Mercoledì 4 alle 18 al Teatro Regio, debutto di “Un mari à la porte”. Operetta in 1 atto di Offenbach. L’Orchestra del teatro Regio sarà diretta da Riccardo Bisatti. Repliche fino a sabato 14.
Lunedì 9 alle 20.30 per lingottomusica all’Auditorium Agnelli, l’Orchestra De Sono diretta da Antonello Manacorda e con Viktoria Mullova al violino, eseguirà musiche di Mendelssohn e Beethoven. Mercoledì 11 alle 20.30 al Conservatorio per l’Unione Musicale, il Quartetto Emerson eseguirà musiche di Purcell-Britten, Ravel e Beethoven. Sabato 14 alle 20.30 all’Auditorium Toscanini concerto straordinario con l’Orchestra Rai diretta da Andrès Orozco-Estrada impegnata ad eseguire musiche di Mozart e Musorgskij. Sempre sabato 14 alle 18 al teatro Vittoria, Francesco Bergamini violino, Lucia Sacerdoni violoncello, Matteo Cotti virginale con Antonio Valentino, presentano “Costellazioni”. Martedì 17 alle 20 al teatro Vittoria, Raiz & Radicanto eseguono “Neshama” . Il concerto sarà preceduto alle 19.30 da un aperitivo.
Mercoledì 18 alle 20.30 al Conservatorio per l’Unione Musicale, il Quartetto Arod eseguirà musiche di Haydn, Attahir e Debussy. Mercoledì 25 alle 20.30 al Conservatorio sempre per l’Unione Musicale, Igor Levit al pianoforte eseguirà musiche di Liszt, Mahler, Wagner, Giovedì 26 alle 20.30 e venerdì 27 alle 20 , all’Auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Fabio Luisi e con Martha Argerich al pianoforte, eseguirà musiche di Beethoven e Cajkovskij.
Pier Luigi Fuggetta
La mostra aperta sino al 28 gennaio 2024
Il 2023 scelto nelle mostre della Reggia di Venaria come l’anno del cibo: il compimento con una grande, affascinante quanto sontuosa mostra, distribuita in 14 sale, che ha aperto ieri per concludersi il 28 gennaio prossimo, “Sovrani a tavola. Pranzi imbanditi nelle corti italiane”. Una mostra fortemente voluta da Guido Curto, Direttore generale del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude e affidata alla conoscenza e alla cura di Andrea Merlotti con la collaborazione di Silvia Ghisotti e Clara Goria, nell’elegante allestimento di Lorenzo Greppi. Duecento (ma il numero si amplia se andiamo a conteggiare quanto di meraviglie è posato sulle tavole imbandite) tra dipinti, arredi da tavola, splendidi servizi di porcellana e d’argento provenienti dalle varie corti italiane – una collaborazione preziosa alla mostra e un viaggio che si snoda tra Capodimonte e Caserta, tra il Quirinale e il Palazzo Reale di Milano, tra Palazzo Pitti e il Palazzo Reale di Napoli sino a quelli di Torino e Firenze: tacendo dei molti prestiti da collezioni privale e musei italiani ed esteri -, un racconto particolareggiato che parte tra il Cinque e il Seicento per giungere sino ai pranzi del Quirinale sabaudo. Che è qui, oggi e per i mesi futuri, tra le mura del Castellamonte, l’ultimo ospite del racconto, pieno di fascino e di stupore per il visitatore, come gran finale della mostra, quasi il suo fiore all’occhiello, “fotografando” e appropriandosi dello sfarzo del Salone delle Feste del palazzo che fu dei papi, lo stesso dove il Presidente della Repubblica ospita i tanti Capi di stato in visita per i pranzi di gala. Il lungo tavolo, tra lampadari sospesi e tele e arazzi, suddiviso in tre parti con altrettanti servizi per dare vita alla “mise en place”, derivati dal gusto della principessa Margherita, dal 1878 prima regina d’Italia, e legati ai canoni d’eleganza settecenteschi. Con la predilezione per la porcellana di area germanica, Meissen in primo luogo, qui rappresentata dal servizio a “Fiori blu con corona reale e dorature” per il pranzo e il servizio “a medaglioni con rilievi Dulong”, cui si ispira l’elegante “Medaglioni” della Richard Ginori per la tavola presidenziale.
Momenti che esprimono fascino e curiosità quelli dei pranzi dei sovrani sebbene raramente trattati dagli artisti. Di qui la grande ricerca dei curatori, per portare alla luce le occasioni pubbliche come quelle private delle teste coronate, non trascurando le rappresentazioni simboliche, le allegorie che racchiudono momenti e personaggi lontani nel tempo: in mostra, di anonimo fiammingo del finire del XVI secolo, “Il pranzo degli Asburgo”, proveniente da Varsavia, ovvero tre generazioni d’Asburgo, succedutesi sul trono delle Fiandre tra il ‘500 e il ‘600, Carlo V e Filippo II al centro della scena, a servirli i governatori di quei paesi, con un probabile Emanuele Filiberto ossequioso nei confronti del potente imperatore. Tra il pubblico (per i numerosi ospiti ammessi) e il privato altalena il “Banchetto offerto da Clemente IX a Cristina di Svezia il 9 dicembre 1668”, tramandatoci in grafica da Pierre-Paul Sevin, dove il pontefice occupa, davanti a una tavola riccamente imbandita, una posizione sopraelevata rispetto a quella della regina, in evidente segno di sudditanza e di rispetto, due silenziosi mondi chiusi in sé, se si pensa, ci dicono le cronache, che soltanto alla fine del pranzo venne offerta una poltrona a Cristina, accanto a Clemente, perché potesse avere con lui qualche attimo di conversazione.
Non ci sono nascosti neppure brani dei vari backstage, come quelle cucine alle spalle del settecentesco doge di Venezia Alvise Pisani o quello che può essere inteso come una studiatissima coreografia quel “Convito nuziale di Elisabetta Farnese” tramandatoci dallo Spolverini: un banchetto organizzato a Parma in occasione delle nozze di Filippo V con Elisabetta nel 1714, la sposa e la madre sotto un ampio baldacchino, in primo piano un gruppo di paggi sgambettanti in livrea rossa, rigorosamente tutti di rango nobiliare, che, dopo aver ricevuto le varie pietanze dalle cucine, le porta su grandi piatti d’argento ai gentiluomini di bocca, in uniforme scura, dai quali arriveranno, passando da mani a mani, alle commensali, ogni cosa sotto lo sguardo e il chiacchiericcio delle dame e dei gentiluomini della corte. Un rito, fatto di preparativi e vivande e uomini (assai relativo lo spazio lasciato alle donne, impiegate in mansioni ben umili, per cui raro ne è l’incrocio: per cui godetevi “La cuoca” di Bernardo Strozzi, nell’atto di preparare un tacchino, mentre già un pentolone scalda sul fuoco e un’anfora d’argento, segno di ricchezza del committente, fa bella mostra di sé in primissimo piano; proveniente dai Musei genovesi), uomini che potevano divenire vere e proprie celebrità, come quel Leonardo Gamucci, responsabile dell’approvvigionamento alimentare della corte fiorentina, immortalato da Giusto Suttermans o il nano Morgante, alias Braccio di Bartolo, intento a porgere la coppa di vino a Cristina di Lorena nella tela di Domenico Cresti detto il Passignano, proveniente da Vienna.
Da non perdere nelle sale successive, le delizie dei re, come “I fichi” e “I datteri” e il “Tartufo”
(usato tra le corti come doni, in special modo quella sabauda), tele commissionate dal granduca Cosimo III a Bartolomeo Bimbi per il suo casino della Topaia; e le immagini delle bevande esotiche, il caffè, la cioccolata e il tè, frutto degli ampi commerci della Compagnia delle Indie che hanno il potere, tra l’altro, di dare il via ai tanti servizi in pregiata porcellana, magari con i decori cinesi e giapponesi che verranno in seguito imitati dalle manifatture europee. Gioiello di queste sale “Un tè a Evian”, opera di Ludwig Guttenbrunn del 1787, proprietà di una nobildonna inglese che l’ha volentieri ceduta per la mostra e quindi esposta per la prima volta al pubblico: il quadro a olio, di non rilevanti dimensioni (43,2 x 57,8 cm), racconta il rito pomeridiano del tè all’interno della sala di una residenza nobiliare sul lago di Ginevra. Carlo Emanuele, principe di Piemonte, e la consorte Maria Clotilde di Borbone sono ospiti di due dame inglesi: un momento assai privato in cui il sovrano non disdegna di servire amabilmente la bevanda alla sua dolce metà.
Ancora carrellate su piatti e posate raffinatissime, servizi da dessert che hanno radici in Sèvres o in Meissen, coppe dai più delicati colori, tazzine e “rinfrescatoi da gelato”, la “marronière” che richiama un piccolo cesto di vimini vanno ad abbellire le tavole reali, in un susseguirsi di pezzi preziosi sempre più ricercati. Quando il “popolino” conquisterà la libertà di stampa, ci sarà anche posto per le caricature (attardatevi nella sala 10) e il pranzo delle loro maestà fu il momento più ironizzato, sovrani che inghiottono poveracci o tagliano il mondo come più loro fa comodo. Con il passare del tempo “L’illustrazione italiana” o “La domenica del Corriere” avrebbero immortalato le cene di gala con sempre maggiori particolari. Non vanno persi i vari menu che su carte preziose accompagnavano l’impazienza e il gusto degli ospiti: in un cartoncino del marzo 1911, accanto ai sette brani che delizieranno le divine orecchie, Léhar Verdi e Puccini in primis, andiamo a leggere che i “pollastri alla Montebello” saranno accompagnati dal Barbaresca Manissero e che gli “sparagi con salsa maltese” verranno gustati con il Grande Spumante Cinzano. Altri tempi.
Elio Rabbione
Nelle immagini, Pittore Fiammingo, “Il pranzo degli Asburgo”, 1599 circa, olio su tela, Varsavia, Muzeum Narodowe; Ilario Giacinto Mercanti detto lo Spolverini (Parma 1657 – Piacenza 1734), “Convito nuziale di Elisabetta Farnese”, 1717 – 1721 circa, olio su tela, Parma, Collezioni d’Arte del Comune; Ludwig Guttenbrunn (1750-1819), “Un tè a Evian”, 1787, olio su tavola, collezione privata; il Salone delle Feste al Quirinale.
Informazione promozionale
La mostra “Le donne nell’arte”
La mostra intitolata “Le donne nell’arte” è in programma presso la galleria d’arte Malinpensa by La Telaccia dal 23 novembre al 6 dicembre 2023. Saranno protagoniste Dada C, Federica Caprioglio, Luisa Piccoli e Mimora
È una visione ottica sorprendente quella dell’artista Dada C, che raggiunge, in una sintesi di solida rappresentazione, risultati evidenti di singolare rilievo e di emozioni pure.
La ricerca continua, il gusto compositivo e l’evidente simbologia conducono in direzione di una ricerca assolutamente personale che ne sottolinea una emotività profonda capace di comunicarci sensazioni continue. Il recupero e l’attenzione ai materiali, quali elemento primario della stoffa modellata sempre con sapienza, si identifica nel lavoro di Dada C, accompagnato da uno straordinario equilibrio e da una solida strutturazione di affascinante raffinatezza e armonia. Tra le pieghe della stoffa vive, in piena sintonia con la sapienza dei contenuti, una spazialità di forte valenza formale costantemente ritmata di atmosfere e di una magistrale prospettiva. L’artista esalta la materia, sottolineandone l’importanza del riciclo e apportando all’opera un’essenza spirituale ricca di valori umani. Le opere dell’artista Dada C si muovono tra istinto e profonda analisi e si avvalgono di una personale espressiva animata dalla capacità introspettiva che si concretizza in una concezione dinamica e di un senso volumetrico di evidente indagine denso di maestria e di resa assoluta. Il suo stile, ben definito di una compositiva libera, si riconosce appieno perché la forza vitale tra colore e materia accende il soggetto di notevoli effetti tecnici e di giochi tra pieni e vuoti. Le sue opere sono caratterizzate da una sperimentazione tecnica impegnativa, risultano ricche di vitalità, di magnetismo e di un processo creativo interessante che si distingue e vive attraverso il suo percorso artistico. Osservando le creazioni di Dada C percepiamo una forte vibrazione della materia che si fonde all’elemento cromatico in un rapporto equilibrato tra spazio, forma e luce, dando al soggetto dinamicità e senso di esecuzione.
Il messaggio simbolico, la fantasia vivace e il rilevante effetto scenico vivono nel suo iter con passione e professionalità. È una narrazione, quella dell’artista Dada C, consolidata da studio e originalità, dove lo spirito universale della materia, di forte impatto estetico -emotivo, trasmette un’impronta particolare e unica alla sua arte. Sono opere di puro stato d’animo che rivelano una matura elaborazione e una padronanza dei mezzi che, palpitante di amore e di un delicato intimismo, si liberano in una dimensione capace di conquistarci e di farci sognare.
Dada C è nata a Urbino e cresciuta a Fermignano, patria di Donato Bramante. I suoi quadri vengono realizzati con stucco francese lavorato con apposite spatole su tela e poi colorati con colore acrilico. La caratteristica che li differenzia sta nelle sfumature e nel chiaroscuro che viene personalizzato dalla mano dell’artista. Le opere sono realizzate con tecnica mista su tela, riciclo su stoffa.
Poetessa del colore e del disegno, l’artista Federica Caprioglio si dedica ad un filone fantasioso in cui i soggetti della natura prendono vita e forma in una visione umana ricca di bellezza e di armonia uniche.
Con uno stile rinnovato e una costruttiva di realtà figurativa, l’artista realizza opere dal sapore fiabesco, dove tutto, come per incanto, splende di vibrazioni cromatiche e di stati d’animo. Attraverso un tratto pulito e delicato il linguaggio artistico della Caprioglio esprime sensazioni e riflessioni continue in grado di suscitare all’osservatore un senso di serenità interiore. Le suggestive cadenze luministiche, la chiara stabilità del tratto e la fervida fantasia aprono un discorso pittorico preciso e sincero in piena padronanza dei mezzi. La sua tecnica mista quale acquerello, gessetti, matite e tempera su carta, ottiene un risultato di carica singolare e di riflessione cromatica autonome e espressive molto raffinate e delicate, dove il disegno prende rilievo di un racconto poetico e prezioso. La Caprioglio sa creare un’atmosfera di personalità e sentimento che ci affascina e che rivela pieno temperamento. Il valore universale della natura, degli animali e dell’essere umano è, per l’artista, di alta concezione; ed è in questa profonda sensibilità che lei opera.
Troviamo uno spazio pittorico intenso di pregnanza contenutistica; l’aspetto surreale, che è fortemente sentito dall’artista, le consente di penetrare oltre l’aspetto visivo. La sua pittura è un’emozione continua, intrisa di forza lirica e di uno stile che la caratterizza e le fornisce pienezza dell’atto creativo. Dai tronchi dell’albero e dalle rocce nascono personaggi fantastici dalle sembianze umane perfettamente adattati al paesaggio che li circonda. L’artista dà corpo e anima ai suoi soggetti in un’atmosfera magica dalla notevole espansione interpretativa che la distingue e che rende le sue opere inconfondibili, ricche di autentica passione e di amore per la vita.
La vitalità pittorico-espressiva è immediata e così anche la riconoscibilità del suo linguaggio comunicativo. Ogni quadro è la scoperta di un racconto unico dove l’osservatore che ammira l’opera ne è testimone. Tra luci e ombre magistrali e la severa preparazione dell’acquerello, scopriamo un’ideazione originale pulsante di un lineare senso della composizione. Si tratta di un mondo irreale, legato, come una fiaba, ai ricordi dell’infanzia, che si carica di uno spazio infinito capace di sorprenderci e che si colora di tensioni emozionali. È una ricerca di serena compositiva, quella dell’artista Caprioglio, fatta di costante presenza emozionale, di esigenza interiore e di rispetto per la natura, dove l’indagine psicologica, che emana un profondo e ricorrente messaggio, è struttura portante dell’opera. Nell’iter della Caprioglio ogni particolare trova risonanze di sogno e di realtà offrendoci una narrativa simbolica e un’immaginazione continuamente stimolante.
Federica Caprioglio, nata a Torino, si laurea in Scienze Naturali all’Università di Torino. Ha fatto diverse mostre, Expo Arte internazionali e segue progetti espositivi anche con il Comune di Torino. Della sua arte afferma: “La composizione degli elementi di un quadro è frutto di una ricerca di soggetti naturali che, trasfigurati, diventano qualcos’altro, come ad esempio tronchi o pietre che acquistano sembianze animate. Cerco in ogni forma naturale ciò che gli occhi della fantasia mi suggeriscono”.
L’artista Luisa Piccoli, con un linguaggio di grande spessore umano, porta alla luce una figurazione di notevole tensione lirica e di poetica creatività che si distingue rilevante e personale.
L’artista realizza opere ispirandosi alla condizione umana e sociale con profonda essenza emotiva. Offre al fruitore vari e importanti spunti di riflessione e di messaggi significativi sempre con rispettabilità e sentimento. I suoi sono racconti di pura contemplazione che svolgono una funzione molto impegnativa e simbolica. Cromatismi singolari, fantasia di composizione e azione formale offrono alle opere una ricchezza di valori pittorici notevoli, dove il gioco delle figure vive in simbiosi con i diversi materiali utilizzati dall’artista. L’intera visione pittorica di Luisa Piccoli si presenta attraverso un’intensa spiritualità, in cui trovano sublimazione pensieri, ricordi e valori di chiaro effetto emozionale e concettuale. I soggetti si avvalgono di uno stile unico, che si riconosce appieno e che si esprime con un linguaggio comprensibile, tanto da comunicare all’osservatore una libertà essenziale e suggestiva, capace di trasmettere all’opera sentimento e purezza d’animo. Quella di Luisa Piccoli è un’arte altamente psicologica che si anima di vita interiore e di una rielaborata scena universale del mondo, ritmata da una dinamica realistica e da uno stile ben definito. La Piccoli è un’artista intensamente emotiva che indaga sia sull’esistenza sia sulle proprie emozioni, trasmettendo messaggi di pace e amore universali. Le sue composizioni sono memorie di simboli che scorrono inarrestabili e sempre più intensi nell’opera, con fascino e poesia. L’artista realizza una strutturazione fortemente originale e dal grande impatto visivo, che si libera in una interpretazione consapevole e una tecnica personale autentica. Le sue opere sono piene di equilibrio, dense di resa formale e di suggestivi accordi tonali, in cui traspare l’interiorità dell’artista e si orientano verso tematiche di grande spessore contenutistico e di analisi introspettiva. Vibranti accostamenti di collage vengono esaltati da un vigoroso aspetto della materia e creano nell’opera effetti dinamici capaci di esprimere una forte energia vitale. Si sviluppano, in uno spazio pittorico ricco di sensibilità e limpidezza d’animo, emozioni uniche e riflessioni immediate capaci di evidenziarne una forte carica emotiva. Luisa Piccoli, sempre attenta ai particolari, indaga sull’identità dell’uomo con verità e con un qualificato contenuto, in una dimensione spirituale profonda che vive all’interno del suo iter.
Luisa Piccoli nasce a Bisceglie (Bari) nel ‘53. Ha conseguito la maturità classica, Accademia delle Belle Arti di Bari. Pittrice, scultrice, scrittrice, poeta e scenografa. Professoressa di Arte e Immagine. Viaggiatrice e ricercatrice spirituale e sociale. Ha trascorso la sua vita fra Bisceglie, Udine e Vienna. Ha fatto diverse mostre personali, collettive e concorsi ricevendo successo di pubblico e critica.
Nelle opere dell’artista Mimora, l’elemento predominante dell’aspetto umano, che non è di immediata lettura per il fruitore, vive in totale simbiosi con una funzione narrativa carica di emotività, all’insegna di contenuti profondi e di una ricerca interiore molto sensibile.
La materia dell’acrilico su tela produce nel suo iter un’affascinante resa stilistica e di evidente atmosfera, regalando al soggetto una suggestione singolare. Il colore fluido e caldo viene steso con un reale progetto e una personale struttura, e vive in perfetta armonia con la dimensione segnica e la vibrazione lirica nel tratto. Tra realtà e astrazione, l’artista Mimora dipinge in una totale libertà espressiva. La resa formale, la gestualità del disegno e l’equilibrio cromatico sono dimostrazione di un impianto pittorico originale di notevole estro creativo e di padronanza della tecnica. La pittura dell’artista Mimora è di autentica comunicazione, in continua evoluzione ed evidenzia una ricerca in costante espansione naturale che definisce tutta la sua produzione. Le sue opere hanno bisogno non solo di essere osservate, ma anche di essere ascoltate. Sono immagini che tracciano un racconto intriso di emozioni, sentimenti e stati d’animo. La realtà sconfina nell’astrazione, spaziando nell’opera con una affascinante ideazione accompagnata da un profondo significato, oltre che da una forza interpretativa e una personalità stilistica. Sofferenza, passione, vissuto e fantasia si liberano verso un’ampia elaborazione sempre colma di interiorità e umanità. Mimora realizza opere che si impreziosiscono di simboli, di contenuti e di valori, denotando una grande sensibilità e una profonda capacità artistica.
Mimora nasce a Brescia. Ha conseguito il Diploma di Laurea all’Accademia di Belle Arti ‘’G.B.Cignaroli ‘’ di Verona, con una tesi in Anatomia Artistica sulle malformazioni fisiche. Innamorata dell’arte in ogni sua forma, coltiva varie passioni tra cui la fotografia. Da sempre risulta appassionata al mondo del vecchio circo e alla parte speciale di umanità che lo contraddistingue, verso il quale l’artista nutre un profondo autentico interesse e trasporto. Le opere rappresentano quasi sempre Freaks: è il mondo dei reietti, degli incompresi, inclusi nel nostro mondo normale perché diversi nella loro fisicità. I dipinti si presentano con pennellate fluide, colori strutturati che trasmettono quell’alchimia antica del bene e del male. Le opere hanno un divenire consequenziale tra l’astratto e il concreto e pongono questa ricerca dell’artista in un percorso legato solo alle percezioni, al di là del tempo.
Mara Martellotta
FRAZIONE DI CASTELLAMONTE (To) 30 SETTEMBRE
Sabato 30 settembre, a partire dalle 16, la Società di Mutuo Soccorso Agricola Operaia della frazione Muriaglio di Castellamonte (To), in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale Tacabanda, propone un pomeriggio alla riscoperta della storia del borgo attraverso antiche immagini.
“Muriaglio ieri e oggi” è una vera e propria passeggiata tra presente e passato del piccolo borgo che si snoda attraverso tutte le vie del concentrico. Un viaggio in un tempo fatto di piccole gioie e genuini momenti di aggregazione. Le immagini d’epoca sono state poste lungo strada per Castellamonte, strada per Campo, via Principale, piazza Fontana, via Rua e via Micheletto. Si tratta di finestre sulla memoria, poste nello stesso luogo a distanza di decenni. Volti di persone ormai scomparse, immagini gioiose di feste private o pubbliche, Carnevali , scolaresche, gruppi festanti di musici o coscritti. Ricordi di un tempo in cui la felicità era fatta di piccole cose. Il progetto, realizzato dalla Società di Mutuo Soccorso Agricola e Operaia, si propone di far riaffiorare le memorie del passato senza tralasciare qualche riflessione sul fluire inesorabile del tempo. Sul susseguirsi delle generazioni e dei diversi stili di vita. Nel cuore della frazione, piazza della Fontana, la Art Gallery “Peter Sategna” rappresenta uno spazio dedicato alla cultura e alla creatività. Tutte le strade del percorso fotografico sono accessibili e comodamente percorribili.
Alle 16, presso il parco dedicato all’indimenticata medico del paese Marina Rovetto, prematuramente scomparsa, avrà inizio la passeggiata con la consegna ufficiale del pannello tattile per l’accessibilità ai luoghi di cultura per non vedenti realizzato dalla Smsao in collaborazione con l’Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti Odv. Sul pannello un QR CODE permette di visualizzare un video realizzato dal quotidiano online ObiettivoNews che illustra le particolarità del borgo. La grafica del progetto è di Selene Spanò. All’evento è prevista la presenza del presidente Apri Odv Marco Bongi.
Al termine della visita guidata al borgo, Claudio Ballario proporrà un intrattenimento con musiche occitane.
Per chi lo desidera, dalle 18.30, presso il ristorante La Terrazza sul Canavese, si terrà l’apericena con musiche degli anni 50, 60 e 70 proposte da Paolo Molinario (prenotazione obbligatoria entro il 27 settembre al numero 340.5813579).
Per informazioni sulla manifestazione telefonare al numero 340.1225157.
Nell’abitato e sul territorio circostante non mancano i punti di interesse: l’antico mulino settecentesco, la chiesa Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo, il parco dedicato alla dotteressa Marina Rovetto , la Casa della Musica, nata a inizio Novecento grazie al lavoro e all’impegno di tutta la collettività, la Ca ‘d Marchet, il luogo in cui è possibile vedere le antiche mura da cui trasse origine il paese, e le belle cappelle dei boschi: Sant’Antonio e Santa Croce.
La frazione è nota anche per essere sede dell’Accademia Musicale del Piemonte. Da febbraio a luglio, Melos Musica, che vanta un’esperienza quasi ventennale nel campo formativo musicale di alto livello, propone a Muriaglio corsi intensivi e Masterclass musicali con docenti di fama internazionale. Gli allievi, selezionati tra i vari Conservatori, ricevono una borsa di Studio dalla Peter Sategna Foundation. I corsi di perfezionamento vedono allievi e docenti impegnati un weekend al mese durante l’anno accademico. A luglio studenti e docenti si esibiscono nei concerti finali di “Festival Melos’’: un’occasione unica per permettere ai ragazzi di misurarsi con la realizzazione di un vero e proprio concerto e, dunque, con l’esibizione davanti ad un pubblico. La Smsao sta lavorando a molte iniziative che prenderanno il via nei prossimi mesi ed ha un sogno nel cassetto: poter riaprire il piccolo bar della Società che si trova in piazza e per questo motivo si cercano nuovi gestori…
181a Esposizione, sino al 15 ottobre
Ci si muove sempre con una certa, seppur piacevole, “fatica” ad ogni annuale inaugurazione tra le opere pittoriche e di scultura che riempiono le sale della Promotrice torinese (da venerdì scorso il 181° appuntamento, in programma sino al 15 ottobre) di via Balsamo Crivelli. Anche un rito, d’obbligo, di saluti, di abbracci, di sorrisi, di qualche scantonamento, postestivi. Numeri non indifferenti, 675 le opere esposte, 357 gli artisti presenti, momenti in cui si scopre, all’interno delle dodici sale, come scrive Angelo Mistrangelo, Vicepresidente della Società Promotrice delle Belle Arti, “la magia del colore e delle strutture compositive”. L’allestimento, ancora una volta, nelle mani dell’instancabile Orietta Lorenzini, a cui si deve egualmente la redazione del catalogo, che ospita autori del passato e contemporanei, pronti ad affrontare attraverso le loro opere “una realtà colta con un senso di intima, meditata e misurata resa espressiva”.
Grande attenzione ai lavori degli artisti scomparsi, “che contribuiscono a stabilire connessioni, riferimenti, contenuti nell’ambito della creatività tra Novecento e nuovo Millennio, ricerca e sperimentazione”: dalla “Pioggia di stelle” di Mastroianni del 1990 ai “santoni” che hanno il largo tratto di Spazzapan, dal “Paesaggio” di Albino Galvano alle “conchiglie” di Soffiantino, dalla “Serie” di Nini Maccagno al “Porto” di Enrico Paulucci, dal “Totem” di Mario Sturani del ’36 al “Paesaggio” di Giulio da Milano, al “Leprotto”, suggestiva acquaforte di Mario Calandri.
Nel salone d’entrata, trovano posto la “Magia” di Gabriella Malfatti e le vivaci “Marionette” di Giorgio Cestari, la “Sonata per violino” di Giancarlo Gasparin con perfette atmosfere d’altri tempi, la gioia del colore trasmessa dal “Vigneto” di Bruno Molinaro, gli eterni cieli di Antonio Carena, gli stornelli e la delicatezza delle nuvole nella tela di Anna Maria Palumbo, la lineare “Danzatrice” di Claudia Sacerdote e il “Prigione” di Sergio Unia. Una lunga sequenza di opere si snoda attraverso le sale, colori e forme, realismo e astrazione, classicheggiante e sperimentazione, momenti di concreto interesse e prove che necessitano ancora di maggiore irrobustimento. Le prove dello scomparso Attilio Lauricella, le forme possenti che Tatiana Veremejenko ha impresso ai suoi personaggi femminili, la fantasia dei fenicotteri di Giacomo Gullo (“Non dare i biscotti ai fenicotteri”), una bravura troppo presto strappata dal Covid, le forme evanescenti del “Mercato andaluso” di Elio Pastore.
E ancora le presenze di Luciana Bey, di Anna Borgarelli, della “Primavera di mezzo inverno” di Magda Tardon e degli acquerelli inconfondibili di Lidia Dalloste, la bella prova nella lunga fila di alberi (“Sentiero illuminato”) di Giuseppe Faretina, grafite e matite colorate che giocano con i chiaroscuri. E ancora, attraversando qua e là, la matura composizione di Adriana Caffaro Rore (“Deposizione di Cristo”), i “Ricordi in bianco e nero” di Simonetta Secci, il taglio prezioso e inconsueto che Giacomo Sampieri dà al suo “Sulla strada”, le mani ferite e il viso struggente della donna offerta da Alessandro Fioraso in “Che cosa mi rimane”, fatto di soffocata disperazione il mare di Silvana Sargiotto (“Onda su onda”).
Nessuno me ne voglia, ma attraversando le sale, pur con l’apprezzamento innegabile della maggior parte delle opere esposte, di tanto in tanto, di fronte a prove che rimangono esclusivamente prove, acerbe e inconcluse, si rimane sconcertati dalla pochezza e dall’approssimazione di alcuni tentativi, improvvisazioni, debolezze, pretesti e pretenziosità, elucubrazioni fasulle, vuoti montaggi. È il male inesorabile, senza se e senza ma, delle piccole o grandi associazioni e delle partecipazioni, vittime di certe leggi che non fanno che indebolire una intera doverosa rassegna. Sarebbe augurabile una setacciatura maggiore, una mano maggiormente stretta e un occhio più attento e libero, numeri non troppo corposi, una far chiarezza autoimposto, magari tra mille difficoltà e rinunce, che incontrerebbe con maggior ragione quanto ognuno dovrebbe intendere come una delle tante nostre Grandi Bellezze.
Elio Rabbione
Nelle immagini: Bruno Molinaro, “Vigneto” (2019), Giacomo Sampieri, “Sulla strada” (2022), Alessandro Fioraso, “Che cosa mi rimane” (2023)
“E non mi importa se non mi ami più…”
Music Tales, la rubrica musicale
“E non mi importa se non mi ami più
E non mi importa se non mi vuoi bene
Dovrò soltanto reimparare a camminare”
Vi ho già parlato non troppo tempo fa di Edoardo D’Erme, in arte Calcutta.
Classe 1989, cantautore, può piacere o meno ma io adoro i suoi videoclip inveterati e alquanto bizzarri.
Trovo ci sia del gran genio dietro questa penna che probabilmente non incontrerà il gusto di tutti voi.
Calcutta improvvisò alla tastiera il ritornello, registrandolo per caso in un video, poi se ne dimenticò. Anni dopo ritrovò il video e completò la canzone. Decise di chiamare Pesaro la donna protagonista del testo (tenendo in conto il precedente di Roma nun fa’ la stupida stasera), come la città nella quale aveva vissuto per un periodo durante i suoi viaggi solitari.
Riguardo a questo il cantautore ha affermato:
«Diciamo che non era un periodo felice. Davvero mi ero dimenticato, era un’improvvisazione fatta con la tastiera su cui avevo scritto il ritornello, la strofa l’ho scritta più avanti. L’idea di fondo era che Pesaro, nonostante, la nebbia o il tempo grigio, è una che non si fa fregare. Non che le ragazze non siano intelligenti, ovvio, una volta è pure venuta a lamentarsi dopo un concerto.»
Il testo parla di una persona che deve ricominciare ad andare con le sue gambe dopo la fine di una relazione.
Trovo i “modi” descrittivi di Calcutta dei “modi” geniali e oltremodo particolari.
Sarebbe un Mondo migliore se “Ti amo” e “Addio” si potessero dire una sola volta nella vita. E mai alla stessa persona.
Vi invito all’ascolto ed attendo le vostre impressioni sul brano:” ma cosa mi manchi a fare”
Buon ascolto
CHIARA DE CARLO
(49) Calcutta – Cosa mi manchi a fare – YouTube
scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!
Ecco a voi gli eventi da non perdere!
Mercoledì 4 ottobre a Torino alle ore 17,30 alla Fondazione Camis De Fonseca (via Pietro Micca 15), Giancarlo Bonzo, Bruna Bertolo e Maria Luisa Alberico presenteranno il nuovo libro di Pier Franco Quaglieni “Diario italiano. Figure del nostro tempo”, Pedrini Editore. Personaggi della storia ritratti dall’autore senza mai indulgere all’agiografia, ma descritti con luci ed ombre nel rifiuto di ogni mitizzazione e di ogni preconcetto. Un libro ispirato ai criteri storici più rigorosi, ma con vivacità di scrittura per ripercorrere i grandi temi delle ideologie del Novecento, dal comunismo al fascismo, all’antifascismo post bellico e odierno, ai sovranismi del Terzo Millennio.
Sugli schermi l’opera prima di Micaela Ramazzotti
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Gruppo di famiglia (sgangherata) in un interno. Che è uno di quelli infossati nei tanti serpentoni di pareti e balconi tutti eguali della periferia romana, la famiglia è quella di Desirè (“con l’accento”, ci tiene a precisare), ragazza dolce e “strana”, parrucchiera sui tanti set cinematografici della capitale, detta anche “la bicicletta” perché “tutti ci hanno fatto un giro”. Malinconica e per tutti rassicurante, volgarotta, dolce e perdente, non soltanto perché l’attore di turno, nel chiuso della roulotte, prima del ciak, riesce per l’ennesima volta ad approfittarsene: ma perché continua a essere vittima di una coppia di genitori che non fa altro che rinfacciarle fatti e misfatti di una vita, egoista, ricattatoria, con un padre che la sfrutta economicamente (“se non ci aiutiamo tra noialtri”) e una madre pronta a spiattellarle qualsiasi mancato appoggio, cieca come una talpa di quanto stia succedendo in casa sua. Vittima, Desirè, anche di quel professore universitario che l’ha scelta e che dice di amarla, che la porta alle cene chic tra colleghi dove la figuraccia è sempre servita tra tentativi di discorsi e storpiature di parole: una relazione che tra sorrisi e litigate resta in piedi con i continui rattoppi erotici, immediati, frustranti, assurdi ma per entrambi inevitabili. Il suo unico scopo di affetto e di protezione è il fratello Claudio – una pioggia di “Cla’” per il gran romanesco, a tratti incomprensibile, che circola doverosamente nella storia -, ragazzo problematico e depresso, vagonate di pasticche, senza un futuro, “strano”, sull’alterino della madre che continua a stirargli la camicia bianca, pronta per un lavoro che lui nemmeno riesce a fare.
“Felicità” è l’opera prima (tristissima e incerta) di Micaela Ramazzotti, scritta con le amiche Isabella Cecchi e Alessandra Guidi, che a Venezia ha vinto il Premio Spettatori nella sezione Orizzonti. Se la è cucita addosso la sua Desirè, le vuole bene, la protegge, la compatisce, la comprende a differenza di quanto furbescamente e malvagiamente non facciano gli altri: ma siccome è tutta sua, una maschera che ormai conosciamo a menadito, altro non è, senza un briciolo di nuova invenzione, che l’ultima tappa – per ora, ne siamo sicuri – di un vecchio percorso, partito da “Tutta la vita davanti” sino a “Gli anni più belli”, passando attraverso piccoli capolavori come “La pazza gioia” e “Vivere” e “La tenerezza”. Le donne, soprattutto, di Paolo Virzì. Una donna squinternata, di animo buono ma strapazzata, sempre affannata, di corsa di qua e di là, sciupata, vicina alla disperazione e al baratro ma in qualche modo pronta a rialzarsi, qualsiasi sia il modo, semplice in quella vita che tira avanti a fatica. Prevedibili personaggio e attrice, senza equivoci, il che in non poche situazioni sminuisce quell’affetto e anche quell’autenticità che Ramazzotti ha fatto di tutto per infonderle.
Si sarebbe tentati di dire che ha pensato troppo a se stessa, mettendo in ombra gli altri, lasciandoli ai luoghi comuni e a certe caricature di troppo, a certi sopra le righe, come è il padre Max Tortora, nella sua sguaiataggine, in quella scena d’ospedale davanti al letto dell’immigrato, nel redde rationem nello studio della psicologa, nell’incontro burrascoso con il mancato genero, con lo sgambetto che il regista Veronesi gli tende tra le maestranze del film. Intenzioni di Ramazzotti, va bene, ma una briglia più serrata avrebbe giovato al racconto e al personaggio. Più a suo agio Sergio Rubini nelle frustrazioni del suo professore, nella ribellione che s’accende su altre scelte; da elogiare il fratello Matteo Olivetti, anche se il suo Claudio (rimaniamo di più di fronte allo svilupparsi dei rapporti con Desirè ma della malattia sappiamo in definitiva poco, con accenni sempre eguali) più di altri rientra nei difetti del film, le cose non dette, i personaggi non sviluppati abbastanza, e poi le volgarità disseminate troppo spesso, le scene interrotte di fretta. Di prim’ordine, al contrario, le persone di cui l’autrice ha saputo e voluto circondarsi, da Jacopo Quadri, per il montaggio, a Luca Bigazzi per la fotografia, a Carlo Virzì per le musiche.
Tanti incontri, dibattiti e riflessioni per la seconda edizione di “Biblioteche in Festa”
L’iniziativa promossa dall’associazione “Le Terre dei Savoia” e da “Progetto Cantoregi” ha coinvolto, dal 17
al 24 settembre scorsi, tre province e decine di comuni.
Più di cinquanta eventi singoli organizzati in ventinove comuni delle province di Cuneo, Torino e Asti. Dalle
letture animate ai momenti laboratoriali, dalle tavole rotonde alle presentazioni di saggi e romanzi. La
seconda edizione di “Biblioteche in Festa” (l’innovativo format culturale ideato e promosso
dall’associazione “Le Terre dei Savoia” e da “Progetto Cantoregi”, con il sostegno del Comune di Savigliano,
delle Fondazioni Cassa di Risparmio di Torino, Cuneo, Fossano e Savigliano e con il patrocinio della Provincia
di Cuneo, della Regione Piemonte, dell’Università degli Studi di Torino e dell’Associazione Italiana
Biblioteche) andata in scena dal 17 al 24 settembre scorsi, ha voluto rimettere al centro i libri, i luoghi che li
ospitano e le persone che se ne prendono cura.
«Un bel momento di divulgazione culturale che ha saputo intercettare una platea eterogenea fatta di
bambini, ragazzi, adulti e famiglie. Una condivisione intergenerazionale che in questa seconda edizione ha
saputo trascendere i confini orografici per farsi canto universale del sapere e della conoscenza» il commento
condiviso di Terre dei Savoia e Progetto Cantoregi, organizzatori della manifestazione. «In soli due anni
Biblioteche in Festa è divenuta un appuntamento capace di riavvicinare le persone alla lettura e all’ascolto,
offrendo diversi spunti di riflessione sia durante gli spettacoli, sia durante le tavole rotonde. La cosiddetta
“porosità” delle biblioteche, insomma, rappresenta un punto di forza, consentendo una connessione
profonda e significativa con il tessuto sociale ed economico in cui sono inserite. In tal senso, aver riscontrato
l’adesione di molte biblioteche ci riempie di fiducia, confermando che la letteratura rappresenta ancora uno
straordinario motore di crescita per l’intera società. Lavoreremo fin da ora ad un’edizione 2024 ancora più
ricca e diffusa sul territorio».
Tanta affluenza, dunque, alle iniziative collaterali che hanno interessato diverse località piemontesi (da
Frassino a Monterosso Grana, da Castagnole delle Lanze a Marsaglia, da Pinerolo a Cuneo, Mondovì e
Cavallermaggiore), ma successo similare anche per gli eventi organizzati a Fossano, Bra e Savigliano. Grande
partecipazione, ad esempio, all’istituto “G. Vallauri” di Fossano giovedì 21 settembre per la presentazione
del libro “Il grande manca” (Editrice Il Castoro) di Pierdomenico Baccalario e per la lezione di Nicola Lagioia
“Come si diventa lettori” di sabato 23 settembre al Teatro Milanollo di Savigliano. Tante, poi, le suggestioni
raccolte durante l’inaugurazione di venerdì 22 settembre al Teatro Milanollo di Savigliano con Antonella
Agnoli (“La casa di tutti. Città e Biblioteche”, Editori Laterza) e nel corso della lezione “Leggere vuol dire
raccogliere” di Marco Balzano di sabato 23 settembre al Centro Polifunzionale “G. Arpino” di Bra.
Analogo interesse, inoltre, per gli eventi della domenica presso la sede saviglianese dell’Università degli
Studi di Torino con Cecilia Cognigni (direttrice Biblioteche Civiche torinesi), Rocco Pinto (“Viaggi di Carta”,
Edizioni E/O) e il convegno “Innovazione, prossimità, comunità: il nuovo ruolo delle Biblioteche” alla
presenza di numerosi bibliotecari ed esperti di biblioteconomia. Conclusione emozionante nel nome di Italo
Calvino, infine, con lo spettacolo “Le città invisibili” interpretato dal cantautore Simo Cimo Nogarin e
andato in scena nella serata di domenica 24 settembre al Milanollo di Savigliano. Un amalgama di storie,
uomini e persone grazie al quale si sono riscoperte le biblioteche quali luoghi dinamici, parte integrante
della civiltà, aperti al cambiamento e in grado di rispondere ai bisogni della società in modo flessibile e
attento.