CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 12

Un grande omaggio a Berthe Morisot, ma anche una giusta richiesta di denaro al Governo

Nelle sale della GAM, sino al 9 marzo 2025

Ha rischiato davvero di passare in secondo piano, nel momento dell’inaugurazione affollatissima la settimana scorsa, il ritratto e la mostra di “Berthe Morisot, pittrice impressionista” – organizzata e promossa dalla Fondazione Torino Musei, GAM Torino e 24Ore Cultura – Gruppo 24 Ore, una cinquantina di opere sotto la cura di Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin, con l’eccezionale sostegno del Musée Marmottan Monet di Parigi -, diremmo scavalcata dalle dichiarazioni – un appello unanime – del presidente Massimo Broccio e della assessora alla Cultura del Comune Rosanna Purchia, seguiti a ruota dalla novella direttrice Chiara Bertola (giustamente) preoccupati di quanta strada si debba ancora fare per vedere completato il “processo di riqualificazione” della Gam che pur vede aprirsi “una sua nuova stagione”, pur “chiusa per un terzo dei suoi spazi quando mi sono insediato”, sottolinea Broccio. Dando fiato alle trombe per urlare ancora una volta che pecunia non olet, si fa sonora richiesta secondo la impellente bisogna a Regione e Governo – secondo la consuetudine, il primo richiesto dovrebbe essere il Ministero della Cultura, di questi tempi mai così sconquassato e vistosamente claudicante – di farsi carico di un futuro più che concreto e soddisfacente: mentre il segretario generale della Compagnia di San Paolo, Alberto Anfossi, elenca il quanto già fatto e il quanto già deliberato per interventi a venire (poco meno di due milioni di euro).

Ma torniamo a Berthe, “figura femminile capace di farsi accettare in un ambiente tutto maschile”, sono ancora parole del Presidente, consapevole altresì che sia, in questo 150mo anniversario dell’Impressionismo, il bentornato momento artistico dell’artista, se anche il Palazzo Ducale di Genova sente la necessità di ambientare nelle proprie sale “Impression, Morisot” che “sarà la prima grande mostra in Italia sulla figura” (ci fanno sapere da Genova) della pittrice (e tu vuoi che un minimo di rivalità al di qua e al di là dell’Appennino non ci sia? magari, se Parigi val bene una messa, sarà l’occasione per un giro nella Superba, e approfondire), con “86 opere, tra dipinti, acqueforti, acquerelli, pastelli, cui si aggiungono documenti fotografici e d’archivio, molti dei quali provenienti dai prestiti inediti degli eredi Morisot”. Berthe che era nata a Bourges nel gennaio del 1841 e che sarebbe scomparsa a Parigi il 2 marzo 1895, la casa della sua giovinezza aperta a intellettuali e artisti, la preclusione all’École des beaux-arts che avrebbe aperto al gentil sesso soltanto nel 1897, i primi maestri e le visite al Louvre per studiare Raffaello e Rubens, l’allergia alle urgenze accademiche, l’entrata nell’atelier di Corot che la spinse a dipingere en plein air. Poi la conoscenza con Edouard Manet, incrociato nei lunghi corridoi del grande museo, forse una loro intima relazione data in pasto ai salotti parigini tra mille pettegolezzi, molto presumibilmente vuoti, una “relazione” artistica che sfociò nella comune passione artistica, nella stima e nell’amicizia, nell’affidarsi dell’allieva al maestro per divenire una delle sue modelle predilette (la ritrasse in ben undici tele, come “Il balcone”, 1868, “Berthe Morisot con il ventaglio”, 1872, e “Berthe Morisot con un mazzo di violette”, ancora 1872).

Questa frequentazione e quest’amicizia non impedirono a Berthe di sposare nel 1874 Eugène, il fratello di Manet, in un matrimonio oltremodo felice, “ho trovato un brav’uomo, onesto, e sono sicura che mi ama sinceramente”, parole che avrebbero sicuramente cancellato quelle pronunciate un tempo: “Non credo ci sia mai stato un uomo che abbia trattato la donna alla pari, e questo è tutto ciò che chiedo, perché conosco il mio valore.” È il piacere, quasi la necessità di dipingere a portare avanti la vita dell’artista, i suoi sentimenti consolidati, le amicizie, i viaggi e le frequentazioni di luoghi e amici, la dolcezza dei rapporti familiari, primo fra tutti quello con la sorella Edma; è l’importanza, forse mai immaginata ma pur sempre ricercata, di far parte di un gruppo, che trova nella “Società anonima degli artisti, pittori, scultori, incisori, ecc.” e che vede tra i partecipanti, tra gli altri, Pissarro, Degas, Renoir, Sisley, Monet: con cui, unica presenza femminile, allestisce (nove erano le sue opere) nel 1874 una mostra nello studio del fotografo Nadar. Avrebbe partecipato a ogni mostra successiva, avrebbe mancato soltanto quella del 1879 perché incinta della figlia Julie.

Magicienne”, la definì Stéphane Mallarmé e nel passare dinanzi a certe opere, suddivise in quattro sezioni, la sfera familiare e i ritratti femminili, i paesaggi e i giardini e i capolavori en plein air, provenienti da importanti musei (oltre il Marmottan, il Musée d’Orsay di Parigi, il Musée des Beaux-Arts di Pau, e ancora Madrid e Bruxelles) e collezioni private (la difficoltà dei prestiti, ricorda Maria Teresa Benedetti, “per la volontà di accrescere la conoscenza di questa donna che a suo tempo non ebbe il riconoscimento che meritava”), ti rendi pienamente conto dell’affermazione, pochi tratti racchiusi in un vortice a renderci la grazia e la prepotenza al tempo stesso dell’incompiuto. Unite all’uso della luce che si spinge attorno a un personaggio e a un angolo di giardino con una incontrastata ricchezza di pennellate che brillano e vivacizzano la superficie delle tele, il tutto avvolto dall’intensità dell’apporto cromatico. A queste sezioni, è anche esposta una importante raccolta di opere su carta dell’artista, provenienti dal Marmottan, fondamentali come i dipinti per ripercorrere le tappe del suo percorso creativo.

Ci si trova dinanzi a “Eugène Manet all’isola di Wight” realizzato durante il viaggio di nozze in Inghilterra e a “Eugène Manet e sua figlia nel giardino di Bougival” (entrambi dal Marmottan), padre e figlia sorpresi in un affettuoso atteggiamento che coinvolge il gioco, la giacca di lui fatta di rapidi tocchi mentre alle spalle ha maggiore concretezza espressiva il giardino di fiori variopinti e di piante: un luogo che, in altro momento, coinvolge la domestica di casa, Pasie, mentre è intenta a cucire, ancora tra il verde del giardino, esempio non ultimo di figure femminile colte nelle loro attività più umili nella storia dell’arte. Ci si trova dinanzi alla “Donna con ventaglio” (1876, seconda mostra impressionista), stilisticamente matura, dove in bella sequenza sono la composizione floreale, l’acconciatura della signora e il ricco ventaglio dal sapore settecentesco nei suoi disegni; e al “Ciliegio”, tra i dipinti a olio di dimensioni più imponenti realizzati dalla Morisot, e alla “Pastorella nuda sdraiata” e all’”Autoritratto con la figlia davanti a una finestra”, uno dei pezzi di maggior richiamo dell’intera mostra.

A cornice, o forse facendosi materia prima di “Morisot, pittrice impressionista”, si inserisce un “display”, realizzato da Stefano Arienti, un’ambientazione che incamera le tele dell’artista, ponendo qua una panchina o giocando là con un interno dove trovano posto un appendiabiti e un pianoforte, più in là un vasto, “erboso”, tappeto e certi teli di carta da parati, dipinti di grigio e di oro, o certe (deprecabili, queste sì) carte da pacchi color nocciola che umiliano certe tele che sopportano. O chi sopporta chi? Alcuni materiali con i relativi nuovi effetti creano un “dialogo con le opere” che non è da cancellare ma certo in alcuni momenti – leggi la prima sala – si tenta persino d’ingannare il visitatore camuffando quattro opere della Morisot con l’apporto moderno della cera di pongo “imposto” a larghe ditate da Arienti. È un progetto della direttrice Bertola di cui, per molti versi, non si sentiva affatto la necessità. “La culla”, poniamo, ci avrebbe personalmente rallegrato di più. S’intitola “L’intruso”. Se ho ben capito, nelle mostre a venire ne avremo ancora altri.

Risalendo all’inizio, tutti sottolineavano con dolenti note che per il restayling definitivo ci vorrà ancora tempo, con Purchia che, sottolineando la (già) nuova vita della GAM, ripete “noi continuiamo a credere in quella che è la prima galleria d’arte moderna del Paese, ma sarebbe bene che questo lo si ricordasse anche al governo”. Anfossi, da parte sua, ricorda che San Paolo ha già fatto il proprio dovere (leggi: 500 mila euro per i lavori di messa in sicurezza, altri 500 per il lotto zero). Con il milione e mezzo già messo da parte, si arriva a circa quattro milioni: per cui ad Anfossi non resta che chiedersi “a quando il contributo pubblico?”. La risposta che Mario Turetta, capo dipartimento per le attività culturali del Ministero della Cultura, dava alla Stampa nei giorni successivi, suonava glaciale: “Per quest’anno niente soldi alla Gam”. Sangiuliano, ex ministro ex promesse ex interventi, lasciava intravedere 15 milioni di euro: da Torino si aspetteranno i giochi (nuovamente?) del 2025. Responsabili e pubblico, tutti in attesa.

Elio Rabbione

Nelle immagini: di Berthe Morisot “Autoritratto con la figlia davanti a una finestra” (1887), “Il ciliegio”, “Donna con ventaglio” e “Autoritratto” (1885).

“The Mushroom Fortress”, i suggestivi “funghi colorati” di Michel Vecchi

Alle “Scuderie” del valdostano “Forte di Bard”

Fino al 25 maggio 2025

Bard (Aosta)

Al primo impatto, possono ricordarci i celebri “Tappeti natura”, inventati dal fantasioso creativo Piero Gilardi (artista torinese scomparso nel marzo di un anno fa) per riprodurre in modo estremamente realistico frammenti di ambiente naturale, “a scopo ludico ma anche di denuncia verso uno stile di vita ritenuto sempre più artificiale”. Chissà? Penso proprio che i fini collimino. Non è così di sicuro per i “supporti” e i “media” utilizzati. Il “poliuretano” per plasmare i “tappeti” (Pop Art) di Gilardi. Il legno di alberi caduti o pericolanti per i grandi “funghi” colorati di Michel Vecchi, l’ingegnoso “land artist”, ospitato con la sua “The Mushroom Fortress” nel prato verde antistante le “Scuderie” del “Forte di Bard”. Colori, pennelli e … motosega, Michel ha appositamente realizzato la sua piacevolissima installazione artistica per il “Forte” valdostano, creando una sorta di magico “Pianeta colorato” a misura d’uomo e di bimbo, dov’è facile immaginare giochi e voci di gioia rincorrersi fra quei “Funghi” (simbolo di “bosco” e di “felix natura”) creati dalla modellatura di legni recuperati da alberi non più alberi e tagliati lasciando le radici nel terreno “in segno di rispetto per il circolo rigenerativo della vita”.

Dalla sua Courmayeur, ai piedi del Monte Bianco, fino a Ibiza dove oggi vive parte dell’anno (dopo aver viaggiato fra Papua Nuova Guinea, Timbuktu, Mali, Afghanistan, Pakistan, India e l’isola di Pasqua), Vecchi ha sviluppato un modo suo, bizzarro e geniale ad un tempo, di fare arte che sempre vuole essere un atto d’amore infinito per la “natura”, per quel “bosco” di casa o lontano mille miglia da casa (ma i profumi, i sapori, i suoni e le vite e le emozioni in esso sottese sono sempre le stesse) che per lui è ogni volta “luogo di crescita, protezione e profonda introspezione”. Attraverso il suo lavoro, “l’artista – è stato scritto – ci invita a riflettere sulla profonda connessione tra noi e il resto della natura. Ogni albero porta con sé un messaggio dall’universo alla terra: una memoria, un’anima e un potere specifico da trasmettere a chi si avvicina ad esso. ‘The Mushroom Fortress’ è un’occasione per immergerci in questa connessione, riscoprendo la bellezza e la saggezza che la natura ci offre”. I suoi grandi funghi, color “natura” o rossi o blu a pois bianchi, sembrano infatti parte viva di un’umanità colorata, che ha scoperto l’essenza dello stare al mondo, la bellezza del comunicare e dell’esser parte di una Terra dove l’importante è prendersi per mano e sorridere di un sorriso vero, in un magnifico girotondo che è canto libero al cielo.

“Il messaggio delle opere di Michel Vecchi è in piena sintonia – commenta la Presidente del ‘Forte di Bard’, Ornella Badery – con le attività divulgative e di ricerca sui temi della conservazione e tutela della montagna e delle problematiche correlate ai cambiamenti climatici che vedono impegnato il Forte. L’installazione arricchirà per diversi mesi lo spazio verde antistante le Scuderie e attorno ad essa realizzeremo una serie di attività creative rivolte ai più piccoli”.

L’installazione è, inoltre, dotata di un “sistema sonoro”, basato sugli impulsi elettrici di veri funghi che negli anni hanno iniziato a crescere sulle sculture. Trasformati in musica, questi impulsi elettrici ci permettono di ascoltare la natura in modo diverso e dialogare con il suo linguaggio più profondo e potente.

Non è favola o gioco o magia. E’ realtà, realtà vera interpretata, attraverso l’intermediazione dell’arte, con gli occhi puri e semplici di un adulto che porta dentro la purezza di un bambino.

Gianni Milani

“The Mushroom Fortress”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 02/833811 o www.fortedibard.it

Fino al 25 maggio

Orari: mart. 10/18, da merc. a dom. 10/18; chiuso il lun.

Nelle foto: Michel Vecchi all’opera e immagini dell’installazione

Il ciliegio e il bambù

Un romanzo di Antonio Daniele De Giorgi edito da Paola Caramella editrice

 

Un ingegnere scrittore. È il caso di Antonio Daniele De Giorgi, laureato in ingegneria nucleare, che ha da sempre coltivato l’hobby della scrittura, divenuto più continuativo a partire dalla metà degli anni Novanta. Nel maggio 2016 veniva pubblicato, dopo anni di collaborazioni giornalistiche, il suo primo libro “Racconti delle stelle”, cui ha fatto seguito un secondo libro intitolato ‘Francis mon amour’ e poi ‘Pancrazia’.

La sua ultima fatica letteraria, che potrebbe considerarsi un po’ un romanzo di formazione, si intitola “Il ciliegio e il bambù”, edito da Paola Caramella Editrice . Protagonista un uomo in carriera, un trentacinquenne, che nel momento in cui si mette in discussione sfugge ad una morte sicura. Accanto a lui compare un misterioso personaggio che, facendo irruzione nella sua vita, diventa uno scomodo compagno, imponendo per il salvataggio il pagamento di un pegno non indifferente.

Nel romanzo il protagonista fa i conti con il suo passato, richiama alla memoria episodi dimenticati o che avrebbe preferito seppellire del tutto, esamina i propri comportamenti e decide di cambiare il proprio atteggiamento mentale, fatto che lo porta ad accettare situazioni che mai avrebbe creduto possibili.

Abbandonato l’egoismo che lo contraddistingueva, scopre un mondo lontano da quello suo abituale , un mondo fatto di altruismo, di umiltà. Matura nuove conoscenze, come quella di una giovane antropologa torinese che diventerà un suo punto di riferimento.

Un cambiamento di vita, quello del protagonista, che fa riflettere il lettore e magari gli pone delle domande sulla sua stessa esistenza.

 

Mara Martellotta

A Chieri l’orchestra da Camera Polledro

Venerdì 25 ottobre, alle ore 21, presso l’Auditorium Leo Chiosso (ex sala Conceria) si esibirà l’orchestra da Camera Giovanni Battista Polledro, diretta dal maestro Federico Bisio nel programma “Il respiro della musica edizione seconda. Tosca e Carmen, due vite d’amore nel centenario pucciniano”.

Da Amilcare Ponchielli verrà eseguita la Danza delle ore da La Gioconda, trascrizione per ensemble di fiati di Tarkmann, da Giacomo Puccini una Tosca Fantasy, elaborazione di flauti di Mangani e di Georges Bizet la Carmen Suite, trascrizione per ensemble di flauti di Tarkmann.

Carmen è un’opera comique di Georges Bizet composta da quattro atti, definiti quadri dal compositore, su libretto di Henri Meilhanc e Ludovic Halevy. Tratta dalla novella omonima di Prosper Mérimée (1845), alla quale i librettisti apportarono delle varianti salienti, tra cui l’introduzione del personaggio di Micaela, diedero maggiore risalto alla figura di Escamillo e apportarono modifiche al carattere di don José. Bizet collaborò lui stesso al libretto, partecipando alla stasera della celebre habanera ” L’amour est un oiuseau rebelle”.

La prima rappresentazione avvenne all’Opera Comique di Parigi il 3 marzo 1875, inizialmente l’opera non riscosse molto successo, cosicché Bizet, morto appena tre mesi dopo la prima, non poté assaporarne la fortuna. L’opera irruppe nella seconda metà del XIX secolo come un lavoro innovativo , ma al tempo stesso riassuntivo di molti aspetti della tradizione operistica e ad essa compete il riconoscimento di capolavoro assoluto”.

Dal 1880 è stata una delle opere più eseguite ed è un classico del repertorio operistico, tanto da apparire al terzo posto sulla lista di Operabase delle opere più rappresentate al mondo.

 

Mara Martellotta

TFF: Mazzantini, Torre e Cescon alla guida delle giurie 

 

 

Saranno Margaret MazzantiniRoberta Torre e Michela Cescon a presiedere le tre giurie dei concorsi della nuova edizione del Torino Film Festival, rispettivamente, Lungometraggi, Documentari e Cortometraggi. Ad annunciarlo, insieme all’elenco di tutti gli altri prestigiosi giurati, è il Direttore Giulio Base.

I componenti delle tre giurie, ognuno con la propria competenza e autorevolezza, ben rappresentano il panorama culturale e cinematografico italiano e internazionale, con uno sguardo attento alle tradizioni della settima arte e al contempo aperto ai suoi nuovi linguaggi e declinazioni.

La giuria del Concorso Lungometraggi è composta dalla presidente Margaret Mazzantini, scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice, vincitrice per le sue opere dei più prestigiosi premi letterari, come il Premio Strega per Non ti muovere, il Premio Campiello per Venuto al mondo e il Premio Flaiano per Nessuno si salva da solo. Al suo fianco ci sono: il regista macedone Milcho Manchevski, Leone d’oro a Venezia per il suo film Prima della pioggia, candidato anche agli Oscar per il miglior film in lingua straniera; l’attrice francese Anne Parillaud, conosciuta a livello internazionale per le sue iconiche interpretazioni in film come Nikita di Luc Besson e Una per tutte di Claude Lelouch; Giovanni Spagnoletti, critico cinematografico, ha ricoperto il ruolo di professore di “Storia e critica del Cinema” all’Università “Tor Vergata” di Roma, è autore e/o curatore di quasi cento pubblicazioni di ambito cinematografico e direttore della rivista di studi cinematografici e web-magazine Close upKrzysztof Zanussi, uno degli autori più significativi del cinema polacco, regista e sceneggiatore di opere come La struttura di cristallo (1969), Illuminazione (1973), La costante (1980), L’anno del sole quieto (1984) e Perfect Number (2022).

Il Concorso Documentari è presieduto da Roberta Torre, regista di documentari, film di finzione e musical, oltre che regista teatrale, vincitrice di svariati David di Donatello e Nastri d’Argento con i titoli Tano da morire (1997), Angela (2002), Mare nero (2006) I baci mai dati (2010), Riccardo va all’Inferno (2017), Mi fanno male i capelli (2023). Insieme a lei: la cineasta americana KD Davison, che con il suo Fragments of Paradise ha vinto il Premio al miglior documentario sul cinema nella sezione Venezia Classici della 79ª Mostra del Cinema di Venezia e il Grand Jury Prize al Doc NYC; Federico Gironi, giornalista, autore, critico cinematografico e co-curatore della sezione Venezia Classici della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

A presiedere il Concorso Cortometraggi è l’attrice Michela Cescon, vincitrice del David di Donatello e il Nastro d’Argento per Romanzo di una strage e candidata per i film Primo amoreL’aria salata Piuma, che ha esordito alla regia nel 2021 con Occhi blu. In giuria: l’attore serbo Darko Perić, che dopo il successo internazionale con La casa di carta, ha preso parte a pellicole come La versione di Giuda e La morte ci divide; e l’attore Nicola Nocella, vincitore del Nastro d’Argento come migliore attore esordiente per Il figlio più piccolo di Pupi Avati e come migliore attore protagonista per il cortometraggio Omero bello-di-nonna.

Il Torino Film Festival è realizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e si svolge con il contributo del Ministero della Cultura Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, Regione Piemonte, Città di Torino, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT.

Verrua Savoia, la fortezza sulla piana del Po

Anche il grande Barbarossa la considerò una roccaforte inespugnabile, tanto è vero che si accampò nelle vicinanze per studiare bene l’assalto e solo quando il governatore del castello si rifiutò di aprire le porte l’imperatore andò su tutte le furie, attaccò le fortificazioni ed il borgo distruggendo tutto. Accadde nel 1167 durante la guerra di Federico I contro i Comuni della Lega Lombarda. Posta su un colle in una posizione strategica la fortezza di Verrua Savoia dominava il corso del Po e gran parte della pianura padana piemontese.
E ancora oggi è così, senza eserciti e assedi, da lassù la vista è eccezionale, un colpo d’occhio incredibile, il panorama spazia sulle province di Torino, Vercelli, Asti e Alessandria. Non è rimasto molto, della fortezza antica c’è solo la Rocca, l’unica porzione del complesso che possiamo ancora vedere oltre a qualche rudere dei bastioni più esterni. La fortezza di Verrua Savoia fu più volte distrutta e ricostruita, la sua è una storia legata a guerre, assedi, distruzioni e passaggi di sovranità dai vescovi di Vercelli ai marchesi del Monferrato e ai Savoia. La prima testimonianza della presenza della Rocca di Verrua risale al X secolo. Ma, Barbarossa a parte, la fama della fortezza è legata soprattutto agli assedi del 1625 e del 1704-1705. Il primo grande assedio sostenuto dal forte di Verrua fu quello del 1625 quando il Duca di Savoia si alleò con la Francia contro la Spagna e l’Austria. Il governatore spagnolo di Milano tentò invano di impadronirsi del castello scatenando pesanti bombardamenti d’artiglieria. Il presidio resistette fino allo stremo delle forze. Il 17 novembre l’esercito spagnolo, sconfitto dai piemontesi e dagli alleati francesi, si diede alla fuga dopo aver perso in tre mesi oltre 10.000 uomini. Il secondo grande assedio avvenne nel 1704 durante la guerra contro i Francesi. Luigi XIV aveva incaricato il generale duca di Vendome di riconquistare il Piemonte.
L’assedio durò circa un anno e alla fine vinsero i francesi ma la strenua resistenza di Verrua consentì di ritardare l’assedio di Torino consentendo all’esercito piemontese di organizzare meglio le difese fino all’arrivo vittorioso di Vittorio Amedeo II e del principe Eugenio di Savoia. Ormai demolita in gran parte la fortezza tornò ai Savoia ma non fu più ricostruita come bastione difensivo e dopo il periodo Napoleonico fu ceduta ai privati. La parte principale della fortezza era costituita dal dongione (donjon), dalle caserme dei soldati e da un pozzo. Nella parte centrale della piazzaforte si trovavano i magazzini super protetti con armi e munizioni mentre la Porta del Soccorso collegava il forte alla pianura. L’imponente complesso venne demolito nel 1707. Nell’Ottocento il forte fu totalmente trasformato e diventò una residenza nobiliare. Il palazzo del governatore divenne la casa del marchese mentre vigne e terreni agricoli rivestirono l’ambiente attorno alla dimora. Ciò che resta della fortezza di Verrua Savoia è stato concesso in comodato d’uso al Comune di Verrua che lo apre al pubblico. Gli esterni della fortezza sono sempre visitabili ma per vedere gli interni la fortezza è aperta tutte le domeniche e i festivi da marzo a ottobre dalle 15,30 alle 18,30 ed è possibile prenotare visite guidate negli altri giorni della settimana. Consultare il sito www.roccaverrua.it
Filippo Re

Sergio Unia: “Io sono il testimone del mio tempo”

Nel Giardino Medievale di Palazzo Madama, sino al 9 dicembre

S’intitola “In ascolto” la mostra curata da Paola Ruffino che Palazzo Madama e la Fondazione CRC di Cuneo dedicano all’arte dello scultore Sergio Unia – ottantunenne, nativo di Roccaforte Mondovì, allievo di Filippo Scroppo nel 1970 nei corsi liberi di nudo dell’Accademia, tra le innumerevoli mostre “La forma tra purezza e sensualità” con la Regione Piemonte e il Consolato Generale d’Italia ad Amburgo (2005), “Incontrare la forma” al castello medievale di Monastero Bormida (2020), “Bronzi e disegni” alla villa “La Colombaia” di Luchino Visconti a Ischia (2002), una grande mostra personale al Museo Manzù di Ardea organizzata dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2006, la partecipazione nel 2011 al Padiglione Italia della Biennale veneziana, la nomina ad accademico ad honorem della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon.

La scelta è oggi caduta su tredici opere (delle 35 proposte dal Maestro) nell’ambito del progetto “Donare”, attivo dal 2017, volto al perseguimento di scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, con la raccolta, sul territorio di Cuneo, di donazioni di varia natura da parte di privati: “Cuneo come crocevia di cultura – ha sottolineato Maura Anfossi, consigliera generale della Fondazione, durante la presentazione della mostra -, un percorso sempre portato avanti senza far rumore, e la mostra di Unia ne è una prova, un saggio della scultura di un grande artista che è passaggio tra una generazione e l’altra, fatta di modernità e di un passato immerso nelle proprie radici, che immette nel visitatore il desiderio di bellezza pratica e interiore allo stesso tempo.”


È altresì un’occasione, la mostra di Sergio Unia, per l’unione verso altri frutti di due Fondazioni, come per instaurare un ampio dialogo con il territorio, l’idea di una selezione che trova ospitalità (sino al 9 dicembre prossimo) nel giardino del castello degli Acaia – quel giardino che ha visto nel 2011 un riallestimento prezioso e che trova il proprio passato nel lontanissimo 1402, eletto a luogo di delizie, ad angolo di lettura e conversazione della corte, un “giardino che si fa felicemente coprotagonista, con l’offerta di un percorso sorprendente.” All’esterno di quella porta Fibellona che da sede amministrativa, militare e giudiziaria si trasformava decennio dopo decennio in residenza cortese.

Si ritrovano, in quello che fu anche orto e frutteto, i temi propri dell’artista (con il garbo che rispecchia nelle proprie opere, “Io sono il testimone del mio tempo”, dice Unia), certe sculture in bronzo che s’ammirano nel suo studio torinese e nelle tante mostre da lui concepite in tempi recenti e in passato, il rapporto non soltanto con la natura ma anche con l’antico e l’infanzia, i giochi dell’adolescenza, i nudi femminili. E ovunque s’avverte la perfetta consonanza tra l’artista e la modella (il soggetto fermato in un gesto preciso, nella piena spontaneità, lontano da qualsiasi retorica), tra l’individuazione di un atteggiamento e lo sguardo dell’artista su quelle forme, la sensualità mai prevaricante, la dolcezza e la freschezza poste in comunione con i diversi giochi di luce che si alterneranno nel corso della giornata, le diverse atmosfere che si creeranno, ogni personaggio, sempre reso universalmente anche se le targhette esposte accanto danno nomi e riferimenti ben precisi; e un equilibrio che ci riaccompagna a tanti capolavori della storia dell’arte, dovuto omaggio ai maestri del passato, da Donatello a Manzù per arrivare pittoricamente a Degas, guardato con gli occhi di oggi, la leggerezza del tratto e la sensibilità rivolta alla celebrazione dell’eterno femminile, familiare e no, colto nella quotidianità. Opere che si scoprono a poco a poco, svelate passo dopo passo tra piccoli arbusti e foglie e vasi a cui si è ridato vita, o al riparo di un arco di rami o tra le rovine e i reperti dismessi da zone differenti del palazzo, a volte depositati alla rinfusa nel fossato, elementi – vasi e balaustre – smontati dalla facciata juvarriana per essere sostituiti da altri nuovi tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra.

Non abbiate fretta nel girovagare per il giardino antico: catturati dallo sguardo sulla classicità vi imbatterete in un “Torso virile” del 1981 e nella “Musa” del 2005, che paiono usciti ieri da qualche scavo archeologico; delicatissimo, il “Bambino con la conchiglia”, dove Zoltan è in atto di ascoltare il rumore delle onde, “Adolescente con flauto” e l’aereo “Maia con l’aquilone” o la “Bimba sui pattini” o la plasticità di “Elena danzatrice”. Perfetto nella gioia del gioco che trasmette, e nell’immediatezza eccezionale del gesto tra le due bambine, “La cavallina” che fa parte della serie dei “giochi”.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Giorgio Perottino, di Sergio Unia ”Torso virile”,  “Bimba sui pattini” (Zoltan), “Bambino con la conchiglia, “La cavallina (giochi)”.

“Megalopolis”, una scommessa (persa) lunga quarant’anni

Sugli schermi il controverso ultimo film di Francis Ford Coppola

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Era la metà degli anni Settanta e lui era alle prese con il napalm e i grandi incendi e le musiche wagneriane di “Apocalipse now”: è già schizzava disegni, prendeva appunti, annotava abbozzi, inventava grumi d’episodi, prendeva a organizzare questa grande ossessione e questa “favola”, come oggi suona sullo schermo, che affonda le proprie radici non soltanto nelle pagine di Svetonio con il suo “De coniuratione” ma altresì nella “Vita futura” di Wells (1930), una fantascienza lunga un secolo a venire. Uno script in bozzolo ci fu a coinvolgere, nelle prime letture – ed eravamo nell’estate del 2001, De Niro e Paul Newman e DiCaprio tra gli altri: ma poi furono le Torri Gemelle, la distruzione e la visione di un altro mondo, l’affacciarsi di una nuova Storia, nazioni che non sarebbero più state le stesse, non era più concepibile immergere New York in un’epoca di rovina al di là dell’immane tragedia.


Ma l’ossessione continuava a essere un’ossessione, le idee restavano, quello che la tragedia aveva interrotto l’avrebbe fatto rinascere (!) la pandemia, al suo indomani e il progetto avrebbe finalmente preso il largo nel mare immenso e folle del cinema di Francis Ford Coppola, capace anche di metterci 120 milioni di un personale patrimonio, pur di avere una libertà assoluta in ogni momento dell’operazione, magari privandosi di gran parte della fiorente industria vinicola di Napa Valley pur di veder realizzato questo “sogno” lungo non certo un solo giorno ma più di quarant’anni.

A tredici anni dall’ultimo “Twixt”, oggi nel (poco) bene e nel (tanto) male “Megalopolis” è sullo schermo, controverso e ignorato sin dalla giuria di Cannes e “recuperato” in festosissima anteprima e omaggi al Maestro alla Festa del Cinema di Roma. Laddove la Roma imperiale, corrotta, dissoluta, priva di qualsiasi freno morale e di costumi, quella che sta a grandi passi scivolando verso il proprio tramonto, invasioni e no a decifrarne il tracollo, è paragonata alla New York di un presente e di un prossimo futuro, in uno sguardo architettonico grandioso e non poche volte kitsch che ben le accomuna. Al centro, l’allampanato architetto Adam Driver – che altri non è se non l’alter ego dell’autore, la mano e l’intelletto demiurgici che tutto governano -, che di nome fa Cesare Catilina, l’ordine e la rivoluzione allo stesso tempo, che progetta in piena enfasi nuove costruzioni e al ralenti assiste alla distruzione dinamitata di quelle vecchie (ricostruiamo l’America tutta dalle proprie macerie, e forgiamo una nuova umanità che avrà sempre i suoi peccatucci ma profumerà almeno di nuovo e di fresco? o possiamo ampliare quell’utopia allo stesso Cinema, in un ultimo scatto di prepotente megalomania?) e che è capace con uno schiocco di dita di fermare il tempo e di guardare con esso allo spazio come a una componente dello spirito, padroni entrambi di se stessi: dopo essersi aggiudicato il Nobel per l’invenzione del “megalon” che del cemento armato se la ride e che è altrettanto capace di ricostruire volti umani devastati. Al suo opposto, il sindaco Giancarlo Esposito, che di nome fa Frankie Cicerone, rappresentante estremo dell’ordine costituito e del Grande Capitalismo, intrallazzato con chiunque e per qualunque cosa sino all’orlo dei capelli, per il quale la città che vede davanti ai suoi occhi non ha nessuna necessità di cambiar d’abito. In mezzo, tra i due contendenti, Nathalie Emmanuel, la Giulia che è prole della massima autorità, che cade d’amore per l’artefice ed è rimescolata tutta per i dubbi e il rispetto che deve al padre. Trama semplice semplicissima, che più non si potrebbe, perché poi il nocciolo sta tutto lì. Trattata male malissimo.

In un bailamme decostruito, che pare sia andato al cinema un paio d’anni fa a vedere l’orribile o ormai del tutto dimenticato “Babylon” di Damien Chazelle, in un’arroganza cinematografica rara, in un racconto che non poche volte scivola a occhi ormai chiusi nella noia, in un tripudio di tinte fosche che “Dracula” al suo confronto era il tripudio della luce (ma è innegabilmente interessante la fotografia di Mihai Mâlaimare jr, come non si può restare indifferenti all’immenso lavoro scenografico della coppia Beth Mickle/Bradley Rubin), Coppola gioca alla realtà e guarda mentre stancamente scommette sulla fantasia.

Mette, il Coppola arrivato agli ottantacinque anni, nel gran calderone il bagaglio dell’autostima (consolandosi che in passato anche altre sue opere sono state schiacciate e oggi rivivono di piena rivalutazione) e le citazioni che coinvolgono anche la famiglia (quelle tre damigelle che spuntano dal nulla, a chiacchierare di tutto e di niente, agghindate in costumi settecenteschi, non sono forse l’omaggio di un padre alla “Marie Antoinette” della figlia Sofia?), i rimandi letterari, alti e altissimi, che abbracciano non soltanto il pallido principe di Elsinore ma pure Marco Aurelio e Saffo, le innovazioni tecnologiche e l’artificio visivo che ci mostrano Driver svolazzante o con un piede poggiante nel vuoto, messo lui sulla cima del Chrysler che sembra essere il punto onnipresente della Grande Mela, le frasi a effetto che una volta le prendi sul serio e l’altra ti sembrano sfiorare il ridicolo, tutto annacquato in un clima falsamente teatrale, vecchiamente roboante, declamatorio. In più occasioni si rasenta il delirio da parte di colui che nonostante tutto rimane un Maestro, offensivo quasi nella spudoratezza del suo Cinema: nella costruzione intera, nei colori “sballati” che amano virare al giallo imperituro, all’andamento traballante e forse consapevole dell’operazione (perché credo che la dica lunga la scena in cui un gruppetto degli attori coinvolti visita l’embrione della nuova città che ancora poggia su assi di passaggio, tenute in piedi da funi chissà quanto resistenti), negli eccessi che circolano ad ogni fotogramma, alla cavalcata (con la stanchezza che si porta appresso) senza un attimo di sosta. Il trovare, continuo, mezzi d’espressione, il gioco che non è al servizio della storia ma della persona, l’”épater le bourgeois” instancabile che va comunque al di là di ogni scrittura per lo/dello schermo ma che fa comunque ripensare a quel che doveva apparire allo spettatore di fine Ottocento la sfida di un Méliès, con quel grande bastone ficcato lì, nell’occhio della luna.

Alla fine, mai così politicamente corretto, il grande costruttore si pone alla guida e al servizio delle folle che reclamano e trova altresì il tempo di stringere la mano al sindaco, tutto è ricomposto, un bebé che vedrà chissà quali futuri è già nelle braccia di maman mentre la nonna si spertica in truccatissimi sorrisi… Con un’ultima frase Coppola dedica “Megalopolis” alla moglie Eleonor, scomparsa l’aprile scorso, ancora un omaggio familiare e un ricordo a chi gli è stato sempre accanto. “Megalopolis” è di certo un prendere o lasciare, amare in tutto il suo avanzare tronfio o odiare, caricare di ogni difetto (innegabile qualcuno, al di là di qualsiasi “giudizio”, leggi in primis la sceneggiatura che nella propria vuotaggine fa acqua da ogni parte) o assolvere nel pensiero della grandezza assennata (?) che fu o nella convinzione che quella “grandeur” Coppola non l’abbandonerà mai. Gli auguriamo lunga lunghissima vita (ancora), ma ci spiacerebbe davvero se “Megalopolis” fosse il suo canto del cigno. Un po’ afono, incerto, traballante, ansimante nel vuoto pressoché completo.

Con Agis Piemonte Cinema al Cinema, terza edizione

 

 

Agis Piemonte Valle d’Aosta, grazie al sostegno della Regione Piemonte, prosegue il percorso di valorizzazione delle sale cinematografiche con attività rivolte al pubblico, alle scuole, agli studenti universitari e agli esercenti.

Giunge alla sua terza edizione il progetto di Agis Piemonte Valle d’Aosta “ Cinema al cinema, le sale del futuro per gli spettatori di domani” che mette al centro delle azioni progettuali le sale cinematografiche.

Nella sede di Fiom Commission Torino Piemonte sono state premiate le sei sale piemontesi che nella seconda edizione di Cinema al Cinema per famiglie hanno raggiunto i migliori risultati di presenza in sala.

Tra le sale Anec (Associazione nazionale esercenti di cinema) il primo premio è andato al Vittoria di Bra, il secondo al Margherita di Cuorgnè, il terzo all’Italia Movie Planet di Vercelli e tra quelle Acec (Associazione cattolica esercenti cinema) il Monterosa di Torino al primo posto, il Lumiere di Asti al secondo e al terzo l’Aurora di Sivigliano.

Per la terza edizione di Cinema al Cinema per famiglie saranno 140 le proiezioni di titoli per tutti, sempre con un biglietto a costo promozionale di 3.50 euro, che si svolgeranno nei weekend a partire da sabato 26 ottobre fino ad aprile 2025 nel circuito di 35 sale cinematografiche piemontesi. Gli esercenti potranno selezionare i titoli da proporre al loro pubblico da un catalogo di oltre 100 titoli che spaziano dai grandi classici dell’animazione a importanti film di recente uscita. Come nelle passate edizioni Cinema al cinema si articola in azioni che coinvolgono differenti destinatari, esercenti cinematografici, istituti scolastici di ogni ordine e appuntamenti per il pubblico torinese e piemontese.

‘Per Agis il bilancio di queste prime due edizioni è sicuramente positivo, la dimostrazione è che il pubblico della seconda edizione è quasi raddoppiato – afferma Luigi Boggio, presidente di Agis Piemonte e Valle d’Aosta. Poter contare su una prospettiva di più largo respiro, in questo caso triennale, consente di ideare modelli che si implementano anno dopo anno grazie ai risultati concreti raggiunti. È motivo di orgoglio per Agis far parte, grazie alla Regione Piemonte, che ha emanato il bando di valorizzazione delle sale cinematografiche, di un’azione di sistema che, di fatto, coinvolge la filiera nel suo insieme a livello nazionale”.

Mara Martellotta

Non perdiamo il filo: Alessandro Perissinotto porta la narrazione tra le vie di Chieri

Torino tra le righe

In occasione dell’evento “Non perdiamo il filo” per il ventesimo anniversario della Biblioteca Civica Francone di Chieri alla Tabasso, ho avuto il piacere di assistere a una straordinaria lettura itinerante lungo il centro storico della città. L’autore Alessandro Perissinotto ha presentato per l’occasione un racconto inedito dal titolo intrigante, La piccola lavanderia dei cuori infedeli. Questa lettura, arricchita dagli interventi musicali della BandaKadabra, ha trasformato Chieri in un teatro all’aperto, coinvolgendo i partecipanti in un viaggio tra letteratura e musica.
L’evento è stato organizzato per celebrare non solo la ricca tradizione culturale di Chieri, ma anche il ruolo centrale della Biblioteca Civica Francone, punto di riferimento per la comunità da ormai due decenni nell’ex cotonificio Tabasso. Lungo le vie della cittadina, Alessandro Perissinotto ha letto con la consueta ironia e maestria narrativa, immergendo i partecipanti in una storia fatta di humor, tradimenti e un’insolita ambientazione in una lavanderia.
Il racconto è stato suddiviso in quattro capitoli, ciascuno letto in una tappa diversa del percorso. La prima tappa ha avuto luogo in Piazza Umberto I alle ore 15, dove Perissinotto ha iniziato la narrazione con il primo capitolo, Seta. Successivamente, la lettura è proseguita in Piazza Duomo con il capitolo Lino, per poi spostarsi al Parco Pa.T.Ch dove è stato letto il terzo capitolo, Bambù. Infine, il percorso si è concluso presso la Biblioteca, dove l’autore ha letto l’ultimo capitolo, Lana.
Il pubblico ha seguito con interesse ogni tappa, mentre le note della BandaKadabra accompagnavano la camminata, creando un’atmosfera suggestiva che ha reso ancora più coinvolgente l’esperienza. Come gesto simbolico, i quattro capitoli del racconto sono stati distribuiti tra la gente e successivamente raccolti in un’elegante cartellina rossa, intitolata Non perdiamo il filo, chiusa con un ago di carta. Questo dettaglio ha voluto ricordare le origini dell’attuale sede della Biblioteca, che un tempo era un cotonificio, sottolineando così il legame tra la cultura e la tradizione tessile della città.
La piccola lavanderia dei cuori infedeli racconta la storia di Profiterol, un protagonista sui generis, figlio di una famiglia benestante di Chieri, che dopo anni, è costretto a gestire una lavanderia in seguito a una serie di vicende personali rocambolesche. Tra tradimenti e ironia, il racconto esplora le fragilità umane con toni leggeri ma incisivi. Una storia apparentemente simpatica e divertente, che cela tuttavia riflessioni profonde sulla fragilità umana e sulle piccole meschinità quotidiane. La lavanderia di Profiterol, “La lavanderia dei cuori infedeli”, diventa così una metafora dei legami spezzati, delle scappatelle amorose, e delle vite che si incontrano e si sfiorano nell’infedeltà e nel disincanto. La scelta di ambientare la storia in una lavanderia, tra macchinari rumorosi e abiti da lavare, sembra quasi un’ironica risposta alle tante narrazioni sentimentali moderne ambientate in romantiche librerie o caffetterie.
Come ha sottolineato Perissinotto nella premessa al racconto, la sua lavanderia non è popolata da “anime nobili”, ma da personaggi molto più ordinari e pieni di difetti, alle prese con tradimenti e bugie. È in questo quadro che si sviluppano le storie di vita, narrate con quella punta di sarcasmo che contraddistingue l’autore torinese. La camminata attraverso Chieri ha dato vita a una narrazione dinamica, in cui i partecipanti non solo hanno ascoltato la storia, ma ne sono diventati parte, immergendosi in essa mentre attraversavano luoghi simbolici della città. L’evento ha celebrato in modo unico i vent’anni della Biblioteca Civica Francone nell’attuale sede, confermandola come un centro vitale per la cultura e la comunità locale.
In conclusione, la lettura itinerante de La piccola lavanderia dei cuori infedeli è stata un’occasione perfetta per celebrare la cultura e la letteratura in un modo partecipato e originale. La Biblioteca Civica, continua a svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere eventi che mettono in contatto gli scrittori e i lettori, creando spazi di condivisione e riflessione. È attraverso iniziative come questa che la cultura diventa viva, capace di uscire dai libri per mescolarsi con le persone e i luoghi, proprio come accaduto a Chieri durante questa magnifica giornata.
Marzia Estini
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