dopo la sua prima mostra negli Stati Uniti, nel dicembre del 2012 una sua personale (“Fragments 1968 – 2012”) presso la “Casey Kaplan Gallery” di New York, gli fece guadagnare la definizione di “una delle dieci riscoperte più emozionanti dell’anno”, tanto che sul “ New York Times” la critica d’arte Roberta Smith ebbe allora a scrivere che “la sua arte merita un posto nella storia mondiale dell’astrattismo”. E’ proprio vero. Nemo propheta in patria, dicevano gli antichi. E il concetto non è mai passato di moda. Vedi, appunto, Giorgio Griffa (Torino, 29 marzo 1936), allievo di Filippo Scroppo nei primi anni Sessanta e sicuramente fra i principali esponenti, a livello internazionale, della ricerca pittorica contemporanea, nominato “Artista dell’Anno 2024” da “Il Giornale dell’Arte”… eppure artista cui, inspiegabilmente, la “Torino dell’arte” non ha ancora tributato i doverosi massimi onori toccati, invece, ad altri suoi illustri colleghi come lui ruotanti, fra gli Anni Sessanta e i primi Settanta – sotto l’egida non univoca – dell’“Arte Povera” attorno alla prestigiosissima Galleria torinese di “Gian Enzo Sperone. Non faccio nomi.

Ma ben si conoscono. Nomi iconici delle “Avanguardie” internazionali (meritevoli, per carità!), nel cui gruppone troppo poco e inspiegabilmente (oltreché ingiustamente) si legge il nome di un artista altrettanto “grande” come Giorgio Griffa. Lodevole, dunque, l’iniziativa di dedicargli, fors’anche in occasione del suo 88° genetliaco (fra un paio di giorni; tanti auguri, Maestro!) una ricca personale nella prestigiosa location del settecentesco “Castello di Miradolo”, antica dimora della famiglia Cacherano di Bricherasio e, dal 2008, sede della “Fondazione Cosso”. In programma fino al giorno di Natale, mercoledì 25 dicembre, la rassegna (“Una linea, Montale e qualcos’altro”) si articola in diverse tappe espositive, articolate lungo le quattro stagioni, in un percorso che abbraccia oltre mezzo secolo di pittura dell’artista, coinvolgendo tutti gli spazi interni del “Castello” di San Secondo di Pinerolo e del suo “Parco storico”. Prodotta dalla “Fondazione Cosso” e dalla “Fondazione Giorgio Griffa”, la mostra, curata da Giulio Caresio e Roberto Galimberti, è stata ideata e progettata con lo stesso Giorgio Griffa, che ha anche realizzato, appositamente per l’occasione, alcune opere site specific, studiate per essere inserite armoniosamente nel contesto ambientale.

E in linea con quel suo operare assolutamente singolare, “suo” e solo “suo”, partecipe inizialmente ai sussulti post-informali dell’“Arte Povera” (cui è stato spesso accostato) o “minimalista” o “analitica”, ma ben deciso a lavorare attorno all’iniziale ciclo dei “segni primari” che da sempre hanno accompagnato la “sua” arte. “Io non rappresento nulla, io dipingo”, dice lo stesso Griffa, fedele a ritmi cromatici tesi a sottolineare e a fondersi, in una sorta di “scrittura zen” (alla Natalie Goldberg), con l’ambiente naturale e spirituale e con la vita di cui è parte trasognante e trasognata. “La sua – è stato scritto– è una pittura fatta di segni spogliati di significato … memoria della pittura che si sovrappone alla memoria personale dell’artista”. Un “costante non finito”, come “fermare un pensiero a metà frase”. Così, fra interni ed esterni, l’iter ci porta dai “Sei colori” (tre tele con colori complementari esposte all’esterno e ai segni più o meno rancorosi del tempo), a “Una linea” (serie di ceramiche bianche e blu che collegano una gigantesca farnia caduta nel 2020 con l’architettura del “Castello”) e a “Un filo” (corde bianche parallele simili a a linee spezzate nel canneto di bambù gigante). Per proseguire, via via, con “Canone Aureo 980” (18 tele che scandiscono i 36 metri della serra, metafora – secondo gli antichi principi propri della “sezione aurea” – a “conoscere l’inconoscibile e a dire l’indicibile”), con “Montale” (dalla poesia “Arte Povera” dove il poeta ironizzava sulla sua attività pittorica), fino a “Bianchi” (realizzati un’estate anni ’70, in cui l’artista sopraffatto dal “verde” di un bosco, decide di mettersi a dipingere affidandosi solo al “bianco”) e a “Venti frammenti” (dipinto nell’’80, installato temporaneamente in una Sala del “Castello”, in occasione della mostra “Oltre il giardino. L’abbecedario di Paolo Pejrone”, e lì lasciato in maniera permanente). Ad accompagnare l’esposizione un’inedita “installazione sonora” a cura del progetto “Avant-dernière pensée”, che indaga assonanze e analogie con la pittura di Griffa “sottolineando – spiegano gli organizzatori – gli itinerari e le linee di differenti strumenti e, insieme, li ricompone come unità”.

Gianni Milani

 

“Giorgio Griffa. Una linea, Montale e qualcos’altro”

“Castello di Miradolo”, San Secondo di Pinerolo (Torino); tel. 0121/502761 o www.fondazionecosso.com

Fino al 25 dicembre

Orari: sab. dom. e lun. 10/19

Nelle foto di Giulio Caresio: Giorgio Griffa al lavoro in studio; Canone aureo”, water color on paper, 2015 e “Tre linee con arabesco”, pastel on paper, 1991

Le “Immagini danesi” di Birgitte Lykke Madsen

Mostra alla Galleria Pirra, sino al 19 maggio

Per la terza volta le sale della Galleria Pirra (corso Vittorio Emanuele II, 82) ospitano la pittura dell’artista danese Birgitte Lykke Madsen – Odense, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti e dove vive e lavora, e dove è nata nel 1960. Un’artista che guarda avanti nella propria tecnica e altresì dentro il passato in questo impressionismo rivisto con gli occhi del Mare del Nord e del Mar Baltico, con i venti freddi, con le spiagge pochissimo frequentate, con gli isolotti che si mescolano alle onde che giungono sino a riva. Non siamo più di fronte all’arcata della scogliera di Etretat o ai poetici spazi d’acqua e alle ninfee di Monet, accanto alla casa di Giverny, non siamo più di fronte alle distese impazzite di fiori del Sud della Francia: i cieli i profumi i colori sono altri ma appieno mantengono la stessa irremovibile poesia. Le persone sono altre, bagnanti ragazzi donne di un’età indefinita, moderne, colti tutti nei loro costumi, negli abiti, nei movimenti, distesi nell’acqua o a nuotare o a chiacchierare in un momento di libertà. A confondersi con il mare.

Questa volta ci stanno di fronte le tele, di una certa grandezza o di dimensioni decisamente più ridotte che sono il frutto del progetto “Danske Billeder” – “Immagini danesi” (ovvero “Acqua e sabbia”; la mostra rimarrà aperta sino al 19 maggio, lunedì-sabato 10 / 12,30 – 15,30 /19, apertura domenica mattina, tel. 011 543393, galleriapirra.it: rischiando anche di essere prolungata, considerando l’interesse di pubblico nei primissimi giorni – nato nel 2020 a confronto di una pandemia che obbligava ognuno di noi nel chiuso della propria casa. La risposta era il bisogno intimo di evadere, la necessità fisica di lasciarsi toccare da un’altra aria, vera, integra, profumata, la necessità di liberarsi di quelle mura. Ed ecco l’artista infilarsi frettolosamente, ansiosamente, un paio di scarpe da trekking ai piedi e armarsi di un blocco da disegno per riempirlo di schizzi da sviluppare poi in studio, nel ritornato chiuso del suo studio. Ne nasce un viaggio – oli, più o meno una trentina, dove l’occasione si riallaccia pure a prove precedenti ma di eguale sentimento – fatto di più o meno piccole tappe, concepite con la mente e con il cuore allo stesso tempo, una ricerca di momenti e di paesaggi, di scorci d’acqua e di terra, tangibili realtà e magnifiche suggestioni, uno per tutti “Mare dei Wadden”, 140×140 cm: un viaggio in cui la natura e il corpo umano dialogano ancora con spazi ben definiti o si fanno tutt’uno nella stretta armonia dei verdi e dei blu. O – sulla sinistra della sala d’entrata, nelle sequenza di una decina di piccole opere – il corpo viene come risucchiato dalla liquidità dell’elemento, sino quasi a sparire, ad essere annientato. In un ambiente pressoché surreale. Dove la natura ha preso il sopravvento, in una tavolozza di colori sfacciatamente forti e arditi.

Nascono istanti carichi di bellezza. Forse di rifugio, forse di protezione cercata, forse di difesa dal frastuono della città. Istanti che chi guarda può considerare anche soltanto accenni, e in seguito riviverli nella loro completezza. La barca distesa con ampie pennellate nello sfondo verde, i ragazzi sulla spiaggia, la donna immersa nell’acqua o le altre riprese a passeggiare sulla battigia (“Figura a passeggio nel mare”, “Passeggiata nell’acqua bassa”, 30×30 cm), i corpi che fluttuano indisturbati sul fondale marino: un percorso lungo, al suo termine un fotogramma nettamente suddiviso a metà, il cielo e il terreno in parti eguali, sempre maggiori macchie di colore a sovrastare.

Elio Rabbione

Nelle immagini: “Passeggiata nell’acqua bassa VI”, olio, 30×30 cm, 2023; “Mare dei Wadden II”, olio, 140×140 cm, 2021; “Figura a passeggio nel mare”, olio, 40×40 cm, 2023.

Ersel, GUIDO IO: cento fotografie dalla collezione di Guido Bertero

Ersel allestisce l’esposizione GUIDO IO, itinerari fotografici di una collezione. Si tratta di  cento fotografie della raccolta di Guido Bertero, in mostra in piazza Solferino 11 a Torino dal 24 al 14 giugno. La mostra si inserisce nel programma di ExposedExtended, il primo festival internazionale di fotografia del capoluogo piemontese, che proporrà altre venti mostre temporanee sparse per la città.

Guido Bertero, a partire dagli anni Novanta, ha creato una delle maggiori collezioni italiane di fotografia del dopoguerra, così ampia che al suo interno si possono selezionare di volta in volta gruppi di artisti diversi, dai più  storici ai moderni, dai celebri interpreti internazionali alle grandi rappresentanti femminili della nostra fotografia: ecco i nomi di Giuseppe Cavalli, Mario Gabinio, Riccardo Moncalvo e Luigi Veronesi, ma anche quelli di Robert Capa, William Kline, David Seymour e Paul Strand; Alfredo Camisa, Pietro Donzelli, Nino Migliori e Federico Patella, ma anche NanGoldin, Boris Michajlov, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi e Carla Cerati, Gabriele Basilico, Mario Cresci, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Ugo Mulas e tanti altri ancora.

Si tratta di una collezione nata subito con un focus molto preciso sulla fotografia italiana del dopoguerra,  vera e propria testimonianza della nostra storia, intesa come memoria, documento, traccia di un’epoca, arricchita nel  contempo dalle incursioni nella grande fotografia internazionale.

Tra i meriti di Guido Bertero vi è quello di aver cercato i capolavori degli artisti più noti, ma anche gli scatti di quelli meno conosciuti, concentrandosi sul messaggio, sulla forza delle immagini e sulla qualità delle stampe che, se possibile, dovevano essere “vintage”, stampate, cioè,  al momento della realizzazione dello scatto. Ogni fotografia porta con sé una storia e immortala un momento di quell’epoca.

La collezione rispecchia la curiosità,  la sensibilità,  l’amore per il bello, ma anche la dedizione per chi l’ha creata, viaggiando per l’Italia per conoscere i fotografi e il loro lavoro, riunendo fondi di immagini important8, con la volontà di costruirne una memoria.

Guido Bertero, nato a Torino nel 1938, colleziona fotografie dal 1999 al 2015 ed è  vicepresidente di Camera, Centro Italiano per la Fotografia di Torino.

MARA MARTELLOTTA

“Tutto il resto è profonda notte”, la GAM ospita la prima mostra museale di Italo Cremona

/

 

 

La GAM di Torino dedica all’universo creativo e all’opera di Italo Cremona la prima mostra museale riferita alla produzione figurativa di questo pittore fantastico e surreale. La mostra aprirà i battenti il 24 aprile fino al 15 settembre, per poi trasferirsi nelle sale del MART di Rovereto dal 18 ottobre al 26 gennaio 2025. È curata da Giorgina Bertolino, Daniela Ferrari ed Elena Volpato. Il titolo dell’esposizione “Tutto il resto è profonda notte” allude alla frase con cui Cremona aveva concluso uno dei testi di Acetilene, rubrica che negli anni Cinquanta firmava per “Paragone”, la rivista di Roberto Longhi. Il “Notturno” è uno dei temi principali della pittura di Italo Cremona, una condizione espressiva, esistenziale e filosofica che produce sogni, incubi, apparizioni e immagini fantastiche.

Pittore-scrittore, intellettuale poliedrico e eccentrico, nei dipinti come negli scritti, Italo Cremona ha indagato la “zona ombra”(titolo del suo libro edito da Einaudi nella serie bianca dei Coralli): un territorio capiente dove il buio entra in contatto con la luce attraverso lampi vividi o barlumi, attraverso il chiarore di una lampada ad acetilene (il lume usato da tempo da minatori e speleologi) o la scia di una stella cadente, come nel romanzo distopico “La coda della cometa”.

“Tutto il resto è profonda notte” è il titolo insegna, la chiave scelta per tracciare un percorso espositivo dell’intera arte di Italo Cremona, dalle prime prove giovanili risalenti alla prima metà degli anni Venti fino alle opere della prima metà degli anni Settanta, dalle nature morte, vicine all’atmosfera del realismo magico, alla visionarietà del “surrealista indipendente”, come amava definirsi. L’esposizione raccoglie un centinaio di dipinti e una selezione di disegni e incisioni, documentando l’alta qualità pittorica dell’artista, rileggendo nel presente l’originalità del suo immaginario.

Italo Cremona narra la vita intensa e silenziosa degli oggetti in un’atmosfera carica di mistero, e sospesa tra metafisica e realismo magico. Il “Notturno” pervade gli enigmi di “Specchio del mattino”, esposto alla Biennale di Venezia nel 1936, “Metamorfosi” (1936-1937), “Piccolo golem (1940), “Ascolto il tuo cuore città” (omaggio a Savinio del 1954), “Aria di Torino” del 1959. “La veglia e il sogno” sono la cornice degli accadimenti del romanzo distopico “La coda della cometa” (Vallecchi, 1968- Allemandi, 1983) e dei racconti di “Zona ombra” (Einaudi, 1967).

Il percorso espositivo si articola in nove stanze intitolate e dedicate alla pittura di Italo Cremona: “Specchio”(1925-1931), “Trofei”(1928-1932), “Spoglie”(1932-1934), “Metamorfosi”(1935-1945), “Follie”(1935-1956), “Golem”(1939-1946), “Corpi”(1935-1964), “Quinte”(1926-1970), “Apparizioni”(1958-1968). La cronologia attraversa le diverse stagioni creative e, come nei quadri di Cremona, ritorna su se stessa, si riavvolge, procedendo per figure e oggetti ricorrenti, che sono costanti artistiche di natura iconografica e espressiva. In una sala centrale del percorso è stata scelta come “Cabinet des folies”, ed è dedicata alla frequentazione del grottesco, del surreale e del fantastico, con una selezione di dipinti nei quali la pennellata sembra farsi sempre più esatta e nitida quanto più si avventura nell’espressione del bizzarro. Nella Sala delle Facciate, la visione si sposta sulle architetture torinesi, un motivo pittorico peculiare sviluppato dall’artista lungo i decenni. Le facciate silenziose del palazzi e delle case risultano apparentemente deserte di ogni presenza umana, ma sono in realtà dipinte come quinte di un segreto teatro cittadino, e alludono sempre a uno spazio ulteriore. È anche presente un’ampia produzione di nudi ritratti attraverso epifanie e piccole allucinazioni, in cui non si distingue la realtà del corpo della modella dalla segmentazione pittorica dei suoi dettagli.

La mostra intervalla immagini oniriche perturbanti ad armi improprie di disegni e incisioni, con la forza plastica degli anni Venti e Trenta dell’artista, l’intensità lirica dei suoi anni Quaranta, l’esattezza del disegno impressa sull’emozione cromatica risalente agli anni Cinquanta, mettendo in evidenza gli aspetti più attuali e contemporanei dell’opera di Italo Cremona e della sua figura di intellettuale irregolare, impegnato in numerosi ambiti creativi e piuttosto affine ad altre figure eccentriche torinesi, quali Carlo Mollino e Carol Rama.

A partire dal nucleo di opere del pittore, appartenenti alla collezione della GAM (dall’”autoritratto nello studio” del 1927 a “Metamorfosi” del 1936 e a “Inverno” del 1940), la mostra antologica conta su una serie di prestiti dai musei, tra cui il MART, partner del progetto, che ha prestato “Composizione con lanterna”(1926) e la “Libra” (1929), i musei civici “Luigi Barni” di Vigevano, che hanno prestato il dipinto “Dialogo tra una conchiglia e un guantoni da scherma”(1930) e un coeso numero di opere visionarie degli anni Quaranta e Cinquanta; l’Accademia Albertina di Belle Arti, i Musei Reali, la Galleria Sabauda di Torino.

La mostra, grazie a una ricerca capillare, presenta numerose opere di collezioni private e prestiti di alcune istituzioni, come quelle del Museo Casa Mollino, che ha prestato “Ritratto di Carlo Mollino” del 1928, l’Archivio Salvo, “Autoritratto giovanile” del 1926, la Collezione Bottari Lattes con il prestito de “La vittoria sul cavallo di gesso” del 1940 e la Collezione Rai con “Piccolo golem” del 1940.

 

Mara Martellotta

Susan Meiselas, il coraggio delle immagini

 In occasione della mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerraa CAMERA fino al 2 giugno, mercoledì 24 aprile alle 18.30 incontreremo Susan Meiselas, fotografa documentaria statunitense nota soprattutto per i suoi reportage realizzati in America Latina.

 

Membro dell’agenzia Magnum Photos dal 1976, nel 1978 Susan Meiselas ha vinto, con il progetto Nicaragua, la Robert Capa Gold Medal, premio assegnato a reportage fotografici per realizzare i quali siano stati necessari eccezionali doti di coraggio e intraprendenza. Nei suoi lavori ha affrontato una vasta gamma di temi, dalle problematiche dei diritti umani, della prostituzione, della violenza domestica e dei conflitti in Nicaragua, Kurdistan e Palestina. Tra i suoi riconoscimenti più importanti anche l’Hasselblad Award, il Premio Maria Moors Cabot e il Guggenheim Fellowship.

Coraggio e impegno in temi sociali e politici sono al centro del dialogo con l’autrice statunitense. Durante l’incontro Susan Meiselas, insieme al direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini, condividerà le esperienze vissute sul campo nella realizzazione dei suoi reportage, dal suo approccio creativo alla relazione con i soggetti fotografati. Una relazione che gioca un ruolo fondamentale nella creazione delle sue fotografie: “È raro che io arrivi in un luogo con un’idea già in mente. Succede invece che l’idea si sviluppa mentre sono sul campo, interagendo con le persone e capendo pian piano ciò che sarà più appropriato”. L’incontro sarà anche un’occasione per interrogarci, insieme a una delle figure più influenti del fotogiornalismo contemporaneo, su quale sia oggi il ruolo della fotografia nel sensibilizzare l’osservatore di fronte alle condizioni di vita nelle realtà più emarginate del nostro pianeta.

Intervengono:

Susan Meiselas, fotografa

Walter Guadagnini, direttore artistico di CAMERA

 

È consigliato prenotare per l’incontro sul sito di CAMERA.

Il biglietto d’ingresso per l’incontro ha un costo di 3 Euro.

Il monologo è poco democratico anche quando è “antifascista”

IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni

Un gran brutto evento quello che precede di pochi giorni la festa della Liberazione, ancora una volta guastata da polemiche tanto feroci quanto inutili.  Il monologo sul 25 aprile di Antonio Scurati – scrittore che ha avuto notorietà solo quando si è paradossalmente dedicato al suo demone Benito Mussolini, senza avere la benché minima competenza storica, scrivendo anche cose inesatte e imprecise,  come dimostrò Galli della Loggia – andava letto e riletto, direi tutti i giorni come un mantra per una settimana o almeno per un triduo a reti unificate, come stanno facendo oggi in modo ossessivo, dopo lo stupido divieto della Rai, giornali e Tv.  Così tutti avrebbero capito e oggi possono egualmente capire che il suo non è un discorso storico, ma meramente politico e di bassa politica pre elettorale.  De Felice ci ha fatto capire Mussolini, Oliva ci ha fatto comprendere l’antifascismo, Scurati invece ha confermato di essere un “antifascista fascista” come disse Ennio Flaiano. Sembrava una genia scomparsa e invece sopravvive in Scurati e anche negli anziani professori di Bari che si dilettano a scrivere di storia contemporanea invece di dedicarsi all’antichità classica  dove furono maestri. Di questi cultori del fascismo antifascista o antifascismo fascista sono pieni anche i social dove il messaggino di Scurati è stato ripreso e commentato come una pagina di vangelo. Invece la stessa interpretazione di un unicum fascista dal 1924 al 1944 e’ una trovata priva di fondamento storico, una sparata politica ad effetto pubblicitario. L’omicidio di Matteotti e le stragi nazifasciste del ‘44, dimenticando ovviamente via Rasella, sono cose diverse che vanno studiate analiticamente. Sarebbe un discorso che ci porterebbe lontano perché bisognerebbe partire dal biennio rosso successivo alla Grande Guerra per giungere alla Rsi e all’occupazione tedesca del 43/45. Il monologo non si addice comunque agli storici perché la ricerca storica è fondata sul dialogo, sul confronto e soprattutto sulla ricerca distaccata che è l’esatto opposto della dogmatizzazione ideologica che lo storico partigiano Raimondo Luraghi considerava un veleno mortale che uccide la ricerca storica.  Ma Scurati non sa nulla di Luraghi, probabilmente non ha neppure letto la storia dell’Italia contemporanea di Federico Chabod, partigiano valdostano e maestro di studi storici, che parlava e scriveva nel 1950 con distacco critico del fascismo, come fece Croce in una lezione sulla storia contemporanea, tenuta ai giovani dell’ istituto di studi storici di Napoli da lui fondato e ripubblicata dal Centro Pannunzio con prefazione di Sergio Romano che si dichiarò un revisionista.  Scurati pare un “galoppino elettorale” che un uomo serio come Togliatti non avrebbe neppure considerato per un qualsivoglia incarico nel PCI. Alle Frattocchie non l’avrebbero mai accolto come discente, figurarsi come docente insieme a maestri come Ernesto Ragionieri.  Il monologo di Scurati, zeppo di aggettivi eclatanti e di ammennicoli ideologici, non aggiunge nulla all’antifascismo che è stato ed è plurale: cattolici, ebrei, valdesi, laici, comunisti, anticomunisti, liberali,  azionisti, anarchici, socialisti, monarchici e repubblicani, militari e civili, semplicemente democratici e quindi anti-autoritari non a senso unico,  stranieri di diverse nazionalità che combatterono per Liberazione dell’Italia insieme al risorto Regio Esercito del Sud e ai partigiani del Nord. Il vero 25 aprile è un 25 aprile tricolore in cui le bandiere di partito hanno un ruolo secondario.  C’è anche chi vorrebbe sfilare con altre bandiere come quelle della NATO che nulla c’entrano con la Resistenza per ragioni di visibilità personale e narcisisticamente divisiva o vuole impedire a Milano alla Brigata ebraica di usare il suo striscione.  Questi sono usi strumentali della Resistenza che rispecchiano lo squallore dei tempi. Non meritano di essere considerati perché in fondo dimostrano che il rimasuglio di un certo “fascismo” è rimasto nel modo di pensare anche di alcuni antifascisti che pretendono di avere l’esclusiva della Resistenza. Anche questo fascismo va considerato perché dimostra che anche Umberto Eco parlando di “Fascismo eterno” aveva le sue buone ragioni anche se diverse da quelle che hanno motivato il suo librino che forse Scurati ha studiato a memoria, senza comprendere che ad un genio come Eco tutto è consentito perché il semiologico alessandrino non  era un dogmatico e non pretendeva mai di imporre una sua verità. Forse ci sarebbe anche da domandarsi chi abbia avuto l’idea di chiedere il monologo a Scurati per la Rai che deve rispettare il pluralismo. Avrei capito invitare Gianni Oliva, non certo Scurati che non ha titoli per intervenire, malgrado i libri scritti, anzi soprattutto perché ha scritto tre volumi su “M” e si accinge a pubblicarne un quarto.

Stéphane Braunschweig tra realtà e sogno per la Grande Illusione di Donn’Anna Luna

La vita che ti diedi” sul palcoscenico del Carignano sino al 28 aprile

Luigi Pirandello scrisse “La vita che ti diedi” – la definì “tragedia” – traendola da tre delle sue numerose novelle: “I pensionati della memoria” (1914, “Fanno finta d’essere morti, dentro la cassa.

O forse veramente sono morti per sé. Ma non per me, vi prego di credere! Quando tutto per voi è finito, per me non è finito niente.”), “Colloqui coi personaggi” scritta nel ’15 all’indomani della morte della madre e “La camera in attesa” (1916), la madre e le sorelle di un soldato scomparso al fronte, che non hanno la certezza della sua morte, continuano a preparargli la camera in attesa del suo ritorno (“Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date.” Una “tragedia” destinata alla Duse che tuttavia la rifiutò, per cui se ne impossessò Alda Borelli che la rappresentò nel febbraio del ’23 al Quirino di Roma.

Il rapporto madre-figlio, un personaggio, Fulvio, un ragazzo di cui si parla molto ma che non comparirà mai in scena, il suo ritorno nella casa dopo averla abbandonata per sette anni, per inseguire in terra di Francia un amore e una donna che là già aveva un marito e due figli e una vita chiusa in una unione infelice. Fulvio è tornato per morire, ma per Donn’Anna non è quell’ultimo giorno di vita ad averle strappato ogni lacrima, non è ha più di lacrime, le ha consumate il giorno in cui quel figlio se lo è visto tornare, cambiato, irriconoscibile, un altro da come era nei suoi ricordi. Quindi la madre stringerà quell’immagine, e quella realtà, che ha del figlio: “Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so! …E come per sette anni gliel’ho data senza che lui ci fosse più, non posso forse seguitare a dargliela ancora, allo stesso modo?” Tre atti a svolgere da parte di una madre e a capovolgere da parte di chi le sta accanto un grumo centrale che non poche volte richiederebbe un po’ più di respiro (il testo e le sue rappresentazioni, davvero non molte, nel corso di un secolo – nella memoria una con la regia di Castri e una grandiosa Moriconi -, non ebbero mai il successo che Pirandello si sarebbe augurato), di alleggerire quello svolgimento a tratti ansimante, rotto, frastagliato: giù giù sino all’arrivo della donna amata e della madre di lei, l’una annichilita dinanzi alla notizia, finalmente svelata, della morte di Fulvio e lei costretta a confessare di aspettarne un bambino, l’altra decisa con estrema e pratica razionalità a riportarsela a casa. Un intreccio che Roberto Alonge, nella sua “Introduzione” al testo pubblicata da Mondadori nel 1992, definisce “tragedia astratta”, esplorandola oltre l’autore e analizzandola in quel “labirinto di specchi” in cui Fulvio è vittima, psicanaliticamente con la propria fuga dall’accentramento materno per ricadere in un innamoramento verso una donna che ricalca con esattezza “un doppio evidente della madre”. Quel figlio “accudito” dentro di sé verrà a scomparire, a morire davvero, si scioglierà la finzione di una vita ancora presente, Donn’Anna non potrà più vivere con la “propria” certezza e “come se” il figlio fosse ancora vivo: nell’ultimo attimo non potrà che disfare, in un ambiente che non ha più ragion d’essere e che è diventato come l’involucro rarefatto di un sogno, il letto in cui ha dormito Fulvio e in cui è stato deposto.

Materia più che pirandelliana, verrebbe da dire, magari con poco rispetto. Difficile, avvolta e riavvolta, una donna a cui non siamo forse oggi preparati e che in maniera granitica cerca di coinvolgerci nel proprio carico di sicurezza, nella necessità di illusione, quotidiana, forte, senza alcun ripensamento. Il regista Stéphane Braunschweig, direttore artistico dell’Odéon parigino e ospite della stagione del Teatro Stabile Torinese – Teatro Nazionale, già prolifico ricercatore per precedenti direzioni all’interno del territorio pirandelliano, direi che (in)seguendo la piana chiarezza delle parole dell’autore che scavalcano la complessità dello svolgimento, costruisce e offre sul palcoscenico del Carignano (repliche sino al 28 aprile) uno spettacolo di prim’ordine, concertando con estrema esattezza il percorso della Grande Illusione. E, facendosi carico dell’aspetto visivo, dà forma ad un ambiente realisticamente inteso, delimitato, suddiviso tra proscenio e interno, fatto degli oggetti di ogni giorno, di vita e di ricordi, sino a giungere a quella rarefazione finale – bellissima – di cui s’è detto.

Nel risultato positivo e affascinante della sua messa in scena, ha raccolto e guidato con occhio felicemente attento un terzetto d’attrici che sono veramente da ammirare. Daria Deflorian è la protagonista Donn’Anna Luna, raccolta in questa sua smisurata determinazione, delicata e agguerrita al tempo stesso, sul limite della follia ma pronta a squadernare anche con disarmante semplicità la lucidità del proprio pensiero; Federica Fracassi non è soltanto la sorella che umanamente la sorregge nella speranza di sviare quel pensiero ma pure, raddoppiandosi, dà buon spessore con asprezze e sguardi duri ad un’altra madre, quella arrivata da lontano, che per altre attrici sarebbe potuta essere un’apparizione di poco conto. E poi la giovane Cecilia Bertozzi, che è l’amata Lucia Maubel, incerta e spaurita, sbalordita, mette in campo le sue battute con maturità, con una sicurezza e una fierezza che non possono non imporla all’attenzione dello spettatore. Con loro Fulvio Pepe, Enrica Origo, Caterina Tieghi e Fabrizio Costella, al quale è dovuto anche il compito di una onirica apparizione. Successo incondizionato e parecchie chiamate alla replica a cui ho assistito.

Elio Rabbione

La foto del regista Stéphane Braunschweig è di Carole Bellaïche; le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma.