ilTorinese

Fine vita, al via in Piemonte la raccolta firme per la legge regionale “Liberi Subito” 

Riceviamo e pubblichiamo

M.Cappato (Ass.Coscioni): “Servono tempi e regole certe” 

A questo link il dettaglio di tutti i tavoli dove sarà possibile firmare in Piemonte e qui per attivarsi come volontari

 

“Vogliamo impedire che si continui ad imporre ai pazienti, come una tortura, di essere sottoposti a sofferenze insopportabili contro la propria volontà. Vogliamo quindi che sia garantita a tutti i cittadini e a tutte le cittadine la possibilità di scegliere di essere aiutati ad interrompere la propria vita”, ha dichiarato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, oggi a Torino per presentare l’avvio in Piemonte della raccolta firme per la proposta di legge popolare regionale “LiberiSubito” per regolamentare l’aiuto medico alla morte volontaria. “Oggi, grazie alla sentenza della Corte costituzionale, in Italia, a determinate condizioni, è già possibile accedere legalmente alla morte volontaria medicalmente assistita. Il problema è che non ci sono procedure e tempi certi. Si rischia quindi che si verifichino altri casi come quello di Federico Carboni nelle Marche. Federico ha impiegato due anni per vedere riconosciuto il proprio diritto. Le persone con condizioni di sofferenza estrema e malattia terminale non hanno due anni di tempo per entrare e uscire dai tribunali. La sanità è regionale, serve dunque una legge regionale che garantisca regole e tempi certi, perché entro 20 giorni una persona in condizioni di sofferenza insopportabile deve poter avere la risposta a ciò che chiede. Per questo oggi, dopo il Veneto e l’Abruzzo, parte anche in Piemonte la raccolta firme per una proposta di legge regionale. Tutti i sondaggi lo dicono – conclude Cappato -, il tema del fine vita non è nè di destra, di sinistra, di laici o di cattolici, la gente questi temi li ha vissuti sulla propria pelle ed è questa è la nostra forza”

La proposta di legge popolare regionale “Liberi Subito” è stata elaborata dall’Associazione Luca Coscioni per regolamentare l’aiuto medico alla morte volontaria. L’obiettivo è raccogliere 8.000 firme di cittadini residenti in Piemonte in 6 mesi. L’intenzione è quella di arrivare a una normativa di attuazione (procedure e tempi) per accedere ad una morte volontaria attraverso l’auto somministrazione del farmaco letale. Al raggiungimento delle firme, la proposta di legge, dopo il deposito, sarà sottoposta alla commissione di garanzia che esprimerà un parere consultivo, poi, sull’ammissibilità, la valutazione passa all’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale.

 

APPROFONDIMENTO

Le condizioni previste dalla sentenza numero 242 del 2019 della Corte Costituzionale per accedere al suicidio medicalmente assistito – che ha valore di legge e attualmente regolamenta il tema nel nostro paese – al termine del processo Cappato/Antoniani sono quattro: 1) essere affetto da patologia irreversibile 2) che produca sofferenze fisiche o psicologiche che la persona reputa intollerabili 3) la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, ed 4) essere tenuti in vita da  trattamenti di sostegno vitale. Tali condizioni della persona malata insieme alle modalità per procedere al suicidio medialmente assistito devono essere verificate dal SSN previo parere del comitato etico competente. Nella proposta di legge vengono definiti tempi e procedure certi per la verifica delle condizioni e delle modalità per l’accesso al percorso di suicidio medicalmente assistito.

Permessi ZTL: dal 20 marzo richieste online

Al via la nuova procedura per la richiesta dei permessi ZTL. Da lunedì 20 marzo 2023 le domande per richiedere l’ accesso alla Zona a Traffico Limitato dovranno essere presentate online utilizzando la nuova piattaforma ZTL.

Non saranno più disponibili i moduli finora utilizzati presenti sulla pagina dedicata della Città di Torino perché non sarà più valida la procedura tramite invio alla casella di posta elettronica.

Per utilizzare il nuovo servizio basterà collegarsi al sito della Città di Torino e da qui al portale Torino Facile – Permessi ZTL. Dopo essersi autenticati tramite Spid, il Sistema pubblico di identità digitale, sarà possibile prendere visione delle modalità per la presentazione delle istanze e dei vari tipi di permessi –  Blu-A; Blu-B; Cantiere, Veicoli pesanti (VEP), Verde, Borgo Dora – gestiti e rilasciati dalla Città.

Il rilascio dei permessi prevede una fase istruttoria con le necessarie verifiche da parte degli uffici: per questo è sempre consigliabile presentare la domanda per tempo.

Rimane per il momento invariato l’iter per la richiesta dei permessi CUDE, per residenti a Torino con capacità deambulatoria sensibilmente ridotta, ciechi assoluti e altre patologie individuate dall’ASL di competenza. Tutte le informazioni sulla procedura sono reperibili sul sito della Città all’indirizzo Torino Facile – Permessi CUDE e sul sito della Città nella sezione Trasporti e Viabilità – Mobilità per i disabili.

Il poliamore

Da alcuni anni è entrato nel lessico comune il vocabolo poliamore: vediamo di cosa si tratta.

A differenza dei triangoli amorosi nei quali uno dei due coniugi (o conviventi) è all’oscuro del comportamento dell’altro, nel poliamore la relazione allargata è palese, tutti i componenti sono consenzienti, non vi sono regole predefinite o fedeltà da rispettare e, va da sé, è bandita la gelosia.

In un’epoca in cui i rapporti amorosi hanno accusato colpi pesanti per la crisi, per la paura che l’uomo ha di una presunta supremazia della donna e, da non sottovalutare, per la convivenza forzata durante la pandemia, un istituto come il poliamore sembrerebbe una soluzione in grado di dare una boccata di ossigeno al tradizionale rapporto di coppia, tanto per lui quanto per lei.

Sui social sono sempre più numerosi i gruppi e le pagine dedicate al tema; ho perciò contattato alcuni iscritti, di entrambi i sessi, per capire qualcosa in più; userò nomi di fantasia perché alcuni sarebbero riconoscibili.

Sabrina, 37 anni, un divorzio alle spalle, ha conosciuto un paio di anni fa Matteo, 40enne divorziato anch’egli. Da subito hanno pensato di inserire qualcuno nel loro menage per evitare che subentri la routine che può portare una coppia alla crisi. Sabrina è bisex quindi perché non cercare una donna? Ecco che, tra le tante persone contattate, Francesca, 38 anni, una convivenza finita male, ha incontrato il consenso di entrambi.

Niente gelosia, stessi interessi, stessi gusti per il cibo, Francesca è andata a convivere con Sabrina e Matteo poche settimane dopo averli conosciuti. Dormono in un unico lettone ma c’è comunque una camera da letto ulteriore nel caso uno abbia la febbre, si ritiri tardi la notte o non riesca a dormire.

Storia diversa invece per Franco e Stefania, coppia coniugata da 6 anni, che hanno incontrato Mario e Annalisa, anch’essi coniugi, in vacanza. In questo caso tra ognuno degli uomini e la donna dell’altro è scoccata la scintilla, arrivando a pensare di lasciare il coniuge per formare una nuova coppia. Intelligentemente, però, hanno deciso di parlarne tutti e quattro seduti a tavolino ed è stata Stefania a proporre di andare a vivere tutti e quattro insieme, inizialmente prendendo un appartamento più grande in affitto poi, se tutto funzionerà, ne compreranno uno vendendo gli altri due. Franco e Mario, etero, Stefania e Annalisa, entrambe bisex, hanno trovato, a quanto raccontano, il giusto equilibrio senza regole rigide di assegnazione dei ruoli. E non c’è bisogno di scrivere i turni per le pulizie, la cucina, la spesa, il bucato, ecc: spesso si offrono volontari in due o tre, la spesa quando si può la fanno insieme come momento conviviale, per unire il divertimento alla necessità. Decidono sul momento quale sarà la coppia che si coricherà in una stanza o cosa vorranno fare sotto le lenzuola.

Potrei citare altri esempi e, da quanto leggo, sono sempre più numerose le persone che si avvicinano a questo stile di vita.

Ovviamente la nostra legislazione e quella di moltissimi altri Paesi non contempla ancora nel proprio ordinamento la possibilità di contrarre un matrimonio a tre o a quattro (lo Stato dello Utah ha depenalizzato la bigamia nel 2020) e sicuramente sorgerebbero non pochi problemi di successione e di riconoscimento della paternità; in caso di gravidanza, infatti, si renderebbe sempre necessario un test del DNA qualora la sia la donna ad avere più di un partner.

Come dare torto, però, a chi riesce a crearsi una relazione felice, consensuale, palese in barba alle tradizioni?

Ma cosa spinge una persona ad accettare che l’oggetto del proprio amore venga diviso con una terza persona? Spesso è la curiosità a farla da padrona (una bionda ed una mora, una snella ed una oversized) oppure la propensione di una delle due persone a compiere atti che l’altra persona non pratica, ma le ragioni sono individuali e variegate.

La nostra cultura ammette più volentieri che un uomo vada con un’altra donna ma non il contrario ed il motivo è soprattutto biologico: in tempi in cui non si conosceva l’esistenza del DNA come essere sicuri che un figlio fosse del marito anziché dell’amante?

Le religioni per secoli hanno imposto modelli e stili di vita che i social da un lato e la mobilità sul pianeta dall’altro hanno scombussolato. Fabrizio De André, nel monologo tenuto durante il suo ultimo concerto del 1998 al Teatro Brancaccio, spiega molto bene il senso di “valore”: spesso non accettiamo alcuni “valori” nuovi perché siamo troppo attaccati ai nostri, perché occorre attendere di storicizzarli. In altre parole, sono valori che noi non riconosciamo ancora come tali.

Ricordiamoci che le rivoluzioni sono spesso nate dal dissenso del singolo o di pochi individui che al momento vennero presi per matti, eretici, blasfemi ma che, talvolta, hanno portato a cambi epocali di costume.

Quotidianamente vediamo attacchi da parte di vegani contro onnivori o di eterosessuali contro gay; nessuno obbliga nessuno: se una patica non ci aggrada basta evitarla. Parafrasando il compianto Maurizio Costanzo direi: “Se va bene a loro, buon poliamore a tutti”.

Sergio Motta

Di nuovo le baby gang: picchiano ragazzo e lo fanno svenire

Una nuova rapina da parte di una baby gang a Torino. Questa volta è avvenuta in via Nigra, nel a Borgo Vittoria, dove un ragazzo di 20 anni è stato  aggredito con violenza. Alcuni giovani lo hanno circondato e preso a pugni sul volto, fino a farlo svenire. Gli hanno rubato 170 euro e sono fuggiti. Quando si è ripreso, il malcapitato ha chiamato i carabinieri.  Poi è stato trasportato all’ospedale San Giovanni Bosco. I carabinieri della stazione Barriera Milano sono riusciti a identificate  due degli aggressori, un 19enne e un 17enne senza fissa dimora.

Badante infedele preleva mille euro dal conto dell’anziana assistita

È stata denunciata dai carabinieri una donna di 48 anni residente nel Vercellese. Dopo accertamenti  e indagini a seguito della querela presentata da una pensionata di 86 anni residente a Candelo i militari hanno denunciato la badante italiana, ritenuta responsabile di furto aggravato in abitazione ed indebito utilizzo di carta di credito, con la quale sono stati prelevati 1000 euro dal conto dell’anziana.
NOTIZIE DAL PIEMONTE

Forte vento a Torino Chiamate ai Vigili del fuoco

Sono già pervenute diverse segnalazioni ai vigili del fuoco da parte di cittadini per il forte vento che dalla tarda mattinata di oggi soffia su Torino. Chiusi tutti gli ombrelloni dei dehors in centro città, mentre pezzi  di cartone, bottiglie di plastica e anche le sedie più leggere dei bar “svolazzavano” per strade e piazze. Particolare attenzione deve essere prestata per eventuali rami pericolanti. C’è da sperare che le folate di vento ripuliscano l’aria dallo smog.

In questa foto un alberello sradicato in via Nizza

“Così è (se vi pare)”, nel pettegolezzo di paese un’altra “stanza della tortura”

Al teatro Gioiello, sino a domenica prossima

Con “Liolà” del 1916 Luigi Pirandello abbandonò quel gruppo di commedie che sino ad allora aveva scritto in dialetto siciliano, per aprirsi al panorama nazionale prima ed europeo poi con una produzione che avrebbe dato vita ai capolavori che conosciamo. E sempre per molte occasioni affidandosi al mare magnum delle sue “novelle per un anno”, un bagaglio narrativo, grottesco, spirituale, filosofico in cui già avevano trovato posto e continuavano a trovare i tanti personaggi (“È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle”) che dalla pagina scritta sarebbero stati per così dire “sceneggiati”, saggiando con successo la strada del palcoscenico. Il primo quanto innovativo caposaldo di questa seconda fase – che trova altresì all’inizio fervido terreno nelle condizioni mentali della moglie Antonietta Portulano e nel disastro economico che la portò al centro della pazzia – è “Così è (se vi pare)” del giugno dell’anno successivo, che l’autore trasse con qualche cambiamento e con felici aggiunte da “La signora Frola e il signor Ponza suo genero”, ritratto di una provincia squallida e gretta alla ricerca, come in un giallo che si rispetti e che abbia tutte le carte in regola, di una verità che ognuno dei personaggi costruisce in autonomia, nella ricerca affannosa della autentica identità della moglie del nuovo segretario di Prefettura.

Quante signore Frola ha visto nei vari decenni l’appassionato di teatro, quanti signori Ponza, quanto s’è divertito davanti al caustico filosofeggiare dei diversi Lamberto Laudisi che si sono avvicendati in palcoscenico. Sempre tutti davanti alla ricerca di una verità, della Verità onnicomprensiva, e allo smacco finale, alle tre sonore risate che ad opera del “raisonneur” Laudisi chiudono gli altrettanti atti della commedia, al cicaleccio ossessivo e al pettegolezzo e quasi alla ferocia con cui nel paese dove sono riparate le tre anime tormentate – s’aggiunge ai due di quel titolo la donna del mistero -, dopo che un terremoto ha distrutto il loro piccolo paese del centritalia, e con esso i documenti e le testimonianze e le notizie tutte che potrebbero far completa luce, si spera di chiarire lo scandalo che attanaglia i cuori e le menti; far luce sullo strano comportamento del Ponza che tiene segregata la moglie impedendole di vedere, se non da lontano, uno sguardo e qualche letterina posata in un panierino che viene sceso e rialzato dal balcone di casa, la vecchia madre, con l’affermazione che la donna rinchiusa è la sua seconda moglie e la signora Frola è una povera pazza che la crede sua figlia, mentre le parole dolorose della vecchia Frola stanno a sostenere che non è vero che sua figlia sia morta e che il pazzo è lui che la credette morta al tempo di un ricovero in una casa di cura, dovendosi all’occasione dar vita ad un secondo matrimonio per fargli accettare la moglie al suo ritorno dalla clinica.

È chiaro che ogni regista – Ferrero, De Lullo, Sepe, Ferro, Castri, De Fusco, Dini e quanti altri – ha voluto imporre la propria cifra. Geppy Gleijeses porta al Gioiello sino a domenica la propria edizione, edificata scenicamente (da Roberto Crea) in un compatto gioco di specchi, perfetto e pirandelliano sino al midollo, entro cui ognuno scorge il suo doppio, uno spazio buio all’interno del quale i personaggi maggiori s’annullano, entro cui la maschera finale appare e scompare, in una bella idea di triplice rifrazione, un rifrangersi a cui Laudisi indirizza il proprio celebre monologo in un impatto di confronto e di sfida. Ma ad inizio, dopo aver preso a prestito alcune frasi dalla novella “Tragedia di un personaggio” – che avrebbe incanalato nel ’21 la tragedia dei sei personaggi -, rifacendosi al Fileno pirandelliano con la sua “Filosofia del lontano” e all’intuizione di Giovanni Macchia che parlava di “cannocchiale rovesciato” circa la visione dell’Uomo e del mondo da parte del drammaturgo, affida al videoartist Michelangelo Bastiani la creazione di una mezza dozzina di ologrammi “assolutamente tridimensionali” a raffigurare in una grandezza di una sessantina di centimetri quell’assaggio di popolino che vibra a tratti all’unisono nella continua ricerca. Racchiude in quell’espediente, per una buona ventina di minuti le prime tre scene del primo atto: e a chi scrive è sembrato davvero troppo, ridondante, negativo. E un’idea di troppo. Con l’arrivo della signora Frola tutto torna agli abituali binari e, togliendo ancora qualche trovatina registica che vorrebbe spingere il pubblico ad un facile sorriso (il versante “comico” di Pirandello sta ben altrove, sta nello spirito di Laudisi, nella sua filosofia e nel suo sberleffo, sta nel suo infiocchettato sarcasmo e nel suo tenersi fuori, come all’interno di una torre d’argento, dal contesto generale, sta in quel suo decretare la scoperta e il raggiungimento della parola che mette fine a ogni dubbio, sta in quel ”Siete contenti?” che rivolge ancora allo spettatore di oggi, un ritratto che la grandiosa interpretazione – di quelle interpretazioni fatta a volte di piccoli tratti, basta un sospiro, un impercettibile movimento, un occhiata tra il serio e il sornione: godetevi quel piccolo capolavoro di intarsio che è la chiacchierata con le pettegole Cini e Nenni – di Pino Micol rende in tutta la sua perfezione), la serata si fa corposa e lo spettacolo si pone a fianco dei tanti di cui in passato si è definito il successo.

Accanto al Laudisi di Micol, la Frola di Milena Vukotic, remissiva e affabile, la tristezza negli occhi ma anche la ricchezza dei sorrisi, ma anche scatti di risentimento rappreso e rabbia verso chi perseguita il loro segreto, soprattutto capace di lasciar trasparire il desiderio di protezione che nutre nei confronti del genero: anch’essa applauditissima dalla sala strapiena di pubblico. Non ultimo certo per merito Gianluca Ferrato, un signor Ponza che forse ha abbandonato un certo selvaticume immesso nel personaggio dai tanti che l’hanno preceduto, ma reso più umano, pieno di commiserazione, teatrante perfetto nella recita di follia che ha a sostenere davanti all’uditorio convocato, forte e appassionato. Come gli esserini iniziali, fuori misura le musiche di Teho Teardo, mentre efficiente è il coro radunato a “violentare” le tre povere vittime (d’altronde con quanta forza Macchia ha parlato per il teatro pirandelliano di “stanza della tortura”: un compito qui afferrato appieno dall’intera compagine).

Elio Rabbione

Maxi sequestro di droga, la polizia di Torino scopre 1700 chili di hashish

Nel corso delle attività investigative condotte dalla Polizia di Stato, volte al contrasto del traffico internazionale di stupefacenti, nella mattinata del 21 febbraio , a Torino, veniva arrestato  un uomo di origine maghrebina, regolare sul territorio nazionale, ritenuto responsabile dell’illecita detenzione di circa 190 chilogrammi di  hashish.

In particolare, gli investigatori della Sezione Antidroga della Squadra Mobile acquisivano notizia del probabile arrivo, presso l’interporto “Sito” di Orbassano, di un ingente quantitativo di hashish, proveniente dalla Spagna, destinato anche al mercato di Torino.

Sin dalle prime ore del giorno, gli investigatori approntavano un  servizio di osservazione,  di soggetti e mezzi potenzialmente riconducibili al traffico. L’attività veniva premiata quando il personale di polizia, nel piazzale antistante al distributore di carburanti , riconosceva un maghrebino, già noto agli inquirenti per una precedente condanna passata in giudicato in materia di stupefacenti, che si aggirava con fare sospetto all’interno del parcheggio.

Da quel momento l’attività si focalizzava sui movimenti dello straniero, che subito dopo veniva visto salire a bordo di un furgone a noleggio ed allontanarsi dal luogo.

Gli investigatori davano quindi corso ad un servizio di pedinamento lungo la tangenziale nord e successivamente in  c.so Regina Margherita, dove il furgone attenzionato, all’intersezione con c.so Tassoni, veniva bloccato e sottoposto a controllo.

La perquisizione del veicolo consentiva di rinvenire una pedana contenente numerosi sacchi di pellet provenienti da Malaga (Spagna), al cui interno erano stati occultati 190 chilogrammi di hashish, suddivisi in panetti da 50 e 100 grammi cadauno. L’autista del mezzo veniva quindi tratto in arresto.

I successivi accurati ed approfonditi accertamenti eseguiti sul mittente e sul destinatario della pedana rinvenuta all’interno del predetto furgone, segnalati sulla bolla di accompagnamento della merce, consentivano di appurare che analoghi colli erano stati recentemente stoccati presso alcuni magazzini e di procedere conseguentemente all’ulteriore sequestro di oltre 1.500 chilogrammi della stessa sostanza stupefacente.

L’intero quantitativo, ammontante quindi a 1.700 chilogrammi di hashish, rappresenta uno dei più rilevanti sequestri di narcotico di questo tipo, operato dalla locale Sezione Antidroga; il valore della sostanza sequestrata, al dettaglio, secondo gli attuali costi di mercato, avrebbe fruttato all’organizzazione criminale oltre 6 milioni di euro.

“Leadership per il cambiamento”, un workshop a Torino organizzato da Volt

 

Quanto è importante la leadership in politica? E come utilizzarla per promuovere il cambiamento? Volt, il partito paneuropeo, propone un workshop al CAP10100 dove si parlerà di leadership adattiva, community organizing e di tanti altri temi con informazioni pratiche e momenti interattivi per conoscere la leadership e sapere come renderla motore di cambiamento.

A condurre l’evento ci saranno i co-presidenti di Volt Italia Eliana Canavesio e Gianluca Guerra che parleranno anche della loro esperienza e dei metodi adottati da Volt in tutta Europa per una partecipazione politica attiva e ampia.

L’appuntamento è per sabato 11 marzo alle ore 16:00 al CAP10100, corso Moncalieri 18.

Non solo 8 Marzo: i “diritti” della donna


Le giornate “a tema”: giuste? Non giuste? Esagerate? Noiose?


Forse la risposta corretta è la stessa che mi dà tuttora mio padre quando gli pongo un interrogativo: “dipende”.
Fino ad oggi non ero sicura di voler trattare dell’8 marzo, la “Giornata internazionale dei diritti della donna”, poiché so già essere tantissime le notizie riguardanti tale ricorrenza, tante quasi quante sono le mimose che verranno regalate da amici, parenti e fidanzati. Non ero certa di volermi tuffare in questo flusso di articoli, letture e opinioni che ogni anno divampano in rete in tale peculiare giornata marzolina.
Alla fine tuttavia mi sono decisa: sì, forse è il caso di parlarne.
A farmi cambiare idea è stata una mia classe, perché alla fine parte sempre tutto da loro, dai ragazzi, da queste persone in miniatura – è un eufemismo, molti sono già più alti di me – che con focosa ingenuità e bonaria bramosia si accingono ad entrare a far parte del mondo degli adulti.
Si parlava a scuola “del giorno della donna”, del perché si festeggia, se fosse cosa opportuna, se e perché si continui a discorrere di questa fantomatica lotta per la parità dei diritti.
In particolare mi ha colpito una classe, i cui studenti hanno voluto partecipare attivamente al dibattito, mettendosi in gioco senza filtri e gridando – nel vero senso del termine- le proprie opinioni; sono sempre molto felice quando si instaurano tali momenti di confronto, eppure alcune asserzioni mi hanno lasciata perplessa: secondo alcuni allievi “non tutti i mestieri sono adatti alle femmine”, secondo altri “la donna è più importante nella famiglia perché è quella che vuole più bene ai figli”, oppure “il papà deve lavorare, la mamma tiene in pancia il bambino”; dall’altra parte le femminucce non sono state tacite ad ascoltare: “le donne sono migliori degli uomini!”, “noi sappiamo fare più cose, molte anche insieme!”.
Insomma, un’arena degna dei bei tempi andati del Colosseo.
Di certo nessuna convinzione nasce dal niente, queste certezze lapidarie da qualche parte dovranno pur derivare, ma non sono qui per dare giudizi, al contrario per discutere, porre domande, riflettere.
E la mia conclusione è stata appunto che forse due parole a proposito di questa faccenda è bene farle, perché, per quanto non lo vogliamo accettare, questi “ragazzini” sono e saranno i cittadini di domani, ed è quindi ora che inizino a ragionare con la propria testa e non per sentito dire.
Certo è difficile parlare di femminismo oggi, in una società che apparentemente aborra le distinzioni di genere, deturpa la scrittura con asterischi e schwa, declama la non sottomissione ad alcuna categoria, agogna l’uguaglianza e intanto si soffoca tra il pullulare di nuove definizioni, termini e subdole etichette che a mio parere di inclusivo non hanno granché.
Forse è vero che è tutto più complesso rispetto ad una decina di anni fa: l’informazione incessante, l’inclusione forzata, la censura mascherata da “politically correct”, il ritmo della vita sempre più frenetico, le fake news, l’esperienza virtuale, “i likes”. La perdita della manualità, del concreto, del rapporto diretto.
Si generalizza, ovviamente, eppure in questo marasma informe, sta di fatto che, a proposito di diritti femminili, dalla Pankhurst siamo passati alle influenser che non si fanno la ceretta.
Senza nulla togliere agli idoli giovanili, mi sento in dovere di citare qualche “vecchia gloria”, perché forse un po’ la bussola la stiamo perdendo.
Ognuno ha il proprio linguaggio prediletto, il mio rimane quello dell’arte, ed è dalle artiste del Secondo Novecento che voglio far partire la mia riflessione.
Sono gli anni Sessanta, divampano i movimenti civili, accresce il desiderio di cambiare la società, dal punto di vista artistico si gettano le basi per il movimento artistico-attivista femminista che avrà il suo apice negli anni Ottanta. Spiccano alcune voci femminili che vogliono, attraverso il proprio lavoro, influenzare la cultura, deturpare gli stereotipi e creare nuovi spazi comunicativi.
Il linguaggio dell’arte diviene mezzo espressivo di un punto di vista nuovo sulla società contemporanea, nonché occasione per discutere e denunciare ingiustizie e disuguaglianze.
Tale movimento femminista si caratterizza – così come in genereale l’arte di quell’epoca- per la ricerca sperimentale di nuovi e numerosi medium, primo fra tutti l’uso del corpo: nascono la Performance, gli Happenings e la Body Art.


Accomunano Performance e Body Art una evidente forza comunicativa, attraverso la quale il messaggio arriva in modo violentemente diretto allo spettatore, sfruttando una sorta di rapporto “faccia-a-faccia” con il pubblico, che è colpito visceralmente, grazie ad un contatto impattante e privo di alcuna censura.
Numerose artiste utilizzano poi la Videoarte, nel tentativo di innescare una vera e propria rivoluzione mediatica.
Il corpo, nello specifico il corpo femminile, diviene principale campo di battaglia, attraverso la tensione della carne si mette in scena l’imperfezione, il dolore, la discriminazione sociale e politica, grazie alla sconcertante e fastidiosa nudità si è forzatamente costretti a prendere in esame la problematica della sessualità, della ricerca d’identità, del consumismo, della moda che diventa dogma morale e imposizione stereotipata.
I nomi che si fanno portavoce di tali esperienze sono assai numerosi, così come lo sono quelli delle artiste che ancora oggi perseguono i medesimi obiettivi e continuano a indagare l’infinita complessità della discriminazione – solo per citarne alcune, Kara Walker, Jennifer Linton e Mary Schepisi.-
Ritengo davvero interessente notare come tuttora il medesimo corpo femminile sia ancora protagonista indiscusso della scena: senza eccessivi voli pindarici basti pensare agli outfit di Chiara Ferragni al Festival di San Remo, oppure a quanta attenzione è stata data alla ricerca estetica di numerosi cantanti, il cui aspetto ha destato sicuramente più attenzione della performance canora – e cito Rosa Chemical solo per esemplificare al massimo.-
Quanto scalpore dunque per questi corpi modificati da piercing e tatuaggi, quanto clamore per un vestito sul quale troneggiava una nudità intelligentemente portata sul palco.
Forse non siamo ancora pronti per la “modernità”, o forse tale “modernità” non è poi così qualificata come la percepiamo, perchè il mio timore è sempre lo stesso, ossia che rimaniamo in superficie, sfioriamo le problematiche senza scandagliarle nel profondo, non abbiamo abbastanza tempo per indagare, così esplicitiamo giudizi banali e proponiamo soluzioni già viste. Sembra proprio che la vacuità estetica rispecchi una sorta di frivolezza sociale, che, permettetemi, stride non poco con le ricerche artistiche e sociali dei periodi addietro.
Impossibile a questo punto non citare Carolee Schneemann, classe 1939, statunitense, protagonista di celebri performance, tra le quali “Up to and including her limits”, in cui Carolee è nuda e appesa ad un gancio, ondeggia nell’intento di resistere il più possibile, mentre traccia sul pavimento con un pennello i segni della propria oscillazione. È sempre lei la provocante autrice di “Interior scroll”, una lettura ad alta voce del suo stesso componimento “Cezanne, She Was A Great Painter”, scritto su una pergamena arrotolata che l’artista estrae poco alla volta dal suo sesso. Questo il suo modo di “combattere il patriarcato.”
Provocante ai limiti del visivamente sostenibile è il lavoro di Gina Pane. Le sue performance si basano sull’utilizzo di lamette e spine che vengono conficcate nella carne sanguinante; per Gina il corpo femminile è una cassa di risonanza sociale, in bilico tra maternità e interiorità, costantemente sottoposto al dolore che caratterizza l’esperienza umana. La sua poetica ben si evince in “Azione sentimentale”, in cui Gina stacca le spine di un bouquet di rose e se le inserisce lentamente lungo le braccia, oppure in “Le lait chaud”, quando l’artista si taglia la schiena con un rasoio ed è addirittura fermata dal pubblico che le impedisce di ferirsi il volto.
Una delle opere che prediligo è “My Bed” di Tracey Emin, un’installazione realizzata per la prima volta nel 1998, un lavoro nato a causa della fine di una relazione amorosa e testimone di un frammento di vita dell’artista stessa. L’opera è costituita dall’accumulo di diversi oggetti posti sopra e attorno ad un letto, biancheria intima, vestiti, bottiglie di alcolici, anticoncezionali, vecchie polaroid e mozziconi di sigarette; la versione originale prevedeva anche una bara su cui era posizionato il letto medesimo e un cappio che pendeva dal soffitto. La stessa Trecy così esplicita il significato del suo operato: “Nel 1998 mi lasciai con il mio compagno e trascorsi quattro giorni a letto, a dormire, in uno stato di semi-incoscienza. Quando mi svegliai, mi alzai e vissi tutto il caos che si era ammassato dentro e fuori dalle lenzuola.” Un amore finito, un’esperienza così personale eppure comune a tutte, che prende forma senza timore di rappresentare lo sconquasso del sentimento.
E infine c’è “Lei”, la regina della performance, Marina Abramovic, madre indiscussa della Body Art, una delle donne più conosciute della scena contemporanea, una vera e propria rock star dell’arte.
Marina da sempre indaga la dinamica dei rapporti e del sentire umano, lo fa offrendo completamente il corpo agli spettatori, come in “Rhytm 0”, esibizione svoltasi a Napoli nel 1974: Marina si espone e si dona al pubblico, è inerme e circondata da oggetti di varia natura che le persone sono invitate ad utilizzare su di lei; la performance termina in maniera agghiacciante, alcuni le tagliano via i vestiti, altri la graffiano, la tagliano e c’è addirittura chi le mette in mano una pistola carica. Il tutto dura sei ore, alla fine l’artista fuoriesce dal ruolo di vittima sacrificabile, di persona-oggetto e aspetta il confronto con gli astanti che però si dileguano velocemente, incapaci di spiegare logicamente la brutalità insita nell’essere umano.
Si potrebbe continuare a lungo, citando la ricerca di queste artiste e moltre altre, ma qui si tenta solo di filosofeggiare, non di impartire lezioni approfondite.
Così mentre il corpo e l’estetica rimangono gli strumenti prediletti per continuare a combattere le ingiustizie, le discriminazioni e le disparità, forse è cambiata la forza con cui sferziamo i colpi per i nostri diritti.

Alessia Cagnotto