Prima di tutto si sceglie l’albero, ogni famiglia ha il proprio sempreverde che la rappresenta, chi acquista l’arbusto verde classico, chi invece lo preferisce colorato o con effetto neve, c’è poi chi preferisce una decorazione tradizionale e chi invece desidera personalizzarlo con addobbi “simpatici” ed inaspettati, in ogni caso questo è il gesto che segna l’inizio dei festeggiamenti, come testimoniano anche diverse manifestazioni artistiche.
Nell’opera di David Jacob Jacobsen, “Vendendo alberi di Natale”, (1853), è evidente che questo primo passo è essenziale: ad ognuno il proprio albero. Su uno stuolo di neve solcata da segni di carrozze e impronte di scarpe di varia numerazione, mentre un sole fioco illumina pallidamente gli edifici sullo sfondo e sfiora i volti delle persone, in primo piano due ragazzini si tengono per mano e si allontanano delusi, senza aver portato a casa l’alberello desiderato. Sullo sfondo e ai lati della composizione altre figure, raccolti in piccoli gruppi inscuriti dalla colorazione cupa degli abiti semplici e dall’ombra proiettata dai palazzi, s’impongono sullo sfondo chiaro: un gruppo di donne vende cibaglie, altre invece mostrano dei possibili addobbi natalizi, eppure l’attenzione di tutti cade sulle cime dei pini raffigurati al centro del quadro, desiderio dei personaggi dipinti e degli osservatori.
Anche Franz Krüger, immortala l’importanza del momento nel suo “Padre e figlio in cerca di un albero di Natale”, risalente al XIX sec. La scena mostra un’austera figura barbuta armata di accetta, in netto contrasto con la dolcezza di un ragazzino ancorato alla sua slitta e l’espressione felice di un cagnolino scodinzolante e curioso, l’uomo dal volto irto e serioso impugna un alberello sempreverde di medie dimensioni, ognuno degli astanti osserva l’arbusto già inghirlandato e impreziosito dalle decorazioni minute.
Marcel Rieder, in “Decorando l’albero di Natale”, (1898), mostra invece l’atto magico decisivo, tramite il quale una semplice pianta –finta ovviamente, cari ambientalisti- si tramuta nel cuore pulsante della casa, il finto pino diviene l’organo vivo dell’abitazione, ogni battito riflette l’andamento delle lucine che lo attorcigliano, al piano delle radici artificiali spuntano man mano pacchetti e regalini, e più il numero dei doni misteriosi aumenta, più è evidente l’avvicinarsi del “grande giorno”.
Rieder dipinge un ambiente intimo e accogliente, nella penombra una giovane donna appoggia con delicatezza le decorazioni sull’arbusto, sotto di lei s’intravvede qualche balocco, mentre in primo piano, sul tavolino giacciono piccoli giocattoli usati, forse i desideri dell’anno precedente. Ad illuminare il momento l’abat-jour dal paralume in stoffa, che attutisce il diffondersi del chiarore e trasporta lo spettatore nell’atmosfera che precede l’arrivo convulso dei familiari, la notte della vigilia, quando le coppie possono ancora approfittare dell’intimità della solitudine e scambiarsi un affetto più raccolto e delicato.
È il momento che preferisco personalmente, la calma prima del festaiolo trambusto, lo scambio dei doni con la propria dolce metà, quel regalo veramente sentito barattato con i sorrisi sinceri e carezze sfiorate; è il momento che amo di più perché, mentre Babbo Natale sorvola i tetti del mondo, ognuno di noi ha l’opportunità di trascorrere del tempo con chi desidera sul serio, senza i convenevoli che ogni tradizione trascina dietro di sé.
La notte finisce, il buon Santa Claus ha compiuto nuovamente la sua magia, ognuno ha la propria aspettativa sotto l’albero.
William Holbrook Beard, nel suo “ Babbo Natale”, (1862), dipinge una scena tratta dall’immaginario classico condiviso a livello mondiale: una slitta trainata da renne si confonde tra le nuvole notturne, i comignoli sbuffano il fumo delle stufe e un signore paffuto fa lievemente cadere dolciumi e prelibatezze dai cocuzzoli dei tetti.
Vi sono alcune cose “sacre” ed intoccabili a questo mondo, una di queste –credo- sia proprio la figura di Sinterklaas, a cui si attribuiscono nomi differenti e che appunto per noi è “Babbo Natale”, persino Picasso ed Andy Warhol si sdebitano con lui, regalandogli a loro volta un ritratto speciale, il primo eseguito con linee essenziali e precise, il secondo tutto incentrato sul volume della barba lanosa e sul brillore dei piccoli occhiali rotondi.
Ma è ormai “il di’ di festa”. Ce lo mostra Viggo Johansen, in “Felice Natale”, del 1891, su uno sfondo scuro emergono caldamente illuminate le figure danzanti di una famiglia numerosa che esegue un girotondo intorno all’albero addobbato. I bambini ridono e osservano il luccichio delle candele incastonate sui rami, la madre, di spalle, partecipa alla felicità familiare con il contegno che s’addice a chi è sempre vigile e pronta a sedare eventuali capricci infantili. Oppure Albert Chevallier Tayler, che, con il suo “L’albero di Natale”, (1911), dipinge il vociare allegro della famiglia tutta disposta lungo la tavolata imbandita di prelibatezze, mentre sullo sfondo luccica l’albero di natale, i volti rubicondi degli astanti presentano gote arrossate e bocche piene, persino il nonno sulla sedia a dondolo, seduto vicino al camino e meno volenteroso d’allegria, è costretto dal nipotino intrepido e rinunciare a quel momento di raccoglimento per partecipare alla grande gioia.

Natale è festa per tutti, dai soldati di Wojciech Kossak, fino ai bordelli di Munch, nessuno può esimersi da questo giorno di pasti, risate e abbracci.
Quello che viene dopo lo sappiamo tutti, eppure ben lo rappresenta Mark Lancelot Symons, nell’opera titolata “Il giorno dopo Natale”, (1931). Nella raffigurazione si nota un’abitazione scompigliata, i festoni si appoggiano stanchi alla libreria in secondo piano, a terra le carte spacchettate dei balocchi nascondono il pavimento e su tutto vincono i volti esausti ma felici dei bambini, intenti e concentrati a giocare con le novità appena ricevute.
Lo aspettiamo tutto l’anno questo momento di pausa, forse ogni anno che passa con maggiore necessità di fermarsi dalla frenesia della vita moderna. E come sempre il tempo ci vola via senza che possiamo fare niente per fermarlo o perlomeno rallentarlo un po’.
Quello che credo è che, mentre corriamo irrequieti da un negozio all’altro, dovremmo forse trovare qualche istante per formulare dei desideri seri, come ritrovare un po’ di assennatezza e di senso del limite.
Questo Natale, cari lettori, regaliamoci un po’ di coraggio per affrontare le sfide delle responsabilità che ci richiede la vita e un po’ di umiltà per apprezzare che ogni frutto ha la sua stagione.
Questo Natale, proviamo a fare gli adulti, magari in tal modoregaleremo ai bambini la possibilità di vivere la propria infanzia gioiosamente e non attaccati al monitor di uno smartphone, così come potremmo donare agli adolescenti che tutti additiamo l’opportunità di imparare qualcosa sul serio.
Un felice Natale a tutti, cari lettori, vi auguro di trovare sotto l’albero sincerità e affetto, ma soprattutto spero che voi troviate “il tempo”, che è il regalo più bello di cui disponiamo, ma che alla fine non scartiamo mai.
ALESSIA CAGNOTTO
Il Natale e’ la festa piu’ importante della tradizione cristiana. Il 25 dicembre si commemora l’anniversario della nascita di Gesu’ Cristo, lo sanno tutti, ma non tutti sanno quale e’ la storia che ha portato a scegliere proprio questa data considerato che ne’ il Vangelo, a parte qualche riferimento di Matteo e Luca, ne’ la Bibbia riportano in quale mese nacque Gesu’. Per un periodo ci fu anche un dibattito nel mondo ecclesiastico all’interno del quale furono proposti diversi di giorni per le celebrazioni e alla fine si arrivo’ alla data che tutti conosciamo.
Il vescovo greco ortodosso Epifanio di Salamina, venerato dalla Chiesa Cattolica, intorno al 226 si rese conto che tra le due tradizioni, quella pagana e quella cristiana, c’erano dei punti di contatto come la metafora della rinascita della luce sulle tenebre; Papa Giulio I, sulla scia di questa corrispondenza, nel 337 stabili’ che il 25 dicembre sarebbe stato celebrato il Natale, probabilmente anche con la speranza di convertire i romani al cristianesimo, e l’ Imperatore Giustiniano nel 529 rese la data festa ufficiale dell’Impero.
Le tradizioni e i riti della festa piu’ amata cambiano o si aggiungono se si butta uno sguardo in giro per il mondo; alcuni di questi sono molto curiosi e bizzarri, mentre altri decisamente spiacevoli, soprattutto se si pensa che molti sono rivolti ai piu’ piccoli.
In Estonia il 24 dicembre non si fa il cenone, la famiglia, invece, si riunisce in sauna. Niente brindisi , grandi mangiate e tombola, il popolo estone passa ore ed ore al caldo umido nudi e sudati, tutti insieme: genitori, figli, zii, nipoti e nonni. Niente calorie, solo detox e relax.
Il latinista Luciano Perelli è stato ricordato al liceo “Carlo Botta” di Ivrea dove nacque nel 1911. Morto trent’anni fa, è ancora molto ricordato dagli ex allievi al liceo Gioberti di Torino e alla Facoltà di Lettere dove insegnò-caso raro- Letteratura latina e successivamente Storia romana alla Facoltà di Magistero. Soprattutto Perelli è ricordato per i suoi libri di testo dalla pregevolissima “Storia della letteratura latina” che non ebbe eguali per decine d’anni ai molti commenti a Cicerone ed agli amatissimi Lucrezio, poeta dell’angoscia e Catullo, poeta dell’amore tenero e disperato. I giovani nei suoi commenti ritrovavano l’humanitas autentica e la storicità di Roma senza l’eccessivo tecnicismo filologico che a volte uccide gli studi classici. Gli allievi di Perelli, similmente a quelli di Concetto Marchesi, acquisivano una cultura classica che era la base di un sapere poliedrico nel quale sarebbero cresciuti. Quando Perelli morì all’improvviso nel 1994, Luciano Canfora scrisse di lui una testimonianza ancora oggi importante che riguarda i suoi “ricordi antifascisti” incentrati sul carcere inflitto dal regime al padre e al fratello, che condizionò i suoi studi per affrettare il suo insegnamento privato, appena superata la Maturità, per dare un sostegno alla famiglia. Tuttavia egli non confuse mai l’insegnamento con un marcato impegno politico, come invece fece Marchesi. L’antifascismo per lui fu una scelta di libertà incompatibile con l’ideologismo anche se seppe difendere le ragioni della scuola classica da chi avrebbe voluto circoscriverla a pochi specialisti, di fatto uccidendola. Giovanna Garbarino, che fu docente di Letteratura latina, mi disse spesso che questa capacità di miscelare insieme letteratura e storia latina e greca era la cifra straordinaria di Luciano, forse non abbastanza apprezzato in Facoltà. Quando ancora insegnava al liceo, seppe difendere con coraggio ed anticonformismo la dignità professionale dei professori dalla tendenza già allora emergente di considerarli degli impiegati. La tutela della funzione docente fu una delle sue più grandi preoccupazioni e anche questo rende Perelli un protagonista unico della scuola piemontese. Egli capì fin dal suo sorgere l’aspetto eversivo di una parte della contestazione giovanile del ’68 insieme ai colleghi Franco Venturi, grande storico dell’Illuminismo e Giorgio Gullini, archeologo e preside della Facoltà di Lettere. Giunse a vedere delle affinità con il fascismo in certi estremismi di sinistra. Una volta con il “Corriere della Sera” in mano parlammo di un articolo del direttore Spadolini sugli opposti estremismi che corrispondeva a pieno al suo modo di vedere la violenza in quegli anni difficilissimi in cui qualcuno tentò di vedere le lotte studentesche in una sorta di continuità con la Resistenza.