CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 135

Ivo Andrić e il piccolo Caffè di Lutvo

E’ verde, la Bosnia. Boschi, vallate, montagne e fiumi sono le gemme  di una natura sfacciatamente bella da suscitare quasi imbarazzo. Fiumi limpidi che corrono nelle gole  tra monti aspri per poi precipitare in spettacolari cascate e laghi. Come l’Una, un fiume che – s’intuisce dal nome stesso – è davvero unico con le sue isole, i canali e una vegetazione tanto ricca da trasmettere un senso di pace incredibile. Delle cascate di Kravica, lungo il fiume Trebižat, a quaranta chilometri da Mostar,  dicono un gran bene. Io non le ho viste ma mi sono fidato di Mustafà che me le ha descritte  come uno dei luoghi più incantevoli dell’Erzegovina. In una versione ridotta di quelle del Niagara, sono alte una trentina di metri e precipitano in un anfiteatro naturale, offrendo uno spettacolo che lascia senza fiato. E la Neretva, dalle gelide acque verdi smeraldo, che attraversa il paese tra strette gole verso nord-ovest per poi piegare a sud, attraversare Mostar e sfociare nell’Adriatico?

Qui, tra le montagne del nord della Bosnia, tra rupi e fitte foreste dove  gli orsi convivono con cervi e daini, dal gennaio all’aprile del 1943 si combatté la durissima battaglia della Neretva, con le formazioni di Tito che riuscirono , con una rocambolesca e geniale azione a compiere una  ritirata strategica che fece  fallire l’obiettivo dell’Asse di accerchiare e distruggere le forze partigiane. Neretva ( così in serbo-croato, altrimenti conosciuta come Narenta) “dove scorre il tempo irreale e scorre l’acqua. Acqua contro Terra. Tremante svanisce, tremante riappare”, come canta Ginevra Di Marco in una canzone dal titolo come il nome del fiume. Montagne massicce, dunque, formate dalle tre cinture parallele delle alpi Dinariche, con le principali vette bosniache della Treskavica e della Bjelašnica, del gruppo del Vlašić fino a quello del Jahorina, con l’omonimo monte e quelli bellissimi e tristemente noti del Trebević e dell’Igman, attorno a Sarajevo. Queste barriere naturali, situate a ridosso dell’Adriatico, hanno consentito la formazione di particolari microclimi caratterizzati da una grande, straordinaria biodiversità. Difficile dar conto della varietà di tesori naturali, di specie rare  di flora e fauna autoctone, difficilmente rintracciabili nel resto d’Europa. Per tanti aspetti la Bosnia è il corno dell’abbondanza, la cornucopia  d’Europa. Come definireste altrimenti  un paese di foreste e monasteri ortodossi, di chiese cristiane e antichi minareti, borghi medievali e tanti, tanti ponti ad unire e far incontrare le opposte rive dei fiumi? Un paese così non si trova in nessuna altra parte d’Europa. Nonostante tutto. Nonostante le contraddizioni e la violenza che l’ha scosso fino nel profondo dell’anima del suo popolo. Nonostante tutto continua a offrirsi agli sguardi di chi non si limita ai luoghi comuni e continua a raccontare con la sua immensa storia e di cultura. Nonostante tutto, come gli avventori del piccolo Caffè di Lutvo, a Travnik. Nel suo “La cronaca di Travnik”, Ivo Andrić scriveva: “ In fondo al mercato di Travnik, sotto la sorgente fresca e gorgogliante del fiume Šumeć, è sempre esistito, da che mondo è mondo, il piccolo Caffè di Lutvo. Ormai neanche gli anziani ricordano Lutvo, il suo proprietario; da almeno cento anni egli riposa in uno dei cimiteri intorno alla città. Tuttavia si va sempre a “prendere un caffè da Lutvo”, e così ancora oggi il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni, mentre quello di tanti sultani, visir e bey è da tempo sepolto nell’oblio”. C’è una frase che descrive bene la sensazione che prova un viaggiatore attento nell’avvicinarsi ad un luogo d’incontro di storie, culture che si uniscono, si contaminano e, al tempo stesso, prendono strade diverse o addirittura opposte. Un luogo molto bello ma non facile  e che, in ogni caso, non lascia indifferenti. La frase, quasi fosse una chiave con cui tentare di aprire una porta o un  forziere, senza peraltro riuscirvi,  la regala ancora l’autore de “Il ponte sulla Drina”: “Nessuno può immaginare che cosa significhi nascere e vivere al confine fra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter fare nulla per riavvicinarli, amarli entrambi e oscillare fra l’uno e l’altro per tutta la vita, avere due patrie e non averne nessuna, essere di casa dovunque e rimanere estraneo a tutti, in una parola, vivere crocefisso ed essere carnefice e vittima nello stesso tempo”.

Marco Travaglini

“Testimone d’accusa” per la prima volta a teatro al Superga

TSN – Teatro Superga Nichelino (TO)

Sabato 11 novembre, ore 21 

Il migliore dramma giudiziario della maestra del brivido Agatha Christie per la prima volta in Italia a teatro

 

La nuova stagione del TSN – Teatro Superga Nichelino apre sabato 11 novembre con “Testimone d’accusa”: dalla maestra del brivido Agatha Christie, uno dei migliori drammi giudiziari mai messo in scena in Italia. Sul palco Paolo Triestino, Vanessa Gravina, Giulio Corso e altri 9 attori, oltre a uno stenografo che scrive tutti i verbali del processo su una macchina stenografica autentica del 1848 e 6 giurati scelti tra il pubblico e chiamati ad emettere il verdetto. La regia è di Geppy Gleijeses, dopo i grandi successi di Sorelle Materassi, Arsenico e vecchi merletti, Così parlo Bellavista.

Esiste la “commedia perfetta”? Forse sì. Secondo alcuni critici è “Il matrimonio di Figaro” di Beaumarchais, secondo altri è “L’importanza di chiamarsi Ernesto” di Oscar Wilde. Sul più bel dramma giudiziario però non ci sono dubbi: “Testimone d’accusa” di Agatha Christie. Il gioco non verte tanto sulla psicologia dei personaggi (ci aggiriamo tra simulatori occulti, assassini, grandi avvocati) quanto sulla PERFEZIONE del meccanismo. È infernale questo meccanismo, con un colpo di scena dopo l’altro, in un crescendo raveliano, una battuta dopo l’altra. E la costruzione “giudiziaria”? Impressionante per precisione e verità, come se l’avesse scritta il più grande giudice inglese del secolo scorso. Lo spunto, come spesso accade nelle opere della Christie, parte dalla storia di una donna tradita dal marito più giovane; ed è uno spunto autobiografico. L’autrice fu tradita dal primo marito (di cui però portò sempre il cognome) e sposò poi un uomo molto più giovane di lei. Ma bastasse questo… Il film capolavoro che ne trasse Billy Wilder era assai liberamente tratto -la Christie lo considerava il miglior adattamento cinematografico della sua opera-. Il testo teatrale è assai più asciutto, non concede tregua alla tensione, affonda come una lama di coltello affilatissima (letteralmente) nella schiena di chi osserva. Considerare la “maestra del brivido” un’autrice di consumo è come valutare Hitchcock un cineasta di serie B. Agatha è un genio e tale per sempre resterà. E qui, più che in Trappola per topi, più che in Dieci piccoli indiani questo diamante luccica in tutto il suo splendore. Naturalmente metterlo in scena richiede un cast di livello superiore e un realismo (non certo naturalismo) rigidissimi. E una dovizia di mezzi scenografici e recitativi. Io l’ho messo in scena con Giorgio Ferrara, un grande e carismatico attore in genere prestato alle grandi direzioni di Festival e teatri, con Vanessa Gravina, bella, bravissima e impossibile, Giulio Corso, uno dei migliori dell’ultima generazione, e altri 9 attori, tutti perfettamente aderenti ai ruoli. Per chiudere (ed essere più chiaro) vi anticiperò due particolari: in scena avremo lo stenografo che scriverà -con il particolare ticchettio- tutti i verbali del processo su una macchina stenografica autentica del 1948 (la commedia è del ‘53), i sei giurati saranno scelti tra il pubblico sera per sera, e chiamati a giurare e ad emettere il verdetto.

                                                                Geppy Gleijeses

 

Sabato 11 novembre, ore 21  

Testimone d’accusa

Di Agata Christie

Regia di Geppi Gleijeses

Traduzione Edoardo Erba

Con Vanessa Gravina, Giulio Corso

Con la partecipazione di Paolo Triestino

E con Michele Demaria, Antonio Tallura, Sergio Mancinelli, Bruno Crucitti, Paola Sambo, Francesco Laruffa, Erika Puddu, Lorenzo Vanità

Scene Roberto Crea

Costumi Chiara Donato

Artigiano della luce Luigi Ascione

Musiche Matteo D’Amico

Aiuto Regia Norma Martelli

Biglietti: 17 euro galleria, 23 euro platea

La stagione 2023-2024 del Teatro Superga è promossa dalla Città di Nichelino e Sistema Cultura, con il sostegno di Fondazione CRT e Regione Piemonte, firmata dalla direzione artistica di Alessio Boasi, Fabio Boasi e Claudia Spoto, in collaborazione con Piemonte dal Vivo. Produzione esecutiva Fondazione Reverse. Creative mind: Noir Studio.

Info

Teatro Superga, via Superga 44, Nichelino (TO)

011 6279789

www.teatrosuperga.itbiglietteria@teatrosuperga.it

IG + FB: teatrosuperga

Orari biglietteria: mar, gio, ven e sab 16-19; mer 10-13 e 14-19

I biglietti si possono acquistare presso la biglietteria del Teatro Superga, sul luogo dell’evento nei giorni di spettacolo dalle ore 18

Il Tff apre alla Reggia di Venaria con Pupi Avati. Omaggio a John Wayne, a Oliver Stone la Stella della Mole

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OGGI SI E’ TENUTA LA PRESENTAZIONE A ROMA

La 41esima edizione del Torino Film Festival si terrà  dal 24 novembre al 2 dicembre a cura  del Museo Nazionale del Cinema  presieduto da Enzo Ghigo e diretto da Domenico De Gaetano, direzione artistica di Steve Della Casa.

L’immagine guida è dell’artista torinese  Ugo Nespolo, ispirata ad uno dei più  celebri fotogrammi di Sentieri selvaggi di John Ford:  John Wayne ha  tra le braccia Natalie Wood.

Quest’anno il TFF dedicherà un omaggio al famoso attore americano. L’inaugurazione della 41esima edizione si svolge alla Reggia di Venaria.

Sarà ospite d’eccezione della serata – in diretta su Hollywood Party, Rai Radio3 – il regista Pupi Avati, madrina della cerimonia d’apertura Catrinel Marlon.

Tra gli ospiti,  Oliver Stone (che riceverà  il Premio Stella della Mole)  Fabrizio Gifuni, Christian Petzold, Caterina Caselli e Paolo Conte.

E ancora Kyle Eastwood a Drusilla Foer, Mario Martone  Barbara Ronchi, Baloji,  Thomas Cailley,  Roberto Faenza e Laura Morante. Protagonista il  ritorno della commedia, popolare e d’autore.

Quando la tv era libera. Renzo Villa e la leggenda di Antenna 3

Le chiamavamo televisioni libere, poi locali, poi private e infine commerciali. Sta di fatto che volenti o nolenti, hanno alimentato il nostro immaginario dagli anni 70, prima dell’avvento della cosidetta “era berlusconiana”. E’stata l’inventiva pionieristica e imprenditoriale di Renzo Villa che nel lontano 1977, in quel di Legnano realizza quel miracolo via etere che è ancor oggi Antenna 3 Lombardia.

 

Ci racconta questa avventura il giornalista Cristiano Bussola, in un agile saggio a metà tra la storia del costume e la sociologia della cultura: “Una fetta di sorriso Renzo Villa, l’inventore della tv commerciale raccontato da chi lo ha conosciuto” ( Paola Caramella editrice, 2022, pagg. 230, €. 18 corredato da un ricco apparato fotografico). In realtà l’autore, Renzo Villa non l’ ha mai conosciuto in maniera diretta. Come precisa nelle pagine introduttive, Villa è stato l’ispiratore principale, del suo avviamento alla professione giornalistica prima cartacea alla “Vita Casalese” poi a Prima Antenna, già Studio Televisivo Padano, come cronista e commentatore politico. Attraverso le interviste (alcune dirette alcune telefoniche) a una carrellata di personaggi (portati poi al successo da Villa) l’autore riesce a ricostruire nei minimi particolari, la realizzazione di quel sogno, nell’arco temporale di un decennio. Teo Teocoli e Massimo Boldi (scoperti al mitico Derby di Milano) poi Donatella Rettore e i Righeira solo per citarne alcuni. Ma anche maestranze e tecnici sentiti sui loro rapporti professionali e umani. Pochi anni dopo la sua prematura scomparsa nel 2010 a 69 anni, la moglie Wally Giambelli, la compagna di una vita, attraverso l’ente “Associazione Amici di Renzo Villa” ne tiene viva la memoria con iniziative di promozione sociale e formazione professionale (per materiale audiovisivo e di testo consultare: viaperbusto15.it ).


Grazie a un mix di volontà, tenacia e capacità non comune di tessere relazioni umane, Renzo Villa lascia il dazio di Varese e prima approda a Tele Biella con Enzo Tortora, imparando tutto sulla televisione, poi dopo mille vicissitudini e traversie, diviene il patron di Antenna 3 Lombardia.

Fa l’intrattenitore, il pubblicitario e addirittura il cantante-attore (sua ambizione giovanile), nel mitico Studio 1 di Via per Busto 15 a Legnano, unendo in qualche modo nelle sue trasmissioni, lo status di direzione a quello di subalternità. In un equilibrato amalgama di assunzione di ruoli. Fino al fallimento nel 1987, determinato dal mercato pubblicitario e dall’accanimento della concorrenza e al passaggio alla nuova proprietà, Espansione Tv, poi dal 2004 passata nel Gruppo Mediapason di Sandro Parenzo, terzo gruppo televisivo privato italiano. Tanto che Silvio Berlusconi gli offrì 9 miliardi delle vecchie lire, per rilevargli il gioiello di Legnano. Ma lui rifiutò, sostenendo, parafraso sintetizzando al meglio il suo essere che: “se la pubblicità è l’anima del commercio, questa non deve divenire commercio dell’anima”. La sua e dei telespettatori. Tra le figure professionali mirabilmente descritte da Bussola nel libro, ne voglio ricordare tre, che più mi hanno colpito.

La prima è Patrizia Ceccarini (in arte Cecchi) che ad Antenna Tre accompagnava da valletta Ric e Gian nei loro sketch, dopo una lunga esperienza al teatro tenda con Vittorio Gassman. Molti anni dopo la sua avventura con Villa, tornò in visita negli studi a Legnano e di fronte alle mura diroccate e dismesse dei locali, si commosse fino alle lacrime, nel ricordare quegli anni meravigliosi, trascorsi lavorando con il con il compianto Renzo Villa.
La seconda è la testimonianza di Gian Paolo Parenti, che come l’autore del volume approdò al mondo della televisione, grazie allo stimolo della televisione stessa, in questo caso citando Karl Popper, divenuta suo malgrado, buona maestra. Oggi è docente di Marketing televisivo al corso di laurea in Media e giornalismo dell’Università di Firenze. Insegna all’Università Cattolica di Milano ed è autore di saggi sulla televisione.
E ultimo ma non ultimo, voglio ricordare il tecnico di trasmissione di Telebiella, conosciuto da Villa all’inizio della sua attività manageriale, Peppo Sacchi, che in parola afferma: “Ormai in tv si assiste a sproloqui di venti minuti. E ogni minuto rubato al pubblico è un minuto rubato alla vita del pubblico stesso. Con il proliferare incontrollato delle televisioni private i cui programmi segnano il trionfo della volgarità, dell’osceno, della violenza, del turpiloquio e forniscono un informazione che quando non è completamente falsa, è incompleta, deformata, tendenziosa, diretta a favorire interessi di parte. È legittimo porsi la domanda: Telebiella fu un bene o un male?”

Ettore Andenna, a destra, con Renzo Villa

Risposta di Sacchi: “Fu sicuramente un bene perché ha dato il via alla televisione privata, favorendo le opportunità di lavoro a decine di migliaia di persone che vivono di televisione. Un male perché aprì la stura a quel gran casino che é la tv di oggi”.  Che non fu quella di Renzo Villa che con Ettore Andenna produsse tra gli altri il programma “la Bustarella” prototipo di ciò che lo stesso Andenna condusse in seguito alla Rai come “Giochi senza Frontiere” che apriva la televisione a una concezione europeista nei contenuti, ancora senza Ue e moneta unica. Concludendo voglio ricordare lo slogan che coniò Marshall McLuhan nel suo scritto “Il villaggio globale” riguardo alla televisione : “Il mezzo è il messaggio”. E allora vigiliamo con la nostra coscienza critica, con l’ausilio dello zapping col telecomando. Senza moralismi. E’ l’unico mezzo di difesa che abbiamo.

Aldo Colonna

Lo studio Uno di Antennatre: ospitava 1200 spettatori

Il valore delle note culturali di Giuseppe Possa

 

A tempo libro, il volume che raccoglie le recensioni scritte da Giuseppe Possa nell’arco temporale di un quadriennio, tra il 2019 e il 2023 segnato dal lockdown imposto dalla pandemia del Covid-19, soffermandosi su artisti, autori, intellettuali che vivono nella provincia più piccola e più a nord del Piemonte, testimonia la vivacità vita culturale di questa terra di frontiera. Confinante con la Lombardia, con la quale condivide il lago Maggiore, e con la Svizzera, il Vco offre un vasto campionario di autori e artisti in grado, con le loro opere, di elevare la qualità culturale di questo cuneo di terra e di gente incastonato tra laghi e montagne, regioni e nazioni confinanti. In questa terra la mescolanza di esperienze e radici culturali ha consentito di mettere in rilievo quella ricchezza e quel dinamismo che Giuseppe Possa ha saputo tradurre in queste note critiche, portando alla luce e offrendo a tutti i lettori un vasto mondo fatto di storie, esperienze, capacità che hanno dato forza e fiato ad una identità culturale per molti versi nuova e inaspettata. E’ una fortuna che questo critico, che predilige mettere in rilievo le positività e il talento di tanti artigiani della pittura, letteratura, poesia, scultura e musica, abbia voluto pubblicare questa interessante raccolta vincendo la sua nota ritrosia. E’ una fortuna perché consente di comprendere quanta varietà e ricchezza culturale offrono le decine di profili che ha voluto tratteggiare, dai più noti ai meno conosciuti. Compresi i ricordi di alcuni personaggi importanti come i poeti Walter Alberisio e Filippo Crea, il filologo Gianfranco Contini, lo scrittore Benito Mazzi, il partigiano Franco Sgrena. Rocco Cento, nella sua postfazione, scrive che Giuseppe Possa è stato il protagonista di cinquant’anni di testimonianze perché “dall’Ossola a Milano non c’è stato un evento o personaggio con cui non abbia conversato o collaborato, scrivendone”. Ed è la pura verità. Possa, nato a Domodossola nel novembre del 1950, si è sempre interessato di critica letteraria e d’arte. Ha dato alle stampe quattro libri di poesie, ottenendo numerosi riconoscimenti letterari. I suoi scritti figurano in numerosi giornali, riviste e antologie (è stato tradotto in francese, inglese, tedesco), ha fondato a Milano la rivista d’arte e cultura Controcorrente, con il poeta Giorgio Quaglia condivide il blog PQlaScintilla e ha collaborato con tante altre, curando e presentando cataloghi, libri e pubblicazioni varie di letterati e artisti. Solo una piccola parte di questo imponente lavoro è racconta nelle note di A tempo libero. L’augurio è che rinunci al proposito di “appendere la penna al chiodo”, continuando a dare il suo contributo culturale quanto mai prezioso in questi tempi piuttosto opachi e difficili.

Marco Travaglini

I libri di Rossotti, gentleman della carta stampata

Che bella sorpresa trovare ancora, a dieci anni dalla scomparsa, i libri di Renzo Rossotti sulle bancarelle dei mercatini e anche in qualche libreria, ristampati in nuove edizioni. Libri sempre attuali, in grado di attirare l’attenzione dei lettori interessati a conoscere non solo la storia di Torino ma anche i segreti e i misteri della città sabauda.
Una persona simpatica Rossotti, sempre sorridente, di grande cultura. É un modo per ricordarlo, noi giornalisti del Torinese lo abbiamo conosciuto bene e talvolta gli abbiamo fatto anche compagnia all’ora del mitico aperitivo, mitico per lui, favoloso per tutti quando si beve un buon champagne.. Lo si poteva incontrare nel suo caffè preferito, da Platti in corso Vittorio, mentre sorseggiava una coppa di champagne con l’immancabile sorriso, tutti i giorni, verso sera. Chiacchierare con lui era un piacere e, su Torino, città che amava profondamente, si imparava sempre qualcosa di nuovo. Giornalista torinese, o meglio chierese, scrittore, autore di romanzi e saggi, sempre molto distinto e gentile, Renzo era considerato un vero gentleman dei libri. Amava in particolare l’Inghilterra e le vicende della famiglia reale britannica, da Londra è stato corrispondente per quotidiani e settimanali ma con Torino aveva un feeling particolare. Come non ricordare i “gialli” di Rossotti e i volumi sulla Torino magica ed esoterica e gli infiniti libri, tutti i momenti ne sfornava uno nuovo, su case, piazze, strade, palazzi e monumenti della sua città. Grazie a lui sappiamo tutto su Torino. Una persona dai mille interessi.
Appassionato di filatelia, è stato un noto giornalista filatelico che curava rubriche su riviste e quotidiani. Tra i suoi libri, ricordo in particolare “Curiosità e misteri di Torino” del 1992, più volte ristampato, che divenne un bestseller con 40.000 copie vendute e nove ristampe, ma anche “Storia insolita di Torino” (2002), “Se c’era la luna”(1993), “Villarbasse, Cascina fatale” del 2002 e uno splendido “Le sabbie di Lawrence d’Arabia” del 2001.
  Filippo Re

Le sculture che raccontano la vita dei clochard

Nel giardino Sambuy di piazza Carlo Felice, sino al 15 novembre

Vita reale e vita artistica – assai più poetica – quasi si sovrappongono in questi giorni nel giardino Sambuy di piazza Carlo Felice, una mostra nata da un’idea di Raffaele Palma e dalla collaborazione tra CAUS – Centro Arti Umoristiche e Satiriche e le Associazioni Culturali Due Fiumi, “Giardino Forbito, “Maranzana, il Paese dei Babaci”, “Libri in Piola e non solo”, “Volo2006 ODV per il Volontariato” e “Bartolomeo & C.”. È nata “CLOveCHARD”, con la partecipazione di 14 scultori (partecipano tra gli altri Enzo Sciavolino, Mirco Andreis, Rosalba Boccaccio e Marilena Ciravegna, Lorella Massarotto, Bruno Roberto e Pierangelo Bertolo) che hanno realizzato altrettante opere polimateriche – uomini e donne distesi o seduti, addormentati, ricoperti di ogni loro avere, gli occhi fissi sul passante frettoloso, ognuno fatto di carta, stoffa, alluminio (lo ha usato con del polistirolo espanso Giancarlo Laurenti per il suo clochard, chiuso nel pensiero della propria vita e dimentico del freddo fino a morirne), juta, lana, legno, plastica, carta: anche le cassette che in un mercato hanno contenuto il pesce sono servite (da parte di Luciana Penna) a dar vita ad una scultura, il desiderio di una casa, sognata, tutta propria -, posizionate sulle panchine della piazza, alcune ad occuparle completamente, altre a permettere, quasi ad invitare, al visitatore di sedere accanto. Palma non ha dimenticato la poesia: ha infatti trovato posto una sezione parallela in cui sono presenti i testi di 22 poeti, stampati su foglietti per essere distribuiti a titolo gratuito al pubblico.

Un mondo di povertà, di tragedie della vita, d’incapacità d’adattamento, di violenza, di morti improvvise cui nessuno ha dato importanza, sotto gli occhi di tutti. Un mondo irrisolto. Certo per qualcuno, anche un mondo cercato e voluto, una volontà dura a morire che nessuno riuscirà mai a estirpare pienamente. Nell’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica e le Autorità verso quanti vivono per la strada e gettare uno sguardo al deteriorarsi, più o meno simbolico, di quei materiali confrontati con il più concreto realismo di negazione di quanti essi rappresentano, “CLOveCHARD” fa seguito ad una esperienza analoga che aveva visto tre anni fa coinvolti vari pittori (la ricerca e i ritratti di clochard cittadini, sulle orme di alcuni artisti rinascimentali alla ricerca dei loro soggetti immortalati nelle opere d’arte che ancora oggi vediamo nelle chiese e nei musei, Caravaggio uno per tutti), senza dimenticare quella del 2022, “ClocharDesign”, in cui si è vista da parte di designer l’ideazione e per qualche esempio la realizzazione di piccoli ricoveri per queste persone, disegni e prototipi che hanno poi trovato una esposizione nei locali della Biblioteca Civica Centrale. La mostra rimarrà aperta (dalle 8 alle 20, con ingresso gratuito) sino a mercoledì 15 novembre.

e.rb.

Le cianotipie di Alice Serafino “Sono solo lune di carta”

In piazzetta IV Marzo sono in mostra alla galleria Elena Salamon 

Sono cinquanta le opere in mostra nella galleria di Elena Salamon, nella centrale piazzetta IV Marzo, dell’artista Alice Serafino, sotto il titolo “Sono solo lune di carta”. Si tratta della retrospettiva degli ultimi quattro anni della produzione dell’artista pinerolese, frutto di una particolare ricerca sulla cianotipia.

Questo è un antico metodo di stampa fotografica che sfrutta l’azione di due sali di ferro che poi reagiscono ai raggi UV dando vita all’immagine fotografica dal tipico colore blu Prussia, il tutto mescolato al collage e all’acquerello, ottenendo un tuffo surrealista e sognante, all’opposto lineare in eccesso, privo di elementi ddisturbanti.

“La cenotipia è una tecnica – spiega Alice Serafino – semplice e molto versatile con la quale ho iniziato a lavorare dal 2016, progettando intere serie di ‘Naturalia’, ‘Lunedì e Bambù ‘ e ‘Minuscule’.

Il rigore che ha caratterizzato i miei primi anni di attività e che è evidente, per esempio, negli sfondi di Lunatiche e nella serie di opere intitolate “Out of the Blue” si è poi andato ridimensionando, sostenuto dall’impulsività e immediatezza del gesto e, talora, anche del caso”.

Nella mostra compaiono molte gambe di donna e l’artista spiega questo fatto dicendo che da piccola giocava molto con le scarpe della nonna. Da questi soggetti sembra emergere una sana rievocazione bunueliana, che contraddistingue molte cianotipie acquerellate associate al collage di Alice Serafino.

La mostra è visitabile fino al 20 novembre

Con orario martedì, mercoledì e giovedì dalle 15 alle 19, e giovedì e sabato dalle 10.30 alle 19 ( orario continuato)

Mara Martellotta

La “Atene del Canavese” approda a Torino. Ultimi giorni

In visione al “Collegio San Giuseppe” i libri più recenti di Donatella Taverna e le venticinque illustrazioni che ne completano la suggestiva veste editoriale

Fino al 10 novembre

“Atene del Canavese”: di certo ha scelto un nome ben impegnativo l’editore Giampaolo Verga quando, tredici anni fa, decise di dare vita alla sua preziosa Casa Editrice (particolarmente attenta alla valorizzazione del territorio canavesano e piemontese in genere) in quel di San Giorgio Canavese. Comune confinante con le cosiddette “Terre di Fruttuaria” (“terre abbaziali” di San Benigno, Montanaro, Lombardore e Feletto) e dominio per molti secoli dei Conti di Biandrate, fino al 1631 quando passò sotto il dominio dei Savoia, da allora, San Giorgio è diventato importante punto di riferimento, nonché terra natia, di celebri intellettuali (da Carlo Tenivelli, poeta e scrittore, al pittore Carlo Bossi fino allo storico sangiorgese Carlo Botta nella cui casa natale ha oggi sede il “Museo Nòssi Ràis – Nostre Radici”, al matematico Carlo Ignazio Giulio, fino a Bernardino Drovetti di Barbania e al giurista altro sangiorgese Matteo Pescatore solo per citarne alcuni) che ne hanno tracciato dal ‘700 in poi, la storia, guadagnandole l’alto titolo, di “Atene dal Canavese”.

Titolo saggiamente fatto proprio, ecco svelato l’arcano del nome dato alla Casa Editrice, dal Verga, editore indubbiamente meritevole di una premiante “trasferta” sotto la Mole. Dove, da alcuni giorni, e fino al 10 novembre prossimo, sono in pubblica e piacevolissima visione al “Collegio San Giuseppe” di via San Francesco da Paola, tre libri, fra le pubblicazioni più recenti e di maggior successo, a firma di Donatella Taverna (torinese, giornalista e nota critica d’arte), figlia dell’indimenticato scultore– allievo e collaboratore del Bistolfi – Giovanni Taverna e alle spalle una solida formazione specialistica (vitale passione!) in “Archeologia orientale”, acquisita nel periodo glorioso in cui all’Ateneo torinese insegnavano ancora Giorgio Gullini e Antonio Invernizzi. Tre, si diceva, i libri esposti, realizzati dalla Taverna fra il 2020 e il 2023. In ordine cronologico: “Esseri misteriosi nella tradizione popolare piemontese”, “Celti, fate e altre storie della tradizione popolare piemontese” e“Acque, stelle e genti lontane nella tradizione popolare piemontese”.

In ogni titolo e all’interno di ogni volume, comune e costante fil rouge, il tema della “tradizione popolare piemontese”: un mondo di fiabe (con figure misteriose che vanno dalla fata Melusina agli immaginifici “Pedoca” che abitavano le cime e le valli segrete ricche d’oro, ai draghi serpentini e alati fino all’ “uomo selvatico”, l’“òm searvy” delle vallate piemontesi, mezzo uomo e mezzo scimmia, “un mondo fantastico – sottolinea Donatella – che però contiene saggezze remote di cui troppo spesso ci si è dimenticati”.

E che servono a svelare ( attraverso le numerose tracce, ancora oggi ben vive, lasciate dalle antiche popolazioni celtiche o da quei Salassi fondatori di Eporedia –Ivrea o dalle genti che abitavano la Gallia della Provenza fino alla Bretagna) quella ricca e complessa civiltà del Piemonte preromano (146 a. C.) “troppo spesso studiata come se esprimesse soltanto rozzi pastori primitivi senza cultura e senza scrittura”. Pagine suggestive che riportano a precise realtà storiche, attraverso una ben definita formazione scolastica , sulla quale “agì non poco durante la mia infanzia e la mia giovinezza – continua la Taverna –  anche la presenza di un padre scultore appassionato di archeologia e di una madre pittrice appassionata di storia”.

Storia e arte. Realtà che trovano forma viva nell’iniziativa organizzata al “San Giuseppe”, dove in parete trovano anche spazio venticinque illustrazioni(a varie tecniche) di undici importanti artisti torinesi contemporanei servite a corredo iconografico delle pubblicazioni della Taverna. Dal fantastico “pesce fossile” di Giovanni Macciotta alle “Figure”, frammenti scultorei alla ricerca di una comune identità, del grande Sandro Cherchi, fino agli inquietanti “idoli del mare” (parte di una cartella dedicata a Paul Verlaine) di Guido De Bonis, ai “draghi” (a nerofumo) di Luisa Porporato e all’“Alcantara” di Carla Parsani Motti, richiami allo stupendo “controluce” di Lia Laterza, accanto al “grande padre serpente”opera dell’“alchimista” Isidoro Cottino. A seguire la scultorea, onirica classicità di Luigi Rigorini, controcanto all’astratto rigo musicale (“Vinias”) di Mario Gomboli e alle scomposte geometrie acquerellate (“Montagna”) di Eugenio Gabanino, altro dalla leggendaria (pluricelebrata in arte) “Danae” di Mario Gramaglia.

Pagine da leggere e opere da osservare. Con curiosità, attenzione e voglia di conoscere meglio noi stessi e le nostre radici. “Il prossimo studio – conclude Donatella Tavernaprenderà le mosse dalla presenza longobarda in Piemonte, dal VI secolo dopo Cristo, che ha lasciato nella nostra regione tracce ben più profonde di quanto possiamo pensare non solo nella cultura popolare, ma nella storia stessa”.

Gianni Milani

La “Atene del Canavese”

“Collegio San Giuseppe”, via San Francesco da Paola 23, Torino;tel. 011/8123250 o www.collegiosangiuseppe.it

Fino al 10 novembre

Orari: dal lun. al ven. 10,30/12,30 e 16/18,30; sab. 10/12

Nelle foto: “Cover” libri, Donatella Taverna, Guido De Bonis “Idoli del mare”, Luisa Porporato “Draghi”, Carla Parsani Motti “Alcantara”

In scena la Tragédie de Carmen a Savigliano, Venaria e Bra

Per il circuito lirico piemontese 2023 

La tragédie de Carmen sarà rappresentata a dicembre a Savigliano, Venaria e Bra

La leggendaria versione della Carmen di Bizet, rivisitata da Peter Brook, la Tragédie de Carmen, rappresenta il primo appuntamento del circuito lirico piemontese del 2023.

Il debutto avverrà il primo dicembre alle 20.45 al teatro Milanollo di Savigliano, con repliche il 3 dicembre alle 16 al teatro Concordia di Venaria e il 6 dicembre alle 21 al teatro Boglione di Bra, nel Cuneese.

Sono ormai passati 38 anni dalla celebre prima rappresentazione de La tragédie de Carmen, firmata da Peter Brook, Jean Claude Carriere e Marius Constant. Da quel giorno del 1981 alle Bouffes aux Nord di Parigi esistono due versioni, due Carmen nel repertorio operistico, la classica versione originale di Bizet e quella immaginata da Peter Brook, che fece tanto parlare di sé da farne addirittura un film.

Si tratta di una versione ristretta, condensata, dove l’elemento pittorico e folkloristico lascia spazio all’urgenza drammaturgica del racconto e accelera l’intreccio. L’attenzione è tutta riposta nel Quartetto dei personaggi formati da Carmen, José, Micaela, Escamillo, che trascinano lo spettatore nella dimensione intima delle loro emozioni. Il libretto di Carrière attinge alla novella di Mérimée, che rappresenta la fonte primaria, facendo resuscitare Garcia, il marito di Carmen. Constant ridimensiona la poderosa partitura originale in un atto unico per orchestra di venti elementi.

Tutto questo permette di rinnovare il mito di Carmen e di offrire nuove chiavi di lettura. La zingara diventa una donna blasfema, che ride di fronte al soffocante patriarcato che la circonda, esprimendo la sua indipendenza ad ogni costo.

Per dare corpo a questa versione la regia firmata da Alberto Barbi si rifà all’idea di spazio vuoto di Peter Brook. Il palcoscenico è una scatola dove contano solo i personaggi con le loro voci e i loro drammi.

Il Circuito Lirico Piemontese mira a rendere stabile e sostenibile l’opera, bilanciando tradizione e innovazione, con un cartellone che propone opere classiche alternate ad altre più contemporanee.

L’impresa lirica Tamagno è una realtà di riferimento nella produzione di spettacoli lirici sul territorio nazionale, avendo alle spalle ben trenta anni di attività nella diffusione di questo genere ad un pubblico popolare. In linea con il suo programma di rilancio territoriale, l’impresa ha selezionato 10 giovani artisti under 35 che prenderanno parte ai percorsi formativi e relative produzioni, in collaborazione con i principali conservatori del territorio piemontese.

MARA MARTELLOTTA

 

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